VII Rapporto sull`Economia Italiana

VII Rapporto sull’Economia Italiana (Roma, 11.07.2013: Prof. Sen. Mario Baldassarri & C.)
- Sintesi a cura di Pasquale Moliterni, Presidente ARDeP1. Nella crisi europea il Mistero della Finanza Pubblica Italiana
Dai dati storici e, soprattutto, dalle previsioni per i prossimi anni emerge che, comunque, la crescita
mondiale continuerà ad essere sostenuta, ma sarà “strutturalmente” più contenuta di quanto sperimentato
nel decennio passato.
Le tre maggiori economie del Mondo (Usa-Cina-Europa) non possono contemporaneamente basare le loro
potenzialità di crescita su un modello trainato dalle loro esportazioni. La Cina deve basare la sua crescita
futura su maggiore domanda interna e migliori standard di vita degli stessi cinesi; gli Stati Uniti devono
riequilibrare il loro eccessivo deficit e debito verso il resto del mondo abbandonando l’illusione che questo
possa essere ottenuto semplicemente svalutando il dollaro; l’Europa deve rivedere le proprie basi
istituzionali e rilanciare gli investimenti materiali ed immateriali accelerando ed approfondendo il processo
di integrazione europea verso gli Stati Uniti d’Europa.
Dentro la crisi europea appare ancor più strutturale ed evidente la crisi di crescita dell’economia italiana.
Da venti anni (ed anche nelle proiezioni oltre il 2020) l’economia italiana cresce “strutturalmente” meno
della media europea, che a sua volta cresce meno degli Stati Uniti e del resto del mondo. Occorre pertanto
chiedersi quali siano le cause strutturali che hanno portato l’economia italiana alla crescita zero ed ora
sottozero.
L’approfondimento di metodo riguarda una analisi sulla realtà contabile e di politica economica degli ultimi
anni dalla quale emerge “il Mistero”: dopo decenni di annunci di aumenti di tasse e tagli di spesa ci
ritroviamo con un deficit che non va mai a zero e comunque con il terzo debito pubblico del mondo, che ha
sfondato il livello di 2.000 miliardi di euro e veleggia oltre il 130% del Pil.
Dall’analisi emerge un circolo perverso che, attraverso il bilancio pubblico, produce un effetto a garrota
sull’economia reale portandola prima alla crescita zero ed ora a quella sottozero. Infatti, gli aumenti di
tasse sono sempre stati veri, i tagli di spesa sono sempre stati finti perché riferiti ai valori tendenziali futuri
ed hanno di fatto implicato continui aumenti storici della spesa. Pertanto deficit e debito sono sempre stati
fuori controllo e, a parità di deficit e di debito pubblico, la crescita e l’occupazione sono scivolate più o
meno lentamente verso lo zero ed il sottozero.
I dati storici degli ultimi due decenni mostrano come l’economia italiana abbia ridotto le proprie
potenzialità di crescita; dal 2007 ad oggi la crescita è “sottozero”, con riduzione del prodotto interno lordo
del -8% e raddoppio del numero dei disoccupati da 1,5 milioni nel 2007 agli oltre 3 milioni di quest’anno.
Per uscirne serve una radicale riforma strutturale: le politiche di bilancio pubblico sul fronte della spesa
devono essere riferite ai dati storici veri degli anni precedenti e non ai valori tendenziali futuri assunti da
valutazioni ed ipotesi arbitrarie e poco trasparenti provenienti dal Ministero dell’Economia che poggia tutte
le sue azioni sulle stime tendenziali della Ragioneria Generale dello Stato. I dati ufficiali che sono stati presi
a riferimento in questo rapporto sono quelli del Documento di Economia e Finanza del 10 aprile di
quest’anno predisposto dal governo Monti ed indicanti soltanto i valori tendenziali a legislazione vigente.
Da tali dati il Pil italiano tornerebbe al livello pre-crisi del 2007 nel 2020, il tasso di disoccupazione del 2007
verrebbe raggiunto nel 2022, il Debito pubblico tornerebbe attorno al 110% del Pil nel 2018.
Prendendo a riferimento invece i dati del DEF e utilizzando una previsione tendenziale attraverso il
modello econometrico della Oxford Economics, emerge un quadro di recupero dell’economia italiana ancor
più lontano nel tempo. Infatti, il Pil del 2007 verrebbe raggiunto soltanto nel 2022, il tasso di
disoccupazione del 2007 verrebbe raggiunto soltanto nel 2025, il rapporto Debito/Pil sarebbe ancora
superiore al 125% nel 2018.
E’ chiaro che gl italiani (famiglie, imprese, giovani, donne, anziani) non possono aspettare gli anni venti di
questo secolo per tornare alle condizioni in cui erano nel 2007, avendo nel frattempo perso circa quindici
anni di trend di crescita. Va affrontato più efficacemente il Mistero della nostra Finanza Pubblica.
I dati storici relativi a questi ultimi venti anni (1992-2012), mostrano che la maggiore attenzione
all’equilibrio finanziario è stata espressa con aumenti di entrate e tagli di investimenti pubblici che sono
andati a finanziare un continuo aumento della spesa pubblica corrente e, solo in parte modesta, hanno
contribuito a contenere il deficit pubblico. Pertanto continua è sempre stata la crescita della spesa corrente
e del Debito Pubblico. Il vero e proprio "Mistero della Finanza Pubblica Italiana" sta in una semplice
equazione che non sta “aritmeticamente” in piedi: + TASSE – SPESA = 3° DEBITO PUBBLICO DEL MONDO.
Questo “mistero aritmetico” è spiegato da un meccanismo nascosto e perverso, secondo il quale i tagli alla
spesa corrente vengono riferiti ai valori "tendenziali" degli anni futuri, nascondendo pertanto il fatto reale
che “in apparenza” si tagliano i valori “tendenziali” degli anni a venire, mentre “di fatto” si decide di
aumentare comunque la spesa corrente rispetto all'anno precedente.
Per venti anni sono stati annunciati, ogni anno, tagli di spesa ed aumenti di entrate, ma si è sempre
accumulato Debito Pubblico fino a sfondare i 2.000 miliardi di euro in valore assoluto e ad arrivare al 130%
del Pil.
Per una valutazione su dati "veri" e recenti lo studio di Economia Reale ha fatto riferimento a tutti i
documenti di finanza pubblica disponibili nel sito-web del Ministero dell’Economia e che sono stati
ufficialmente varati a partire dal marzo 2008, Relazione Unificata sull'Economia e la Finanza Pubblica.
Se tali dati di entrata e di spesa del Bilancio Pubblico si leggono "in verticale" si potrà notare che,
documento dopo documento, nei vari anni vengono “ridotte" le spese, mentre le entrate aumentano di
molto nelle previsioni e di meno a seguito del freno alla crescita economica, mentre il deficit viene
contenuto solo parzialmente. Ma questi tagli di spesa sono sempre riferiti ai dati "tendenziali" degli anni
futuri. Questi “tagli” cioè sono riferiti ai precedenti documenti di finanza pubblica ma non ai precedenti
anni dello stesso documento, dove invece appaiono chiaramente gli aumenti effettivi di spesa.
Se, al contrario e più correttamente, i dati vengono letti "in orizzontale” si spiega il mistero: in ogni
documento i tagli "tendenziali" sugli anni futuri in realtà esprimono aumenti storici di spesa tra un anno e
l'altro. Pertanto la continua crescita delle entrate va solo in parte a contenere il deficit e in larghissima
parte va a coprire aumenti di spesa corrente con, per di più, riduzioni di investimenti pubblici.
2. La verità sui conti pubblici dal 2001 al 2012: chi e di quanto ha aumentato tasse e spesa pubblica
negli ultimi undici anni.
Nel 2000 il totale delle Entrate Pubbliche (il totale delle tasse che cittadini, famiglie e imprese
effettivamente pagano di anno in anno) è stato di 536 miliardi di euro, nel 2012 è stato pari a 764 miliardi,
con un aumento di 228 miliardi di euro. Nello stesso periodo il Totale della Spesa pubblica è passato da 536
a 805 miliardi di euro, un aumento di 274 miliardi ben superiore all’aumento delle tasse.
Il Debito Pubblico totale, che era pari a 1.300 miliardi di euro nel 2000, ha superato i 2.000 miliardi nel
2012, la spesa per interessi è balzata l’anno scorso ad 85 miliardi di euro e tenderà verso i 100 miliardi nel
prossimo triennio, sempreché lo spread continui a scendere e si attesti almeno sotto i 250 punti base.
Nessun governo quindi è riuscito a frenare o meglio a tagliare gli sprechi, le malversazioni e le ruberie
nascoste dentro la spesa pubblica, né tantomeno a fare una vera ed efficace lotta all’evasione.
Tutti i governi hanno aumentato spesa corrente e tasse, con delle differenze: il governo BerlusconiTremonti, ha aumentato le tasse più di tutti ed ha aumentato ancor di più la spesa corrente; il governo
Prodi-PadoaSchioppa ha aumentato spesa corrente e tasse quasi dello stesso ammontare; il governo Monti
nel 2012 ha contenuto la spesa corrente con un aumento di soli 8 miliardi ed ha aumentato il totale delle
entrate di 20 miliardi.
C’è chi dice che tutto questo costituisce una congiura nazionale ed internazionale. Ma se congiura c’è stata
questa risale quanto meno al 2008, quando il governo Berlusconi-Tremonti, con una larga maggioranza
parlamentare, ha aumentato la spesa pubblica corrente, ha tagliato del 50% gli investimenti in infrastrutture
ed ha aumentato le tasse, non facendo nulla sul fronte delle liberalizzazioni e su una concreta lotta
all’evasione.
Ecco allora che il confronto politico, più che su demagogiche promesse/proposte di riduzioni delle tasse,
deve riferirsi a quali e quante spese tagliare e quali strumenti concreti mettere in campo per far pagare gli
evasori e ridurre le tasse ai tartassati. Senza questo non avremo mai le risorse per sostenere la crescita e
l’occupazione, né tantomeno per realizzare una vera equità sociale.
Con più tasse, più spesa corrente e meno investimenti, l'effetto sull' economia reale, come verificato da
tutte le manovre fatte in questi anni, è stato sempre quello di frenare la crescita, ridurre l'occupazione, non
raggiungere mai il deficit zero e vedere sempre accrescere il debito pubblico.
I dati storici sono il corpo del reato. Ma chi è l’assassino?
Centrale appare essere la riforma fiscale fatta all'inizio degli anni settanta (riduzione del numero delle
aliquote fiscali e della forbice tra le stesse, ecc.) e l'istituzione delle regioni. Da quel momento infatti la
responsabilità delle tasse è stata concentrata per oltre 1'85% nel Governo Centrale, mentre il potere
decisionale di spendere è stato decentrato agli enti locali, soprattutto alle regioni, che quindi si sono trovati
nella responsabilità di raccogliere direttamente meno del 15% delle tasse totali potendo spendere oltre il
50% della spesa totale.
Con il decreto delegato sul federalismo municipale è aumentata la dipendenza dei Comuni dai trasferimenti
dello Stato e si costringono di fatto gli stessi comuni ad aumentare l'imposizione a livello locale. E con il
decreto sul federalismo regionale si perpetua, soprattutto sul versante della spesa sanitaria, il meccanismo
che ci ha condotto alla situazione odierna di quasi dissesto in molte regioni.
Esiste un’alternativa; la “giusta equazione” da realizzare è: meno spesa corrente, meno tasse, più
investimenti, con deficit zero e minore debito. Una politica di rigore e di sviluppo può e deve essere
attuata, ovviamente incidendo sulle troppe sacche di rendita incardinate in specifiche e ipernote voci di
spesa corrente, sulle quali forse circa un milione di italiani prospera scaricando tutti gli oneri sui restanti 56
milioni di cittadini, soprattutto giovani, donne e persone in maggiori difficoltà di lavoro e di reddito.
Lo scorso anno la Corte dei Conti ha detto: “dentro” gli 800 miliardi di euro di spesa pubblica ci sono 60
miliardi di “corruzione”, “dentro” i 750 miliardi di euro di tasse “mancano” 120 miliardi di “evasione”: tra
corruzione ed evasione sono 180 miliardi di euro, cioè l’11,5% rispetto ai 1.566 miliardi di Pil del 2012.
Quattro economisti (Ardizzi, Petraglia, Piacenza e Turati) hanno pubblicato per la serie Temi di Discussione,
n.864, della Banca d’Italia, uno studio nel quale stimano le dimensioni dell’economia sommersa (quella cioè
fatta per evitare di pagare tasse e contributi) e dell’economia illegale (quella cioè che oltre a non pagare
tasse e contributi è totalmente fuori legge, prostituzione e droga incluse). Nella media degli anni 20052008, l’economia sommersa risulta pari al 16,5% del Pil, quella illegale pari ad un aggiuntivo 11%. Sempre
rispetto al Pil del 2012, si tratterebbe di circa 260 miliardi di euro per la prima e di 172 miliardi per la
seconda. Totale 432 miliardi, il 30% del Pil.
Esiste, dunque, un cuneo profondo che impedisce di usare al meglio le risorse che abbiamo per sostenere
una crescita della produzione e dell’occupazione che consentirebbe di soddisfare al meglio i bisogni di tutti,
senza ulteriori tagli ai servizi e all’occupazione.
A difendere strenuamente e con mille subdole scuse questo cuneo profondo sono impegnate le tante
cosche e le tante aree grigie tra economia e politica, le tante connivenze trasversali e diffuse che
consentono a circa un milione di italiani di “sguazzare” e di godere di quei numeri, a danno degli altri 56
milioni di cittadini, con oltre 20 milioni di contribuenti onesti.
La politica e l’intera classe dirigente è chiamata a rispondere a quei numeri.
3. Ricostruire un progetto economico-politico
Occorre una rivoluzione copernicana della politica e della società italiane, tornare a capire e “sentire”
che senza la Polis non c’è democrazia. (E’ questa la ragione per cui una delle tre gambe del decalogo
ARDeP è la formazione! ndr).
Senza risposte forti, sagge, tempestive, non è difficile pensare quale situazione si potrebbe prospettare
entro la fine dell’anno con un’economia che è scesa del -8% rispetto al 2007, del -2,4% nel 2012 e
quest’anno va giù di un altro -1,7%; che da 1.500.000 disoccupati del 2007 va al doppio (oltre i 3.000.000) a
fine anno, con 400.000 disoccupati in più e 50.000 imprese in meno da qui a dicembre. I numeri citati
all’inizio che bloccano la crescita e soffocano i bisogni della gente (corruzione ed evasione), noi italiani li
abbiamo più degli altri; se li aggrediamo, abbiamo più risorse degli altri paesi per uscire dalla nostra crisi,
per fare cioè sia rigore, sia crescita, sia equità e dare un contributo solido per costruire gli Stati Uniti
d’Europa e la nuova Governance Mondiale.
L’economia, la società, l’equilibrio tra le generazioni e tra i territori si reggono solo e contestualmente su
tre gambe: Rigore finanziario, Crescita economica, Equità sociale.
Partiamo dal sacrosanto obiettivo del rigore finanziario che deve mirare ad azzerare il deficit ed a piegare
verso il basso il debito pubblico il più rapidamente possibile, ma, senza toccare i numeri relativi alla
corruzione e all’evasione, all’economia sommersa e all’economia illegale, non si avrà pareggio di bilancio se
non facendo crescere le iniquità sociali.
La necessità di una severa lotta all’evasione poggiata su rigorosi incroci di banche dati e conflitto di interessi
con deduzioni da dare alle famiglie ed ai cittadini era alla base del Programma di Riforma della
Amministrazione Finanziaria, atto presentato in Parlamento nel 1978 dall’allora ministro delle Finanze
Franco Maria Malfatti. La Spending Review fu avviata dal prof. Nino Andreatta, quando fu ministro del
Tesoro nel 1981.
Tre nodi sono assolutamente ineludibili: dentro gli 805 miliardi di euro di spesa pubblica ci sono 60 miliardi
di sprechi, malversazioni, corruzione; dentro i 760 miliardi di tasse “mancano” 120 miliardi di evasione; con
un debito pubblico oltre i 2.000 miliardi ci autocondanniamo per decenni a pagare tra 100 e 140 miliardi di
euro di interessi.
Vanno però smascherate due “ipocrisie”: la prima riguarda i cosiddetti “costi della politica”; certamente si
devono ridurre lo stipendio e le prebende dei parlamentari, ma portandoli al 50% si ottengono “risparmi”
per circa 700 milioni all’anno; è un segnale importante, ma l’importo di questi risparmi è
macroscopicamente irrilevante rispetto ai 60 miliardi di euro delle ruberie nascoste dentro specifiche voci
di spesa pubblica a tutti i livelli: questi 60 miliardi sono i “veri costi della Politica”. La seconda ipocrisia sta
nei debiti non pagati dalle Pubbliche Amministrazioni alle imprese (almeno 90 miliardi) che strozzano sul
piano della liquidità l’intera economia italiana. Alcuni pseudo esperti hanno sempre detto che pagare questi
debiti avrebbe determinato un salto all’insù delle statistiche ufficiali del Debito Pubblico con effetti
dirompenti sui mercati finanziari. E’ noto invece che i mercati di tutto il mondo “conoscono” perfettamente
quei numeri e pertanto li hanno da tempo incorporati nei loro “spread”. Ecco perché, siamo comunque
penalizzati dagli spread e non pagando penalizziamo le imprese. Occorre dunque un piano di emissioni di
BTP per 30 miliardi all’anno per tre anni e con questo ripagare subito i crediti delle imprese, senza indugi
procedurali e burocratici che sembrano avvolgere anche il recente parziale decreto paga debiti.
Occorrono 4 provvedimenti.
Il primo vero intervento strutturale deve mirare alla ristrutturazione dello “Stato Patrimoniale”. Si tratta di
dismettere circa 400 miliardi di euro di assets non strategici oggi in capo allo Stato, alle Regioni e agli Enti
Locali. Ma pensare di vendere tutto e subito è pura follia. Qui sta il nodo del problema: per vendere il
patrimonio senza svenderlo occorrono dieci/quindici anni; il nostro Debito Pubblico va però abbattuto in
non più di tre anni. E’ possibile colmare questo gap? L'operazione che lo consente può prevedere la
costituzione di un Fondo Immobiliare Italia al quale trasferire, per legge, gli assets da valorizzare. Questo
Fondo di diritto privato può poi ricorrere al mercato con l'emissione di titoli obbligazionari con warrant.
L'emissione dei titoli obbligazionari avverrà in base ai valori attuali degli assets acquisiti e questi, data la
garanzia reale dei beni immobili sottostanti, potranno conseguire un eccellente rating, anche una tripla A.
Le risorse così ottenute vanno destinate per legge all’abbattimento del Debito Pubblico.
Il secondo dovrebbe mirare ad abbattere sprechi, malversazioni e ruberie tagliando la spesa per acquisti di
beni e servizi a fronte di meno tasse alle famiglie con una deduzione per i membri della famiglia (es. figli e
nonni a carico).
Il terzo dovrebbe inoltre rendere obbligatoria la prescrizione medica “per dosi” e non “per confezioni”,
determinando un recupero di circa 4,2 miliardi di euro all’anno, da destinare al Fondo per la riduzione
dell’Irpef alle famiglie.
Quarto: riduzione e trasformazione di tutti i fondi perduti in crediti di imposta (Rapporto Giavazzi), con 20
miliardi di risparmi che potrebbero andare a ridurre (a fine periodo quasi azzerare) l’Irap delle imprese.
Un ultimo ma fondamentale intervento deve introdurre un “conflitto di interessi” come concreta lotta
all’evasione. Ciò consiste nella possibilità data alle famiglie di dedurre dal reddito imponibile ai fini IRPEF
(fino a un tetto massimo di 3.000 euro l'anno?) le spese per la casa, la famiglia e la cura dei figli e degli
anziani.
(Come si vede, si tratta di proposte dibattute all’interno dell’Ardep in occasione della partecipazione al
Forum della Società Civile dello scorso 10 novembre ed esplicitate in maniera sintetica, ma in alcuni casi
ancor più orientata, nel Decalogo dell’ARDeP: ndr).
Il Rapporto ha avuto molteplici apprezzamenti e sottolineature da parte di vari esperti presenti; tra gli altri:
Alberto Quadrio Curzio, Pierluigi Ciocca, Alberto Bisin, Piero Giarda, Stefano Manzocchi, Eugenio Gaiotti,
Maurizio Meloni, Giuseppe De Rita, Roberto Mazzotta, Alessandra Migliaccio, Richard Heuzé, Tobias Piller,
Luigi Casero, Matteo Colaninno, Mario Monti.