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Diritto e diritti umani nell'antichità
Nella presentazione del nostro manuale abbiamo sinteticamente definito l'educazione civica come la storia della
progressiva conquista, da parte del genere umano, dei diritti civili e politici, cui si aggiungeranno, nei tempi più propizi
dell'età moderna, quelli sociali, economici e culturali; si tratta quindi, della sempre maggiore partecipazione dell'uomo
alla vita della comunità e del coinvolgimento sempre più attivo nel processo decisionale, la qual cosa avvenne
direttamente, come ad Atene, o tramite una rappresentanza, come a Roma. Da questo punto di vista, il tema del
fondamento del diritto e quello della conquista dei diritti umani, che sarà, ripetiamo, il nostro asse portante nella
ricostruzione dell'educazione civica, trovano un punto in comune nella codificazione delle XII Tavole, prima raccolta di
leggi scritte comparse a Roma intorno alla metà del V secolo, di cui analizzeremo ora la funzione e gli aspetti più
importanti. In un secondo momento cercheremo di considerare i contributi portati alla formazione del cittadino da parte
di alcuni filosofi ed intellettuali greci e romani, per rispondere alla domanda circa l'esistenza, almeno teorica, dei diritti
umani nell'antichità.
Intorno al 450 a.C. circa, una commissione di dieci magistrati straordinari, i decemviri legibus scribundis, fu incaricata di
fissare per iscritto il diritto consuetudinario romano, al fine di risolvere i contrasti sociali e politici tra patrizi e plebei,
questi ultimi regolarmente esclusi dal godimento dei diritti. La solennità e gravosità del compito fu manifesta nel
proliferare di leggende intorno all'operato dei dieci, a partire dalla presunta consultazione della mitica legislazione
ateniese di Solone, quale fonte di ispirazione. Nacquero così le Leges duodecim Tabularum, dodici tavole incise su
lastre di bronzo ed esposte nel foro, cosicché nessuno potesse modificarle e tutti potessero consultarle. Esse furono
distrutte durante l'incendio provocato dai Galli nel 390 a.c. ed il loro contenuto è giunto fino a noi grazie alla memoria di
due autori successivi come Cicerone e Gaio.
Vennero codificati il diritto privato, processuale, penale, pubblico, sacrale, di cui forniremo qualche significativo esempio
qui di seguito. In materia di diritto di famiglia, venne moderata l'autorità del paterfamilias, eliminando il diritto di uccidere i
neonati a favore dell'obbligo di allevarli tutti, compresa, almeno, la primogenita femmina; si rese, inoltre, la libertà dalla
patria potestà al figlio venduto per tre volte dal padre come schiavo. Per quanto riguardava la successione ereditaria, si
fissarono norme circa i destinatari e l'ordine di devoluzione dell'eredità stessa, qualora non vi fosse esplicito testamento.
Molto importante fu poi la regolamentazione nel campo del diritto penale, che definì i comportamenti meritevoli di
punizione, rifacendosi ancora nella sostanza, alla legge del taglione, che prescriveva che il reo subisse, ad opera della
vittima o di un suo parente stretto incaricato, lo stesso trattamento ricevuto in precedenza dalla vittima stessa. A titolo di
esempio particolare, il debitore insolvente, trascorsi i trenta giorni previsti per la restituzione, poteva essere imprigionato
per sessanta giorni dal suo creditore, incatenato e nutrito con una quantità di farro minima prevista dalla legge, indi
condotto a tre mercati consecutivi per l'eventuale vendita o riscatto al prezzo della somma dovuta al creditore; se ciò
non fosse avvenuto, allo scadere dei sessanta giorni, il creditore avrebbe potuto vendere la vittima agli etruschi oltre il
Tevere o ucciderla a titolo di compensazione (facendola a pezzi nel caso di più creditori). Col tempo, comunque, si
pensò di moderare la legge del taglione con l'offerta di una somma riparatrice alla vittima, al posto della consueta
restituzione del male ricevuto.
Non minore crudeltà includeva la norma che prescriveva di gettare dalla rupe Tarpea i colpevoli di falsa testimonianza.
Utili, invece, le prescrizioni circa la limitazione del lusso durante i funerali e soprattutto il divieto di seppellire e cremare i
morti all'interno delle mura.
Tra i più rilevanti contributi della legislazione delle XII Tavole vi è certamente l'aver favorito l'evoluzione dalla
consuetudine vigente nel diritto primitivo romano al diritto che vincola senza far appello alla tradizione magico-religiosa
della comunità; in altre parole si passò dal mos, l'autorità insita nelle abitudini consolidate e approvate dalle divinità della
società, allo ius, al diritto che vige per tutti e comporta una sorta di laicizzazione (secolarizzazione) delle relazioni
nell'ambito della comunità. Certo, non scomparvero del tutto le commistioni tra norme religiose e civili, comunque si
ammorbidirono alcune vecchie norme consuetudinarie: si passò dal matrimonio religioso della confarreatio al rito dell'
usus, ovvero della coabitazione consensuale;
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Accanto alla laicizzazione, con la fissazione di leggi scritte si fece un gran passo avanti nella direzione della certezza del
diritto cui si è qualche volta accennato. Una giustizia amministrata secondo norme consuetudinarie, infatti, si prestava
alle interpretazioni più favorevoli ai ceti dominanti, che vedevano concentrarsi nelle proprie mani il potere legislativo e
giudiziario, con la concreta possibilità di un certo condizionamento e di un arbitrio che, certo, non giovavano alle classi
meno abbienti. La richiesta di una legislazione scritta da parte dei ceti plebei si fece sempre più insistente e, con la
codificazione in questione, si offrì a tutti la possibilità di conoscere le norme, di impararle a memoria a mo' di versetti
dal facile ritmo e di regolare più razionalmente la propria condotta in società. Le XII Tavole divennero, così, il
fondamento del diritto pubblico e privato, campi che regolarono per tutta l'età repubblicana e fino alle codificazioni
dell'età imperiale.
Terzo importante contributo fu, dunque, quello consistente nell'aver ridimensionato il potere dei ceti gentilizi, aprendo ai
plebei, fenomeno che trovò la sua manifestazione più palese nello ius provocationis. Si trattava della norma per cui le
condanne a morte o all'esilio dovessero avvenire non ad arbitrio dei più potenti, ma solo nell'ambito del comizio
centuriato, assemblea introdotta da Servio Tullio ad integrare anche i ceti minori. Il singolo cittadino aveva diritto a
richiedere il giudizio di questa assemblea (lo ius provocationis, appunto), cosa che avveniva dopo aver ascoltato il
parere di alcuni magistrati che si occupavano di delitti contro lo stato o contro privati, a seconda del caso in questione.
La procedura era identica per tutti i cittadini ed eliminando, di fatto e di diritto , il ricorso a speciali privilegi sociali o di
nascita, rappresentò per tutti uno strumento di difesa contro gli abusi della giustizia.
Infine, mediante la fissazione di chiare procedure legali per l'avvio di una denuncia, di un processo, per l'entrata in
vigore di una norma, per la dichiarazione dei giorni in cui era possibile esercitare la giustizia, e così via, le XII Tavole
contribuirono a forgiare nella popolazione una mentalità ‘legalista', ‘forense', indussero l'abitudine alle sottigliezze
legali, alla precisione formale indispensabile per la validità degli atti e delle procedure. Poté così nascere la
professione dell'avvocato.
La nascita dello ius, la certezza della legge, il ridimensionamento del potere nobiliare a vantaggio dei plebei e la difesa
dagli abusi della giustizia, rappresentano alcuni innegabili passi in direzione dell'acquisizione dei diritti di partecipazione
e, nel più lungo periodo, dell'uguaglianza. E' lecito, a questo punto, domandarsi se esistesse già, all'epoca dei romani,
una cultura dei diritti dell'uomo in quanto tale. La risposta richiede una breve panoramica ed un'osservazione rivolta a
quel sottofondo di idee filosofiche che iniziano a nascere proprio nell'antichità greco-romana e che influenzeranno
profondamente il cammino dei diritti umani. Per esigenze di sintesi e semplicità alluderemo a pochi, ma essenziali
concetti del pensiero dei sofisti, di Platone, di Aristotele, di Cicerone e degli Stoici, nella consapevolezza di
abbandonare ogni pretesa di esaustività, e nello stesso tempo convinti della circolarità che si viene a creare tra idee ed
eventi, tra elaborazioni culturali e fatti storici, tra pensiero intellettuale e realtà materiale.
Il mondo greco antico, fondandosi sull'istituto della schiavitù, non conosceva né concepiva affatto l'idea dell'uguaglianza
tra gli uomini e quindi non riconosceva alcun diritto attribuibile, in quanto tale, ad ogni essere umano. Tale status era
riservato esclusivamente ai cittadini liberi, che raggiungevano la piena maturità proprio attraverso la partecipazione al
governo della polis. Evidentemente, dunque, una particolare concezione di ‘natura' , differente per i liberi e i non
liberi, guidava la società greca, al punto da riconoscere solo ad alcuni ‘eguali' la massima forma di libertà possibile, in
un contesto più generale di profonda disuguaglianza.
Furono alcuni Sofisti del V secolo a.C., quali Ippia, Antifonte, Alcidamante, ad aprire il dibattito sulla natura umana e sul
conseguente rapporto tra leggi umane e leggi di natura. Essi riportarono l'uomo al centro dell'indagine filosofica e gli
attribuirono un fondamentale ruolo sociale e politico. Affermarono che le leggi dello stato, con il loro contenuto di
uguaglianza o diseguaglianza, non avevano una origine divina, bensì umana, politica, per cui la decisione di obbedire
loro, spettava all'uomo e doveva derivare da un aperto e democratico dibattito sulla loro validità e giustezza. Essi
riconobbero la naturale eguaglianza degli uomini, creati da Dio liberi e non schiavi, e dotati degli stessi sentimenti e
degli stessi bisogni. Teorizzarono l'esistenza di una legge ‘naturale', immutabile, valida ovunque allo stesso modo e
tendente alla concordia e alla pace tra gli uomini; ad essa opposero una legge ‘positiva', nel senso di ‘posta',
‘creata' dagli uomini, mutevole, opinabile, volta a dividere e sottomettere le comunità. Di qua la radicale democraticità
del pensiero sofista, tanto nella natura umana quanto nell'origine delle leggi che stanno a fondamento della società.
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Ma i sofisti furono quasi sempre avversati nella storia dai filosofi loro contemporanei e così, di una simile teoria,
Platone, uno dei più grandi pensatori del IV secolo a.C., riprese solo il motivo, peraltro fondamentale, della natura
politica dell'uomo, il quale non è veramente tale se non all'interno della comunità politica cui appartiene e cui partecipa
attivamente. Lasciò tuttavia perdere l'idea dell'uguaglianza tra gli uomini e del diritto naturale dei sofisti, riservando il
massimo grado di libertà e partecipazione ai migliori, ad un ristretto gruppo di competenti e saggi della società,
affidando, comunque, a tutti gli altri, l'onere di obbedire e compiere il proprio dovere nello stato, al fine di realizzare la
temperanza e la giustizia tra le classi.
In Platone, pur riconoscendo la diversità naturale tra gli individui e le loro inclinazioni personali, percepiamo una chiara
attribuzione d'importanza alla dimensione culturale-conoscitiva, che si rifletterà nel diritto positivo e determinerà la
costruzione dello stato giusto; Aristotele partì, invece, da un maggiore equilibrio tra diritto naturale e positivo nella
guida dello stato. La legge di natura, in particolare, è originaria ed immutabile, visibile negli usi e nei costumi sociali e va
affiancata alla legge scritta; egli riconobbe, così, la naturalità della disuguaglianza psicofisica tra gli uomini, e quindi
della distinzione tra liberi e servi: gli schiavi sono partecipi della ragione solo quanto basta per intendere la voce del
padrone, ma di fatto non la posseggono. Viceversa dispongono di un fisico tanto robusto da sopportare la fatica del
lavoro. I liberi, per contro, hanno tutto ciò che occorre alla vita pubblica. Dunque la schiavitù appare non solo utile, ma
persino giusta in quanto rispecchia fedelmente e mantiene le diversità dei talenti e delle inclinazioni individuali.
La prima, autentica formulazione del principio di uguaglianza venne circa due secoli dopo dai filosofi della Stoà, che
solevano riunirsi e discorrere sotto un portico dipinto, la Stoà, per l'appunto, e che presero il nome di stoici. Essi
affermarono chiaramente che gli uomini sono tutti uguali in quanto dotati del Logos universale, ossia in quanto abitanti
del regno della Ragione (Logos), che si colloca al di là delle singole comunità politiche e che accomuna gli esseri umani
dal punto di vista intellettuale e della finalità etica perseguita. Un esimio interprete della cultura greca quale Cicerone
parla di una civitas maxima, di un regno composto da tutti coloro che sono dotati di ragione, fondato sulla legge di
natura, di origine divina e pertanto inviolabile da parte degli uomini, siano essi appartenenti al senato o al popolo. Essa
è la vera legge, la retta ragione, in armonia con la natura, estesa a tutti, costante, sempiterna, uguale a Roma come ad
Atene, nel presente e nel futuro. E ancora, da uno stoico romano quale Seneca, odiamo: Siamo le membra di un unico
corpo. La natura ci ha fatto nascere parenti, da cui l'idea della doverosità di rendere all'uomo un rispetto quasi sacro, e
della superiorità del cittadino del mondo, in armonia col cosmo, con la natura ed i suoi simili, rispetto al civis romanus.
Tornando al nostro quesito iniziale circa l'esistenza di una cultura antica dei diritti umani, dobbiamo, in conclusione,
riconoscere che, nonostante l'elevatissima formulazione stoica del principio d'uguaglianza, tale afflato universalistico e
cosmopolita si cristallizzò ad uno stadio teorico e non fu in grado di concretizzarsi sul piano politico. Dobbiamo quindi
rispondere negativamente alla nostra domanda, ammettendo l'esistenza di una eguaglianza nella disuguaglianza, in
altre parole di una parziale eguaglianza di alcuni in qualcosa e non di tutti in quanto uomini, come avrebbe sostenuto
Norberto Bobbio. Eppure, il riconoscimento della sostanziale omogeneità spirituale ed etica dell'uomo, al di là delle
trascurabili differenze fisiche, per quanto infecondo sul piano dell'ordinamento giuridico, politico ed economico dello
stato, riuscì a permeare di sé una parte del pensiero e della cultura, svolgendo un notevole ruolo nel forgiare una
mentalità razionale ed universalistica che l'Illuminismo per primo avrà il coraggio di affermare fieramente. Ma questa è
un'altra pagina della nostra storia.
Bibliografia
F. D'Ippolito, Le XII Tavole: il testo e la politica, in Storia di Roma, 1. Einaudi 1988.
G. Oestreich, Storia dei diritti umani e delle libertà fondamentali, a cura di G. Gozzi, Laterza, Roma-Bari, 2001.
Nel 304 a.C il liberto di Appio Claudio Cieco, Gneo Flavio, divenne edile curule e trascrisse su tavole da esporre e
rendere note al pubblico le procedure legali, un tempo segreto patrimonio dei pontefici, le cosiddette legis actiones.
Queste a loro volta lasciarono il posto a procedure innovative meno rigide, per formulas.
Aristotele, Politica, I, 5.
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G. Oestreich, Storia dei diritti umani e delle libertà fondamentali, a cura di G. Gozzi, Laterza, Roma-Bari, 2001.
Ibidem, pag. 17.
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In questa unità
Testo: Civiltà in rete
autore: Francesca Lapolla
curatore: Maurizio Châtel
metaredazione: Donatella Piacentino
redazione: Nicole Montanari
editore: BBN
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