IMMIGRAZIONE
E INTEGRAZIONE
pagina Non sorprende che sia in Europa che negli Stati Uniti il
dibattito sugli effetti dell’immigrazione sia recentemente
molto vivace: la percentuale di immigranti sulla popolazione ha superato il 10% negli Stati Uniti e vi si avvicina
in alcuni paesi europei (Francia, Germania). Tra i costi
dell’immigrazione per i paesi riceventi si citano spesso
sia un effetto negativo sui salari dei lavoratori non qualificati che una aggravata conflittualita’ sociale derivante
dalla difficile integrazione culturale e religiosa degli immigrati. La questione dell’integrazione e’ particolarmente sentita in Europa, soprattutto in riferimento alla popolazione di religione mussulmana.
Cerchiamo quindi di farci un’idea più precisa di degli effetti economici e sociali dell’immigrazione sulla popolazione dei paesi riceventi.
Gli immigrati offrono lavoro, soprattutto lavoro non qualificato.Ci si aspetta quindi un effetto negativo sui salari dei
lavoratori del paese ricevente con cui essi più direttamente competono, essenzialmente lavoratori non-qualificati;
ci si aspetta altresì un effetto positivo sui rendimenti del
capitale e possibilmente anche sui salari dei lavoratori
più qualificati. Infine, gli economisti tendono a concordare
Relatori del Festival dell’Economia
sul fatto che l’immigrazione di scienziati e ricercatori abbia effetti positivi sui salari in generale (eccetto forse sui
salari di scienziati e ricercatori già nel paese). Negli Stati Uniti, nel corso dell’ultima ondata migratoria degli anni
`90, l’immigrazione ha avuto effetti relativamente contenuti
sui salari aggregati. Disaggregando per livelli di educazione, stime recenti riportano un riduzione dei salari dei
lavoratori non qualificati dell’1% (gli immigrati competono in realtà soprattutto con altri immigrati e non con i lavoratori nativi sul mercato del lavoro) e un corrispondente aumento dei salari dei lavoratori qualificati.
Simili effetti dell’immigrazione sul salario dipendono da
una serie di importanti fattori che caratterizzano l’economia degli Stati Uniti: un efficiente mercato dei capitali che
permette la creazione di nuove imprese e lo sviluppo di
tecnologie in grado di utilizzare al meglio la forza lavoro
degli immigrati, e un notevole successo nell’attrarre anche scienziati e ricercatori. In entrambe queste dimensioni paesi come la Francia e l’Italia hanno parecchia strada
da percorrere. La percentuale di ricercatori stranieri, ad
esempio, è del 1% in Italia e del 3.5% in Francia, mentre
è pari al 10% negli Stati Uniti.
Inoltre, un mercato del lavoro rigido e protetto come in
Italia e in Francia, per quanto riduca gli effetti negativi sul
salario dei lavoratori non qualificati nel breve periodo, nel
medio periodo riduce i vantaggi dell’immigrazione in termini di aumento dell’offerta, e conseguente riduzione dei
prezzi, di vari beni e servizi. Infine, un inefficiente mercato
dei capitali e un rigido mercato del lavoro limitano le prospettive economiche per gli immigrati stessi, e soprattutto per coloro tra gli immigrati che possiedano maggiori
capacità di intrapresa e migliore etica del lavoro. Ne risulta una sorta di selezione avversa, per cui gli immigrati più “desiderabili” finiranno per stabilirsi maggiormente in altri paesi europei. Non è un caso che in Italia una
larga parte del lavoro degli immigrati sia concentrato in
occupazioni “in nero”: l’esempio di badanti e collaboratrici familiari, e di lavoratori dell’edilizia e dell’agricoltura, è sintomatico.
La questione degli effetti sociali dell’immigrazione è ancora più complessa. La storia ci insegna che i tratti etnici, e soprattutto i tratti religiosi, delle minoranze di immigrati sono estremamente persistenti, spesso capaci di
resistere per generazioni al declino demografico, ai matrimoni misti, e alla assimilazione più o meno forzata. Si
pensi alla Diaspora, naturalmente, ma anche più in particolare agli ebrei ortodossi negli Stati Uniti; si pensi alle popolazioni francofone in Quebec, negli Stati Uniti (in
Maine), nelle isole caraibiche (i Blancs Matignons), alle
varie etnie cattoliche in Medio Oriente; in Europa, si pensi ai cattoilici irlandesi, ai Catalani, ai Baschi, ai Corsi, ai
tedeschi in Alto Adige.
Statisticamente, un ottimo indicatore del grado di as-
similazione degli immigrati la percentuale di matrimoni
misti. Come riferimento si consideri il caso degli italiani
negli Stati Uniti, un esempio di integrazione di successo, non dissimile dal caso delle altre popolazione cattoliche (Polacchi, Irlandesi). La percentuale di matrimoni
misti per le donne italiane negli Stati Uniti al censimento del 1910 era praticamente zero per la prima generazione (donne nate in Italia) e del 16% circa per la seconda generazione. Per quanto molti più matrimoni misti si avessero per gli uomini di seconda generazione,
il 62% nel 1910, a questi tassi una notevole persistenza dei tratti etnici è comunque garantita fino alla terza
e alla quarta generazione. Ancora oggi, i matrimoni religiosi misti, negli Stati Uniti, sono attorno al 20% per i
protestanti, vicini al 30% per i cattolici e in vari stati non
più del 10% per gli ebrei.
Le dinamiche di integrazione delle popolazioni di immigrati recenti in Europa non appaiono affatto dissimili. Si
osserva però una resistenza all’integrazione particolarmente intensa da parte dei gruppi etnici di religione islamica. Questo è il caso certamente della Germania e del
Regno Unito, per cui dati abbastanza dettagliati sui matrimoni misti per gruppo etnico sono disponibili. Inoltre,
dai dati della Fourth National Survey of Ethnic Migration
1993-4, per il Regno Unito, l’80% dei mussulmani, contro il 40% degli altri gruppi etnici religiosi, considera la
religione fondamentale nella propria vita. (Simili percentuali si osservano anche nel German Socioeconomic Panel 2002.) Per i mussulmani, a differenza delle altre minoranze, l’identità religiosa è molto intensa sia nella prima
che nella seconda generazione ed accenna a decrescere solo minimamente con gli anni di residenza nel Regno
pagina Tiziano Marson e Alberto Bisin
pagina Unito. Abbastanza sorprendentemente, i mussulmani nel
Regno Unito sembrano anche seguire un processo di integrazione che appare qualitativamente diverso in modo
sostanziale da quello seguito da altre popolazioni di immigrati nel Regno Unito nello stesso periodo (ad esempio, immigranti dai paesi caraibici, cinesi, indiani di religione indù, africani). In particolare, e a differenza di tutti
gli altri gruppi di immigrati, i mussulmani che dimostrano
forme di identità religiosa relativamente più intense sono
gli immigrati arrivati in giovane età, le donne, coloro che
hanno reddito familiare maggiore, gli occupati più che i
disoccupati, specie gli occupati con posizioni manageriali, e coloro che vivono in quartieri con basso tasso di
disoccupazione.
Infine, e questo è il caso per tutti i gruppi etnici e religiosi, ma in forma maggiore per i mussulmani, l’intensità della identità religiosa è relativamente minore, a parità di altri fattori democrafici, economici e sociali, nelle zone più
segregate. In altre parole, la relativa segregazione geografica non è necessariamente sinonimo di intensa indentità religiosa e/o di conflittualità sociale. Lo diventa,
naturalmente, qualora la segregazione sia il risultato della discriminazione e possibilmente qualora il mercato del
lavoro non generi sufficienti prospettive di avanzamento
economico per le seconde generazioni.
In conclusione, è difficile anticipare le dinamiche di integrazioni degli immigrati, e dei mussulmani in particolare in Europa.
Difficile prevedere i tassi di integrazione delle terze e
quarte generazioni. A tutt’oggi i bassi tassi di integrazione e assimilazione che si osservano in Europa non
paiono anomali, in una prospettiva storica. Appare però anomalo che siano i mussulmani in migliori condi-
zioni economiche relative a sviluppare forti identità religiose.
Non appare desiderabile, in questa prospettiva, selezionare l’immigrazione da gruppi etnico-religiosi da cui ci si
aspetti una più rapida integrazione; ciò andrebbe contro
la lezione che si può trarre dall’esperienza di molti gruppi etnici emigrati in passato negli Stati Uniti, come italiani e polacchi. Non appaiono altresì desiderabili politiche
tese a ridurre la segregazione abitativa delle popolazioni
di immigrati. Non sono i quartieri segregati a produrre le
forme di identità religiosa più intensa (ed inoltre le politiche di desegregazione razziale forzata, ad esempio delle scuole, negli Stati Uniti sono essenzialmente fallite, cosi’ come l’integrazione forzata di rifugiati, per esempio cubani e vietnamiti).
Alberto Bisin