Basilea società civile Europa

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INTERVENTO PRESIDENTE NAZIONALE ACLI
Gianni Bottalico
Basilea (CH), 8 febbraio 2014
Convegno: “Le nuove mobilità in Europa”
Il ruolo dell’associazionismo e della società civile oggi in Europa
Una delle ragioni che sta alla base di questo incontro è quella di mettere a confronto
la realtà europea delle Acli per trovare insieme una nuova capacità di lettura e di
iniziativa in un momento che vede l'intera Europa subire gli effetti della crisi.
La Confederazione Elvetica, pur non facendo parte dell'Unione Europea, costituisce
uno dei crocevia di questa nuova mobilità che riguarda per scelta o per necessità,
milioni di cittadini europei. Da questo punto di osservazione, in qualche modo
“neutrale” ma non distaccato, che oggi tutti noi assumiamo insieme agli amici delle
Acli della Svizzera, possiamo riflettere su un nuovo modo di vivere l'associazionismo
in Europa alla luce delle trasformazioni in atto.
Occorre quindi innanzitutto leggere con intelligenza questi mutamenti.
Il tema della mobilità così come si sta riproponendo in Europa, sotto questo profilo ci
indica due grandi ordini di problemi. Il primo è quello della instabilità politica ed il
secondo è quello della crisi economica e finanziaria, in un profondo intreccio nel
quale gli aspetti geopolitici si mescolano e condizionano quelli economici e sociali. È
la bellezza ed il rischio di questo inizio del XXI secolo.
Le difficoltà dell'avanzamento del processo di integrazione europea vanno inquadrate
in una fase storica di eccezionale instabilità che è iniziata sul finire dello scorso
secolo con il superamento degli equilibri sanciti dalla Seconda Guerra mondiale, e
che avevano diviso a metà il nostro continente.
È trascorso un quarto di secolo dalla sparizione della cortina di ferro fra l'Ovest e
l'Est Europa. Ma un nuovo equilibrio stenta ancora ad affermarsi.
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Su questi temi abbiamo avuto modo di riflettere il mese scorso durante un seminario
organizzato dal Dipartimento Internazionale e dall'Ipsia presso la sede nazionale delle
Acli, nel quale emergeva con preoccupazione il fatto che al tramonto
dell'unilateralismo americano nella politica mondiale non si sia ancora sostituito un
multipolarismo capace di gestire le varie crisi economiche, politiche, militari che si
manifestano a livello globale.
L'angolo di mondo che è più prossimo all'Europa (il Nord Africa, il Medio Oriente,
l'Est europeo oltre i confini dell'Unione Europea) continua a surriscaldarsi. E produce
consistenti ondate migratorie composte da masse di lavoratori poveri in cerca di
riscatto, da profughi che fuggono dagli orrori della guerra, da rifugiati politici, ai
quali si aggiungono i migranti provenienti dai Paesi più lontani dell'Asia meridionale
e dell'Africa centrale.
Le vicende le conosciamo e non voglio dilungarmi, ma solo ribadire che un punto
prioritario dell'impegno dell'associazionismo e della società civile in Europa è quello
per la stabilizzazione delle relazioni con i nostri vicini, o se preferite l'impegno per la
pace a cominciare dai popoli più prossimi all'Europa. Sembra una ovvietà questa, ma
non è così.
Dopo più di vent'anni di guerre americane in Medio Oriente, a cui l'Europa però ha
collaborato in ordine sparso come singoli Paesi, forse dalla società civile europea è
venuto il tempo di porre delle domande, non solo di chiedere cosa siamo andati a fare
in Afghanistan, in Iraq, in Libia ma di chiedere come possiamo cercare di porre
rimedio agli effetti devastanti di tali guerre che hanno dato campo libero
all'affermarsi di milizie fondamentaliste non soggette ad alcuna autorità statale e dalle
enormi potenzialità destabilizzanti alle porte dell'Europa.
Al ritiro progressivo della capacita militare degli Stati Uniti deve corrispondere una
iniziativa diplomatica e politica efficace dell'Europa, possibilmente come Unione, o
almeno di concerto fra gli Stati che si vogliono impegnare.
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Un associazionismo europeo vigile e responsabile dovrebbe saper porre anche alle
opinioni pubbliche nazionali la questione della soluzione del conflitto israelopalestinese, che si protrae da quasi settant'anni. Forse l'Europa non può costringere le
parti alla pace ma probabilmente possiede dei notevoli argomenti di persuasione in
termini di opportunità di sviluppo e di associazione, che non ancora utilizzato sinora
se non in minima parte.
Ma l'impegno dell'associazionismo europeo per la stabilizzazione regionale e dunque
per la pace in Europa ed attorno all'Europa, deve prestare attenzione anche a quello
che succede oltre le frontiere orientali dell'Unione Europea. La storia recente ci ha
insegnato che quando gli interessi accecanti della geopolitica prendono il sopravvento
sulle ragioni della politica si generano tragedie immense.
Lo abbiamo visto nei Balcani con la disgregazione della Jugoslavia, nella quale
hanno agito forze di ogni tipo esterne all'Europa, agevolate anche dalla indifferenza e
dalla mancanza di una visione strategica unitaria di noi europei.
Oggi assistiamo alla crisi dell'Ucraina, uno fra i Paesi più poveri d'Europa, dopo che
per secoli ne era stato il granaio, prima che con il comunismo ed il regime stalinista
venisse cancellata ogni traccia di proprietà privata.
Di fronte alle immagini delle proteste e delle violenze che arrivano da Kiev l'opinione
pubblica europea rimane frastornata, disorientata.
Per la durezza della repressione, ma anche per una protesta che è travalicata in un
clima di disordine e di insurrezione, nella quale sembrano prendere il sopravvento le
formazioni di estrema destra. In un paese democratico, qual è anche l'Ucraina, lo
scontro può essere anche acceso ma deve avere dei limiti. La situazione in quel paese
è molto complessa e chi preme sull'acceleratore dello scontro tra filo-europeisti e filorussi, rischia di condurre un gioco molto pericoloso e di prendere dei clamorosi
abbagli.
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In una situazione di tale radicalizzazione dello scontro bisogna stare attenti ad evitare
giudizi perentori su tutte le parti in causa.
Il richiamo al “dialogo costruttivo tra le istituzioni e la società civile”, fatto da papa
Francesco è quanto mai doveroso.
E
per
l'associazionismo
europeo
diventa
fondamentale
una
capacità
di
documentazione e di discernimento di prima mano, magari andando a sentire le
organizzazioni dei lavoratori di quel paese, le comunità delle diverse fedi religiose, la
società civile veramente rappresentativa di quel Paese, e non quelle organizzazioni
sorte si potrebbe dire in franchising e finanziate dall'abbondanza di risorse di cui
dispongono alcuni grandi fondi speculativi della finanza internazionale.
La settimana scorsa ho chiesto, insieme all'amico Marco Galdiolo, presidente dell'US
Acli, che il governo italiano faccia norme più severe per distinguere gli enti di
promozione sportiva veri, che fanno attività sociale, da quelli con mere finalità
commerciali.
Ho fatto questo piccolo esempio per dire che un problema simile credo che lo si
incontri a livello europeo.
L'associazionismo può ambire ad avere un ruolo sui temi cruciali dell'Europa se è
autentico, rappresentativo del tessuto sociale e territoriale in cui opera, finanziato in
modo trasparente e se non delega a nessun altro soggetto l'elaborazione della sua
linea culturale e dei suoi orientamenti politici. In una parola se sa conservare la
propria autonomia che, come ben sapete, per le Acli è elemento caratterizzante ed
irrinunciabile.
Questo vale sia per le tematiche relative alla stabilità, alla pace che per quelle
riguardanti il lavoro e i diritti sociali.
La linea dello scontro con l'Est è fuori dalla storia e non rientra negli interessi
dell'Europa.
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Anche per questo ho trovato un gesto coraggioso e distensivo la presenza del
presidente del consiglio italiano Enrico Letta ieri alla inaugurazione dei Giochi
Olimpici invernali di Sochi.
C'è un grande spazio per l'associazionismo sul piano culturale, economico-sociale,
religioso ed ecumenico, per consolidare le relazioni tra l'Europa comunitaria e l'altra
metà dell'Europa che sta ad Est, fuori dai confini dell'Unione. Un ruolo che va
esercitato aiutando innanzitutto l'Unione Europea a prendere coscienza del proprio
peso, della propria autonomia, dei propri comuni interessi.
E la strada è ancora molto lunga, se si guarda a come è andata la Conferenza sulla
Politica di Sicurezza che si è svolta la settimana scorsa a Monaco di Baviera, nella
quale ancora una volta noi europei abbiamo svolto il ruolo di comprimari.
L'ombrello americano si è fatto ormai troppo corto e l'Europa deve riuscire a
muoversi su uno scacchiere internazionale divenuto multipolare, come entità politica
e non solo come area economica fortemente integrata per merito dell'Euro.
E qui vengo alla seconda grande sfida per l'associazionismo in Europa, che è
rappresentata dal contrasto alla più grande crisi economica e finanziaria della storia
contemporanea. Il danno economico provocato da questa crisi è paragonabile a quello
di una guerra mondiale e questo deve costituire un monito per tutta l'Europa a cento
anni dallo scoppio della Grande Guerra.
Siamo di fronte ad un bivio: o si ha il coraggio di una svolta oppure si faranno
imprevedibili gli effetti dell'impoverimento dei ceti medi europei.
Se vogliamo continuare ad essere promotori di diritti e sostenitori della cittadinanza
europea dobbiamo assumere la questione dei ceti lavoratori come la questione sociale
e democratica del nostro tempo.
Il presidente della Repubblica italiana Giorgio Napolitano, martedì scorso davanti al
parlamento europeo ha pronunciato un discorso dal quale la società civile e
l'associazionismo possono trarre più di uno stimolo.
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Il capo dello stato italiano ha indicato l'obiettivo di fermare lo scontento generato dal
“peggioramento delle condizioni di vita e dello status sociale che ha investito larghi
strati della popolazione nella maggior parte dei paesi membri dell’Unione e
dell’Eurozona”, in cui la disoccupazione risulta dilagante e si registra una impennata
drammatica della disoccupazione giovanile.
E per ricostruire una prospettiva di futuro serve una svolta nelle politiche europee.
Non possiamo che associarci a Napolitano nel dire, come chiediamo da tempo, che
“non regge più una politica di austerità ad ogni costo”, che asfissia l'economia e che
fa crescere i sentimenti antieuropeisti. Se si vuole salvare il modello di società
europeo e si vuole evitare un avanzamento delle forze populiste ed euroscettiche alle
prossime elezioni europee bisogna superare quel “circolo vizioso ormai insorto tra
politiche restrittive nel campo della finanza pubblica e arretramento delle economie
europee” ed abbandonare la strada del riequilibrio, a tappe forzate, della finanza
pubblica, rendendo i parametri europei più sostenibili e compatibili con lo sviluppo e
con la sicurezza sociale.
Sapendo che non c'è tempo da perdere. L'allentamento dell'austerità che crea un
maggior reddito disponibile per i consumi delle famiglie è il presupposto per la
ripresa. Inoltre, questo consente di trovare maggiori risorse per investimenti pubblici
mirati per lo sviluppo. Ma occorre fare presto, a Roma, a Bruxelles, a Francoforte.
Il superamento dell'austerità costituisce il primo punto per un ruolo attivo
dell'associazionismo in Europa contro la crisi.
Ci sono altri tre punti su cui dobbiamo concentrare l'attenzione in funzione anticrisi.
Il primo è l'allargarsi del fenomeno della disuguaglianza.
Fino a poco tempo fa era un luogo comune affermare che se l'Italia è povera in
compenso gli Italiani sono ricchi. Ma in poco più di un lustro la situazione in Italia è
radicalmente cambiata.
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Stiamo assistendo ad una mutazione genetica della struttura sociale, che avviene in
tempi rapidissimi e che sta facendo precipitare la maggior parte della popolazione in
condizioni di vita impensabili fino a poco tempo fa.
Come avvertono diversi istituti di ricerca, al posto della società dei due terzi, ci
stiamo trasformando in una società grosso modo divisa in tre grandi categorie: un
terzo di poveri, un terzo sulla via della progressiva proletarizzazione ed il rimanente
terzo di cosiddetti “blindati”, costituito da molti benestanti, pochi ricchi e pochissimi
ultraricchi.
L'Italia sta tornando ad avere una composizione sociale da Paese povero, e per questo
torna ad alimentare la mobilità per lavoro in Europa, con due terzi della popolazione
che si trovano nel disagio e fra questi anche molti lavoratori con stipendi inadeguati a
far fronte al costo della vita e ad un carico fiscale ormai fuori controllo, di anno in
anno più gravoso.
Un recente studio della Banca d'Italia ("Una mappa della disuguaglianza del reddito
in Italia") ci ricorda che l'Italia più egualitaria è stata quella dei primi anni '80.
Nel 1983, i 4 milioni di contribuenti, che costituiscono il 10 per cento più ricco degli
italiani, assorbivano il 26 per cento del reddito nazionale. Nel 2007 tale quota è salita
sopra il 34 per cento.
Dunque, la crisi non è stata uguale per tutti ma ha solo impoverito i ceti medi,
aumentato il numero dei poveri e reso più poveri quanti già lo erano.
Si sta avendo un vero e proprio “terremoto sociale” che avvertiamo sui territori in cui,
noi stessi, parte dei nostri soci, spesso facciamo parte di quei ceti sinistrati dalla crisi,
e di cui intendiamo contribuire ad esprimere la rappresentanza.
La “società dei tre terzi”, come l'ha definita il presidente dell'Eurispes Fara,
rappresenta oggi la reale condizione economica e sociale dell'Italia e credo prefiguri
anche quella europea.
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In Italia oggi si ha una società che arranca, una società “defluente” con i ceti medi
che si “pauperizzano”, cioè hanno davanti a loro la prospettiva di passare
dall'impoverimento ad una condizione irreversibile di povertà.
Quindi per rendere efficaci le auspicabili politiche economiche espansive occorre nel
contempo una decisa azione di contrasto e di riduzione delle disuguaglianze.
Non si può più schivare il grave problema dell'allargamento della forbice tra
stipendio medio e retribuzioni dei vertici. Oltre ad essere un problema etico questa
abnorme polarizzazione della ricchezza risulta essere un fattore diseconomico, perché
indebolisce la capacità di spesa delle famiglie medie.
Per questo le Acli, sull'esempio avuto proprio in Svizzera dal referendum della scorsa
primavera, hanno dato la loro adesione alla proposta di legge di iniziativa popolare,
promossa dalla Fiba Cisl per l'introduzione di un tetto alle retribuzioni dei top
manager in modo che tra la figura media contrattuale e quelle di vertice venga
stabilito un limite, che per noi auspicabilmente non dovrebbe superare il rapporto di
uno a dodici.
In questa direzione si situa anche l'iniziativa promossa dalle Acli di una Alleanza
contro la povertà in Italia per dotare l'Italia di un Piano nazionale contro la povertà.
Acli e Caritas hanno proposto l'istituzione di un reddito di inclusione sociale per
colmare i ritardi dell'Italia dal resto d'Europa in questo campo, che sono stati
sanzionati di recente anche nel rapporto del Comitato per i diritti sociali del Consiglio
d'Europa.
Ma in questa città, sede di uno dei massimi organismi finanziari mondiali, la Banca
dei Regolamenti Internazionali, è doveroso ricordare il terzo punto irrinunciabile per
un ruolo dell'associazionismo europeo in favore dei cittadini, che è costituito da una
iniziativa per la riforma della finanza.
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Vi devo confessare che quando qualche anno fa a Milano, verso il 2005-2006
discutevo con amici ed esperti degli ottimi rapporti stilati dalla BRI, non riuscivo a
capacitarmi del fatto che studi così chiari e scritti con un linguaggio comprensibile a
tutti, venissero sostanzialmente ignorati dal dibattito politico. Eppure, già negli anni
cosiddetti pre-crisi, la Banca dei Regolamenti aveva denunciato l'esistenza di una
bolla speculativa dei derivati dal valore nominale di seicentomila miliardi di dollari,
pari ad una dozzina di volte l'intero pil mondiale.
Ma proprio questo fatto, cioè che a Basilea come a Francoforte, come in via
Nazionale a Roma, esistano dei bravi tecnici capaci di individuare e descrivere bene
le criticità del sistema finanziario, a cui però non è corrisposta una adeguata capacità
della politica ad assumersi le proprie responsabilità di fronte allo strapotere, agli
abusi ed ai furti della finanza speculativa internazionale, deve indurre la società civile
a portare avanti delle iniziative volte a ricondurre il settore finanziario in una
dimensione di utilità al bene comune.
Si tratta di un passaggio ineludibile per poter ridare centralità al lavoro nei processi
economici e per spezzare ciò che alimenta l'affermarsi di disuguaglianze sempre più
scandalose e nel contempo impoverisce le moltitudini che creano ricchezza con il
lavoro. Dobbiamo collegare di più le nostre iniziative sia negli ambiti nazionali che in
quello comunitario. La tassa sulle transazioni speculative ad alta frequenza, la
separazione tra le banche commerciali e le banche d'affari, la solvibilità delle banche
d'affari come limite ferreo ed invalicabile alla loro libertà di speculare, sono decisioni
necessarie, senza le quali non si può uscire dalla crisi, ma che la politica fa fatica ad
intraprendere perché i nuovi modelli leaderistici e plebiscitari tendono a subordinarsi
proprio a quei grandi poteri della finanza che dovrebbero regolare.
E la piega che sta prendendo il dibattito politico in Italia nelle ultime settimane
appare preoccupante.
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Come ha affermato in questi giorni il senatore Mario Monti, per iniziativa della
segreteria del Partito Democratico si rischia di far divenire un condannato padre della
patria.
Per un ventennio le forze democratiche italiane, e fra queste molte componenti della
società civile, hanno denunciato l'anomalia della situazione italiana. All'improvviso si
stipula un patto proprio con le forze che hanno impedito all'Italia per un ventennio di
essere un Paese normale, per realizzare i cavalli di battaglia del berlusconismo: un
sistema plebiscitario, basato sulla personalizzazione della politica e tendente di fatto
al presidenzialismo.
Per questa ragione si può parlare di un patto volto alla conservazione della seconda
repubblica anziché di un progetto che sarebbe quanto mai urgente, per aprire una
nuova fase politica.
A maggior ragione allora si deve muovere la società civile.
Le Acli in Italia sostengono le campagne sulla tassa sulle transazioni finanziarie,
contro la speculazione sui generi alimentari, da sancire davanti al mondo in occasione
dell'Expo di Milano del prossimo anno, la proposta di legge sul limite ai maxi
stipendi ed abbiamo intenzione di sostenere anche una iniziativa analoga riguardante
la separazione tra banche di risparmio e banche d'affari.
Anche se lo elenco come quarto punto, il tema del lavoro è il punto centrale per una
iniziativa dell'associazionismo europeo contro la crisi.
A cosa mirano infatti la richiesta di superare l'austerità, la lotta alle disuguaglianze, le
azioni da intraprendere per la riforma della finanza, se non a rilanciare la centralità
del lavoro?
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Per l'Italia e per l'Europa serve un piano industriale, occorre puntare alla
reindustrializzazione nei settori nei quali possiamo ancora essere competitivi,
creandone altri con la ricerca e liberando le imprese da quei vincoli che solo in
Europa esistono e che penalizzano le nostre industrie sui mercati internazionali. Ed
occorre potenziare i sistemi formativi, trovare risorse adeguate da destinare alla
conoscenza ed alla formazione professionale avanzata per dare ai giovani nuove
possibilità di lavoro.
Si tratta di mettere le diverse misure che si vanno definendo a livello nazionale ed
europeo in una cornice strategica, collegarle meglio ai sistemi formativi, prefigurare
un complessivo sistema di welfare giovanile per la formazione e per il lavoro,
necessario per gestire una sempre più lunga e più complessa transizione
scuola/lavoro, con l’obiettivo di farla diventare la prima fase della costruzione attiva
di percorsi e carriere professionali.
La nostra rete di esperienze europee che è qui ben rappresentata, ci consente anche di
valorizzare qualche idea dai Paesi europei con i più bassi tassi di disoccupazione
giovanile, nei quali un intreccio flessibile ed effettivo tra i sistemi della formazione e
quelli del lavoro e una cultura di impresa pronta a investimenti sulla formazione e sul
lavoro professionale risultano risolutivi per l’accesso all’impiego dei giovani.
Ma il problema del lavoro riguarda tutte le fasce d'età e per questo occorre procedere
nella direzione, già ricordata, di un grande piano per il lavoro e per una reindustrializzazione selettiva, come chiedono i Comitati nazionali per l’Iniziativa dei
Cittadini Europei, nel documento “Per un Piano europeo straordinario per uno
Sviluppo sostenibile e l’Occupazione”.
Naturalmente il lavoro a cui si pensa e di cui c'è bisogno per scacciare la crisi
dall'Europa è un lavoro capace di dare un reddito dignitoso al lavoratore ed alla sua
famiglia.
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Anche attraverso i salari, insieme a politiche fiscali meno aggressive verso lavoratori
e famiglie, si deve raggiungere al più presto l'obiettivo di ridare fiato alla domanda
interna, aumentando o almeno mantenendo a livelli accettabili la capacità di spesa e
di risparmio delle famiglie.
Senza il rinvigorimento dei consumi delle famiglie europee la ripresa rimane una
chimera. Procedendo per la sola via di una produzione tutta orientata all'esportazione,
per quanto necessaria e preziosa, non si salva nessuno, neppure la Germania.
In seno all'Unione Europea si va facendo sentire sempre di più lo squilibrio dei
regimi fiscali e dei livelli retributivi fra un Paese membro e l'altro.
I lavoratori italiani, come quelli degli altri Paesi del nucleo storico dell'Europa,
vengono spesso ricattati. Se vogliono conservare il lavoro devono accettare drastiche
riduzioni di stipendio, pena il trasferimento delle produzioni in Paesi come la Polonia
o la Romania, dove il costo del lavoro può essere anche di dieci volte inferiore. Ma se
andiamo avanti di questo passo con un livellamento verso il basso delle condizioni di
vita dei lavoratori, presto la miseria estrema che c'è nell'Est Europa ce l'avremo anche
noi.
Molti errori sono stati compiuti dalla Commissione Europea in questi anni in nome di
un'ideologia liberista che tradisce gli stessi atti fondativi dell'Unione. Occorre porvi
rimedio capovolgendo la prospettiva, intraprendendo azioni per realizzare un
innalzamento verso standard accettabili di salari, di tutele, di diritti, che rendano la
mobilità delle imprese all'interno dell'Unione una chance e non più un incubo.
E' bene sempre ricordare, soprattutto in vista delle prossime elezioni per il
Parlamento europeo, che l'Unione Europea ha tra i suoi valori fondanti quello della
solidarietà ed il riferimento all’economia sociale di mercato, che sancisce l’idea che
la crescita economica debba essere perseguita attraverso il mercato per fini sociali,
così come chiede la stessa clausola sociale all’art. 9 del Trattato sul Funzionamento
dell'Unione Europea.
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Questa indirizza l’Unione a tener conto nelle sue politiche e azioni delle esigenze
connesse al raggiungimento “di un elevato livello di occupazione, la garanzia di
un’adeguata protezione sociale, la lotta contro l’esclusione sociale e un elevato
livello di istruzione, formazione e tutela della salute”.
Questo deve valere per tutti i cittadini europei e associazioni come le Acli non
devono perdere occasione per ricordarlo e per consentirne l'attuazione.
Tutta l'Europa si augura, insieme alle Acli della Svizzera, che nel referendum che si
svolgerà domani nella Confederazione Elvetica vengano respinte le proposte di
reintroduzione delle quote per limitare l'immigrazione, e di rinegoziazione
dell'accordo sulla libera circolazione delle persone con l'Unione Europea.
Ai lavoratori immigrati ed alle loro famiglie, cosi come ai lavoratori frontalieri
devono essere riconosciuti i loro diritti che sono sanciti anche da accordi
internazionali. Ad essi va tutto il sostegno e la solidarietà delle Acli.
In conclusione, il ruolo dell'associazionismo e della società civile europea saprà
essere tanto più significativo quanto sarà capace di contribuire all'affermazione di una
opinione pubblica europea da cui possano plasmarsi, come auspicato dal presidente
Giorgio Napolitano a Strasburgo, uno spazio pubblico europeo ed una politica che si
faccia veramente europea, e che sia capace di utilizzare questo confronto politico su
scala comunitaria per un impegno eccezionale ed urgente di contrasto a questa crisi
che sta falcidiando i ceti popolari e produttivi dell'intera Europa.
Non basta gridare al pericolo dei populismi dilaganti in Europa, dobbiamo esser
capaci come società civile di dare il nostro contributo per debellare ciò che li
alimenta: la mancanza di lavoro, l'impoverimento della maggioranza della
popolazione, generati, come ci ha ricordato papa Francesco nella Evangelii Gaudium
dalla “dittatura di una economia senza volto e senza uno scopo veramente umano”,
che noi ci sentiamo impegnati a cambiare con decisione.
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