CONTROCORRENTE LA CRESCITA SPIEGATA A MIO FIGLIO Buon senso e crescita – fiamma ossidrica e ghiaccio sottile Paolo Viglianisi. Circa venticinque anni di attività nel settore ICT, come dirigente d'azienda in tre grandi multinazionali si è occupato di vendite, general management, program management. Appassionato di scrittura, collaboratore free-lance per un quotidiano, è autore di racconti nonché di un romanzo breve. Come aspirante milionario vorrei un centesimo ogni volta che la parola crescita viene pronunciata. Fra le varie opzioni per accumulare un bel malloppo senza impugnare una pistola o diventare assessore regionale siciliano, oggi punto su questa come la più sicura e rapida. “Crescita dell’economia”, “non cresciamo abbastanza”, “occorre fare ripartire la crescita”, “senza crescita non si esce dalla crisi”: queste alcune delle espressioni di repertorio obbligato nelle esternazioni dei personaggi dotati di qualche tipo di visibilità mediatica, di solito politici. Un coro trasversale a tutti gli schieramenti, fatto di liberisti DOP, neo-liberisti o addirittura ex-comunisti, da qualche anno ormai canta la crescita come panacea universale di ogni male, nazionale e planetario. Il tutto senza che adeguato spazio sia concesso ad eventuali voci di approfondimento o, giammai, dissenso. Pagherei per vedere uno qualsiasi dei nostri esternatori infilzato dalla micidiale tripletta di perché che qualsiasi bambino intorno ai nove/dieci anni potrebbe scoccare. Il dialogo potrebbe svolgersi così: Bambino: <<perché dobbiamo crescere?>> Politico: <<Per ridurre il debito pubblico>> Bambino: <<perché dobbiamo ridurlo?> Politico: <<per abbassare le tasse e restituire potere d’acquisto alla famiglie>> Bambino: <<e perché dobbiamo farlo?>> Politico: <<per consentire alla gente di comprare più cose e crescere e…>> Bambino interrompendo: <<questo lo hai già detto prima>>. Da refrain politichese già logoro, per inesorabile riflesso imitativo è poi accaduto che la parolina magica si sia incuneata in modo stabile anche nelle conversazioni da bar e barbiere. Nei bar che frequento io, se ne parla molto di crescita - specialmente in assenza di campionato. Ma che vuol dire crescita? La definizione del Devoto-Oli propone per il verbo crescere: aumentare progressivamente di proporzioni (…) peso, volume; rendere maggiore quantitativamente o numericamente. Non ci crederete, ma non c’è nessuna menzione a licenziamenti, flessibilità, derivati e spread. Al di là del significato percepito, è chiaro che comunque che il sostantivo allude a un modello di cui è simbolo e al contempo architrave, quello capitalistico-consumistico. Un modello che manda scricchiolii sinistri ma che pare si stia cercando di puntellare ad ogni costo. Niente paura: nessuna velleità di fondare una nuova e improbabile scuola di pensiero economico. Sul tema è già stato detto e scritto a sufficienza da anni – Serge Latouche e la sua teorizzazione della descrescita sono addirittura diventati “fashionable”, di moda, nell’ultimo periodo. L’esercizio qui è perciò quello più modesto di cercare di assembleare alcuni dei pezzi già disponibili col collante del buon senso. E allora un esempio: villaggio rurale pre-industriale di cento persone. Se il clima è buono, acqua e cibo non mancano, e le epidemie non si accaniscono troppo, la popolazione comincerà ad aumentare. Servirà più acqua dal pozzo, più carne dalla caccia, più frecce per cacciare, più pelli da conciare, eccetera. Quindi ad un aumento della popolazione, corrisponderà un aumento delle necessità e dei consumi complessivi del villaggio. Il villaggio non lo sa, ma ha aumentato il suo PIL. E peraltro lo ha fatto senza avere uno sciamano-ministro dell’economia in carica. E’ intuitivo: crescita demografica e crescita complessiva dell’economia fanno una bella coppia, nessuna discussione. Ma se il villaggio non aumenta la sua popolazione? Se il numero di abitanti ha smesso di crescere ed è fermo, come da molti anni è ferma la popolazione italiana al netto del contributo equilibrante dell’immigrazione? Che significa crescita in questo caso in cui i bisogni primari – le fondamenta della dignità umana – sono più che soddisfatti e il livello di comfort è da almeno un trentennio chiaramente al di sopra del minimo (in Italia, non nel villaggio)? Proviamo un altro angolo visuale. Sono bloccato nel raccordo anulare da un’ora e sorrido entusiasta: il motore brucia benzina, si usura e produce inquinanti, e ci stiamo tutti allegramente avvelenando. Presto dovrò comprare altra benzina, pagare un meccanico per revisionare la macchina e - proiettandomi con slancio positivista nel futuro - spendere una discreta quantità di denaro in cure oncologiche. Ma sto facendo la mia parte per aumentare il PIL e stimolare la crescita. E dunque rido. Se anche a voi sembra che parole come PIL e crescita abbiano perso di significato, trasformandosi in slogan che anche un ragionamento elementare potrebbe etichettare come fragili e vuoti, siete in buona compagnia. “Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell’ammassare senza fine beni terreni. Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow-Jones, né i successi del paese sulla base del PIL. Il PIL comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana…” Serge Lautoche? No, Robert Kennedy, candidato alla presidenza degli Stati Uniti d’America, nel marzo 1968, tre mesi prima di essere assassinato. Qual è allora la vera questione? Per inquadrare quella centrale, non più eludibile, bastano cinque parole: disaccoppiare la crescita dai consumi. Che significa rappresentare prima, e perseguire poi il progresso e benessere reale di una società moderna che non vuole più essere, che non può più essere, solo consumista. Un gruppo, partito, movimento che sviluppasse in azioni concrete il suo programma attorno a questo obiettivo, io lo voterei per vent’anni di fila. Nota: chi scrive ha lavorato per un quarto di secolo per grandi multinazionali dell’informatica e telecomunicazioni, colossi così intrisi dal dogma della crescita permanente da farne addirittura missione, religione aziendale. Chiamatemi eretico. Editoriale Settembre 2012 Proprietà riservata di Net Working, vietata qualsiasi forma di riproduzione senza il consenso della società