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In ricordo di Alberto
Carlo Trigilia
CULTURA E SOCIETÀ
Intervento pronunciato in occasione della pubblicazione di uno degli ultimi scritti di Alberto Tulumello, professore
straordinario di Sociologia economica all’Università di Palermo, scomparso nell’aprile del 2012...
Quando ci si ritrova in occasioni come questa si dice di solito che chi ci ha lasciati era una
persona fuori dall’ordinario. Ma Alberto era davvero una persona fuori dall’ordinario, per le sue
qualità umane che si intrecciavano profondamente con i suoi interessi e il suo percorso
professionale.
La prima cosa che forse colpiva in Alberto, dopo che lo si conosceva e lo si frequentava
per qualche tempo, era la sua refrattarietà alla lamentela. Non si lamentava. Un tratto certo non
comune per un siciliano, per un meridionale, anche per un italiano. Questa sua caratteristica era
legata a un robusto ottimismo sulle possibilità di cambiare uomini e cose. Una fiducia resistente
alle prove più ardue: infatti anche nelle situazioni più buie e più difficili, Alberto si sforzava di
trovare qualcosa cui attaccarsi per non escludere le possibilità del cambiamento. E ciò valeva per
le vicende della vita quotidiana o di quella universitaria, così come per i processi sociali e
economici che studiava. C’è una forte continuità, come dirò, tra questa sua attitudine e il suo
lavoro scientifico e di ricerca.
La sua tendenza a un ottimismo pragmatico alimentava a volte accese discussioni con i
suoi amici e colleghi, spesso meno propensi di lui a vedere le luci rispetto alle ombre, ma non era
in realtà un ottimismo ingenuo, era un modo consapevole di affrontare la vita così come la
professione di ricercatore sociale.
Alberto non nutriva risentimenti, anche quando ne avrebbe avuto tutte le ragioni.
Discuteva instancabilmente, e anche molto animatamente. In certe occasioni poteva anche litigare
con i suoi interlocutori, ma era incapace di covare a lungo risentimenti verso coloro con cui si era
scontrato e si scontrava. Al fondo era ottimista anche verso gli altri e questa disposizione si
accompagnava alla sua allegria vivace e affettuosa: anche per questo la sua mancanza ci ha lasciati
più tristi.
Non so quale fosse il rapporto di Alberto con la religione. Il tema non era certo oggetto
di discussione con amici e colleghi. Credo però che nella sua formazione le radici religiose
abbiano pesato e forse gli aspetti del suo carattere che ho ricordato - le sue qualità umane - hanno
al fondo dei legami con valori cristiani presi sul serio: mi riferisco in particolare alla fede nella
possibilità di conversione, nella possibilità del cambiamento di uomini e cose.
Come dicevo, queste qualità umane sono strettamente legate ai suoi interessi come
ricercatore, e al modo di declinarli nello studio dei fenomeni economici e sociali. Lo dimostra
l’itinerario professionale seguito da Alberto.
Era uno studioso di formazione classica e amava i classici, li considerava un serbatoio
irrinunciabile per trarne chiavi di lettura e spunti interpretativi, per gettare luce sul presente.
Aveva dunque un retroterra culturale solido, di qualità, ma non lo faceva pesare: un’altra sua
caratteristica era la modestia intellettuale – una virtù certo non così diffusa nell’ambiente
accademico.
Si era laureato in filosofia nella Facoltà di Lettere di Palermo e vi aveva percorso i primi
passi del suo itinerario accademico, ma ben presto – alla fine degli anni ’70 – inizia a collaborare
con la Scuola di Servizio Sociale ‘Cesare Vittorelli’, si avvicina alle discipline sociologiche e
frequenta il vivace ambiente intellettuale che ruota intorno a quest’area nella Scuola. Insegna
sociologia generale ma si occupa anche di Welfare e di servizi sociali, un tema che lo vedrà poi a
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lungo impegnato, dopo il passaggio da Lettere a Scienze Politiche, anche attraverso una stretta
collaborazione con Giuseppe Micheli.
È nella combinazione di queste esperienze – la formazione filosofica e il coinvolgimento
nei problemi molto concreti delle politiche sociali e del disagio sociale – che matura lo stile di
lavoro di Alberto. Non rinuncia alla teoria, coltiva il suo interesse per autori classici, ma si
potrebbe dire che la teoria - e la sociologia alla quale si accosta - non sono un fine in sé, ma uno
strumento per capire la società e per contribuire a cambiarla: per lui la società è più importante
della sociologia.
Se non si tiene presente questo aspetto, riesce difficile capire come si possano conciliare i
suoi lavori teorici –da quello su società civile e stato in Hegel al saggio su ‘La grande
trasformazione’ di Polanyi – con lavori di ricerca empirica che fanno anche largo uso di indagini
quantitative e di metodologie statistiche: e cioè tutti i suoi numerosi lavori sul welfare e poi sullo
sviluppo locale degli ultimi anni. Ma riesce anche difficile capire come si coniugasse il suo
impegno di studioso e di ricercatore con quello di operatore civile che ha caratterizzato gli ultimi
decenni. Dunque, il filo che lega questi temi apparentemente distanti si potrebbe riassumere così:
teoria per fondare e guidare la ricerca, e ricerca per leggere meglio le dinamiche sociali nella
speranza di contribuire a cambiarle impegnandosi direttamente su questo terreno, specie nel
campo dello sviluppo locale.
Ma l’originalità del percorso di Alberto non sta solo nel collegamento tra lavoro teorico e
di ricerca, riguarda anche i contenuti concreti che questo percorso assume nel tempo. La chiave si
può forse trovare nell’idea della ‘costruzione sociale del mercato’. Era profondamente convinto
che il mercato, lasciato a se stesso, non adeguatamente regolato, portasse a crescenti costi
economici e sociali. Ma al tempo stesso il mercato è anche inscindibilmente legato alla libertà
degli individui come valore essenziale della modernità da preservare.
Come difendere la libertà mettendo sotto controllo quell’economia di mercato che
Alberto definisce a volte con le parole di Hegel come ‘un animale selvatico che ha bisogno di un
continuo e rigido dominio e addomesticamento’? È intorno a questo interrogativo che si snoda la
sua riflessione e la sua attività di ricerca. E la risposta ruota intorno all’idea della ‘costruzione
sociale del mercato’: l’economia di mercato può non essere distruttiva per la società, ma anzi
diventare uno strumento potente al suo servizio - a servizio dei cittadini - se è socialmente
costruita, cioè regolata. Ma è questo carattere sociale della costruzione che va inteso bene. Essa
non deve essere identificata con la sola regolazione politica dell’economia da parte dello stato, ma
va dato più rilievo alla società civile come spazio intermedio tra il mercato e lo stato. Riprendo le
sue parole: “‘società civile” come luogo vitale e innovativo in cui individui e gruppi si aggregano
per avere voce pubblica e per costituire dal basso la convivenza umana”.
Il mercato funziona nell’interesse della società, e non ne mette a repentaglio la
sopravvivenza, quando non è solo regolato dalle istituzioni politico-amministrative, ma incontra i
limiti posti da una solida cultura sociale che influenza l’etica economica, e influenza le relazioni
sociali, comprese quelle economiche, facendole allontanare da una logica puramente strumentale
mossa dalla ricerca dell’interesse a breve. L’associazionismo, le istituzioni intermedie della società
civile sono il luogo in cui si produce e si riproduce questo antidoto sociale che ‘addomestica’ il
mercato e lo fa funzionare meglio nell’interesse collettivo, e fa funzionare meglio anche la politica
orientando maggiormente anch’essa all’interesse collettivo.
Il percorso molto personale di Alberto cerca di trovare un fondamento teorico e insieme
una verifica empirica a questa idea della costruzione sociale del mercato.
Il suo primo libro, ancora sotto la stretta influenza della cultura filosofica, cerca nel
concetto di società civile in Hegel il primo fondamento di questa prospettiva più ampia della
società civile. Ma è nel volume su ‘La grande trasformazione civile’, dedicato all’opera di Karl
Polanyi, che la prospettiva seguita da Alberto prende corpo e si sviluppa sul terreno più
sociologico. In Polanyi trova anzitutto una lettura analiticamente forte degli effetti distruttivi per
la società del mercato autoregolato, svincolato da controlli sociali e politici, che culmina nella
grande crisi del ’29. La grande trasformazione è il processo che si apre, in forme diverse a partire
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dagli anni ’30, di nuova regolazione politica del mercato: dal New Deal di Roosevelt, al
comunismo, al fascismo.
Per Alberto la grande trasformazione è però un concetto dalle potenzialità più ampie che
lo stesso Polanyi non riesce a valorizzare a pieno; fondamentalmente perché quest’autore
contrappone all’autoregolazione del mercato la regolazione politica dello stato - seppure in forme
diverse, democratiche o totalitarie. Non vede quindi lo spazio per la costruzione sociale del
mercato nel senso caro a Alberto: cioè non valorizza adeguatamente la società civile tra stato e
mercato come luogo dell’innovazione sociale capace di integrare più efficacemente il mercato
nella società.
A cercare di dare più concretezza alla costruzione sociale del mercato Alberto dedica
allora il suo lavoro successivo, in due direzioni: il welfare e le nuove politiche sociali da un lato, e
lo sviluppo locale dall’altro. Che cosa hanno in comune questi temi apparentemente distanti?
Sono entrambi espressione di una ricca società civile che limita e così facendo fa funzionare
meglio il mercato nell’interesse collettivo. Con una terminologia oggi corrente non solo tra i
sociologi ma anche tra gli economisti, si direbbe che si tratta di due ambiti in cui si manifesta il
capitale sociale – una categoria di cui credo Alberto diffidasse per vari motivi ma che è in effetti
abbastanza vicina a quello che cercava. Così, il welfare è importante perché sottrae al mercato
ambiti di vita come la salute, l’assistenza, l’istruzione che non dipendono più dalla posizione dei
singoli nel mercato ma dalla cittadinanza. Ma per Alberto è importante soprattutto nelle
componenti legate al Terzo Settore (‘Privato Sociale’), perché queste esperienze alimentano una
cultura sociale resistente alla deriva delle relazioni sociali verso una dinamica utilitaristica che alla
fine porterebbe il mercato stesso a non funzionare efficacemente.
Ma anche nell’esperienza originaria dello sviluppo locale legato ai distretti di piccola
impresa si manifesta il ruolo della comunità, dell’identità territoriale e dell’associazionismo delle
istituzioni intermedie come fattori che creano fiducia, abbassano i costi di transazione, limitano le
relazioni economiche mosse da interessi a breve, a vantaggio dello sviluppo locale.
Ecco, era questo aspetto comune della costruzione sociale del mercato che Alberto
cercava nelle sue esperienze di ricerca sul welfare e poi nella lunga stagione del suo impegno sullo
sviluppo locale. Trova qui le sue radici la passione di operatore civile che studia lo sviluppo locale
nel Mezzogiorno e soprattutto in Sicilia, ma che insieme si impegna in tentativi di costruirlo
attraverso le nuove politiche avviate nella seconda metà degli anni ’90. È un modo di intendere lo
sviluppo locale non solo in chiave analitica, ma normativa: un modo efficace di costruire un
“capitalismo dal volto umano” secondo la formula usata da Giacomo Becattini, un autore tra i
più amati da Alberto, forse proprio perché vi ritrovava l’uso normativo, e non solo analitico, del
concetto di distretto.
Le nuove politiche dello sviluppo locale, che coinvolgono fortemente Alberto, al fondo si
basano sull’idea di favorire la crescita del capitale sociale, di legami fiduciari, di cooperazione tra i
soggetti locali come strumento per creare uno sviluppo buono, solido. Cercano di stimolare la
costruzione di quel rapporto favorevole tra economia e società che in altre regioni del paese si è
sedimentato attraverso un lento percorso storico. È questo tentativo ambizioso che appassiona
Alberto, come esempio di quello che aveva cercato e cercava nel suo itinerario. Da qui una serie
di conseguenze: il suo impegno operativo, la passione con cui vi si dedica, certo, ma anche il
tentativo di dimostrare fino all’ultimo - con il suo ultimo libro su ‘I tempi e i luoghi del
cambiamento’, e anche con il saggio ripubblicato nel volume che oggi si presenta, scritto con
Roberto Foderà – che la costruzione sociale dello sviluppo può funzionare e ha funzionato, ma
deve combattere contro un nemico potente, ancora più potente degli interessi economici e
politici che l’ hanno contrastata; perché è un nemico non solo esterno ma anche interno che
affligge il Meridione e la Sicilia: è la ‘cultura dell’impossibilità’ come la chiama Alberto.
Mi piace allora concludere questo ricordo lasciando la parola a Alberto, quando nelle
ultime pagine del suo ultimo libro parla del responsabile principale delle difficoltà incontrate dai
tentativi di mobilitare la società civile per promuovere lo sviluppo e punta il dito contro
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“quella cultura che predica la ‘irredimibilità’ del Mezzogiorno, composta sia di ceti opportunisti
che dell’arretratezza hanno fatto una rendita, sia di ceti intellettuali che si proclamano fautori del
cambiamento ma di fatto sono subalterni ad una ‘ideologia’ dell’immobilismo e dell’impossibilità”.
Grazie Alberto.
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