Robert Wyatt, il pensator cortese
- Guido Festinese, 14.11.2015
Pagine/Esce la biografia del musicista inglese, fondatore dei Soft Machine. In «Different
Every Time» Marcus O’Dair affronta opere e vicende personali di un artista che dagli anni Sessanta
a oggi ha attraversato un’Inghilterra in continua mutazione
Cè una foto assai famosa, tra i fan di Robert Wyatt, che è stata riprodotta moltissime volte su
giornali e riviste, e sempre strappa un sorriso inquieto. Fu usata dalla Virgin per promuove Ruth Is
Stranger than Richard, uno dei grandi dischi solisti del musicista inglese negli anni Settanta. Si vede
una vecchia sedia a rotelle, e sulla sedia con un ghigno ironico da Stregatto del Cheshire siede
Robert Wyatt con indosso una veste indiana molto freak, i capelli lunghi, la barba brada. Accanto ha
la compagna di (quasi) una vita, Alfreda Benge, pittrice, illustratrice, e molto altro ancora, presidio
dolce e feroce assieme della vita privata di Wyatt da quando le gambe sono diventate due cose inerti,
a penzolare nei ciabattoni. Alfreda Benge detta «Alfie» ha lo stesso sorriso del compagno, e un
coltellaccio da cucina in mano, la punta verso il cielo come unimprobabile killer. Cè tutta la storia di
Wyatt in quella foto struggente da angelo rosso in catene, il canterburyano che vola più in alto di
tutti, sempre, perché le gambe si possono sostituire con le ali di una fantasia possente e motivata.
Ci vorrebbe John Berger e il suo acume nello svelare quanto dicono davvero le immagini per
decrittarla in ogni significato. Ad esempio: lironia, la voglia aguzza di aderire alla realtà con gli
strumenti di un marxismo non solo mai rinnegato, ma sempre rivendicato come attrezzo
indispensabile per non cadere nei tranelli liberali e liberisti dei potenti mascherati da pari
opportunità per tutti. I due volti che si assomigliano, perché le persone che vivono tanto assieme
nell’amore finiscono per assomigliarsi. E cè il segnale, in quelle vesti colorate, di non aver mai
abdicato al sogno «in rosa e grigio», come dicevano i Caravan, di una società più colorata, più giusta,
più aperta a stupori infantili, più generosa con la gente del terzo e quarto mondo che bussa alle
porte del primo. Foto belle così ne trovate a decine, a corredo iconografico necessario e
complementare di quanto ha scritto Marcus O’Dair in Different every Time/La biografia autorizzata
di Robert Wyatt (Giunti). Primo dato di fatto: Marcus O’Dair s’è imbarcato in un gioco quasi
impossibile, riuscire a scrivere una (corposa) biografia si Robert Wyatt dopo che, anche in Italia,
sono usciti diversi testi sull’angelo immobilizzato, uno su tutti, Wrong Movements, anno di grazia
2004. E c’era stato anche un lontano testo di Stampa alternativa, bonus un quarantacinque giri in
vinile rigorosamente rosso, brano contenuto: Chairman Mao.
Marcus O’Dair di Brighton è uno che non rivendica titoli per vanteria, ma i fatti della sua personale
biografia concorrono a farci apprezzare ancora di più questo libro in onore di un gigante gentile
delle note contemporanee: O’Dair è critico musicale, collaboratore della Bbc, insegna Popular Music
alla Middlesex University, ed è egli stesso musicista: per la precisione uno dei due Grasscut, quello
che maneggia tastiere e basso elettrico per dar vita ad un sostanzioso rock elettronico (tra l’altro
proprio questa sera i Grasscut chiuderanno il loro tour nel nostro paese con una performance alla
Corniceria del Valentino di Novara). Chi si aspettasse però un testo di dirompente novità, nel
mescolare le carte della biografia complessa di Robert Wyatt, sappia che sarà deluso.
E anche lo stile di scrittura di O’Dair, splendidamente reso dalla traduzione di Alessandro Achilli,
(uno specialista di musiche non convenzionali), è pacato, essenziale e illuminato qui e là di lampi
ironici molto british. Esattamente come la breve prefazione curata da uno scrittore inglese che
nell’humus musicale canterburyano è cresciuto, Jonathan Coe, che precisa: «Tremo al pensiero di
quello che avrebbero potuto essere gli ultimi decenni senza il continuo commento non allineato
fornito dalla musica e dai testi di Robert». O’Dair affronta dunque vita e opera di Robert Wyatt con
precisione certosina, in rigorosissimo ordine cronologico, imbastendo un continuo controcanto tra
l’uomo e il musicista, il pensatore gentile e feroce e l’ambiente sociale di un’Inghilterra in continua
mutazione, dalle rovine bombardate di Londra, dove con i suoi genitori beatnik ante litteram (che
neppure mettevano le tende alle finestre per evitare gli sguardi altrui) andava a giocare o disegnare,
all’oggi raggiunto dopo mille torsioni: etiche, sociali, di costume. Cruciali per il secolo breve: che
significa la scoperta del jazz in Inghilterra da parte dei ragazzi più giovani, l’avvento dell’era garage
e psichedelica e della Swingin’ London, il rock anni Sessanta che, colpo dopo colpo, svolta verso
forme sempre più colte e raffinate, al crocevia tra tutte le musiche possibili. E ancora il punk,
l’arrivo degli anni ringhiosi della signora d’acciaio Thatcher in guerra contro ogni dissidenza politica
antiliberistica, lo sgretolamento dei tradizionali blocchi storici politici, il presente delle città
multietniche e del precariato. E mille forme di musica d’oggi che convivono spesso guardandosi a
distanza, o ibridandosi in formule inedite.
Naturalmente, e con saggezza, la narrazione è stata divisa in due ampie campiture, che
corrispondono poi alla realtà dei fatti. Perché c’è un Wyatt prima dell’incidente, e un Wyatt dopo
l’incidente che lo inchioda sulla sedia, ma lo libera da molti demoni «dentro». La prima storia, che
arriva alle soglie di quel terribile 1 giugno 1973, quando Wyatt vola giù ubriaco da un quarto piano
senza neppure accorgersene, è quella di un bambino che sembra un simbolo della pubblicità antica:
biondo, bello e sveglio (lo testimonia il fratello Julian Wyatt, peraltro attore in Guerre stellari, Harry
Potter e Il trono di spade!), nato nel ’45 da una colta e battagliera giornalista e conduttrice
radiofonica inglese che aveva seguito il conflitto. Con quell’umorismo sottile e dolcissimo che lo
accompagnerà quasi sempre, nella vita, Wyatt sostiene che il fatto di essere sopravvissuto a
un’infezione che potrebbe avergli leso l’emisfero sinistro, quello della razionalità, ha fatto di lui una
persona che «vive da sempre nel mondo dei sogni». E che di giorno si sveglia soltanto «per il tempo
sufficiente a ingurgitare un bel po’ di cibo e poi cercare di riaddormentarmi».
Wyatt cresce con un padre adottivo magnifico, George Ellidge, socialista, psicologo, esperto di jazz,
adoratore dell’umorismo nonsense e dei calembour, amore che trasmetterà pari pari a Wyatt. Fatto
piuttosto inquietante e premonitore, Ellidge passa gli ultimi anni su una sedia a rotelle, per la
sclerosi multipla. E Robert si abitua subito a capire quel mondo visto ad altezza bambino. E così
comincia a delinearsi una personalità già complessa: Robert Wyatt cresce libero e felice, orientato
naturalmente a sinistra, e sempre in singolare equilibrismo fra coerenza sociale e libera divagazione
fantastica, così come la sua musica sarà sempre un gioco d’equilibrio fra filastrocca infantile
nonsense e jazz scontornato dalle rigidità di genere, canzone pop affrontata con una tenerezza
sovrumana e pura avanguardia patafisica. Dice Jonathan Coe nella prefazione: «Una volta Robert ha
detto che non ha nulla contro le canzoni senza senso, perché quando ne hanno è più spesso che no
un senso che a lui non piace».
In Inghilterra, nella prima metà dei Sessanta, arrivano stimoli d’ogni genere, Robert da un viaggio a
Parigi si porta dietro (e installa a casa sua, genitori benedicenti) George Neidorf, batterista jazz
californiano che sarà anche il suo primo vero insegnante. E poi cominciano le bizzarrie sonore
«canterburyane» (siamo a un centinaio di chilometri da Londra) con altri ragazzotti assai spigliati,
per l’epoca. Uno è l’australiano Daevid Allen, che già ragazzo (ma con qualche anno in più) è
l’incarnazione proto-freak di quello che sarà il gran cerimoniere dei «fumatissimi» Gong, peraltro
conoscendo alla perfezione, invece, storia e protagonisti del jazz, l’altro è Kevin Ayers, talentaccio a
scrivere canzoni surreali con il suo vocione da baritono, in pratica il rovescio esatto dell’esilissimo
tenore quasi infantile di Wyatt.
I marcatori cronologici ci dicono di un Allen Trio, dei Wilde Flowers, e poi, finalmente, della nascita
dei Soft Machine. Sotto la guida di Wyatt, seduto seminudo dietro la batteria e con un microfono
davanti per cantare misteriosi vocalizzi o versi che sembrano sbalzati fuori da Alice nel paese delle
meraviglie sono una creatura musicale ben diversa da quello che sarà il gruppo nelle mani di
Ratledge e Hopper, gelidi propugnatori di una svolta «jazz» che non tenga in conto i colori vocali e
imprevedibilità di Wyatt. Invece Wyatt è l’uomo che ha ascoltato il jazz e suona alle soglie del «free»,
ma non vuole perdere la comunicativa «pop». Sta di fatto che, tra il ’67 e il ’68, Wyatt si trova
catapultato in un mondo che si chiama Londra, Ufo Club, dove i Soft Machine sono il pendant più
jazz di altri gruppi primitivi e meravigliosi, come gli sconosciuti Pink Floyd, oppure, per gioco della
sorte, i Soft Machine che non hanno neppure un disco nei negozi si trovano a spalleggiate un titano
neroamericano in crescita esponenziale come Jimi Hendrix: che con Wyatt avrà una bella e vera
amicizia. Però a un certo punto il diavolo dell’alcol comincia ad assediare e obnubilare il sempre più
insicuro Wyatt, che non sa più come indirizzare la «macchina morbida» la navicella Soft, e alla fine il
cantante-batterista si trova fuori dal gruppo. Poi arriva l’incidente,è il primo di giugno del 1973,
Wyatt e Alfie sono a casa di June Campbell-Crame, poetessa e artista a tutto campo, per una festa di
compleanno. Wyatt resta vivo perché, spiegheranno i medici, il fiume d’alcol che ha in corpo ha
rilassato il corpo durante la caduta. A ventotto anni Robert è su una sedia a rotelle. Non potrà mai
più premere a tempo sui pedali della grancassa o su quello del charleston della batteria. Fine del
batterista, nascita del Wyatt musicista a tutto campo. Gli danno una mano anche i Pink Floyd, vecchi
amici: Live for a Friend si chiama il concerto che fanno per raccogliere fondi. Lui è e in ospedale,
inchiodato a letto, si canta e ricanta dentro la testa quaranta minuti di musica che lo calmano e lo
rilassano, e lega il tutto a un’immagine che lo rassicura. Quella di essere in fondo al mare, in una
sorta di amniotico parco subacqueo. È il Rock Bottom, il fondo del rock che darà titolo al suo disco
solistico capolavoro. E si noti l’ironia esercitata anche in mezzo alla tragedia: perché Rock Bottom
può voler dire qualcosa come «il fondale di roccia», ma anche «culo di pietra», o il «fondo possibile
del rock», oltre i limiti dell’apparente semplicità del genere. Così è il disco che precisa, una volta per
sempre, la nascita dell’altro Wyatt, il saggio signore paraplegico e sorridente che non ha perso
un’oncia della sua radicalità, e che si ripete: «Come poteva qualcun altro suonare quello che avevo
in testa? Dovevo farlo io».
Quarantadue anni dopo, continua a farlo. Da solo, una collana di dischi uno più bello dellaltro. Dando
una mano a chiunque gliela chieda per fare buona musica. L’ultimo esempio? È nel segno di
Canterbury, tanto per chiudere il cerchio. Robert Wyatt canta e suona la cornetta in Stream, il disco
«perduto» e appena ritrovato di Dave Sinclair, 2011. Non è citato neppure nella discografia di
Different Every Time. Omissione perdonata.
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