geopolitica per l`intelligence

GeoP
GEOPOLITICA
PER L’INTELLIGENCE
L UCIO C ARACCIOLO
La necessità di allungare l’orizzonte temporale dei decisori politici, definendo un perimetro
di priorità strategiche tarato sugli interessi nazionali, costituisce presupposto indefettibile
per orientare la fondamentale azione dei Servizi di intelligence a presidio della sicurezza
della Nazione. La carenza in tale settore da parte dei policy makers si traduce nell’assenza
di punti di vista nazionali sulla scena mondiale, dunque anche sul mercato globale
dell’intelligence, con inevitabili rischi di eterodirezione e dipendenza dal giudizio altrui.
Questo è il warning che lancia l’autore, segnalando la necessità di un approccio improntato
a maturità istituzionale e geopolitica, che non potrà prescindere da una lunga opera di
emancipazione culturale, cui sono chiamati a concorrere anche i nostri Servizi.
che serve l’intelligence? In ultima analisi, a fornire i decisori politici
degli strumenti necessari a capire gli eventi più rilevanti per la sicurezza e il benessere della nazione, illuminandone anche gli aspetti
meno visibili, e ad approntare le conseguenti strategie, da affidare
poi alle strutture operative dello Stato. Per poter svolgere tale compito, le agenzie di intelligence hanno però bisogno di ottenere dalle
autorità politiche un quadro coerente degli interessi nazionali. Una
griglia gerarchica di ciò che conta e di ciò che non conta per l’Italia, a prescindere da
chi la guidi in un determinato momento storico, considerando che le linee di fondo del
nostro approccio al mondo – come di quelli altrui – tendono a rivelarsi permanenti. Ad
esempio, essendo un paese con scarse materie prime e modeste risorse energetiche,
dobbiamo garantirci l’accesso a esse al minor costo possibile e aprirci quote di mercato
utili alle esportazioni: valeva per il Regno d’Italia e vale ancor più per la Repubblica,
chiunque ne sia alla testa.
A
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LUCIO CARACCIOLO
GeoP
GeOpOlITIcA peR l’INTellIGeNce
In carenza di precetti fondativi opportunamente gerarchizzati, le
agenzie di intelligence – per troppo tempo – non hanno potuto che
oscillare fra due estremi, entrambi poco produttivi: macinare dossier per giustificare la propria esistenza in vita, senza seguire alcuna
linea strategica né selezionare priorità; oppure inventarne di proprie, sperando di ottenere ascolto presso i decisori politici, o cercando di evitarne il controllo, nei casi non frequenti in cui si
manifestava. Un’altra possibilità, che non escludeva le due precedenti ma anzi ne derivava, era di lavorare per conto terzi. Come
disse l’ex presidente Francesco Cossiga agli studenti italiani di un
master di intelligence: «Non perdete tempo, fatevi assumere direttamente dalla CIA».
Con rare eccezioni, dovute all’impegno di questo o quel leader politico più che alla sinergia istituzionale, l’assenza di indicazioni strategiche è stata la condizione in cui, spesso, si sono trovati a operare
i nostri servizi di intelligence. A confermare che l’Italia ha sempre
sofferto e continua a soffrire della difficoltà a elaborare i propri interessi nazionali. Ciò che spesso confonde non solo i nemici – i
quali talvolta ci sospettano di chissà quali agende nascoste, che
quasi mai esistono – ma persino i nostri partner. Un esponente dell’establishment americano spiegò così tale disagio a chi scrive, parecchi
anni fa: «Il problema con voi italiani è che quando cerchiamo di negoziare non otteniamo mai risposta alla domanda What do you want
from us? Che cosa volete da noi?». Se non so quello che voglio, saranno i miei interlocutori a stabilirlo. L’incapacità di definire una
propria strategia significa esporsi alle scelte altrui ed essere pesati
sulla scena mondiale per meno di quanto il calibro economico, demografico e culturale consentirebbe di valere. Se tale autolimitazione della soggettività – dunque della sovranità democratica – non
riflette l’incapacità di una qualsiasi parte politica, ma una costante
storica, non smentita nemmeno durante la dittatura fascista, occorre
dedurne che la questione non è politica, ma culturale. Non siamo
dining power per scelta, ma per vocazione. E tale inclinazione viene
percepita dall’esterno come tratto costitutivo del presunto ‘carattere
italiano’, a tutto detrimento della nostra già molto relativa potenza.
… È ANcORA pReSTO peR cOGlIeRe GlI eFFeTTI
del peRcORSO INNOvATIvO,
AvvIATO cON lA RIFORmA del 2007,
vOlTO A INcIdeRe SUll’ASSUNZIONe,
dA pARTe deI pOlIcY mAKeRS,
delle ReSpONSABIlITà pOlITIcHe
IN mATeRIA dI SIcUReZZA NAZIONAle
D’altro canto, è ancora presto per cogliere gli effetti del percorso innovativo, avviato con la riforma del 2007, volto a incidere sull’assunzione, da parte dei policy makers, delle responsabilità politiche in
materia di sicurezza nazionale. Non intendiamo qui indagare le origini di tale fenomeno, che possono essere fatte risalire molto in-
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GNOSIS 3/2013
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GeOpOlITIcA peR l’INTellIGeNce
dietro nella storia. Ci limitiamo a offrire uno spunto su come in prospettiva limitarne gli effetti perversi, tratto dall’esperienza dell’analisi geopolitica come strumento di indagine dei conflitti di potere
in determinati spazi interni e internazionali.
Partiamo da una constatazione apparentemente ovvia, ma che ovvia
non è per la classe dirigente italiana: non conoscere i propri interessi
e non elaborare un metodo e un programma per proteggerli significa
rinunciare a un proprio punto di vista. In parole povere: rinunciando
all’autonomia di giudizio si accetta l’eterodirezione, la dipendenza
dai giudizi altrui. Si possono certo produrre eccellenti analisi di taglio accademico che illustrano in profondità cause, senso e sviluppi
prevedibili di una crisi senza indicare se e come essa incroci i nostri
interessi. E, soprattutto, se ed eventualmente come affrontarla. In
questo noi italiani, sia negli apparati pubblici di intelligence che
nella produzione privata, nelle università e nei think tank, riusciamo
talvolta a non sfigurare, malgrado i modesti mezzi di cui disponiamo
rispetto a potenze maggiori o a istituzioni più ricche e ramificate
delle nostre. La differenza sta nel fatto che il canone dei servizi americano, cinese, francese, britannico o russo – ma anche lussemburghese, pakistano, vaticano, cileno o di qualsiasi altra entità di
intelligence statale, per tacere delle grandi aziende, dei movimenti
rivoluzionari o delle organizzazioni criminali – prevede come alfa e
omega dell’analisi la definizione del proprio punto di vista. Come e
in che misura un dato evento ci tocca? Come possiamo o non possiamo agire per orientarlo secondo le nostre preferenze, o almeno
come evitare che altri lo facciano a nostro danno?
Se dall’analisi accademica, votata al gusto della conoscenza, passiamo all’indagine operativa, all’intelligence nel senso politico sopra
evocato, è impossibile fare l’economia del proprio punto di vista. Qui
l’approccio geopolitico ci soccorre. Esso non si presume vincolato a
criteri ‘scientifici’, a modelli astratti, alla politologia che tutto vorrebbe ridurre a formula e comprimere in modello; non importa se i
protagonisti siano faraoni egiziani, segretari generali del Partito comunista sovietico o caudillos sudamericani, se la scena degli eventi
sia la Terra del Fuoco o la Pianura Padana, il deserto del Sahara o
Wall Street, un quartiere di Karachi o Silicon Valley. In geopolitica i
conflitti di potere vengono individuati nei limiti di spazio/tempo,
prendendo in considerazione i punti di vista di tutte le parti in causa,
senza pregiudizi ideologici o velleità pedagogiche. Per questo, il confronto fra la cartografia geopolitica degli attori coinvolti è fondamentale. Ma non possiamo prescindere dal nostro punto di osservazione.
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GeOpOlITIcA peR l’INTellIGeNce
NON ABITIAmO UNA STellA dell’UNIveRSO,
mA UNA pIccOlA pORZIONe del NOSTRO pIANeTA.
e A SecONdA dellA NOSTRA cOllOcAZIONe
STORIcO-GeOGRAFIcA SU QUeSTA TeRRA
cAmBIA Il SeNSO dell’ANAlISI.
e cAmBIANO, QUINdI, le cONSeGUeNZe
e le pOSSIBIlITà OpeRATIve.
Guardare ai Balcani da Copenaghen o da Roma, occuparsi delle isole
Spratly da Pechino o da Parigi, studiare le strategie dei fondi sovrani
arabi a sostegno delle ambizioni geopolitiche dei loro titolari da
Tokyo o da Il Cairo non è la stessa cosa. Fattori storici, geografici,
culturali, ambientali ed economici illuminano il caso di analisi di una
luce speciale, quella dell’osservatore, quasi un faro che squarcia la
notte essendo incardinato in una precisa coordinata geografica. Non
abitiamo una stella dell’universo, ma una piccola porzione del nostro
pianeta. E a seconda della nostra collocazione storico-geografica su
questa terra cambia il senso dell’analisi. E cambiano le conseguenze
e le possibilità operative. Per una classe dirigente come l’italiana, fin
troppo consapevole del nostro deficit di statalità (per richiamare gli
studi di Sabino Cassese) rispetto ai principali partner o ai potenziali
avversari, acquisire la coscienza della responsabilità che le appartiene per la difesa degli interessi della nazione non è scontato. In
fondo, trascurando il passato meno prossimo, veniamo da quasi
mezzo secolo di semiprotettorato strategico americano – la Guerra
fredda, nella quale il nostro ruolo era fissato dalla scena bipolare e
consentiva solo ben vigilati giri di valzer – e da decenni di inquadramento nella costruzione europea, nei quali abbiamo sviluppato il
‘vincolo esterno’. Teoria peculiarmente nostrana, che fa della negazione del proprio punto di vista e dell’assunzione come paradigma
decisivo di quelli altrui (atlantico-europeo, più concretamente americano per la sicurezza e tedesco per l’economia) non solo una necessità ma una virtù. A partire dalla convinzione, talvolta intima
talaltra espressa, che se abbandonati alle nostre responsabilità – ai
nostri punti di vista – non sapremmo risolvere i nostri problemi.
La carenza di punti di vista italiani sulla scena internazionale – dunque anche sul mercato globale dell’intelligence – non è legata a una
contingenza o a una preferenza politica. È frutto di una mentalità
radicata. In queste condizioni non verrà spontaneo varcare la linea
d’ombra che separa la nostra immaturità istituzionale e geopolitica
dalla capacità adulta di assumersi le proprie responsabilità, anche
per meglio concorrere alla tutela degli interessi comuni ai paesi
atlantici ed europei, e persino universali. Tanta impresa non si compie d’un colpo. Serve una paziente, faticosa, lunga opera di emancipazione culturale, nel libero dibattito delle opinioni, a partire dalle
scuole, dalle università, da quel che residua – o che si spera nascerà
– dei centri di formazione della classe dirigente. In questo, anche
le agenzie di intelligence devono dare il loro contributo, obbedendo
alla propria ragion d’essere; in tale prospettiva, la legge di riforma
ha tracciato le basi. È troppo sperare?
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