Se il cielo è in una stanza
- Giulia D'Agnolo Vallan, 03.03.2016
Al cinema. Esce «Room» di Lenny Abrahamson. Da una storia vera, i confini del mondo di madre e
figlio rapiti da uno sconosciuto. Brie Larson premio Oscar come migliore attrice
Liberamente ispirato al caso dell’austriaco Joseph Fritzl, che tenne prigioniera sua figlia per
ventiquattro anni, nell’arco dei quali la costrinse a concepire sette figli, Room (in Italia Stanza, letto,
armadio, specchio), della scrittrice irlandese Emma Donoghue, è un libro sul potere trasformativo
dell’immaginazione e del racconto, un incubo che, filtrato attraverso gli occhi di un bambino, assume
i contorni di una fiaba. Un luogo della realtà in cui una stanzetta fatiscente, crudelmente sigillata dal
mondo esterno, diventa un intero pianeta, misterioso, ricco di avventura, rituali, personaggi, gioie,
paure e affetti.
Affidandosi a una sceneggiatura della stessa Donoghue, il regista Lenny Abrahamson (irlandese
anche lui, già autore di Frank e Garage) ci trasporta in quel pianeta quasi con bruschezza. Fin dai
primi momenti del film siamo immersi nell’universo di Ma (Brie Larson, premiata l’altra sera con
l’Oscar di miglior attrice protagonista) e di suo figlio Jack (Jacob Tremblay, straordinario), un
bambino di cinque anni, con i capelli bruni lunghissimi, lo sguardo paziente e saggio – quasi troppo
per la sua età. È un universo dove gli oggetti – lampada, lavandino, tv e il riquadro blu di un abbaino,
ritagliato in alto sul soffitto- sono apostrofati come personaggi, compagni di gioco.
Complici dell’incantesimo in cui Ma, rapita da uno sconosciuto, mentre tornava dal liceo, sette anni
prima, e da allora rinchiusa in quella prigione, ha cresciuto suo figlio. La stanza è un buco di pochi
metri quadrati, con i muri di cemento, un filo per la biancheria quasi sopra al fornello elettrico, un
piccolo televisore decrepito che trasmette da qualche twilight zone, un armadio. Ma, nei piccoli
movimenti di macchina di Abrahamson, nelle sue inquadrature ravvicinate, a tratti spiazzanti, quella
«stanza» sembra effettivamente magica; si allarga e si restringe come una fisarmonica, piena di
angoli, sorprese, significati.
Per Jack la stanza è tutto, l’unica realtà che conosce, e quindi che esiste. La vive con l’adesione
totale e la cocciutaggine di un bimbo, che fa il muso perché non ha la torta di compleanno e accoglie
con entusiasmo l’arrivo di un topolino. Ma l’incantesimo mostra segni di logorio sul volto di sua
madre, che si fa più triste e più preoccupato a ogni nuova apparizione di Old Nick (Sean Bridgers),
un uomo che viene a violentarla regolarmente, portando con sé come un Babbo Natale malefico, cibo
e regali per le sue vittime. Durante quelle visite, Jack viene chiuso nell’armadio, un mondo ancora
più piccolo, da cui lui sbircia attraverso uno spiraglio.
Room trae la forza delle sue immagini dal microcosmo emotivo viscerale, intensissimo, del rapporto
tra madre e figlio e nel magico equilibrio di lenti distorte da cui dipende la loro sopravvivenza nella
stanza. Lo spazio chiuso, claustrofobico, gli si addice.
Quando però, dopo quella prima parte, che si risolve in un crescendo drammatico tesissimo e molto
bello, Ma e Jack si ritrovano nel mondo esterno, il film si appiattisce, si banalizza in modo quasi
televisivo.
La sopravvivenza fisica non è più in discussione e sorgono naturalmente altre domande. Di fronte ad
esse, Ma rimane purtroppo un personaggio opaco, una cifra che né il regista né la sceneggiatrice
sembrano interessati a sciogliere se non attraverso psicologismi non molto originali e la classica
crisi di nervi. Jack «aggiusta» meglio il suo guardo sul nuovo mondo che lo circonda, che è molto più
grande di quello che conosceva e include anche dei nonni agiati e solleciti. Tremblay, che parla poco,
ma è abilissimo a comunicare con gli occhi e la bocca stati d’animo obliqui- assume un’aria un po’
guardinga.
Scale, corridoi, mobili, persone diverse gli richiedono, anche nello spazio del fotogramma, una
prospettiva diversa. Alla fine, però forse (sarà il messaggio del film?) questo mondo così più grande,
diverso e più comodo si può decifrare secondo i codici e i valori non preconcetti della stanza. Dove
lui chiede di tornare in visita e rimane l’anima di Room.
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