28-02-2010 - LA MALATTIA DELLA FAMIGLIA M di Fausto Paravidino
regia Fausto Paravidino scene Laura Benzi costumi Sandra Cardini con Nicola Pannelli, Fausto Paravidino, Paolo
Pierobon, Jacopo-Maria Bicocchi, Iris Fusetti, Emanuela Galliussi, Pio Stellaccio
Radiografia di una famiglia malata
Trentatreenne ma rivelatosi a ventitrè, Fausto Paravidino, nato come attore e divenuto a buon diritto capofila dei nostri
giovani scrittori di teatro, è anche il solo che, come i suoi prediletti inglesi, sa scrivere con la libertà e la naturalezza con
cui si chiacchera nella vita, e ne dà conferma La malattia della famiglia M. Tutto si adegua perfettamente a una realtà di
cui conosciamo questo non essere e questo girare su se stessi senza un perchè, suscitando ilarità e angoscia
nell’incapacità di discernere l’inesistenza di questo esistere. Franco Quadri / La Repubblica
In famiglia fra Cechov e Pinter
Raramente si avverte una felicità di scrittura come quella che pare avere, magari al termine di una lunga fatica, Fausto
Paravidino, autore e regista, con i suoi dialoghi ingenui e maliziosi, apparentemente naturali, fluidi e assieme
frammentari e vaghi, come fossero sempre sul punto di inseguire un altro pensiero, ma riuscendo invece, alla fine, a
mettere implicitamente a nudo il nodo drammatico (o comico) della scena e dei personaggi. Facile per questo
spettacolo, in cui il dramma ha sempre un risvolto comico, citare Cechov con i suoi vaudeville tragici, ma Paravidino,
che lo ha scritto nel 2000 quando era poco più che ventenne, lo fa modernamente sconfinare quasi inavvertitamente in
Pinter e la noia, l’attesa, l’insofferenza si fondono in una sorta di nostalgia esistenziale per quel che si vorrebbe essere e
non si riesce. E’ il tema, o meglio il sentimento della provincia, tra il deprimente e il protettivo, come ce lo ha
raccontato altre volte, compreso nel film “Texas”, dove, come qui, i più vitali e insofferenti soccombono. Paolo Petroni
/ Corriere della Sera
Che bel ritratto da famiglia cechoviana
Astrov di Zio Vanja è ora un mite medico (narratore) di campagna di metà 900, le Tre sorelle si scindono in una
virtuosa, una inquieta e un fratello strano, e Vanja è un padre malandato. Due amici corteggiatori escono da un’altra
farsa di Cechov. Eppure il bellissimo La malattia della famiglia M è del 2000, scritto da Fausto Paravidino 23enne,
ambientato tra alberi e neve dell’Alessandrino, ed è un requiem domestico come i drammi di Norén o di Fosse salvo
sbalzi grotteschi di stile. Il lavoro dello Stabile di Bolzano che scorre con Bach, litanie di “volersi bene” e ombre d’una
madre morta, è inscenato con grazia giovane e toccante da Paravidino, ideale interprete come Nicola Pannelli, Paolo
Pierobon, Iris Fusetti, Emanuela Galliussi, Jacopo-Maria Bicocchi, Pio Stellaccio. Rodolfo Di Giammarco / La
Repubblica
La malattia negata della famiglia M
Insomma La malattia della famiglia M scopre dietro il suo andamento lieve e disinvolto, un tessuto drammatico che
rispecchia fedelmente la complessità di vivere assieme. Sembra non volerci credere troppo Paravidino, ma proprio
questo gli dà una insospettata autorevolezza, libero poi ognuno di riconoscervisi o meno. Lui se ne prende il carico per
intero, essendone oltre che autore anche regista di questa edizione, e perfino interprete nel ruolo mattacchione del
fratello. Gianfranco Capitta / Il Manifesto
Cure domestiche
E’ lì in scena l’autore, mascherato da personaggio, a osservare le scomposte traiettorie di quelle creature, da lui
inventate e inserite in un gioco doloroso e spesso crudele. Fausto Paravidino, drammaturgo trentenne ma già noto e
apprezzato, prosegue in questo suo lavoro la sezione al bisturi della durezza delle relazioni umane nei nostri tempi,
mettendo a fuoco soprattutto il disorientamento dei giovani, la loro incapacità di inventarsi nuovi modi di agire, di
vivere, di amare, a confronto con la generazione precedente che, certo, non ha saputo cavarsela meglio. Antonio Audino
/ Il Sole 24 Ore
La malattia della famiglia M
Ha la poesia di un Cechov ambientato nella provincia italiana, dove in apparenza non succede niente, ma poi esplodono
tragedie insospettabili. Fausto Paravidino queste storie le ha sempre scritte benissimo, ma ora le sa anche egregiamente
mettere in scena, scegliendo gli attori giusti (tutti bravissimi) per la sua prosa lieve e densa, ironica e dolente. Claudia
Cannella / Corriere della Sera
7 personaggi in cerca d’amore
Corre il lavoro su un doppio binario. Da una parte la famiglia che si fa metafora di una società malata, il cui virus è la
paura nascosta di non essere amati o di non sapere amare. Dall’altra parte il disagio e la solitudine della vita di
provincia. Si smarriscono nella ricerca di se stessi i personaggi, stentano a diventare adulti, e ci appaiono come bestiole
ferite e difficili da curare. Domenico Rigotti / Avvenire
Così Paravidino annichilisce la famiglia
Il Paravidino regista muove alla perfezione i suoi personaggi nello scarno ma suggestivo apparato scenico ideato da
Laura Benzi: senza mai calcare la mano, badando soprattutto alla coralità e a far lievitare la malinconia che scaturisce
da tutte le situazioni. Il momento più intenso e nello stesso tempo esplicativo dello spettacolo è la scena avvincente e
coinvolgente in cui i componenti della famiglia M stanno seduti in un lungo silenzio attorno a un tavolo, immobili,
senza riuscire a trovare una parola a giustificazione del loro essere: è il momento che prelude alla disgregazione
definitiva, alla diaspora poi materialmente innescata dalla tragica ma anche banale fine di Gianni. Umberto Gandini /
Alto Adige
Il regista Paravidino presenta la sua “Malattia di famiglia”
Un drammaturgo abile nel rendere in modo funambolico un certo clima emotivo (non a caso nello spettacolo giocano un
ruolo importante gli agenti atmosferici, resi tra l’altro alla perfezione), un prestigiatore scenico che sa materializzare
sentimenti impercettibili, ma anche trasformare spunti drammatici in commedie lievi, appena un po’ screziate da
qualche finale amaro. Anche La malattia della famiglia M non si conclude con un happy end, nello spettatore resta però
una sensazione di imprecisata tenerezza, un sapore agrodolce in cui l’elemento aspro serve a far meglio percepire quello
dolce. Stefano Borghi / Il Giornale