XVI domenica TO B
Ger 23,1-6; Sal 22; Ef 2,13-18; Mc 6,30-34
Prima Lettura Ger 23, 1-6
Radunerò il resto delle mie pecore, costituirò sopra di esse
pastori.
Dal libro del profeta Geremìa
Dice il Signore:
«Guai ai pastori che fanno perire e disperdono il gregge del
mio pascolo. Oracolo del Signore.
Perciò dice il Signore, Dio d’Israele, contro i pastori che
devono pascere il mio popolo: Voi avete disperso le mie
pecore, le avete scacciate e non ve ne siete preoccupati; ecco io
vi punirò per la malvagità delle vostre opere. Oracolo del
Signore.
Radunerò io stesso il resto delle mie pecore da tutte le regioni
dove le ho scacciate e le farò tornare ai loro pascoli; saranno
feconde e si moltiplicheranno. Costituirò sopra di esse pastori
che le faranno pascolare, così che non dovranno più temere
Santi di Tito (1536-1603), Moltiplicazione dei pani
né sgomentarsi; non ne mancherà neppure una. Oracolo del Signore. Ecco, verranno giorni – oracolo del
Signore – nei quali susciterò a Davide un germoglio giusto, che regnerà da vero re e sarà saggio
ed eserciterà il diritto e la giustizia sulla terra. Nei suoi giorni Giuda sarà salvato e Israele vivrà tranquillo,
e lo chiameranno con questo nome: Signore-nostra-giustizia».
Seconda Lettura Ef 2, 13-18
Egli è la nostra pace, colui che di due ha fatto una cosa sola.
Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesini
Fratelli, ora, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate lontani, siete diventati vicini, grazie al sangue di
Cristo. Egli infatti è la nostra pace, colui che di due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione
che li divideva, cioè l’inimicizia, per mezzo della sua carne. Così egli ha abolito la Legge, fatta di prescrizioni
e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e
due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, eliminando in se stesso l’inimicizia. Egli è venuto ad
annunciare pace a voi che eravate lontani, e pace a coloro che erano vicini. Per mezzo di lui infatti possiamo
presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito.
Vangelo Mc 6, 30-34
Erano come pecore che non hanno pastore.
Dal vangelo secondo Marco
In quel tempo, gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello
che avevano insegnato. Ed egli disse loro: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un
po’». Erano infatti molti quelli che andavano e venivano e non avevano neanche il tempo di mangiare.
Allora andarono con la barca verso un luogo deserto, in disparte. Molti però li videro partire e capirono, e da
tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero. Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe
compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose.
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La prima lettura (23,1-6) riprende l'oracolo di minaccia che yirmüyäºhû, Geremia, «il Signore esalta».
Nato ad Anatot, vicino a Gerusalemme, verso il 650 a.C., figlio di Chelkia della tribù di Beniamino, è morto
in Egitto dopo l'anno 586 a.C. Si rivolge alle cattive guide del popolo, in primo luogo ai re. La rimozione dei
cattivi pastori prevede la loro sostituzione e il raduno del popolo dalla Gôlâ «diaspora», accompagnato dal
dono di pastori secondo il cuore di Dio.
Ger 23,1: «Guai ai pastori che fanno perire e disperdono il gregge del mio pascolo. Oracolo
del Signore (hôy rö`îm mü´aBBüdîm ûmüpìcîm ´et-cö´n mar`îtî nü´um-yhwh(´ädönäy), lett. «Guai ai
pascenti facenti perire e disperdenti gregge da pascolo mio. Oracolo di Adonay»).
- Guai ai pastori (hôy
hôy rö`îm).
rö`îm L'oracolo di minaccia contro le cattive guide del popolo si introduce con
l'interiezione hôy «guai», tipica dei profeti. Si ritrova anche sulla bocca di Gesù quando ammonisce i ricchi
(Lc 6,24); le città incredule del lago: Corazìn, Betsàida, Cafàrnao (Mt 11,21); l'uomo che suscita scandalo
(Mt 18,7); gli scribi e i farisei ipocriti per ben sette volte (Mt 23,13ss.); le donne incinte nei tempi apocalittici
(Mt 24,19); Giuda (Mt 26,24). Il röº`Ë «pastore» nell'AT è innanzitutto il re, quindi il sommo sacerdote e le
guide del popolo in genere. L'ebraico mar`îth «pascolo» indica propriamente un luogo confortevole per il
gregge. Mentre nel Testo Masoretico il pronome suffisso (mar`îtî
mar`îtî)
mar`îtî si riferisce ad Adonay, importanti
manoscritti della Settanta leggono τῆς νομῆς αὐτῶν «del loro pascolo», riferendolo ai pastori. Questo primo
oracolo, in prosa, riguarda sia i «pastori» che il «gregge». Possiamo trovare un oracolo simile in Ez 34.
- Oracolo del Signore (nü´um
nü´umnü´um-yhwh(´ädönäy)).
yhwh(´ädönäy) Formula tecnica per i profeti che trasmettono la parola ricevuta
da Dio. Nel nostro brano ricorre quattro volte.
23,2: Perciò dice il Signore, Dio d’Israele, contro i pastori che devono pascere il mio
popolo: Voi avete disperso le mie pecore, le avete scacciate e non ve ne siete preoccupati;
ecco io vi punirò per la malvagità delle vostre opere. Oracolo del Signore (läkën Kò|-´ämar
yhwh(´ädönäy) ´élöhê yiSrä´ël `a|l-härö`îm härö`îm ´et-`ammî ´aTTem hápìcötem ´et-cö´nî waTTaDDiHûm
wülö´ püqadTem ´ötäm hinnî pöqëd `álêkem ´et-röª` ma`alülêkem nü´um-yhwh(´ädönäy), lett. «Perciò così
disse, Adonay, Dio di Israele, contro i pascenti pascenti popolo mio: Voi disperdeste gregge mio e scacciaste esse e non vi
occupaste di esse. Eccomi punente voi per male azioni vostre. Oracolo di Adonay»).
- non ve ne siete preoccupati; ecco io vi punirò (wülö´
wülö´ püqadTem ´ötäm hinnî pöqëd `álêkem).
In questo versetto, la
`álêkem
corrispondenza tra colpa e castigo viene sottolineata con ricorsi verbali, che qui consistono nella ripetizione
del verbo ebraico paqad
paqad «porre attenzione a qualcosa, chiedere conto di». I pastori non hanno posto attenzione
alle pecore del Signore: püqadTem «non ve ne siete preoccupati». Il Signore chiederà loro conto e afferma: pöqëd
«vi punirò». Il gregge non è proprietà dei pastori, ma del Signore, davanti al quale sono responsabili
dell'incarico ricevuto. Un secondo gioco di parole lega il compito del röº`Ë «pastore» alla röª` «malvagità» con
cui lo si adempie. puc «disperdere» e naDaH «scacciare» sembrano riferirsi alla prima deportazione a Babilonia
(597 a.C.). Di fatto yühôyäqîm «Ioiakìm» (632-597 a.C.), con una politica scriteriata, provocò l'intervento
babilonese.
23,3: Radunerò io stesso il resto delle mie pecore da tutte le regioni dove le ho scacciate e
le farò tornare ai loro pascoli; saranno feconde e si moltiplicheranno (wa´ánî ´áqaBBëc ´etšü´ërît cö´nî miKKöl hä´áräcôt ´ášer-hiDDaºHTî ´ötäm šäm wahášìbötî ´ethen `al-nüwëhen ûpärû würäbû,
lett. «E io radunerò il resto del gregge mio da tutte le terre che scacciai loro là e farò tornare esse su pascolo di esse e
fruttificheranno e si moltiplicheranno»).
- il resto (šü´ërît
šü´ërît).
šü´ërît Il concetto di šü´ërît «resto» proviene dalla tradizione profetica precedente (Is 1,9; 4,3; 7,3;
10,20-23; 37,4.31-32; Mi 2,12; 4,6-7; 5,6-7; 7,18); pur essendo positivo, perché prospetta la possibilità di un
intervento benefico di YHWH, suppone una realtà negativa, cioè la distruzione e l'esilio. Geremia lo fa suo
in differenti contesti: quando annuncia il ribaltamento della situazione per gli esuli dell'antico regno del
Nord (31,7; cf 50,17), o nei casi in cui non sembra esserci più speranza di salvezza (negli annunci contro
coloro che sono rimasti a Gerusalemme e i profughi in Egitto; 24,8; 44,11-14.27-28). Gli ultimi due verbi del v.
3: ûpärû würäbû «saranno feconde e si moltiplicheranno» possono leggersi alla luce dell'esilio, congiuntura nella
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quale il popolo rischiava di estinguersi e di perdere la propria identità (cf i testi sacerdotali di epoca esilica
in Gen 1,22.28; Lv 26,9), e nel contempo alla luce della futura restaurazione (Ger 30,19; 33,22).
- le ho scacciate (hiDDaº
hiDDaºHTî ´ötäm).
´ötäm Il profeta riprende il verbo naDaH «scacciare» e l'attribuisce a Dio; in tal modo
sembra contraddire il v. 2 dove si accusano i pastori di essere i responsabili della dispersione delle pecore. In
verità Dio vuole riaffermare il suo controllo sulla storia del suo popolo, mentre tutti gli ultimi re di Giuda
incontrarono una tragica fine.
23,4: Costituirò sopra di esse pastori che le faranno pascolare, così che non dovranno più
temere né sgomentarsi; non ne mancherà [neppure una]. Oracolo del Signore (waháqìmötî
`álêhem rö`îm würä`ûm wülö´-yî|r´û `ôd wülö´-yëHaºTTû wülö´ yiPPäqëºdû nü´um-yhwh(´ädönäy), lett. «E
farò sorgere su esse pascenti e pasceranno esse e non temeranno più e non si sgomenteranno e non mancheranno. Oracolo di
Adonay»).
- E non ne mancherà nessuna (wülö´
wülö´ yiPPäqëºdû).
û La Settanta omette la frase; la Vulgata traduce: et nullus
quaeretur ex numero «e nessuno sarà cercato fuori dal numero». Il verbo paqad
paqad «porre attenzione a qualcosa,
chiedere conto di», già usato due volte nel v. 2, ricorre qui al nifàl (riflessivo passivo) con il significato di
«risultare mancante, andare smarrito» (Nm 31,49; Gdc 21,3; 1Sam 20,18; 25,7.21; 2Sam 2,30; 1Re 20,39; 2Re
10,19). Geremia si rivolge al popolo in termini analoghi a 3,14-18. La prospettiva di nuovi pastori prepara la
restaurazione del popolo dopo l'esilio, con la piena realizzazione degli scopi dell'alleanza.
23,5: Ecco, verranno giorni – oracolo del Signore – nei quali susciterò a Davide un
germoglio giusto, che regnerà da [vero] re e sarà saggio ed eserciterà il diritto e la
giustizia sulla terra (hinnË yämîm Bä´îm nü´um-yhwh(´ädönäy) waháqìmötî lüdäwìd ceºmaH caDDîq
ûmäºlak meºlek wühiSKîl wü`äSâ mišPä† ûcüdäqâ Bä´äºrec, lett. «Ecco, giorni venienti, oracolo di Adonay, e farò
sorgere a Davide un germoglio di giustizia e regnerà re e sarà saggio e farà giudizio e giustizia nella terra»).
- Un germoglio giusto (ceº
ceºmaH caDDîq).
caDDîq Il termine caDDîq è comunemente tradotto con «giusto», nel senso che,
diversamente dagli altri, questo futuro re davidico eserciterà il governo in modo corrispondente alla
giustizia, quindi in modo conforme a quanto gli è richiesto in rapporto agli impegni assunti verso YHWH e
verso la comunità che rappresenta. La stessa idea è ripresa in Zc 3,8 (ceº
ceºmaH)
ceºmaH cüdäqâ).
aH e in Ger 33,15 (ceº
cüdäqâ
Alcuni autori, sul ritrovamento di un'antica iscrizione fenicia di Cipro, dove questo titolo è applicato
all'erede legittimo della dinastia, traducono «germoglio legittimo». L'oracolo poetico sul ceºmaH caDDîq
«Germoglio giusto» è uno dei passi più importanti che fondano il messianismo ebraico (cf 33,20-22). I
vocaboli ceºmaH «germoglio» e nëºcer «virgulto» (Is 11,1) divennero termini classici per indicare il Messia (Zc
3,8; 6,12).
- sarà saggio (wühiSKîl
wühiSKîl).
wühiSKîl Il verbo SaKal hifìl (causativo attivo) può significare «essere intelligente, agire con
prudenza, fare attenzione». In Geremia esprime sempre l'idea del successo (10,21; 20,11; 50,9).
23,6: Nei suoi giorni Giuda sarà salvato e Israele vivrà tranquillo, e lo chiameranno con
questo nome: Signore-nostra-giustizia (Büyämäyw tiwwäša` yühûdâ wüyiSrä´ël yišKön läbeº†aH
wüzè-ššümô ´á|šer-yiqrü´ô yhwh(´ädönäy) cidqëºnû, lett. «Nei giorni suoi sarà salvato Giuda e Israele dimorerà al
sicuro. E questo il nome di lui che chiamerà lui: Adonay giustizia nostra»).
- lo chiameranno (´á|
´á|šerer-yiqrü´ô).
yiqrü´ô La traduzione letterale è al singolare: «lo si chiamerà», ma alcuni manoscritti
ebraici hanno il plurale: «essi chiameranno». La Settanta ha il verbo al singolare (καλέσει) e inserisce κύριος
«Signore» quale soggetto che dà il nome.
- Signore-nostra-giustizia (yhwh(´ädönäy)
yhwh(´ädönäy) cidqëºnû).
û Il nome di «Signore-nostra-giustizia», conferito a questo re
ideale, verrà dato anche alla nuova Gerusalemme (33,16). La Settanta la comprende come nome proprio:
Ιωσεδεκ. Sia Israele che Giuda (nord e sud) parteciperanno a questa salvezza messianica. Geremia non
dimenticò mai la propria patria (cc. 30-31). Signore-nostra-giustizia, sarà il nome del futuro re, nome che
riprende quello di cidqiyyäºhû,
û Sedecìa «la mia giustizia è il Signore». Terzo figlio di Giosìa, fu l'ultimo re di
Giuda (2Cr 36,11-21). Al termine «giustizia» deve essere attribuito il suo pieno significato, che include la
presenza e l'azione salvifica di Dio (Gdc 5,11; 1Sam 12,7; Is 45,24; Sal 103,6). La solennità dell'oracolo indica
certamente una nuova era. Ma qual è esattamente questa era? La risposta dipende molto dal concetto stesso
di messianismo e dal suo rapporto con l'escatologia. Geremia sembra che parli di un messianismo regale
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che è strettamente legato alla storia. Questa regalità ideale è stata definita nella profezia di Natan (2Sam
7) e ripetuta nei salmi regali (Sal 2; 45; 72; 89; 110). I profeti, nei periodi bui quando i re erano infedeli,
richiamarono questo stesso ideale e promisero la sua realizzazione nel futuro, usando termini che si trovano
anche nel nostro brano (cf Is 9,5-6; 11,1-9; Mi 5,1-5; Am 9,11; Os 3,5). Quindi, come i suoi predecessori,
Geremia preannuncia la restaurazione della dinastia di Davide, non tanto su basi politiche quanto su basi
religiose e morali. La promessa di un re ideale, di una guida che rende visibile una speciale presenza del
Dio giusto e salvatore, per il NT è realizzata in Gesù, il pastore che muore per salvare le sue pecore (cf Gv
10,1-18).
Il Pastore verace (23,1-8). Il brano, composto di un'accusa (vv. 1-2a) e di tre annunci di
salvezza (vv. 2b-4: vv. 5-6; vv. 7-8), conclude la sezione sui re. Il messaggio è frutto della teologia regale
del Sud, in particolare di Isaia, con il quale mostra una certa affinità (Is 9,5; 11,1-11).
Accusa (23, 1-2a). Dopo l'appello-guai del v. 1 rivolto ai pastori, si procede all'accusa (v. 2a) nei
confronti degli ultimi due re di Giuda, Ioiakìm e Sedecìa. La metafora pastorale è usata ampiamente sia
nella Bibbia sia fuori di essa per indicare il governo dei re (2Sam 7,7 // 1Cr 17,6) e di Dio stesso; anche
Yhwh, infatti, è detto pastore del popolo (Gen 49,24; Os 4,16; Sal 23,1-4; 28,9; 80,2). Il «guai» qui non è
elemento caratterizzante il lamento, come avviene in 22,18 e altrove, bensì l'invettiva, come d'altronde negli
oracoli di giudizio. I «pastori» in questione non hanno saputo guidare il popolo, non «se ne sono
occupati» (v. 2a), anzi, sono stati causa di rovina. Il parallelo più illuminante al riguardo è Ez 34, in cui si
stigmatizza il comportamento dei re, evidenziandone gli effetti letali per l'intera nazione.
Castigo e salvezza (23,2b-4). Il primo annuncio fa largo impiego del lessico pastorale (pastori, gregge,
pascolo); il giudizio è formulato mediante il ricorso al medesimo verbo dell'accusa (pa
paqad
paqad,
qad v. 2a), ma usato
nel senso di «emettere la sentenza». Segue nei vv. 3-4 l'annuncio della futura restaurazione indirizzato al
popolo, richiamato con la terza persona e caratterizzato come «il resto delle mie pecore». L'azione del raduno,
contrapposta a quella della dispersione, esprime la fine dell'esilio e il ripristino dell'alleanza. Nel v. 4 ricorre
per la terza volta il verbo paqad
paqad (al nifàl riflessivo passivo) a cui si dà il significato negativo di «mancare,
venire a mancare»: ritornato in patria, oltre a sperimentare i frutti della benedizione, Israele avrà a capo
governanti grazie ai quali non dovrà più temere l'esilio e l'estinzione.
Il germoglio di David (23,5-6). L'oracolo si apre con la formula hinnË yämîm Bä´îm «ecco, vengono
giorni» che marca la separazione dal brano precedente e colloca l'evento annunciato in un futuro
indeterminato. Diversamente dal v. 4, la promessa della restaurazione tiene conto della discendenza
davidica: YHWH «susciterà» per David un «germoglio giusto». Se quindi il v. 4 lasciava supporre che Dio in
futuro avrebbe agito diversamente, quest'annuncio conferma l'attesa tradizionale fondata sul noto testo di
2Sam 7 (cf Is 9,1-6; 11,1-10; Am 9,11-12; Mi 5,1-5; Zc 9,9-10): l'oracolo è in linea con la tradizione precedente,
maturata nei circoli gerosolimitani con Isaia, e i cui presupposti sono forse rintracciabili in testi quali gli
oracoli di Bil'am (Nm 23,7-10; 23,18-24; 24,3-9; 24,15-25) e la benedizione di Giacobbe (Gen 49,1-27). Il
discendente di David è chiamato «giusto»: in sostanza funge da antitipo ai re del capitolo precedente,
biasimati per le loro azioni lesive del rapporto con Dio (22,13-17). Il v. 6 descrive i benefici del suo buon
governo, estesi separatamente a Giuda e a Israele: salvezza e sicurezza (Dt 33,28; 32,17); con lui il popolo
abiterà tranquillo sul proprio suolo secondo la promessa di Lv 26,5. Il sintagma «YHWH è la nostra giustizia» è
garanzia della giustizia del futuro re, nonché del suo agire in conformità con l'ordinamento voluto da Dio;
forse nasconde una certa polemica nei confronti di Sedecìa «YHWH è la mia giustizia», ritenuto indegno del
nome che portava.
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La seconda lettura (Ef 2,13-18) continua a proporci il pensiero paolino trasmesso dalla lettera agli
Efesini. Nel nostro brano si sottolinea la forza pastorale di Gesù, che non solo sa condurre amorevolmente i
discepoli e le folle, ma ne cambia la realtà sociale trasformandoli in un unico «corpo» e in un'umanità
nuova.
Ef 2,13: Ora invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate lontani, siete diventati vicini,
grazie al sangue di Cristo (νυνὶ δὲ ἐν Χριστῷ Ἰησοῦ ὑμεῖς οἵ ποτε ὄντες μακρὰν ἐγενήθητε ἐγγὺς ἐν
τῷ αἵματι τοῦ Χριστοῦ, lett. «Ora invece, in Cristo Gesù, voi gli un tempo essenti lontano siete divenuti vicino nel sangue
di Cristo»).
- voi che un tempo eravate lontani, siete diventati vicini (ὑμεῖς οἵ ποτε ὄντες μακρὰν ἐγενήθητε ἐγγὺς). La
tematica della relazione tra pagani e giudei è qui affrontata in modo originale. A differenza del passato,
quando tra pagani e giudei vi era separazione (μακρὰν «lontano»), νυνὶ δὲ «ora invece» la situazione è
caratterizzata da vicinanza (ἐγγὺς «vicino») grazie al dono della vita di Cristo. Il superamento delle barriere
interetniche viene così attribuito τῷ αἵματι τοῦ Χριστοῦ «al sangue di Cristo», da cui era già derivato il
superamento del peccato (Ef 1,7). Il linguaggio usato riprende la concezione giudaica, secondo cui le nazioni
sono ubicate «lontano» da Israele, mentre nei testi qumranici l'ingresso nella comunità è espresso con il
verbo qarab «farsi vicino». In base ai versetti precedenti si può ritenere che la lontananza e la vicinanza
siano definite sia rispetto a Israele, sia rispetto a Dio. Da questo versetto iniziano una serie di contatti
verbali con Is 57,19, in cui però i lontani e i vicini denotavano gli israeliti esiliati e quelli di Gerusalemme.
2,14: Egli infatti è la nostra pace, colui che di due ha fatto una cosa sola, abbattendo il
muro di separazione che li divideva, cioè l’inimicizia, per mezzo della sua carne (Αὐτὸς γάρ
ἐστιν ἡ εἰρήνη ἡμῶν, ὁ ποιήσας τὰ ἀμφότερα ἓν καὶ τὸ μεσότοιχον τοῦ φραγμοῦ λύσας τὴν ἔχθραν ἐν
τῇ σαρκὶ αὐτοῦ, lett. «Egli infatti è la pace nostra, l'avente fatto di entrambi una cosa e il muro framezzo di barriera
avendo abbattuto, l'avversione nella carne di lui»).
- Egli infatti è (Αὐτὸς γάρ ἐστιν). Formalmente, i vv. 14-18 si staccano dalla loro cornice, in quanto il loro
soggetto è Cristo, menzionato enfaticamente all'inizio con l'espressione Αὐτὸς γάρ ἐστιν, letteralmente
«questi è», e fanno uso di termini peculiari, fra cui εἰρήνη «pace» e τὰ ἀμφότερα «entrambi, due» fungono da
inclusione fra i vv. 14.17-18.
- la nostra pace (ἡ εἰρήνη ἡμῶν). Con enfasi Cristo è riconosciuto come pacificatore. La presenza
dell'articolo rimarca che egli è il solo a poter beneficiare di tale appellativo alla luce del concetto ebraico di
šälôm,
šälôm inteso come pienezza di doni salvifici realizzati tramite il Messia SarSar-šälôm «principe della pace» (Is 9,5).
Cristo è artefice di comunione e perciò la sua opera viene definita come opera di pacificazione. Il termine
εἰρήνη «pace» nel presente brano ricorre 4 volte (vv. 14.15.17.17).
- colui che di due ha fatto una cosa sola (ὁ ποιήσας τὰ ἀμφότερα ἓν). Il verbo è aor. part. di ποιέω «faccio,
produco». Cristo ha fatto una cosa sola di due realtà differenziate e separate. L'autore utilizza la terminologia
della «creazione»: i due saranno un'unica carne (Gn 2,24) per descrivere quest'opera del tutto nuova di Cristo,
iniziando così a rielaborare una delle idee ecclesiologiche più qualificanti di s. Paolo. La Chiesa infatti è
riconosciuta come una comunità unita, che riconosce l'uguale dignità dei suoi membri (cf 1Cor 12,13; Gal
3,28).
- abbattendo il muro di separazione che li divideva (καὶ τὸ μεσότοιχον τοῦ φραγμοῦ λύσας). Il verbo è aor.
part. di λύω «sciolgo, annullo, abolisco». Fra le barriere annullate da Cristo, la prima a essere menzionata è τὸ
μεσότοιχον τοῦ φραγμοῦ λύσας «il muro di mezzo della separazione». A cosa allude questa espressione?
Certamente non è credibile la menzione di un muro cosmico che divide il mondo celeste da quello terreno.
L'idea di tale muro è presente nel Libro (etiopico) di Enoch 14,9, ma è sviluppata soprattutto nella posteriore
letteratura gnostica. Il riferimento più probabile è al muro della legge, reso visibile dalla balaustra che
delimitava l'area sacra del tempio e che nessun pagano poteva oltrepassare, pena la morte, segno della
divisione esistente tra Israele e i pagani. Giuseppe Flavio (37-100 d.C.) ne parla in Antichità giudaiche 15,417:
«In mezzo [allo spazio delimitato dal primo recinto] e non molto distante vi era un secondo, accessibile per
mezzo di pochi gradini e circondato da una balaustra di pietra, con un'iscrizione che proibiva l'ingresso a
uno straniero sotto minaccia di pena di morte» (Guerre giudaiche 5,193-194. Di tali iscrizioni si hanno
testimonianze archeologiche. Il Tempio diventava così il segno paradigmatico di quella separazione che la
legge intendeva operare mediante regolamentazioni cultuali. L'«uomo nuovo» è Cristo risorto, libero da
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tutti i condizionamenti umani; in lui i redenti, riconciliati con Dio e pacificati, formano un unico popolo,
senza più barriere.
- l’inimicizia, per mezzo della sua carne (τὴν ἔχθραν ἐν τῇ σαρκὶ αὐτοῦ). La legge è posta qui in relazione con
l'inimicizia. La separazione interetnica è così valutata come vera ostilità: i popoli si ritrovano separati
perché reciprocamente estranei e ostili. La legge del popolo di Israele ha come effetto il dividere questo
popolo dagli altri. Perciò Cristo, con la sua morte e risurrezione, ha ottenuto la comunione con il Padre,
l'accesso alla realtà celeste e il perdono dei peccati (Ef 1,7; 2,5-6.16.18). Egli è allora la nostra pace (Ef 2,14),
perché ci rappacifica con Dio. La dimensione verticale (il rapporto con Dio) e orizzontale (il rapporto con i
popoli) della nostra esistenza sono così reciprocamente implicate, sebbene in questi versetti l'attenzione
primaria verta sulla seconda.
2,15: Così egli ha abolito la Legge, fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso,
dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, (τὸν νόμον τῶν ἐντολῶν ἐν δόγμασιν
καταργήσας ἵνα τοὺς δύο κτίσῃ ἐν αὐτῷ εἰς ἕνα καινὸν ἄνθρωπον ποιῶν εἰρήνην, lett. «la legge dei
comandamenti in precetti rendendo inoperante, affinché i due creasse in sé in un nuovo uomo facendo pace»).
- egli ha abolito la Legge (τὸν νόμον … καταργήσας). Il verbo è aor. part. di καταργέω «annullo, abolisco,
elimino». Non compare nel papiro Chester Beatty II e nella Vulgata, ma non sembra una glossa, dal momento
che lo stile ridondante di Efesini ama tornare su alcuni termini mediante accumulo di sinonimi. Infatti, la
frase τὸν νόμον τῶν ἐντολῶν ἐν δόγμασιν «la legge dei precetti nei decreti» è chiaramente pleroforica (da
πληροφορία, ας, ἡ «compimento, pienezza, piena comprensione» sst.dvb. di πληροθορέω «adempio, compio,
porto a termine, pss. sono completo, perfetto, raggiungo la perfezione»).
Si parla qui della legge mosaica, intesa come causa della separazione fra i popoli. È un'affermazione audace.
Paolo afferma che noi siamo «messi a morte» (Rm 7,4), «morto alla Legge» (Gal 2,19), o che siamo da essa
liberati (Rm 7,6), chiarendo così che non siamo più sotto la sua signoria, ma mai che questa sia in toto
annullata. Paolo riconosce il valore della legge perché veicolo della rivelazione divina. Ma qui l'autore parla
τῶν ἐντολῶν ἐν δόγμασιν «di prescrizioni e di decreti». Con un'ennesima costruzione prolissa, l'autore di
Efesini connota qui la legge come insieme di precetti, che come tale è soppiantata dalla novità realizzata da
Cristo. Ciò fa concludere che solo la legge non può essere via di salvezza, poiché questa non deriva
dall'osservanza dei precetti, che pur possono mantenere una certa validità.
- per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo (ἵνα τοὺς δύο κτίσῃ ἐν αὐτῷ εἰς ἕνα καινὸν
ἄνθρωπον). Il verbo è aor. cong. di κτίζω «faccio, fondo, creo» assieme al complemento oggetto καινὸν
ἄνθρωπον «uomo nuovo» richiamano la creazione di Adamo (cf Gen 1,27; 2,7; Sap 2,23; Sir 17,1; 33,10).
Viene qui espressa la finalità dell'opera di Cristo, che consiste nella creazione di un'unica umanità
riunificata, che in quanto tale gode della comunione con il Padre. Il verbo κτίζω nel NT ha unicamente Dio
per soggetto, sia quando denota l'opera della creazione, sia quando si riferisce a un ambito espressamente
etico e antropologico (cf Ef 2,10; 4,24; Col 3,10). Se la mediazione di Cristo nella creazione è talvolta
espressamente rimarcata (Col 1,16.16; Ef 2,10; Gv 1,3, 1Cor 8,6, Eb 1,2), mai altrove egli appare come
soggetto. Questo fatto rivela da una parte l'elevata cristologia dell'autore, dall'altra il fatto che l'opera di
Cristo realizza qualcosa di assolutamente nuovo, che trascende le categorie etniche preesistenti. Le
diversità etniche sono irrilevanti a livello ecclesiale, perciò è possibile una comunione nella Chiesa.
L'autore non usa il termine λαός «popolo», ma l'espressione εἰς ἕνα καινὸν ἄνθρωπον «un solo uomo
nuovo». Essa trova la sua radice nella locuzione paolina «nuova creazione» (2Cor 5,17; Gal 6,11). Originale è
qui il suo riferimento alla realtà ecclesiale.
2,16: e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce,
eliminando in se stesso l’inimicizia (καὶ ἀποκαταλλάξῃ τοὺς ἀμφοτέρους ἐν ἑνὶ σώματι τῷ θεῷ
διὰ τοῦ σταυροῦ, ἀποκτείνας τὴν ἔχθραν ἐν αὐτῷ, lett. «e riconciliasse entrambi in un corpo a Dio per mezzo della
croce, avendo ucciso l'avversione in lui»).
- e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo (καὶ ἀποκαταλλάξῃ τοὺς ἀμφοτέρους ἐν ἑνὶ σώματι
τῷ θεῷ). Il verbo è aor. cong. di ἀποκαταλλάσσω «riconcilio» (cf Col 1,20.22). In parallelo con l'espressione
precedente, qui si chiarisce che l'unità comporta una riconciliazione di entrambi i gruppi con Dio.
Formalmente non era stato detto che i Giudei avessero bisogno di una riconciliazione con Dio, tuttavia Ef 2,3
dichiara tutti gli uomini ὀργῆς «meritevoli d'ira». Per l'autore di Efesini solo Cristo può riconciliarci con Dio.
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- per mezzo della croce (διὰ τοῦ σταυροῦ). La menzione del σταυρός, οῦ, ὁ «croce» è hapax in questa lettera.
Essa non serve a placare l'ira di Dio, ma a riconciliare gli uomini.
- eliminando in se stesso l’inimicizia (ἀποκτείνας τὴν ἔχθραν ἐν αὐτῷ). Il verbo è aor. part. di ἀποκτείνω
«uccido, distruggo». L'ἔχθρα, ας, ἡ «inimicizia, ostilità» (cf ἔχθος «odio, rancore») presente tra gli uomini (v. 14)
e vissuta nei confronti di Dio è eliminata grazie alla croce. Ora risulta chiaro che la dimensione verticale e
quella orizzontale delle nostre relazioni dipendono dal sacrificio di Cristo. Un ulteriore parallelismo
intercorre anche fra le espressioni «un solo uomo nuovo» (v. 15) e «un solo corpo» (v. 16). La Chiesa è una
perché inserita nell'unità di Cristo. L'esistenza della Chiesa, una e unificata, dipende dal dono della vita di
Cristo (cf Ef 5,2.25) e l'uso del termine «corpo» può suggerire la sostanziale dipendenza della Chiesa dal
Cristo crocifisso.
- in se stesso (ἐν αὐτῷ). In questa osservazione conclusiva, l'autore ribadisce che la riconciliazione si ha solo
«in lui» (cf Ef 1,3-14; 2,5-6): Cristo è il mediatore e il capo che rappresenta la Chiesa.
2,17: Egli è venuto ad annunciare pace a voi che eravate lontani, e pace a coloro che erano
vicini (καὶ ἐλθὼν εὐηγγελίσατο εἰρήνην ὑμῖν τοῖς μακρὰν καὶ εἰρήνην τοῖς ἐγγύς, lett. «Ed essendo venuto
annunciò pace a voi a quelli che (eravate) lontano, e pace a quelli che (erano) vicino»).
- Egli è venuto ad annunciare pace (καὶ ἐλθὼν εὐηγγελίσατο εἰρήνην). I verbi sono: aor. part. di ἔρχομαι
«vengo»; aor. ind. di εὐαγγελίζω «annuncio buone notizie». A partire dal mistero pasquale di Cristo, si
comprende l'intera sua vita come creatrice di pace e di riconciliazione. Il contesto impone di considerare la
morte come culmine di tale opera. Così facendo si giunge a indicare nell'opera di pacificazione il compito
fondamentale di Cristo, fatto che permette la qualifica del vangelo, come εὐαγγέλιον τῆς εἰρήνης «vangelo
della pace» (Ef 6,15). L'avverbio ἐγγύς «vicino, presso», contrario di μακράν «lontano», non si riferisce ai
pagani divenuti credenti (cf v. 13), ma al popolo eletto (v. 12). Nonostante questo, anche i vicini
necessitavano dell'intervento di Cristo, per poter godere della comunione con lui. Si può parlare di
argomentazione di tipo «midrashico».
2,18: Per mezzo di lui infatti possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo
Spirito (ὅτι δι' αὐτοῦ ἔχομεν τὴν προσαγωγὴν οἱ ἀμφότεροι ἐν ἑνὶ πνεύματι πρὸς τὸν πατέρα, lett.
«poiché attraverso di lui abbiamo l'accesso entrambi in un (solo) Spirito al Padre»).
- Per mezzo di lui infatti possiamo presentarci (ὅτι δι' αὐτοῦ ἔχομεν τὴν προσαγωγὴν). Il verbo è pres. ind. di
ἔχω «ho». Il termine προσαγωγή, ῆς, ἡ «l'avvicinarsi, accesso» è sst.dvb. di προσάγω «faccio avvicinare,
conduco, presento». Questo versetto, introdotto da un ὅτι causale, funge da fondamento al versetto
precedente: per mezzo di Cristo, artefice della pace, abbiamo accesso al Padre. L'unità ecclesiale non deriva
dalla fusione di un gruppo nell'altro, né dal compromesso tra varie culture. Infatti, l'agg. e il prn.
ἀμφότεροι, αι, α «ambedue, entrambi», plurale di ἀμφότερος, -α, -ον «l'un l'altro, nel NT solo plr.», segnala
che i due gruppi rimangono tali, quindi non uniformati, ma distinti. La comunione ecclesiale è garantita
dalla mediazione di Cristo e rende su questo piano irrilevanti le distinzioni etniche. Si afferma qui la
vocazione eterna dell'umanità: essere nell'amore davanti al Padre (Ef 1,4).
- in un solo Spirito (ἐν ἑνὶ πνεύματι). L'agg. εἷς, μία, ἕν «uno, unico, solo» è associato al πνεῦμα «spirito»
(379x nel NT; 14x in Ef). Di quale spirito si parla? Dello Spirito Santo o dello spirito ecclesiale? Essendo in
parallelo con il sintagma ἐν ἑνὶ σώματι «in un solo corpo» (v. 16), che designa la Chiesa, l'espressione si
collocherebbe sulla medesima significazione ecclesiale. D'altra parte non si può escludere che, in continuità
con l'andamento trinitario dell'euloghia di 1,3-14 e con la menzione dello Spirito al v. 22, si voglia richiamare
proprio lo Spirito Santo. Entrambe le soluzioni sono quindi sostenibili. In un brano marcatamente
cristologico possiamo apprezzare il richiamo alla Trinità.
Riconciliazione in Cristo (2,13-18). νυνὶ δὲ «ora invece» (2,13) le cose non stanno più così,
dal momento che Cristo ha eliminato le divisioni, perché grazie alla sua croce la lontananza dei pagani da
Israele e da Dio è stata superata. Egli poi non è semplicemente colui che fa opera di pacificazione tra pagani
e israeliti, ma è la pace per antonomasia (forse sulla scorta di alcuni testi messianici: Is 9,5; Mi 5,4). Il tema
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sta particolarmente a cuore all'autore, perché il termine εἰρήνη «pace» è ripetuto quattro volte. L'esclusione
dei pagani non è stata superata grazie alla loro incorporazione in Israele, ma per il fatto che entrambi pagani e giudei - sono divenuti una realtà inedita, sovraetnica. Il linguaggio è rivelatorio: l'autore descrive
l'esito della riconciliazione in modi diversi: ἓν «una sola cosa» (v. 14), ἕνα καινὸν ἄνθρωπον «un solo uomo
nuovo» (v. 15), ἐν ἑνὶ σώματι «in un solo corpo» (v. 16), evitando accuratamente di usare la formulazione
«popolo nuovo». L'argomentazione svolge una pars destruens, in cui Cristo distrugge ogni elemento di
demarcazione etnico-religiosa, annullandone qualsiasi efficacia discriminante: viene demolito il «muro
divisorio» (v. 14), abolita la «legge» (v. 15), uccisa l'«ostilità» (v. 14) e una construens, in cui Cristo crea la
realtà nuova riconciliata: «fare» una cosa sola (v.14), «creare» l'uomo nuovo (v. 15), «riconciliare» in un solo
corpo (v. 16). Curiosa l'assenza di qualsiasi accenno alla risurrezione: è con la morte che Cristo opera la
riconciliazione, uccidendo la stessa inimicizia. La riflessione staurologica (relativa al σταυρός «croce»)
arriva qui a maturazione, perché la morte stessa di Cristo esprime la forza attiva della creazione: trasforma
due popoli, trascende le loro distinzioni etniche e sociologiche e crea l'uomo nuovo, cioè la Chiesa.
La sequenza dell'argomentazione segue uno schema fisso lungo tutta la pericope: il passaggio da due a
uno:
azione
dualità
unità
2,14 ha fatto
dei due
una sola cosa
2,15 per creare
dei due
un solo uomo nuovo
2,16 riconciliare
entrambi
in un solo corpo
2,18 abbiamo accesso entrambi
in un solo spirito
Alcuni autori hanno ipotizzato che per lo stile solenne e la cadenza ritmica dietro ai vv. 14-16 (o 1418) ci sia una composizione innica precedente alla stesura della lettera. Altri riconoscono un elogio a Cristo
pacificatore elaborato dall'autore stesso.
L'abrogazione della Legge e la creazione dell'uomo nuovo (2,15-16). L'affermazione più ardita, che non si
ritrova nelle ὁμολογούμενα, homologoúmena, cioè le lettere autentiche di Paolo, è l'abrogazione della Legge
(cf Rm 3,31; 7,4.6; Gal 2,19; Eb 7,18). L'autore ha in mente la Legge mosaica che come complesso sistema di
regole è soppiantata dalla salvezza di Cristo. Ora la via per l'accesso a Dio non è più la Legge ma Cristo (cf
2,18). Essa è espunta come motivo di distinzione e di conflitto non in quanto tale (nella lettera ci sono
alcune citazioni esplicite e diversi richiami all'AT, che rimane dunque normativo per la fede cristiana; cf
1,22; 4,8; 5,31; 6,2-3).
L'autore non si limita ad affermare l'azione riconciliatrice di Cristo, ma la dipinge con il linguaggio
protologico della creazione (la protologia è il discorso relativo alle origini), e, più precisamente con
espressioni che riecheggiano la creazione di Adamo. Cristo trae da due popoli la Chiesa, come Dio ha tratto
dalla terra il primo uomo. Cosicché dall'alto della croce Cristo è creatore dell'umanità nuova, riconciliata.
Si tratta di un riconoscimento altissimo, che attribuisce a Cristo un'attività esclusiva di Dio: è una delle
prove di quel fenomeno presente in Efesini che va sotto il nome di teologizzazione della cristologia: la figura
di Cristo assume sempre più le prerogative di Dio.
Venendo ha annunciato pace (2,17). L'annuncio della pace riecheggia i passi di Is 52,7 e 57,19, dei quali i
presenti versetti si profilano come un midraš
midraš cristiano (una spiegazione di testi dell'AT alla luce di Cristo).
Ma di quale venuta si tratta? Quando Cristo con il suo arrivo ha annunciato la pace? Molteplici sono le
soluzioni ipotizzate, ma nessuna è risolutiva. Cristo si è fatto vicino all'umanità per realizzare la nuova
realtà ecclesiale, creata in Lui e a partire da Lui.
Accesso (2,18). Lo scopo dell'opera di Cristo è che entrambi i gruppi potessero avere προσαγωγή
«accesso» al Padre. Tale linguaggio proviene dall'esperienza cultuale: ora la via attraverso la quale entrambi
possono presentarsi davanti a Dio è Cristo.
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Il vangelo (Mc 6,30-34) ci parla della compassione di Gesù, Pastore che si prende cura di un gregge
disorientato.
Mc 6,30: Gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano
fatto e quello che avevano insegnato (Καὶ συνάγονται οἱ ἀπόστολοι πρὸς τὸν Ἰησοῦν καὶ
ἀπήγγειλαν αὐτῷ πάντα ὅσα ἐποίησαν καὶ ὅσα ἐδίδαξαν, lett. «E si radunano gli apostoli presso Gesù e
annunciano a lui tutte quante le cose che avevano fatto e quante avevano insegnato»).
- Gli apostoli si riunirono attorno a Gesù (Καὶ συνάγονται οἱ ἀπόστολοι πρὸς τὸν Ἰησοῦν). Il verbo è pres.
ind. di συνάγω «raduno, riunisco». Il termine ἀπόστολος, ου, ὁ «apostolo», escluso l'incerto uso in 3,14, resta
l'unico caso in cui Marco si avvale di questo sostantivo che sembra avere un significato che va oltre il
concetto di «inviato» legato al verbo ἀποστέλλω «invio, mando», impiegato in 6,7. Del resto, il sostantivo nel
greco classico ha raramente il significato di «inviato», mentre siamo a conoscenza del forte uso che Paolo ne
fa per indicare persone totalmente coinvolte nel Vangelo. L'utilizzo marciano sembra andare in questa
direzione, successivamente ripreso ed enfatizzato da Luca che assocerà strettamente il titolo di «apostolo»
(79x nel NT; 6x in Lc; 28x in At) ai Dodici.
- e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato (καὶ ἀπήγγειλαν αὐτῷ πάντα ὅσα
ἐποίησαν καὶ ὅσα ἐδίδαξαν). I verbi sono: aor. ind. di ἀπαγγέλλω «rispondo, faccio sapere, riferisco»; aor.
ind. di ποιέω «faccio»; aor. ind. di διδάσκω «insegno». Questo versetto riassume ciò che per Marco è
l'essenza dell'essere discepoli: stare con Gesù e fare le cose che fa Gesù, insegnare e compiere prodigi (cf
1,16-20; 3,7-12).
6,31: Ed egli disse loro: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un
po’». Erano infatti molti quelli che andavano e venivano e non avevano neanche il tempo
di mangiare (καὶ λέγει αὐτοῖς• δεῦτε ὑμεῖς αὐτοὶ κατ' ἰδίαν εἰς ἔρημον τόπον καὶ ἀναπαύσασθε
ὀλίγον. ἦσαν γὰρ οἱ ἐρχόμενοι καὶ οἱ ὑπάγοντες πολλοί, καὶ οὐδὲ φαγεῖν εὐκαίρουν, lett. «E dice a loro:
Venite voi stessi in disparte in un solitario luogo e riposatevi un po'. Erano infatti gli andanti e i venienti molti, e neppure per
mangiare avevano il tempo»).
- Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto (δεῦτε ὑμεῖς αὐτοὶ κατ' ἰδίαν εἰς ἔρημον τόπον).
L'interiezione δεῦτε «su, suvvìa» è composta dall'avv. δεῦρο e dal verbo ἴτε (impt. pres. 2pl. di εἶμι «vado,
vengo»). Può essere usata con valore verbale, in tal caso significa «venite!». L'agg. ἔρημος, ον «deserto, vuoto,
desolato» qui ha il significato di «solitario». Marco ama ribadire i concetti con termini diversi. Il luogo solitario
ricorda le località ove Giovanni Battista chiamava alla conversione (1,3-5), nonché il luogo dove Gesù si
ritirava a pregare (1,35.45).
- riposatevi un po' (ἀναπαύσασθε ὀλίγον). Il verbo è aor. impt. med. di ἀναπαύω «do riposo, ristoro,
refrigerio, med. mi riposo, sosto, mi fermo». Richiama il Sal 22,2 LXX dove il Signore, come buon pastore, fa
riposare il salmista ἐπὶ ὕδατος ἀναπαύσεως «ad acque tranquille» (lett. «acqua di ristoro»). Il «riposo» è anche
il termine usato per la terra promessa al popolo, dopo la peregrinazione nel deserto. In Mt 11,28-29 Gesù
esorta: 28 δεῦτε πρός με πάντες οἱ κοπιῶντες καὶ πεφορτισμένοι κἀγὼ, ἀναπαύσω ὑμᾶς. 29ἄρατε τὸν
ζυγόν μου ἐφ' ὑμᾶς καὶ μάθετε ἀπ' ἐμοῦ, ὅτι πραΰς εἰμι καὶ ταπεινὸς τῇ καρδίᾳ καὶ εὑρήσετε
ἀνάπαυσιν ταῖς ψυχαῖς ὑμῶν «28Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. 29Prendete
il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita».
L'autore di Ebrei a sua volta esorta: σπουδάσωμεν οὖν εἰσελθεῖν εἰς ἐκείνην τὴν κατάπαυσιν, ἵνα μὴ ἐν
τῷ αὐτῷ τις ὑποδείγματι πέσῃ τῆς ἀπειθείας «Affrettiamoci dunque a entrare in quel riposo, perché nessuno
cada nello stesso tipo di disobbedienza» (Eb 4,11).
- Erano infatti molti quelli che andavano e venivano (ἦσαν γὰρ οἱ ἐρχόμενοι καὶ οἱ ὑπάγοντες πολλοί). I
verbi sono: pres. part. di ἔρχομαι «vengo, arrivo»; pres. part. di ὑπάγω «parto, mi ritiro, me ne vado». La
presenza di grandi folle, che impediscono ai discepoli perfino di mangiare, riprende 3,20 e ribadisce il
motivo che Gesù è oberato dalla folla (2,4.13; 3,9.32; 4,1.36; 5,21.24.30-32). Per ironia della sorte, tale folla lo
rifiuterà durante la passione (14,43; 15,8.11.15).
- non avevano neanche il tempo di mangiare (καὶ οὐδὲ φαγεῖν εὐκαίρουν). I verbi sono: aor. inf. di φάγω /
ἐσθίω «mangio»; impf. ind. di εὐκαιρέω «ho il tempo, l'opportunità». Associata in genere ai Dodici e a Gesù,
questa espressione di fatto potrebbe riferirsi anche alle folle. L'accenno esplicito al «mangiare» preannuncia
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l'episodio successivo nel quale, ironicamente, i discepoli non mangeranno ma serviranno il cibo agli
affamati.
6,32: Allora andarono con la barca verso un luogo deserto, in disparte (καὶ ἀπῆλθον ἐν τῷ
πλοίῳ εἰς ἔρημον τόπον κατ' ἰδίαν, lett. «E partirono nella barca verso un solitario luogo in disparte»).
- Allora andarono con la barca (καὶ ἀπῆλθον ἐν τῷ πλοίῳ). Il verbo è aor. ind. di ἀπέρχομαι «me ne vado, mi
allontano». Il termine πλοῖον, ου, τό «imbarcazione, barca, nave» deriva dal verbo πλέω «faccio vela, navigo».
- verso un luogo deserto (εἰς ἔρημον τόπον). Come già affermato nel v. 31, Gesù amava i luoghi solitari per
favorire un giusto riposo e godere del silenzio. Questo «viaggio in barca» è il terzo in Marco (cf 4,35-5,1; 5,2122) e si svolge lungo la riva occidentale del lago. Marco non nomina nessuna località specifica, mentre Luca
9,10 lo colloca vicino a Betsaida, mentre per Giovanni 6,23 si trova vicino a Tiberiade.
- in disparte (κατ' ἰδίαν). Questa espressione è usata in riferimento a istruzioni private (4,34; 9,28; 13,3) o a
rivelazioni fatte da Gesù ai suoi discepoli. Qui il ritiro è di breve durata e non viene data nessuna istruzione.
6,33: Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città accorsero là a piedi e li
precedettero (καὶ εἶδον αὐτοὺς ὑπάγοντας καὶ ἐπέγνωσαν πολλοί καὶ πεζῇ ἀπὸ πασῶν τῶν πόλεων
συνέδραμον ἐκεῖ καὶ προῆλθον αὐτούς, lett. «E videro loro partenti e capirono molti e a piedi da tutte le città corsero
insieme là e precedettero loro»).
- Molti però li videro partire e capirono (καὶ εἶδον αὐτοὺς ὑπάγοντας καὶ ἐπέγνωσαν πολλοί). I verbi sono:
aor. ind. di ὁράω «vedo»; pres. part. di ὑπάγω «parto, mi ritiro, me ne vado»; aor. ind. di ἐπιγινώσκω
«capisco, mi rendo conto, comprendo». Questo è un altro esempio in cui il desiderio di Gesù di rimanere da solo
viene sacrificato (cf 1,44-45; 5,20; 7,24.36).
- da tutte le città accorsero là a piedi (καὶ πεζῇ ἀπὸ πασῶν τῶν πόλεων συνέδραμον ἐκεῖ). Il verbo è aor.
ind. di συντρέχω «accorro, mi raduno». Secondo alcuni commentatori il viaggio in barca del v. 32 sarebbe per
passare alla sponda opposta del lago, ma il viaggio a piedi della gente che raggiunge e precede l'arrivo della
barca rende questa ipotesi alquanto improbabile. Marco usa il termine πόλις, εως, ἡ «città» in senso
improprio per indicare i luoghi abitati. Solo Gerusalemme merita di essere chiamata «città» (11,19).
- e li precedettero (καὶ προῆλθον αὐτούς). Il verbo è aor. ind. di προέρχομαι «precedo, precorro». Il fatto che
la gente, a piedi, riesca ad arrivare in anticipo sul luogo dove erano diretti Gesù e i discepoli, ha creato
problema ai copisti che sono intervenuti proponendo varianti testuali che, tuttavia, sono poco attestate e
complicano ulteriormente la narrazione. I cambiamenti più significativi consistono nel sostituire il plurale
προῆλθον αὐτούς, che ha per soggetto le folle, con il singolare προσῆλθεν αὐτούς «li raggiunse» o
συνῆλθεν αὐτούς «giunse insieme a loro» che ha per soggetto Gesù.
6,34: Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano
come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose (καὶ ἐξελθὼν
εἶδεν πολὺν ὄχλον καὶ ἐσπλαγχνίσθη ἐπ' αὐτοὺς ὅτι ἦσαν ὡς πρόβατα μὴ ἔχοντα ποιμένα, καὶ ἤρξατο
διδάσκειν αὐτοὺς πολλά, lett. «Ed essendo uscito (dalla barca) vide molta folla ed ebbe compassione per loro, perché
erano come pecore non aventi pastore, e incominciò a insegnare loro molte cose»).
- Sceso dalla barca, egli vide una grande folla (καὶ ἐξελθὼν εἶδεν πολὺν ὄχλον). I verbi sono: aor. part. di
ἐξέρχομαι «esco, vado»; aor. ind. di ὁράω «vedo».
- ebbe compassione di loro (ἐσπλαγχνίσθη ἐπ' αὐτοὺς). Il verbo è aor. ind. pass. di σπλαγχνίζομαι «mi
muovo a pietà, mi commuovo, ho compassione». Nel NT si usa solo la forma passiva e metaforica di
σπλαγχνίζω «mangio le viscere delle vittime dopo il sacrificio», vrb.dnm. di σπλάγχνον, σπλαγχνου, τό
«interiora, viscere» (del torace: cuore, polmoni, fegato, reni, milza) che nei sacrifici venivano mangiate
all'inizio del banchetto da chi compiva il sacrificio. Nel NT solo pl. e metaforico σπλάγχνα, σπλάγχνων,
τά «viscere, misericordia, compassione» (cf Mc 1,41; 8,2; 9,22). È usato nel NT esclusivamente dai Sinottici e
sempre in riferimento a Gesù o a Dio, per indicare il profondo coinvolgimento nella condizione sofferta
dell'uomo. Il termine greco σπλάγχνα è sinonimo di οἰκτιρμός, οῦ, ὁ «pietà, compassione, misericordia»
(Rom 12,1), sst. dvb. di οἰκτείρω «ho pietà, ho compassione». Altro sinonimo è il verbo ἐλεέω «ho compassione,
misericordia» (Mt 5,7; 9,27; 1Cor 7,25). In ebraico troviamo i termini raHûm wüHannûn,
wüHannûn, «pietoso e misericordioso»
(Es 34,6); raHam «avere compassione»; raHámim «viscere, utero, misericordia» per definire le qualità più grandi di
Dio. La «compassione» è il ponte tra la simpatia e l'azione (cf Lc 10,33; 15,20).
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- perché erano come pecore che non hanno pastore (ὅτι ἦσαν ὡς πρόβατα μὴ ἔχοντα ποιμένα). Questa
immagine ricorda Israele che ha bisogno di protezione e di guida (Nm 27,17; 1Re 22,17; 2Cr 18,16). Dio è
anche il pastore d'Israele (Zc 11,17), come lo è il re, il vice-reggente di Dio (Ez 34,15. 23). Isaia scrive: «Come
un pastore egli fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna; porta gli agnellini sul petto e conduce dolcemente le
pecore madri» (Is 40,11).
- e si mise a insegnare loro molte cose (καὶ ἤρξατο διδάσκειν αὐτοὺς πολλά). I verbi sono: aor. ind. med. di
ἄρχομαι «comincio, inizio»; pres. inf. di διδάσκω «insegno». L'insegnare e il dar da mangiare non sono in
opposizione tra loro, poiché il mangiare e bere spesso simboleggiano il dono della sapienza (Sir 15,3;
24,19-21; Pr 9,5). Giovanni 6,35-50 contiene l'esposizione più completa nel NT di questo motivo.
- molte cose (πολλά). Il termine può essere inteso sia come complemento oggetto «molte cose» sia come
avverbio «a lungo, insistentemente». Quest'ultimo impiego è ricorrente in Marco (3,12; 5,10.23.26.38.43; 6,23).
Tenendo presente il contesto della narrazione (cf il v. 35: καὶ ἤδη ὥρας πολλῆς γενομένης «essendosi fatto
tardi»), sembra che tale significato sia da preferirsi.
Come pecore senza pastore (vv. 30-34). La nostra pericope rappresenta l'introduzione alla
prima moltiplicazione dei pani narrata da Marco. Essa si ricollega a ciò che precede, cioè all'invio dei
Dodici in missione (cf 6,7-13). Il termine οἱ ἀπόστολοι «gli apostoli» (v. 30) richiama la missione loro
affidata al v. 7. Da un lato i discepoli «escono» per svolgere tale incarico (v. 12), dall'altro Gesù «esce» per un
prolungato insegnamento alle folle (v. 34). πολλὰ «molti» sono i demoni che i Dodici hanno scacciato e
πολλοὺς «molti» i malati che hanno sanato (v. 13), πολὺν «molta» (cioè «numerosa») la folla che il Maestro
vede quando sbarca e πολλά «molto» il tempo che dedicherà ad essa.
Nonostante l'apparente successo dei Dodici, qualcosa lascia intendere che le folle non hanno ancora
trovato quello che realmente cercano: il loro movimento resta confuso, caratterizzato da un viavai continuo
e la descrizione che Gesù ne fa, cogliendovi un gregge di pecore senza un punto di riferimento, suggerisce
che il lavoro da fare è ancora lungo. L'immagine delle «pecore che non hanno pastore» (v. 34) viene usata
nell'AT sia per stigmatizzare l'irresponsabilità delle guide del popolo (cf Ez 34,8; Zc 10,12), sia per descrivere
lo sbandamento di quest'ultimo (cf Nm 27,17; 1Re 22,17). L'evangelista, identificando la folla ὡς πρόβατα
μὴ ἔχοντα ποιμένα «come pecore che non hanno pastore», pensa alle autorità politiche ma anche ai Dodici che
alla folla hanno offerto dei miracoli, ma non risposte soddisfacenti. Gesù si lascia prendere da un
movimento di profonda compassione, mentre i discepoli rimangono semplici spettatori.
Partiti per andare in disparte, in un luogo deserto, e riposarsi un poco (v. 31), sembrano totalmente
delusi nelle loro attese. Era stato loro promesso «riposo» e «solitudine» (v. 31) e ora si trovano in un «posto
isolato» (v. 35) di fronte a una folla di cui sono invitati a farsi carico, proprio come Gesù stesso. Il riposo
che il Maestro offre loro è quello che sgorga dalla capacità di farsi realmente carico delle necessità e del
disorientamento della folla. In tal senso il testo marciano si avvicina all'interpretazione che ne farà Mt 11,2830, dove «riposo» e assunzione del «giogo» costituiscono un tutt'uno per coloro che si propongono di
seguire Gesù.
L'espressione «come pecore che non hanno pastore» è fortemente biblica, con possibili allusioni alle tre
parti del Tanakh (Torah, Profeti, Scritti). Il riferimento alla Torah è certamente di gran lunga quello più
importante, ma neanche il resto manca di pertinenza per la comprensione del passo di Marco.
1. Mosè ha appreso che non potrà entrare nella terra che vede dall'alto del monte degli Avarim.
Mosè disse al Signore: «Il Signore, il Dio della vita di ogni essere vivente, metta a capo di questa comunità un
uomo che li preceda nell'uscire e nel tornare, li faccia uscire e li faccia tornare, perché la comunità del
Signore non sia un gregge senza pastore». Il Signore disse a Mosè: «Prenditi Giosuè, figlio di Nun, uomo in cui
è lo spirito; porrai la mano su di lui (Nm 27,15-18). È nel momento in cui viene menzionato il successore di
Mosè, colui che porta il nome di Iēsoũs in greco, che le Scritture parlano per la prima volta di un
«gregge senza pastore». La domanda sull'identità di Gesù riceve una prima risposta.
2. I profeti annunciano la venuta di un pastore che come una figura escatologica e messianica si
sostituirà ai capi e alle autorità esistenti, sia politiche che religiose. Ez 34,5-6: Per colpa del pastore si sono
disperse e sono preda di tutte le bestie selvatiche: sono sbandate. Vanno errando le mie pecore su tutti i monti
e su ogni colle elevato, le mie pecore si disperdono su tutto il territorio del paese e nessuno va in cerca di loro
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e se ne cura (cf 34,23-31; 37,24). Zc 10,2: vagano come un gregge, sono oppressi, perché senza pastore. Ger
23,4: Costituirò sopra di esse pastori che le faranno pascolare, così che non dovranno più temere né
sgomentarsi; non ne mancherà neppure una. Oracolo del Signore. Acab, re di Israele, volendo partecipare
alla guerra insieme a Giosafat, re di Giuda, chiede conferma al profeta Michea che annuncia: «Vedo tutti gli
Israeliti vagare sui monti come pecore che non hanno pastore. Il Signore dice: “Questi non hanno padrone;
ognuno torni a casa sua in pace!”» (1Re 22,17; cf 2Cr 18,16). Questo passo non è privo di incidenze sul
testo di Marco che segue, dove si vedranno i discepoli dare lo stesso consiglio del profeta: «Rimanda
quindi questa gente a casa». Se Dio è il loro signore e Gesù il loro vero pastore, non c'è motivo di mandarli
via, ed essi hanno comunque un maestro in questa fase della loro storia.
3. Nel libro di Giuditta si parla di Oloferne («fortunato»), generale delegato da Nabucodònosor
(presentato come assiro, ma in realtà babilonese) che, dopo aver conquistato vari territori, assediò Betùlia
e Betomestàim in Giudea. Durante l'assedio Giuditta («giudea»), donna famosa per la sua intelligenza, si
introdusse nell'accampamento dicendo di aver tradito il suo popolo e dopo averlo ubriacato lo decapitò
lasciando l'esercito assiro senza comandante. Giuditta con ironia si rivolge così a Oloferne: Io ti guiderò
attraverso la Giudea, finché giungerò davanti a Gerusalemme e in mezzo vi porrò il tuo seggio. Tu li
condurrai via come pecore senza pastore e nemmeno un cane abbaierà davanti a te. Queste cose mi sono
state dette secondo la mia preveggenza, mi sono state annunciate e ho ricevuto l’incarico di comunicarle a
te» (Gdt 11,19).
Le Scritture assicurano che Dio si prende sempre cura del suo popolo e non permetterà che il suo
gregge si disperda nel deserto o sui monti senza pastore. L'attesa messianica ha confermato l'idea di un
pastore che verrà a ristabilire unità, sicurezza e pace per il popolo disperso.
Il racconto dei pani moltiplicati inizia (6,30-34) rilevando il contrasto tra il desiderio di solitudine di
Gesù e la sua preoccupazione per la grande massa di gente che accorre «da tutte le città» (6,33). Visto che la
folla impedisce a Gesù e ai suoi discepoli di godersi la solitudine che avevano cercato (6,31), la reazione di
compassione provata da Gesù è sorprendente (v. 34). Questo è un esempio dell'attenzione che Marco ha nel
riportare le forti emozioni di Gesù. La compassione non è motivata dalla fame della folla, ma dal
constatare che la gente è come un gregge senza pastore. La prima risposta che Gesù offre è «insegnare
molte cose», cioè dare alla folla un cibo spirituale, la sapienza (cf Pr 9,5; Sir 15,3; 24,19). I lettori di Marco
sono chiamati a rendersi conto che l'insegnamento di Gesù è importante per la vita quanto il pane nel
deserto.
In conclusione, la Chiesa che si avvale del nome di Gesù deve essere preoccupata della fame sia
spirituale che corporale della gente di oggi. Il Concilio Vaticano II coglie appieno questa doppia
dimensione del racconto quando parla dell'Eucaristia come di una duplice tavola «della parola di Dio e del
corpo di Cristo» (Dei Verbum 21).
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