Stam pa l'articolo Chiudi 29 aprile 2011 Il tallone d'Achille dell'industria finanziaria di Luigi Zingales L'indice Standard & Poor's a Wall Street è a livelli superiori a quelli di prima del collasso di Lehman, i bonus bancari hanno raggiunto i livelli record pre-Lehman e il volume dei derivati si avvicina a quello pre-crisi. Due anni e mezzo dopo cosa è cambiato? Dobbiamo preoccuparci di una crisi imminente? Con una serie d'inchieste sui vari settori della finanza, Il Sole 24 Ore getta luce sulle principali fonti di rischio: dai derivati alla leva finanziaria, dallo shadow banking all'esplosione degli Exchange traded funds (Etf). Di cosa dobbiamo preoccuparci? L'aumento della leva finanziaria nel settore corporate americano, discussa da Claudio Gatti (Il Sole 24 Ore del 26 aprile), non è una distorsione del sistema, ma il risultato voluto della politica monetaria americana: uno dei meccanismi attraverso cui il quantitative easing può contribuire a un'espansione economica. Riducendo il costo del debito rende attraente alle imprese prendere a prestito. Se non hanno buoni investimenti a disposizione, restituiscono il denaro preso a prestito sotto forma di dividendi. Questo contribuisce ad aumentare le quotazioni azionarie e i consumi delle famiglie che si sentono più ricche. Si tratta di una forma di manipolazione del mercato da parte della Federal Reserve che non mi piace, ma al momento non è una grossa fonte di rischio. La leva finanziaria delle imprese americane è relativamente bassa. Se questa politica non si protrae troppo a lungo, il rischio è limitato. Il secondo fattore di rischio enfatizzato da Claudio Gatti è l'esplosione degli Etf. Si tratta di fondi chiusi che replicano l'andamento di indici di Borsa (sia valori che merci). È uno strumento di diversificazione di portafoglio molto efficiente per gli investitori individuali. Di per sé, quindi, la loro diffusione non dovrebbe creare timori. Ci sono però due zone d'ombra. La prima è l'effetto che gli Etf hanno nel trasmettere la volatilità da un mercato all'altro. In mercati meno liquidi, come quello del mais o del rame, l'afflusso di denaro proveniente dagli investitori individuali attraverso gli Etf può causare forti fluttuazioni, con conseguenze sul settore reale, che queste risorse consuma. La seconda zona d'ombra nasce dal modo in cui questi Etf replicano gli indici sottostanti. Per risparmiare i costi di transazione necessari per replicare esattamente un indice, molti Etf usano dei contratti, che hanno un rischio di controparte. Questo rischio è minimo in situazioni normali, ma può diventare elevato in momenti di crisi. Come se non bastasse, non è ben compreso dagli operatori come questo rischio sia distribuito all'interno del sistema. Questo problema è molto maggiore per i derivati trattati fuori Borsa (over the counter). L'articolo di oggi di Isabella Bufacchi ci illustra come questi derivati continuino a crescere e quello di Fabio Pavesi come riempiano ancora i bilanci delle banche, non solo americane, ma anche europee. Nonostante la loro cattiva fama, i derivati non sono strumenti di per sé malvagi. La possibilità di coprirsi dal rischio di cambio o di variazione dei tassi d'interesse riduce il costo del credito alle imprese. E i famigerati credit default swap sono utilissimi indicatori del rischio di insolvenza. Il problema è di nuovo il rischio di controparte. I contratti futures (un'altra forma di derivati) vengono trattati in mercati regolamentati e sono soggetti a un margine, che viene aggiornato quotidianamente. Questo margine garantisce contro il rischio di controparte. In questo modo i futures non creano rischi sistemici. Gli swap, invece, sono trattati sul mercato interbancario, spesso senza margini, creando il rischio di una crisi sistemica. Una degli aspetti positivi della legge Dodd-Frank approvata dal Congresso americano è l'obbligo di spostare la contrattazione dei derivati "standard" in mercati regolamentati, con l'uso di margini adeguati. A questa norma, però non si è ancora data attuazione, perché le banche che operano su questi mercati guadagnano, come ci ricorda Nicola Borzi (Il Sole 24 Ore del 27 aprile), 19,4 miliardi di dollari l'anno in queste transazioni. Frenano perché sanno di profittare dall'opacità del mercato interbancario e non vogliono perdere questi profitti (e i bonus ad essi collegati). Ma l'aspetto più pericoloso del mercato nasce dallo shadow banking system descritto da Nicola Borzi (Il Sole 24 Ore di ieri). Nonostante il nome tenebroso, è la parte del sistema finanziario più facile da capire. Svolge la stessa funzione delle banche, senza essere regolamentato come le banche. Una volta le banche trasformavano depositi in prestiti. Oggi, secondo dati del Fondo monetario internazionale, il 40% delle risorse bancarie europee non viene dai depositi tradizionali, ma dal mercato all'ingrosso. Una parte significativa di questi fondi viene da carta commerciale e prestiti a breve, molti contratti sul mercato americano. La controparte su questo mercato sono i fondi di mercato monetario, che negli Stati Uniti vengono venduti come sostituto dei depositi bancari, pur non essendo garantiti. Il rischio maggiore è che un evento negativo (la ristrutturazione del debito greco?) generi delle perdite a questi fondi, creando una corsa a liquidare le proprie quote da parte degli investitori istituzionali e non. Il risultato sarebbe, come è stato dopo Lehman, una forte riduzione del credito al settore bancario, che potrebbe mettere in crisi molte banche europee. Purtroppo, due anni e mezzo dopo Lehman, questo rimane il tallone di Achille dell'industria finanziaria. I nuovi coefficienti di Basilea 3, che impongono alle banche di detenere maggiore liquidità a fronte di prestiti a breve contratti sul mercato, cercano di risolvere il problema. Ma nella lunga fase di transizione, il rischio elevato rimane. © RIPRODUZIONE RISERVATA 29 aprile 2011 Redazione Online Tutti i servizi I più cercati Pubblicità P.I. 00777910159 - © Copyright Il Sole 24 Ore - Tutti i diritti riservati partners