L`idea di “nemico” dalla Rivoluzione francese al Risorgimento italiano

Problemi attuali
Litografie di Francisco Goya
L’idea di “nemico”
dalla Rivoluzione francese
al Risorgimento italiano
Alessandro FERIOLI
Dirigente scolastico
La scorsa estate non è passato inosservato
ai media il caso della soldatessa israeliana
Eden Abergil, dimessa dall’esercito dopo
aver pubblicato in Facebook fotografie
di prigionieri tenuti in grave stato
di umiliazione, bendati e ammanettati.
A tutti ha ricordato le squallide imprese,
risalenti a sei anni or sono, della soldatessa
statunitense Lynndie England, protagonista
di ben poco epiche foto scattate nel carcere
iracheno di Abu Ghraib.
Premesso che nessuno di noi vorrebbe
elementi siffatti come colleghi, penso
che non sia inutile una riflessione sull’idea
di “nemico” nella nostra storia contemporanea.
Una riflessione del genere – appena in forma
di appunto e senza alcuna pretesa di
completezza – deve cominciare a mio giudizio
dalla Rivoluzione francese
ideologica (i nobili), o per una contrarietà alla rivoluzione fondata anche sul conservatorismo cattolico (la Vandea), e in quanto
ostile alla rivoluzione veniva considerato estraneo alla nazione
e pericoloso per la sua stessa sopravvivenza.
C’era poi un nemico statuale – ovvero l’Austria – soltanto apparentemente convenzionale, ma in realtà individuato in uno Stato sovrano che accoglieva gli aristocratici fuggiaschi proponendosi di aiutarli a ribaltare il nuovo ordine rivoluzionario. In
entrambi i casi siamo di fronte a un nemico ideologico, che sul
territorio francese andava eliminato (almeno nella visione più
radicale, sulla scorta di Sieyes) perché contrario ai valori rivoluzionari e portatore di una concezione della vita e della società che doveva essere completamente sradicata, mentre nelle relazioni internazionali andava combattuto con un tipico conflitto tra Stati, che però assumeva i contorni, decisamente nuovi, della guerra per la liberazione degli altri popoli sottomessi
agli antichi regimi. La fiducia nel futuro e la speranza in un mondo migliore si mescolavano così all’odio che stimolava e alimentava la guerra.
Fu però ancor più con la resistenza spagnola nel periodo dell’occupazione napoleonica che il concetto di nemico assunse
contorni inusitati, caricandosi di nuove valenze. Le truppe regolari inviate dalla Francia e dai paesi satelliti per riportare l’ordine, infatti, si trovarono a vivere un’esperienza del tutto nuova,
poiché di fronte a loro non c’era un nemico militarmente ordinato da combattere, ma neppure una semplice rivolta da sedare:
c’era pressoché un intero popolo in armi, che combatteva con
metodi ai quali i reparti regolari non erano preparati. Non potendo affrontare apertamente i reggimenti francesi, gli spagnoli si
raggrupparono in bande dotate di grande mobilità, capaci di
tendere agguati e poi scomparire nel nulla fra le montagne, di
insorgere all’improvviso e subito dopo volatilizzarsi abbandonando persino il proprio villaggio natio. Con tale metodo gli spagnoli misero in seria difficoltà le comunicazioni e i rifornimenti
dell’invasore, prendendo alla sprovvista i comandanti francesi
abituati alla manovra di unità regolari. Era la guerriglia partigiana, che si alimentava dell’odio verso gli occupanti con la stessa
intensità con cui creava, nell’immaginario della controparte, un
nemico altrettanto aborrito: il nemico-bandito, caratterizzato sostanzialmente da quella viltà che gli impediva di affrontare le
truppe occupanti a viso aperto indossando una divisa, ma allo
stesso tempo temibile per il suo modo di combattere.
Perciò il partigiano assunse i caratteri di un nemico spregevole, privo di onore militare, che per il solo fatto di esistere violava le convenzioni basilari della guerra: egli era quindi illegittimo e di conseguenza non meritevole del trattamento riservato
normalmente ai prigionieri di guerra. In questo tipo di conflitto,
difatti, non si facevano prigionieri: chi era catturato veniva
passato per le armi, e ciò, aggiunto alla consapevolezza di non
riuscire a controllare il territorio, aumentava in maniera esponenziale il livello di violenza e di tensione permanente. La reazione delle truppe d’occupazione era feroce e radicale: si catturavano ostaggi, si incendiavano villaggi per rappresaglia o
anche nel disperato tentativo di fare “terra bruciata” intorno a
un nemico che davvero sembrava invisibile e imprendibile. Così tutto diveniva lecito, da una parte e dall’altra, e nel rapporto
di contrapposizione/interazione i due contendenti ridefinivano
i propri contorni: il soldato regolare perdeva la propria “regola” e agli occhi della popolazione, per la quale era invasore
non tanto di un territorio quanto piuttosto di una Nazione intera, si caricava dei tratti del nemico criminale; il partigiano, al
contrario, prendeva nell’ottica dei regolari i connotati inquietanti del volgare brigante.
Negli anni immediatamente successivi, nel pensiero politico
italiano – mercé anche l’esperienza maturata sul campo con la
massiccia partecipazione di tre divisioni italiane alla campagna spagnola – la guerra partigiana fu ripensata attentamente
in funzione della lotta per l’indipendenza nazionale. Gli scritti di
Antonio Lissoni (Gl’Italiani in Catalogna, del 1814, ed Episodi
della guerra combattuta dagli italiani in Ispagna, del 1843), già
ufficiale di Cavalleria in Spagna, portarono gli intellettuali italiani a conoscenza di quel modo di combattere che egli definiva «alla minuta» e che, nonostante le accuse dell’autore di essere sintomo di vigliaccheria, pure tanti problemi aveva causato all’esercito occupante. Nonostante in Spagna non fosse
stata affatto decisiva, ma avesse svolto piuttosto il compito di
agevolare l’azione di guerra compiuta dai regolari inglesi e
spagnoli, la guerriglia cominciava ad apparire tuttavia come la
strada più appropriata per la mobilitazione del popolo in armi.
A suggestionare erano i suoi presupposti, basati sulla rapidità
di attacchi inopinati e celeri fughe, piccoli scontri, assalti alla
logistica del nemico ed eliminazione dei collaborazionisti.
Questi erano i punti di forza riconosciuti anche da Carlo Bianco di Saint Jorioz, autore del saggio Della guerra nazionale
d’insurrezione per bande applicata all’Italia (1830), il quale riteneva che la guerriglia per bande fosse particolarmente idonea
a logorare l’avversario negli uomini e nei materiali, erodendo a
e connotazioni che assume di volta in volta il concetto di
“nemico” nell’età contemporanea possono essere ricondotte alla ridefinizione di tale nozione avvenuta con la Rivoluzione francese, che anche in questo senso ci conferma il
valore periodizzante, ancora accettato quand’anche un po’
obsoleto, di evento-simbolo dell’avvio dell’età contemporanea
occidentale.
La guerra intrapresa dalla Francia rivoluzionaria contro l’Austria
fu anche il risultato di significative trasformazioni dell’immagine
del nemico, il quale assunse due aspetti che imposero linee di
condotta innovative.
Agli occhi dei dirigenti della rivoluzione c’era innanzitutto un nemico interno, rappresentato dalla controrivoluzione che aveva il
suo punto d’appoggio nell’aristocrazia più retriva: era un avversario tale non in base alla tradizionale contrapposizione statuale ma per i privilegi di nascita e per la conseguente diversità
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poco a poco le sue capacità di controllo del territorio. La sproporzione di forze e armamenti rispetto agli Austriaci, insomma,
poteva essere compensata da una strategia imperniata su agili “colonne”, capaci però di riunirsi in un secondo momento in
più grandi unità. Ciò esigeva una determinazione robespierriana a radicalizzare lo scontro con il nemico in una lotta senza
quartiere, con l’accantonamento di ogni pietà residuale verso
di esso e verso sé stessi. Fra gli entusiasti della guerra per bande c’era anche Giuseppe Mazzini, che ne fece un elemento di
spicco del programma della Giovine Italia: la descrizione dei
caratteri della lotta partigiana, definita con qualche esagerazione invincibile e indistruttibile, figura già dettagliatamente
nella Istruzione generale per gli affratellati del 1831.
Al dibattito che cominciava a prendere corpo si aggiunse l’apporto del pensiero marxista, che dava alla lotta anche una dimensione di classe.
Se già Bianco aveva scritto che i contadini coinvolti nella lotta
dovevano intravedere un interesse materiale nella spartizione
di terre, anche Giuseppe Budini, autore di Alcune idee sull’Italia (1843), insisteva sulla cooptazione dei ceti più umili di città e
campagne, che potevano essere spinti alla lotta associando
agli ideali la promessa di una futura divisione dei beni alienati
a reazionari ed ecclesiastici. Tra i primi a dare una precisa meta alla lotta vi fu Carlo Pisacane, autore de La guerra combattuta in Italia negli anni 1848-’49 (1851) e dei Saggi storici-politici-militari sull’Italia (1855): secondo lui la rivoluzione doveva
avere una natura popolare e basarsi sulle masse, che avrebbero potuto essere mobilitate facendo leva sui loro bisogni, in vista dell’instaurazione di una società senza proprietà privata dei
mezzi di produzione.
Carlo Pisacane e,
a destra,
Giuseppe Mazzini
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Dopo tanto dire, salta alla mente un’osservazione: se la conflittualità doveva avvenire in funzione di una trasformazione sociale così radicale, al nemico politico si aggiungeva dunque un
nuovo avversario, ovvero il nemico di classe, secondo una concezione destinata inevitabilmente a riaccendere la conflittualità
all’interno degli Stati.
Negli anni del Risorgimento, nei paesi che lottarono per la loro indipendenza l’immagine dello straniero invasore fu caratterizzata
dai connotati di brutalità e aggressività. Sfruttando le tensioni fra le
truppe d’occupazione e la popolazione, i patrioti italiani contribuiscono a costruire un’idea di “austriaco” emotivamente carica per
sfruttarla come risorsa morale da gettare nella lotta: allo scopo di
dare continuità all’antagonismo tra Italiani e Austriaci, i riferimenti
culturali più ricorrenti furono perciò quelli alle orde barbariche
(specialmente degli Unni) e alle guerre dei comuni settentrionali
contro il Barbarossa. Fu nelle insurrezioni del 1848-’49, e specialmente nelle operazioni di repressione delle rivolte cittadine, che i
militari austriaci saccheggiarono a man bassa e incendiarono,
accanendosi contro una popolazione civile che per lo più sosteneva
le bande armate partigiane, non escluse donne e bambini: furono
così messe in atto vere e proprie azioni terroristiche indegne d’un
esercito regolare ma che, in quei frangenti, apparivano come una
risposta possibile davanti a un tipo di guerra inconsueto. Si affermò in tal modo una radicale contrapposizione tra i cittadini che,
anche per il fatto di operare in accordo con il ministero della Guerra
del Regno di Sardegna, rivendicavano lo status di combattenti per
sé e per l’intera municipalità, e gli austriaci che consideravano invece
le rivolte urbane (come quelle delle città lombarde) nientemeno
che ribellioni, giudicando gli insorti come combattenti illegittimi e
perciò dimenticando le convenzioni militari.
Nell’immaginario dei patrioti italiani, l’”austriaco” aveva ormai
assunto e riunito assieme i caratteri del nemico convenzionale,
ovvero individuabile in una precisa realtà statuale; del nemico
politico, in quanto ostile ai valori ideologici posti in gioco dal popolo-nazione; e infine del nemico criminale, a causa della sua
disponibilità al massacro. Con questo nemico assoluto siamo di
fronte a un’inedita immagine di avversario, che presentava la
doppiezza di chi associa alla regolarità dell’uniforme e dell’inquadramento militare una sfrenata smania di rapina e distruzione, che talvolta gli stessi comandanti, dopo averla aizzata con
una speciale licenza, faticavano a contenere. A quell’avversario, chiaramente “esterno” perché straniero, si associava il nemico “interno” rappresentato dai collaborazionisti locali, che
esercitando generalmente attività di spionaggio non tardavano
a suscitare lo sdegno della popolazione, perdendo di fatto ai
suoi occhi ogni diritto di cittadinanza in quanto traditori. Siamo
così nell’anticamera di una guerra civile moderna, di natura
eminentemente politica (almeno in tutti i molti casi in cui la Chiesa rifiutò di legittimare una parte specifica, facendo mancare la
motivazione religiosa come ulteriore elemento di divisione).
L’elemento più originale della costruzione del “nemico” nel nostro Risorgimento, però, è forse l’interscambiabilità del termine
di “tedesco”, che veniva comunemente impiegato anche per
identificare gli Austriaci. Logicamente era soprattutto l’unità linguistica a confonderli in un’unica popolazione, ma vi fu certamente anche l’intenzione di caricare sugli Austriaci il fardello di
ostilità storica con gli affini Tedeschi, accumulatasi fin dai tempi di Tacito e soprattutto nella storia imperiale germanica a cui
l’Austria era estranea. Nel corso della seconda metà dell’Ottocento, dunque, un oramai indistinto “tedesco” – fluttuante tra
Austria e Prussia/Germania – veniva pesantemente criminalizzato prima per la sua qualità di carceriere di quell’enorme “prigione di popoli” che era divenuto l’impero Austriaco, poi per
quell’inarrestabile militarismo prussiano che, se pur sfruttato
dagli Italiani per vincere la terza guerra d’indipendenza, si profilava indubbiamente come uno dei principali elementi di squilibrio nell’Europa di fine secolo (sia per l’elevato livello tecnologico che per le ideologie correnti volte a realizzare il pangermanesimo). Così, a dispetto dell’ingresso dell’Italia nella Triplice Alleanza, a rafforzare l’immagine negativa del “tedesco” contribuirono tanto le memorie risorgimentali quanto le guerre prussiane degli anni ’60, amalgamando i tratti odiosi dell’invasore
con la durezza del soldato prussiano (non è un caso che qualche decennio più tardi la propaganda fascista, con la forza prescrittiva delle veline del Min.Cul.Pop., sostituisse tutti i termini
già in uso con quello, meno compromesso ideologicamente, di
“germanico”, facendo cadere al tempo stesso ogni riferimento
esplicito al nemico delle guerre d’indipendenza).
Le conseguenze del processo dispiegatosi a partire dalla Rivoluzione francese furono sostanzialmente due. In primo luogo i
conflitti, in circostanze eccezionali, subiscono una radicalizzazione, che creò i presupposti per un di più di violenza e brutalità. In secondo luogo, l’idea del “nemico”, spesso alimentata
intenzionalmente, contribuì a consolidare le identità dei soggetti politici in gioco, rafforzando allo stesso tempo la relazione
di polarità che le legava in un rapporto Noi/Loro, Bene/Male.
Entrambi gli aspetti delineati furono essenziali per quella mobilitazione delle masse che avrebbe poi avuto tanta parte nella
politica e nelle guerre del Novecento.
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