“Diario di Bordo, riflessioni sull`abitare, la città e la storia. Una

“Diario di Bordo, riflessioni sull’abitare, la città e la
storia. Una panoramica sul premio Pritzker.”
Mirko Guaralda
Il seguente testo è la riedizione di materiale elaborato all’interno dell’esperienza didattica presso il
Politecnico di Milano. La struttura dei paragrafi è impostata tramite un titolo – citazione seguito da una
introduzione esplicativa dell’argomento trattato, a questa seguono alcuni esempi scelti tra l’opera degli
architetti vincitori del Premio Pritzker. Questo riconoscimento internazionale, che dal 1979 ad oggi ha
registrato l’evoluzione dello stile, delle tendenze e delle sperimentazioni dell’architettura contemporanea, si
pone quale vetrina significativa di esperienze ed approcci differenti all’arte di Vitruvio.
L’architettura è il gioco sapiente, corretto, magnifico dei volumi sotto la
luce
Le Corbusier, "Vers une Architecture", Parigi 1923
La definizione di architettura data da Le Corbusier è di certo una delle più complete ed esaustive in quanto
è in grado di identificare sia la parte edilizia di questa arte, sia quella non edificata, comprendente ad
esempio piazze, parchi e giardini. Massa, ovvero volume, e luce sono due fattori sulla cui alternanza si è
costruita gran parte dell’architettura: una basilica romanica ed una cattedrale gotica, banalmente, possono
identificare gli estremi di questo discorso. La suggestione delle parole di Le Corbusier sono occasione per
riflettere sulla poetica, perseguita da diversi autori e correnti, che si basa sulla ricerca di un rapporto quasi
metafisico tra i manufatti ed il contesto in cui si pongono: volumi puri, linee semplici effetti plastici sotto
la luce.
L’idea di inserire una entità geometrica perfetta, un oggetto quasi astratto per la sua impostazione, nel
paesaggio permea tutte le grandi civiltà antiche: un manufatto monumentale che si eleva sul suolo come
l’uomo si erge dalla terra verso il cielo. Le piramidi egizie, quelle delle culture precolombiane, ma anche i
templi greci o quelli indiani esprimono questa aspirazione a produrre un oggetto perfetto, a celebrare il
lato spirituale e metafisico dell’esistenza con la realizzazione di un opera eccellente.
Questa poetica, che attraversa in modo trasversale tutta la storia dell’architettura, viene espressa in modo
particolarmente suggestivo da Luis Barragan, premo Pritzker 1980. L’architetto messicano opera in un
contesto variegato, permeato dalle suggestioni delle culture precolombiane, le memorie della dominazione
spagnola, le frenetiche espansioni del mondo contemporaneo; un contesto spesso privo di una propria
simbologia ed una propria tradizione autonoma. Ciò che fa Barragan è dare ai suoi committenti dei ‘miti’,
delle architetture pensate tramite la concorrenza di semplici setti che tendono gli uni verso gli altri;
superfici pure che giocano con la luce grazie alle forti tinte con cui vengono trattate le superfici.
L’architetto messicano crea ambienti dotati di una forte figurabilità ed identità; le Torri della città satellite, ad
esempio, sono una realizzazione molto semplice, cinque monoliti a base triangolare di diversa altezza e
colore, che presentano una immagine così forte sulla scena urbana tale da connotare in modo preciso ed
estremamente riconoscibile un intero quartiere. Gli ambienti quasi surreali che Barragan crea, come nella
Lottizzazione Los Clubes ad Atizapan de Zaragoza o nei Giardini del Pedregal di San Angel a Città del Messico,
mostrano un uso sapiente delle potenzialità ambientali delle diverse componenti dell’architettura: i setti, le
superfici senza soluzione di continuità, la vegetazione, gli specchi d'acqua. L’architetto crea un paesaggio,
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o meglio un habitat reso mite dalla presenza di vasche e fontane, dinamico per l’interazione tra i volumi e
le variazioni quotidiane della luce.
Con volumi puri si cimenta anche Ieoh Ming Pei, premo Pritzker 1983, in diverse sue realizzazioni; celebri
sono tanto i lucernari della Nuova Galleria Nazionale a Washington quanto la Piramide del Louvre.
L’architetto, che unisce alla cultura materiale occidentale la riflessività orientale, nelle sue opere ricerca
fratture, cesure che creano effetti figurativi altamente coinvolgenti per il visitatore. Nel museo della
Capitale americana, ad esempio, Pei ripropone da una parte i caratteri di solidità e di stabilità tipici delle
forme compatte, delle murature lapidee, contemporaneamente contrappone tagli e pause nel ritmo
dell'edificio per fornire alla composizione un aspetto mutevole e dinamico. Nella sua J.F.K. National
Library a Boston, invece, Pei realizza la cesura tramite l'inserimento del corpo vetrato nero all'interno della
massiccia specchiatura in pietra bianca; nell'ampliamento del Louvre si ha invece un'operazione complessa
che vede l'integrazione di strutture altamente tecnologiche con un contesto storico. In questo caso la
'frattura' riguarda la cultura materiale; il progetto è impostato sulla volontà di inserire un volume perfetto,
come quello della piramide, in una corte storica cercando di non disorientare il visitatore con un
intervento troppo rumoroso. Nel realizzare questo manufatto si è posta molta attenzione a perseguire la
maggior trasparenza possibile delle strutture in modo tale da far divenire il solido una presenza eterea,
metafisica: all'esterno la piramide è un volume puro, preciso; all'interno è uno spazio in negativo, una
forma di luce.
Con il tema di volumi e luce si cimenta anche Richard Meier, uno dei grandi maestri contemporanei,
durante il discorso di accettazione del Premio Pritzker nel 1984 dichiara: "Ciò che intendo fare è di
superare i limiti formali dell'architettura moderna per includere in essa l'idea di una bellezza modellata dalla
luce. Il mio intento è creare una specie di lirismo spaziale entro i canoni della forma pura". Osservando
l'opera di questo architetto ci si rende conto di come queste parole siano realmente il manifesto della sua
ricerca. Meier risente molto dell'influenza di alcuni dei grandi maestri del Movimento Moderno, come ad
esempio Le Corbusier e Terragni, a cui si richiama in diverse sue realizzazioni; l’architetto americano
lavora per sottrazione: i volumi compatti, modelli di partenza, vengono scavati in modo tale da non
limitarsi a ricercare mere visioni ortogonali, ma perseguendo uno spazio tridimensionale, percepibile
interamente solamente muovendosi al suo interno. Tra le sue diverse opere, il Museo per le Arti Decorative a
Francoforte sul Reno è particolarmente significativa in quanto il modulo di partenza è dato dalla geometria
compatta della storica Villa Metzler. Le proporzioni, la misura per il nuovo intervento è ricavata dal
rapporto con il manufatto preesistente che viene moltiplicato nello spazio; l’intervento finale è
caratterizzato dall'uso di forme semplici che, anche se combinate in modo molto articolato, permettono
una chiara lettura dei diversi spazi che compongono il museo. Stretto è anche il rapporto con il paesaggio:
la bianca architettura di Meier si inserisce in modo equilibrato nel parco sul Lungoreno; l'uso sapiente e
calibrato dei diversi elementi architettonici e geometrici consente a questo architetto di realizzare quasi
sempre edifici armonici e complessi mai rumorosi. L’intervento di Francoforte presenta, inoltre, un
accurato studio del rapporto con la città oltre il fiume: le grandi vetrate del museo permettono ampie viste
sul centro urbano in modo tale che questo diventi parte stessa dell'esposizione.
La rassegna di autori che si sono soffermati ad indagare le possibilità espressive del rapporto tra volumi
puri e la luce potrebbe essere molto lunga, basti citare Alvaro Siza, Oscar Niemeyer o Jørn Utzon, non ci
si può, però, non soffermare su Aldo Rossi, premiato col Pritzker nel 1990, poiché in diverse sue opere,
pur perseguendo uno stretto rapporto con il contesto, è riuscito a creare atmosfere metafisiche
paragonabili a quelle dipinte da De Chirico. Tra le tante realizzazioni, il Cimitero di San Cataldo a Modena è
di certo una delle più significative, in cui più che costruire un manufatto, Rossi contribuisce a creare un
atmosfera, uno stato d’amino. Il Cimitero di Modena è concepito come una successione di spazi e figure
geometriche semplici che culminano nel grosso cubo rosso degli ossari; il visitatore viene isolato
dall'ambiente esterno permettendo la riflessione e la meditazione necessarie in un luogo di culto, tanto
religioso quanto civico come insegna il Foscolo. Il volume puro degli ossari riprende il tema del solido
perfetto scavato e articolato tramite la successione dei vuoti e dei pieni, il suo colore lo rende una presenza
surreale, metafisica, amplificata dalla mutevole natura circostante.
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Il variare della luce nelle stagioni incide profondamente sulla percezione di questo manufatto; in Inverno,
ad esempio, la neve accentua notevolmente il carattere metafisico dell’intero complesso poiché il cubo
rosso risalta in modo violento nel bianco paesaggio. La tinta scelta per questo corpo di fabbrica richiama il
calore della terra e della vita ricordando che il culto dei morti rende immortali gli estinti.
Discorso a parte merita invece l’esperienza di Frank O. Gehry, laureato col Pritzker nel 1989: questo
architetto, maestro della tendenza decostruttivista, studia le possibilità offerte dalle forme organiche
ovvero dalla geometria frattale o non euclidea. Le sue realizzazioni sono dotate di un forte impatto visivo
poiché i volumi articolati che propone si rapportano in modo estremamente emergente in ogni contesto
Gehry vada ad operare, tanto a Basilea quanto a Bilbao. La ricerca scultorea ed espressiva si spinge però
talmente oltre i limiti dell’architettura che non può non lasciare perplessi lo scoramento che si osserva tra
la pelle degli edifici e l’articolazione interna degli spazi, che per essere vivibili devono necessariamente
rifarsi a partizioni più tradizionali. Questi manufatti, che forse hanno maggiori relazioni con il San Carlo
d’Arona o la Statua della Libertà di New York che con architetture vere e proprie, hanno di certo un forte
impatto sulla scena urbana, sorge però il problema di cosa potrebbe essere, di come si potrebbe vivere in
una città interamente pensata con opere di questo tipo.
L’Architetto porta alla costruzione della città la sua qualità; il Disegno
Ludovico Quaroni, "La Torre di Babele”; Padova 1967
Ciò che permette di vivere ed esperire una realtà è la chiarezza e la riconoscibilità delle regole che la
caratterizzano: senza norme non hanno alcun senso trasgressioni ed eccezioni. Il principio insediativo di
una città, il disegno di un paesaggio, tanto urbano che rurale, fornisce i canoni da tenere in considerazione
quando si interviene in un contesto. Le regole di un luogo, il genius loci, guidano il progetto di
architettura, sia che si decida di seguirle, rifiutarle, contraddirle o ribaltarle. Se da un lato vi può essere
maggiore libertà, ma non disinvoltura, nell’intervenire in un ambito non urbanizzato, poiché il manufatto
che si va ad inserire può essere letto come una cesura nel paesaggio; quando ci si rapporta alla città le
eccezioni, le trasgressioni vanno progettate e veicolate come tali. Una successione di manufatti unici,
ognuno introverso e con la sua logica non dà origine ad un palinsesto urbano: il caso di Las Vegas è da
questo punto di vista emblematico. Laddove si concentrano i grandi alberghi ed i casinò ci si trova di
fronte più che ad una città ad una grande scenografia, una sorta di gigantesco parco giochi che segue il
solo principio della strip, della ribalta sulla principale direttrici cittadina. Laddove invece le persone vivono
realmente si ritrovano forme urbane collaudate, a volte stereotipate, ma chiare nella loro impostazione.
La città è il principale prodotto culturale di una civiltà ed è indice, oltre che della forza economica, anche
dell’elevatezza morale di un popolo. Lavorare in contesto urbano è prassi corrente per l’architetto, anche
se oggi bisogna notare una pericolosa tendenza a gridare la propria presenza sulla scena cittadina più che a
partecipare al concerto civico che si eredita dal passato. Diversi maestri contemporanei dimostrano però
come ci si possa allineare alla riconoscibilità delle regole urbane senza rinunciare ad esprimere la propria
individualità.
Quando Kenzo Tange, premio Pritzker 1987, viene chiamato a progettare il nuovo centro direzionale di
Napoli nel 1980 propone uno schema insediativo semplice riproponendo una gerarchia degli spazi chiara e
riconoscibile: l’architetto orientale imposta su un asse principale, una grande piazza pedonale, da cui si
dipartono spazi ed assi secondari identificati da rapporti dimensionali precisi che immediatamente fanno
leggere la diversa gerarchia dei luoghi. Anche quando propone interventi avveniristici, come il piano di
ampliamento per Tokio, Tange non rinuncia ad impostare un palinsesto urbano di semplice lettura,
riproponendo gli elementi monumentali od emergenti solo in punti topici del suo progetto: l’eccezione è
usata come tale, senza la riconoscibilità dello sfondo la figura principale non può emergere. Anche quando
partecipa al concorso per la nuova capitale federale della Nigeria, ipotizzata in un contesto praticamente
privo di segni antropici, non rinuncia a proporre uno schema cruciforme basato su di un asse longitudinale
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principale ed uno trasversale, di più ridotta portata, che generano il disegno, la regola urbana. Il piano
cerca inoltre relazioni con le emergenze naturali del luogo per legare l’identità del paesaggio all’identità del
nuovo centro urbano.
Con il tema della città di fondazione si cimenta anche Oscar Niemeyer, laureato col Pritzker nel 1988,
quando gli viene affidato il progetto per Brasilia. L’architetto brasiliano sperimenta un palinsesto basato su
due assi che generano la famosa struttura ad aeroplano in cui nelle ali sono pensate le zone residenziali,
nella fusoliera gli spazi per il lavoro, la vita collettiva, il governo. Intervenendo in un contesto privo di una
propria tradizione, Niemeyer propone una nuova mitologia che caratterizzi la città appena fondata:
nell’area governativa sperimenta una poetica metafisica collocando i diversi manufatti su di una grande
esplanade. I rapporti prossemici tra i diversi oggetti che l’autore pone su questa sorta di piano astratto
forniscono le regole d’uso di questo grande spazio inedificato, rendono riconoscibile il principio
insediativo che ha guidato la composizione dei diversi elementi.
In contesti più naturalistici che antropicizzati ha lavorato molto anche Tadao Ando, premio Pritzker 1995,
assumendo posizioni a volta mimetiche, a volta di forte contrasto con il contesto. Ciò che preme
all’architetto è infatti sottolineare il rapporto tra uomo e natura che può essere conciliante, come anche di
rottura. Tema complesso è anche quello affrontato da Christian De Portzamparc che, intervenendo nella
periferia parigina, cerca di dotare i nuovi comparti urbanizzati di una propria identità fornendo alla
popolazione un’immagine, un simbolo a cui rifarsi, operazione simile a quella di Barragan nelle sue Torri
della città satellite. Portzamparc, nel Serbatoio Urbano Torre Verde, a Marne-La-Vallée, realizza una struttura
imponente, ma semplice nel suo impianto tale da definire in un modo molto preciso il paesaggio
circostante. L'edificio è completamente ricoperto dalla vegetazione divenendo quindi una sorta di giardino
verticale dotato di grande figurabilità. Nell'intervento denominato Alte Forme, invece, l’architetto francese
cerca di ricreare la complessità tipica di un insediamento urbano facendo ampio uso di elementi
riconoscibili e caratterizzanti la forma architettonica, come archi, tagli, giochi di luci e di ombre, allusioni
ad una idea di città consolidata nei fruitori del manufatto.
Hans Hollein si cimenta invece con il tema dell’eccezione nel palinsesto urbano: nella casa Haas a Vienna
propone infatti un manufatto che, pur riprendendo le regole insediative della città storica, presenta una
forte immagine per l’inserimento di volumi fuori squadra che emergono dalla cortina continua. L’aspetto
quasi anti-statico della composizione è di grande impatto sui passanti e viene letto come un acuto nella
trama continua della città storica. Anche Philip Johson, primo premio Pritzker nel 1979, dimostra come si
possa proporre un edificio dotato di una immagine estremamente potente e riconoscibile senza per questo
derogare alle generali regole urbane: At&T Building presenta infatti una pianta rettangolare molto semplice
che ben si inserisce nella griglia regolare di New York; lo studio dell’articolazione verticale della torre, che
si rifà sempre alla tradizione costruttiva degli edifici per uffici, prevede un basamento, un corpo centrale
ed un coronamento. L’invenzione dell’architetto sta nel proporre elementi classici, come la serliana che
connota l’ingresso, abbinati a figure più mondane come il coronamento chippendale.
Se da una parte spesso si nota un eccesso di eccentricità nell’affacciarsi sulla scena urbana, dall’altro si nota
anche l’assenza di identità che caratterizza molti nuovi comparti urbani. Le realtà anglosassoni sono piene
di quartieri residenziali che propongono la reiterazione stereotipata di un tipo edilizio e di una forma
urbana senza tenere in nessun conto l’esigenza non solo della riconoscibilità del palinsesto insediativo, ma
anche quello morale e figurativo che solo gli elementi eccezionali o monumentali possono fornire.
L’alienazione per gli abitanti di questi comparti è pari a quella che si ingenera nell’abitare un alloggio
asettico, prodotto in serie.
“La città secondo la sentenza de' Filosofi è una certa casa grande, e per l'opposto essa casa è una piccola
Città”, Leon Battista Alberti, De re Aedificatoria, 1485
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La Santità della Casa per l'Uomo Probo
John Ruskin, "Le sette lampade dell'architettura”; Londra 1849
La residenza è stata il tema architettonico per eccellenza durante tutto il ‘900, secolo di grandi
cambiamenti economici e sociali che ha visto inizialmente il grande inurbamento dovuto alla seconda
Rivoluzione Industriale, le grandi migrazioni ed emigrazioni, la necessità della cosiddetta casa per tutti nel
periodo della ricostruzione. Oggi le mutate condizioni economiche e sociali hanno profondamente
modificato il modo di abitare la residenza e la città: quote sempre maggiori di tempo vengono spese al di
fuori dell’alloggio generando una forte domanda di spazi pubblici collettivi.
La residenza resta comunque un tema fondamentale, anche se non ha più la centralità del recente passato,
poiché, parafrasando Ruskin, la casa è, o dovrebbe essere, l’espressione di chi la risiede, collimare con le
aspirazioni ed il modo di vita di chi la abita. L’indiscriminata zoonizzarione degli anni ’60 e ’70 del ‘900 ha
reso la gran parte delle periferie urbane una stereotipata riproposizione di tipi e stilemi collaudati, in genere
ammiccanti alle esperienze del Movimento Moderno, ma banalizzate nell’esigenza economica di contenere
i costi e/o massimizzare i profitti. Questo genere di edificazione ha ingenerato negli abitanti una estrema
alienazione che, spesso, genera anche in fenomeni maniacali se non in veri e propri episodi di instabilità
sociale: il caso del quartiere Pruitt-Igoe a Saint Luis pare da questo punto di vista lampante.
Banalizzando il tema, sia i grandi edifici residenziali, improntati su tipologie plurifamiliari, sia l’esperienza
dei comparti per abitazioni mono o bifamiliari, più che altro di tradizione anglosassone, generano
alienazione e desiderio di esprimere la propria individualità. Nel caso delle vaste estensioni di case a
schiera, tipiche delle periferie inglesi e Nord Americane, non è raro imbattersi in tentativi, a volte
esasperati, di rendere unica la propria casa, quale l’adozione di colori sgargianti per infissi e pluviali, il
ricorso a decori vistosi o particolari eccentrici per le facciate ed il giardino.
La residenza resta un tema comune per gli architetti ed anche i grandi autori contemporanei annoverano
tra le loro opere diverse esperienze in questo campo, bastino citare il Gallaratese di Aldo Rossi, le case
monofamiliari di Richard Meier o gli interventi di Luis Barragan in Messico. Molto interessante in questo
campo è anche l’esperienza di Robert Venturi, premio Pritzker nel 1991, che in tutte le sue diverse
realizzazioni residenziali lega una spiccata ironia al recupero di tipi e stilemi della tradizione americana.
Nella Casa della madre a Chestnut Hill, l’architetto realizza un’opera che contiene il senso di conquista
sociale insito nell'idea di poter costruire la propria dimora. Nel progettare la residenza materna Venturi si
rifà alle tipologie tipiche della frontiera americana riprendendo una immagine iconografica riconoscibile,
ma caratterizzandola con un forte senso di appropriazione materica. L’impianto della residenza, disposta
su due livelli, è molto semplice: la pianta è caratterizzata dalla posizione centrale del camino a cui è
abbinata la scala per accedere al piano superiore. Il focolare, con un alto valore simbolico, è in centro di
tutto l’edificio: luogo di riunione e principale spazio comune delle abitazioni rurali americane. Altro
elemento tipico ripreso da Venturi è la veranda, rielaborata però in chiave ironica in quanto tutta la
facciata principale dell’edificio e come staccata dal resto del manufatto, una sorta di scena applicata al
corpo retrostante che sottolinea l’esigenza di apparire che è insito nello stesso concetto contemporaneo di
residenza individuale.
In un contesto di ‘frontiera’ lavora anche Glenn Murcutt, architetto australiano laureato col Pritzker nel
2002; anche questo autore riprende atmosfere tipiche delle abitazioni rurale australi, le rielabora, però, in
un ottica moderna. Le case di Murcutt spesso sono unità completamente autonome poiché in contesti
scarsamente antropizzati, agli spazi consueti dell’abitare si accompagnano, quindi, anche una serie di
impianti tecnologici, come generatori e cisterne, necessari per sostenere la vita contemporanea.
L’architetto non dissimula gli impianti tecnologici, ma con questi concorre a progettare immagini unitarie,
seppur articolate. Le residenze di Murcutt si inseriscono in modo discreto nel paesaggio riprendendo
andamenti prevalentemente orizzontali e presentando ampie superfici finestrate che generano una forte
continuità spaziale tra interno ed esterno. Come in Venturi, anche nell’architetto australiano il camino
diviene l’elemento centrale della residenza che articola e suddivide gli spazi della zona giorno. Tra le tante
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realizzazioni basti ricordare la Casa Simpson-Lee a Mount Wilson nel Nuovo Galles del Sud: l’architetto
propone una composizione basata su tre elementi, due padiglioni ed uno specchio d’acqua centrale.
L’impianto segue la curvatura dell’orografia locale e l’andamento longitudinale è ripreso anche negli spazi
di abitazione, realizzati come stecche in cui si ha la successione in linea dei diversi ambienti. Anche qui,
come in molte altre opere di Murcutt, il camino è l’elemento centrale che divide il soggiorno vero e
proprio dalla zona pranzo. Tutta la residenza è proiettata sul paesaggio circostante grazie alla facciata a
levante, completamente vetrata; la ringhiera di protezione diviene in questo caso elemento unificante tra i
percorsi interni e quelli esterni della casa. Nel fronte a ponente, più chiuso ed introverso, si articolano gli
spazi di servizio ed i volumi tecnici.
Di tipo e carattere completamente diverso è invece il complesso Bonjour Tristesse all’IBA di Berlino, opera
di Alvaro Siza. L’architetto portoghese propone un massiccio blocco residenziale impostato sul tipo della
corte berlinese; le severe facciate del complesso trovano un elemento inatteso nell’andamento sinuoso che
vede il suo apice nella protuberanza angolare. In prossimità del risvolto l’andamento sinusoidale della
cortina viene accentuato anche dal profilo curvo delle linea di gronda, la concorrenza dei due elementi
sottolinea in questo modo l’ingresso principale al complesso generando una sorta di torre angolare. Siza
adatta il suo stile personale alla ripresa ed alla manipolazione di un tipo storico che si accorda in modo
discreto ai principi insediativi della città, senza per questo rinunciare alla propria identità e riconoscibilità.
Con il tema delle residenze plurifamiliari si cimentano in diverse occasioni anche Jacques Herzog & Pierre
de Meuron, studio elvetico premiato nel 2001. Nella Casa di abitazione di Hebelstraße a Basilea ripropongono
una tipologia ed un uso dei materiali tipico della città renana: la residenza, che si articola attorno ad un
cortile, prevede muratura per la struttura principale dell’edificio, legno per gli elementi accessori, quali
logge e balconi. Il manufatto, che si articola su tre piani, prevede un profondo loggiato in carpenteria che
media tra gli ambienti privati interni ed il cortile comune permettendo, però, una notevole continuità
visiva tra i diversi spazi.
Il richiamo a tipi consolidati, rielaborati per la contemporaneità, è una prassi comune per il progetto di
architettura. La riproposizione stereotipata di modelli storici o vernacolari se da un lato identifica
chiaramente l’uso del manufatto, dall’altro genera comunque effetti di alienazione dovuti alla produzione
in serie dell’edilizia. Un sapiente uso del repertorio e delle suggestioni fornite dalla storia può invece
portare ad esperienze molto interessanti.
A Thing of Beauty is a joy for ever
John Keats, "Endymion”, 1818
Il gusto cambia col tempo, alcuni canoni e certi stilemi resistono, però, a mode e cambiamenti di tendenza:
parafrasando John Keats, una cosa bella è una gioia sempre eterna. In architettura il richiamo a tipi, forme
ed immagini storiche e consolidate è pratica comune. Nel processo di progettazione, nella fase euristica, è
naturale, affrontando un nuovo incarico, pensare o rifarsi all’esperienza di opere già edificate, riprendere
tipi consolidati e manipolarli per rispondere alle esigenze contingenti. In alcuni autori il richiamo a forme
storiche è esplicito, in altri più complesso e mediato.
Una grande conoscenza della storia dell’architettura permette anche di poter giocare con questa disciplina
non senza ironia e produrre opere originali; James Stirling, premio Pritzker nel 1981, fa saggio di questa
sua abilità nella Nuova Galleria di Stato a Stoccarda. L’impianto tipologico si rifà direttamente all’Altes
Museum di Schinkel a Berlino: una pianta rettangolare che presenta il fronte principale sul lato lungo; una
corte occupata dalla grande rotonda centrale, vero fulcro del museo. Stirling riprende questo schema
svuotandolo e ribaltandolo: nella sua Galleria il vasto spazio circolare in mezzo al complesso diviene una
corte scoperta su cui si affacciano, senza incontrarsi, il percorso espositivo interno al recinto museale e la
passeggiata urbana che attraversa tutto il manufatto. L’attento studio dei percorsi e delle sezioni permette
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all’architetto inglese di realizzare una fabbrica che da una parte è spazio espositivo, dall’altra fatto urbano
complesso che media la dimensione umana del quartiere residenziale a monte con il fuoriscala della
Konrad-Adenauer straße, il grande viale di circonvallazione del centro consolidato, a valle rispetto al
museo. L’uso dei materiali e la cura dei dettagli allude all’idea che la Nuova Galleria di Stato sia in realtà il
rudere dell’Altes Museum riadattato: i lucernari dell’autosilosono sono infatti pensati come delle brecce nella
muratura del basamento; i sistemi di illuminazione interna sono foggiati come tronchi di trabeazioni e
modanature. Anche la colonna, elemento classico e storico per antonomasia, viene reinterpretata e
nell’atrio della galleria il visitatore si trova di fronte ad un grande matitone in cemento che regge il
ballatoio sovrastante.
Con la reinterpretazione della colonna si cimenta anche Kevin Roche, premio Pritzker nel 1982, nella
Banca Morgan a New York. In questa opera l’architetto statunitense gioca con l’elemento architettonico per
eccellenza proponendo una torre che indirettamente allude al progetto per il Chicago Tribune di Loos, una
torre-colonna. Il grande monolite di Roche riprende la classica partizione dell’edificio: zoccolo, corpo
centrale, coronamento che divengono base, fusto e capitello. L’ironia della composizione prevede dei
colossali pilastri ottagonali agli angoli dell’edificio che terminano in una coppia di colonne binate in
corrispondenze del coronamento. Con riferimento alla geometria frattale, l’unità si rifà alla colonna, ma
anche le diverse parti, i diversi elementi in cui l’edificio si articola e si parcellizza riprendono lo stesso
riferimento, la stessa immagine.
La ripresa di elementi consolidati, il reinserirsi in una tradizione costruttiva, la reinterpretazione di opere
vernacolari sono tempi tanto complessi quanto affascinanti con cui, in diverse forme spesso gli architetti si
cimentano: Gottfried Boehm, ad esempio, continua il lavoro del padre Dominikus aggiornando il proprio
repertorio espressivo, ma riprendendo molte delle caratteristiche paterne. Rafael Moneo, premiato nel
1996, si ricollega alla tradizione costruttiva romana per realizzare il suo Museo di Arte Romana a Merida, la
Roma spagnola. L’architetto iberico studia infatti il contenuto per creare il contenitore: la struttura
museale che progetta presenta possenti murature in laterizio, come quelle della tradizione imperiale
romanae; le arcate tra i diversi setti richiamano invece la leggera materialità degli acquedotti di questa
civiltà. Moneo non realizza un’opera mimetica, il suo intento è quello di esprimere la dinamicità della
struttura urbana: i ruderi del sito archeologico continuano e vengono ripresi nelle nuove strutture
approntate per proteggerli in modo tale da simboleggiare il continuo evolversi e mutare della città; la
partizione interna degli spazi, infine, si rifà alla tradizionale regola insediativa dei lotti urbani di Merida,
com’è evidente osservano la piante dei piani terra del contesto cittadino.
La riproposizione di tipi o stilemi consolidati deve essere naturalmente mediata oggi dalle diverse
conoscenze tecniche ed adeguate alle condizioni sociali contingenti: il rapporto tra le regole compositive
consolidate e le nuove possibilità date dall’evoluzione tecnologica sono infatti spunto per interessanti
sperimentazioni progettuali.
Ars sine Scientia Nihil est
Jean Mignot ai Maestri del Duomo
Scientia sine Art Nihil est
I Maestri del Duomo a Jean Mignot
“Annali della Fabbrica del Duomo di Milano"
Come si è visto nel corso di queste brevi lezioni, gli eccessi e le posizioni estremi portano a risultati
quantomeno discutibili, questo vale naturalmente non solo in architettura, ma in ogni campo. Non fa
eccezione a questa osservazione il rapporto tra arte e tecnica. La cultura materiale è componente essenziale
di ogni manufatto, nemmeno la musica, la forma espressiva più libera ed eterea, può prescindere da
considerazioni sui mezzi e le modalità con cui deve essere eseguita. Il carattere di necessità che lega l’arte
alla tecnica, però, non vede un viceversa: la risposta funzionalistica ad un bisogno spesso trascende
considerazioni sulla poetica, sull’estetica, sull’impatto dei manufatti nel contesto e sulla società. In campo
edilizio, la politica della casa per tutti del secondo Dopoguerra ha generato in molte realtà quartieri
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residenziali anonimi ed alienanti, con i relativi problemi sociali, anche se spesso, per contenere i costi,
sono state sperimentate forme costruttive innovative, come la prefabbricazione leggera o pesante, il
sistema a tunnel e via dicendo.
Tra gli architetti contemporanei l’attenzione alla materialità dell’opera è prassi comune: pensare ad un
progetto senza tenere in dovuta considerazione la sua cantierabilità trasfigura l’architettura nella pittura o
meglio nell’utopia. Alcuni grandi autori premiati col premio Pritzker hanno fatto della ricerca tecnologica il
proprio marchio di fabbrica, la loro principale caratteristica espressiva che si espleta nell’applicazione di
tecniche innovative e di nuovi materiali per l’edilizia. In questo campo si è, ad esempio, affermato
Fumihiko Maki che, soprattutto nei suoi ginnasi di Fujisawa e Tokio, ha prodotto suggestive macchine
avveniristiche rivestite di metalli luminosi che generano superfici lucide e riflettenti.
Renzo Piano, premiato nel 1998, oltre a studiare le applicazioni di nuovi componenti, si è dedicato anche
al recupero di materiali tradizionali tradotti in tecniche di assemblaggio moderne. I suoi brevetti per
sistemi prefabbricati in cemento abbinati a paramenti laterizi hanno visto diverse applicazioni pratiche
tanto in Italia quando all’estero. Il recupero del Porto di Genova, ad esempio, vede l’utilizzo di questa
tecnologia per la realizzazione tanto della nuova capitaneria, quanto dell’annesso autosilo a servizio delle
attività ricreative dell’impianto. Elemento emergente dell’intervento è comunque il sistema delle
tensostrutture che, grazie al gioco di strali e teli, genera e articola i diversi spazi circostanti. La
sperimentazione spinta di un elemento tecnologico rischia in alcuni contesti di derogare alla riconoscibilità
dell’architettura: il sistema di paramento in laterizi, seppur con diverse declinazione, viene impiagato da
Piano anche a Parigi nell'ampliamento dell'Ircam o il complesso residenziale in Rue de Meaux. In questi
casi la natura residenziale delle tipologie non traspare dall’aspetto dei manufatti che, per la natura del
sistema tecnologico, sono molto simili dagli interventi amministrativi nel Porto di Genova o ai palazzi per
uffici di Berlino di questo autore. Nell’Auditorium di Roma Piano si cimenta, invece, con l’uso del legno e
del rame per impostare delle grandi casse di risonanza. L’impianto, imponente nelle dimensioni, diviene un
colossale convivio di strumenti musicali fuori scala che si inserisce in modo prorompente nel paesaggio
suburbano della capitale italiana. Anche in questo caso lo studio effettuato da Piano si concentra
sull’impiego di materiali storici principalmente per soddisfare le esigenze acustiche delle sale interne; la
forma esterna, che per esplicita ammissione dell’autore deriva da meri studi sulla diffusione del suono
all’interno, non può non lasciare perplessi se confrontata con l’opera di Jørn Utzon a Sidney. Anche in
questo caso si è in presenza di approfonditi studi sull’acustica delle sale, a cui si accompagna, però, una
profonda sensibilità per l’inserimento paesaggistico nel contesto. Anche l’architetto danese, in questo
manufatto, dà prova di grande perizia tecnica nel progetto dei gusci di copertura dell’Opera, volumi
semplici nel loro richiamo a forme organiche, ma estremamente complessi nella loro realizzazione
materiale.
Su immagini di grande impatto lavora anche Norman Foster, premio Pritzker nel 1999, nella Hong Kong &
Shanghai Bank, ad esempio, realizza un manufatto estremamente complesso facendo uso esclusivamente di
elementi prefabbricati, riducendo fortemente i costi ed i tempi per la realizzazione dell'opera, e
garantendo, in un contesto congestionato che non permette grandi spazi di manovra per la cantierabilità
degli interventi, la gestione della nuova edificazione in concomitanza con l’uso continuativo dei precedenti
spazi dell’impresa commerciale preesistente. La torre mostra pienamente la sua natura di organo
assemblato e, nonostante le critiche formali mosse a questo intervento, non gli si può non riconoscere una
forte immagine evocativa che allude all’edificio quale macchina complessa da gestire. La ricerca tecnica di
Foster ne fa anche un costruttore di paesaggi: alcune sue realizzazioni, come ad esempio il Salinsbury centre
for visual art a Norwick o il Centro di distribuzione Renault a Swidon, si collocano nel contesto della campagna
inglese come folies inaspettate e di grande impatto figurativo. Elementi puramente tecnologici, quali ponti
o acquedotti, da sempre connotano e caratterizzano i paesaggi su cui insistono; diverse realizzazioni
periurbane di Foster si inseriscono su questa scia.
Per concludere questo breve ciclo di comunicazioni, aperte citando il pensiero di Le Corbusier, pare
opportuno riprendere le parole di Goethe che in “Maximen und Reflexionen”, Harnack n1197, declama: “Un
nobile filosofo parlò dell’architettura come di una musica irrigidita e vide che molti scotevano il capo. Noi
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non crediamo di poter introdurre meglio questo bel pensiero che chiamando l’architettura una musica
ammutolita. […] Si pensi ad Orfeo il quale, quando gli fu assegnato un suolo deserto per costruirvi,
saggiamente si collocò al posto più adatto e con i suoni avvivatori della sua lira formò intorno a sé la
spaziosa piazza del mercato. I macigni, rapidamente attratti dai suoni della lira che fortemente li
comandavano e amicamene li allettavano, dovettero strapparsi dalla compattezza della loro massa ed
entusiasticamente si mossero colà, si configurarono secondo arte e mestiere per ordinarsi
convenientemente in ritmici strati e pareti. E così le strade si legarono a strade, né mancarono buoni muri
protettori. […] I suoni dilagano ma l’armonia rimane. I cittadini di una tale città passeggiano ed operano
fra eterne melodie; lo spirito non può abbassarsi e sprofondare, l’attività non può addormentarsi; l’occhio
assume così la funzione, l’ufficio e il dovere dell’orecchio, e i cittadini, anche nei giorni più ordinari, si
sentono in uno stato ideale: senza riflettervi, senza chiedersene l’origine, partecipano al più alto godimento
religioso e morale. Si prenda ad andare in su ed in giù per San Pietro e si proverà un sentimento analogo a
quello che noi tentiamo di esprimere. […] Per contrario, in una città mal costruita, dove il caso, con la sua
miserabile granata, ammucchiò le case, il cittadino vive inconsapevole nel deserto di una tetra condizione;
allo straniero che vi entra gli è come se sentisse zampogne, pifferi, e tamburelli e dovesse prepararsi ad
assistere a balli di orsi e salti di scimmie.”
Bibliografia:
M. Tafuri, F. Dal Co, “Architettura Contemporanea”, Electa, Milano 1975;
“Zodiac 12”, Settembre 1994 – Febbraio 1995, Poi Editore: Abitare Segesta, Milano;
C. Gavinelli, “Architettura Contemporanea”, Jaka Book, Milano 1995;
B. Zevi, “Storia dell’Architettura Moderna” decima edizione, Einaudi, Torino 1996
M. S. Baborsky, “XX Secolo – Architettura”, Electa, Milano 2001.
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