Luiss Libera Università Internazionale degli Studi Sociali Guido Carli CERADI Centro di ricerca per il diritto d’impresa La diligenza come criterio responsabilita’ dell’obbligato – Gli amministratori di societa’ – di [BOZZA] Annalisa Stirpe Aprile 2006 © Luiss Guido Carli. La riproduzione è autorizzata con indicazione della fonte o come altrimenti specificato. Qualora sia richiesta un’autorizzazione preliminare per la riproduzione o l’impiego di informazioni testuali e multimediali, tale autorizzazione annulla e sostituisce quella generale di cui sopra, indicando esplicitamente ogni altra restrizione INDICE PREMESSA 3 CAPITOLO I - DILIGENZA COME CRITERIO DI RESPONSABILITÀ DELL’OBBLIGATO: L’EVOLUZIONE STORICA ED IL SENSO ATTUALE DELL’ESPRESSIONE 7 1.- RILEVANZA DEL MOMENTO NEGATIVO E CORRELAZIONE CON LA NOZIONE DI COLPA.- 7 2.- ANTICHI SISTEMI SUI GRADI DI COLPA E DILIGENZA.- 10 3.- CODIFICAZIONE NAPOLEONICA E INFLUENZE SUL NOSTRO LEGISLATORE.- 15 CAPITOLO II DILIGENZA E GESTIONE: LA RESPONSABILITÀ DEGLI AMMINISTRATORI DI SOCIETÀ DI CAPITALI 35 1.- CONSIDERAZIONI GENERALI.- 35 2.- ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI.- 41 3.- RIFORMA DELLE SOCIETÀ E NUOVA FORMULAZIONE DEL DOVERE DI DILIGENZA.- CONCLUSIONI 53 57 2 PREMESSA Diligenza è innanzitutto vocabolo di uso comune, il cui valore semantico si presenta in intima correlazione con il senso etimologico, conservandosi pressoché immutato nel tempo e negli impieghi. Da dis e lego, indica discernimento, scelta consapevole, meditata, scrupolosa, attenta. Evoca l’attività solerte di chi tende ad un risultato, la tensione verso il buon fine, la devozione nell’agire. Studente diligente, lavoratore diligente, professionista diligente, mandatario diligente, amministratore diligente… sono tutte espressioni queste che sicuramente denotano realtà diverse, condotte diverse, ma che d’altra parte richiamano uno stesso modus agendi, quello, usando la definizione del dizionario Battaglia, della “applicazione assidua, attenta, sollecita; cura vigile e amorosa (nell’esercizio di un lavoro, nello svolgimento di una mansione)”. Dal linguaggio comune, il termine diligenza è stato tosto impiegato nel linguaggio tecnico-giuridico, anzi si potrebbe dire che tale traslazione sia avvenuta senza soluzione di continuità e senza stravolgerne il senso. Già nelle fonti giuridiche classiche, infatti, diligenza designava “l’oculata, attenta e previdente condotta di chi svolge una funzione gestoria nell’interesse altrui e di chi deve adempiere un’obbligazione”1. E oggi, sempre secondo il dizionario Battaglia, diligenza nel diritto è “osservanza delle norme tecniche e di correttezza sociale nel tenere un dato comportamento giuridicamente rilevante, e particolarmente nell’eseguire una data prestazione”. La definizione è analoga in altri dizionari e perfettamente 1 Così Cancelli, voce Diligenza (dir. rom.), in Enciclopedia del Diritto, vol. XII , Milano, 1964, 517. 3 rispondente a quelle che esprimono lo stesso concetto nelle altre lingue2. Il legislatore in realtà non dice quale sia la definizione a fini giuridici di diligenza. La circostanza sembra “da interpretare nel senso che tale nozione debba essere colta, in una sua prima accezione, nel mondo extragiuridico, in relazione al comun modo di vedere e di sentire in un determinato ambiente sociale e in un determinato momento storico”3. Di conseguenza, tanto nel mondo comune che in quello propriamente giuridico, “la diligenza costituisce una qualificazione di un comportamento umano; questa qualificazione opera nel senso della conformazione del comportamento ad un modello ispirato alla cura, alla solerzia, alla cautela, ad un complesso, quindi, di caratteristiche spiegate in modo che il comportamento umano possa essere valutato positivamente, in quanto adeguato al fine che esso deve raggiungere”4. Poste queste premesse generalissime, è di tutta evidenza come la diligenza rappresenti un concetto centrale della scienza giuridica, in quanto inerente alla stessa determinazione della condotta rilevante per il diritto. Essa è nozione cardine della teoria delle obbligazioni, soprattutto in assenza di condotte predeterminate ed in presenza di risultati aleatori. Agire diligentemente, infatti, è comportarsi secondo quanto dovuto, è il contenuto stesso dell’adempimento. Si considerino le seguenti definizioni della dottrina: “Il dovere d’usare diligenza 2 Per un confronto, si consideri, ad esempio, la definizione di “diligence” riportata in The Oxford English Dictionary: “Constant and earnest effort to accomplish what is undertaken; persistent application and endeavour; industry, assiduità. […] Law. The attention and care due from a person in a given situation; spec. that incumbent upon the parties to a contract”. Dello stesso tenore risulta essere la definizione di “diligence” del Petit Larousse: “Soin attentif, minutie. Prompitude dans l’execution; empressement, zele”; nonché quella che, per il diritto, troviamo nel Vocabulaire Juridique: “soin apporté avec célérité et efficacité, à l’accomplissement d’une tache”. 3 Così Ravazzoni, voce Diligenza, in Enciclopedia Giuridica Treccani, vol. VII, Roma, 1988, 1. 4 Così Ravazzoni, op. cit., 1. 4 nell’adempimento dell’obbligazione è un dovere di tenere ai riguardi di ciò che all’adempimento è relativo una determinata condotta”5; “La diligenza consiste nell’adeguato impiego delle energie e dei mezzi utili alla realizzazione di un determinato fine”6. Diligenza per il diritto è, dunque, espressione elastica che consente di “individuare un metro di valutazione della condotta, rapportato ad una varietà di situazioni di fatto”7. Pertanto, “il criterio (legale) della diligenza non esprime un 5 Così Piola, voce Obbligazioni - Diritto Civile, in Il Digesto Italiano, vol. ?, Torino, 1903-1906, 741. 6 Così Bianca, voce Negligenza (diritto privato), in Nuovissimo Digesto Italiano, vol. XI, Torino, 1965, 191. 7 Così Rodotà, voce Diligenza (dir. civ.), in Enciclopedia del Diritto, vol. XII, Milano, 1964, 540. 5 parametro rigido […] ma uno standard di comportamento tipico-sociale (rapportato alle diverse categorie di rapporti)”8. Esso rappresenta essenzialmente il parametro di commisurazione dell’adempimento dell’obbligato e, nello stesso tempo, esprime il criterio stesso di valutazione delle relative responsabilità9. 8 Così Di Majo, Dell’adempimento in generale, in Commentario del codice civile Scialoja-Branca, a cura di Galgano, Libro quarto, Delle Obbligazioni, Bologna-Roma, 1998. 9 È utile avvertire sin da ora di come il ruolo della diligenza, quale strumento per la commisurazione dell’adempimento e conseguentemente per l’individuazione delle relative responsabilità, sia da tempo oggetto di un acceso dibattito insorto tra i fautori delle teorie c.d. soggettivistiche ed oggettivistiche dell’inadempimento. “Gli uni ritengono che fondamento della responsabilità del debitore sia «l’inadempimento colpevole» con la possibilità per il debitore di liberarsi dalla responsabilità anche in presenza di una impossibilità meramente soggettiva di adempiere o di una difficoltà di adempimento non superabile con la diligenza media. Gli altri ritengono che l’inadempimento tout court costituisce il solo fondamento oggettivo della responsabilità senza che il debitore possa liberarsi provando di non aver commesso alcuna colpa nel senso della colpanegligenza”. Così Visintini, Trattato breve della responsabilità civile, Padova, 2005, p. 15, in nota. Il discorso ad ogni modo sarà ripreso ed approfondito più avanti. 6 CAPITOLO I - DILIGENZA COME CRITERIO DI RESPONSABILITÀ DELL’OBBLIGATO: L’EVOLUZIONE STORICA ED IL SENSO ATTUALE DELL’ESPRESSIONE 1.- Rilevanza del momento negativo e correlazione con la nozione di colpa.- Il riferimento al fenomeno obbligatorio, ed in tale contesto allo sforzo che il debitore deve compiere per adempiere correttamente la propria obbligazione, rappresenta, nella tradizione giuridica, l’applicazione più evidente e rilevante del concetto di diligenza10. La diligenza, intesa come applicazione di sforzo adeguato al fine, partecipa nel campo delle obbligazioni a due diversi, sebbene in certo modo connessi, giudizi sul comportamento del debitore. Il primo ha riguardo alla determinazione del normale contenuto di tale comportamento, e a tal fine la diligenza si pone come concorrente criterio d’individuazione dell’esatta prestazione dovuta. Il secondo, logicamente dipendente dal primo, si propone di valutare la condotta dell’obbligato in relazione al risultato dovuto ed agli eventuali impedimenti incontrati, ed in esso la diligenza si manifesta essenzialmente come criterio di responsabilità11. Diligenza, dunque, è nozione da sempre strettamente connessa con quella di adempimento, ed assume una sua peculiare funzionalità giuridica proprio con riferimento all’individuazione dell’inadempimento e delle relative responsabilità. La diligenza, infatti, è modus agendi del buon debitore qualunque sia la prestazione dovuta, ed il suo carattere, più o 10 Cfr. Ravazzoni, voce Diligenza, op. cit. 11 Cfr. Bianca, voce Negligenza (Diritto Privato), op. cit. 7 meno prescrittivo, varia con il variare del tipo di obbligazione dedotta nel titolo. Essa, comunque, rileva per il diritto essenzialmente come mancanza di diligenza, negligenza. È infatti proprio il momento negativo e patologico della nozione ad interessare il fenomeno giuridico, poiché è solo in tale momento che si rende azionabile la regola di condotta che la diligenza esprime con riferimento all’adempimento di qualsivoglia obbligazione. La diligenza, dunque, nell’esprimere quell’insieme di cure e cautele che il debitore è tenuto a prestare nell’adempimento dell’obbligazione, è giuridicamente criterio di commisurazione del contegno dovuto ai fini della valutazione di eventuali responsabilità. Essa rappresenta, comunque, un parametro elastico, destinato per sua natura ad adattarsi al tipo di risultato richiesto, tenuto conto di tutte le circostanze del caso concreto. Da queste premesse si evince come la nozione di diligenza sia naturalmente e tradizionalmente connessa al concetto di colpa, così da non destare sorpresa alcuna la considerazione che proprio la colpa, quantomeno in un’accezione lata ed atecnica, sia pacificamente definita come mancanza di diligenza e venga pertanto identificata con la negligenza. La colpa, infatti, “si precisa più propriamente - nel suo significato più comune - come omissione di diligenza che pregiudica un altrui interesse giuridicamente tutelato”. Essa “inserisce in tal modo la negligenza nel tema dell’illecito, giustificando la responsabilità del soggetto sul fondamento del mancato impiego dello sforzo dovuto che avrebbe evitato l’altrui danno”12. Gli autori sono concordi nel ritenere che la colpa, quale elemento soggettivo dell’illecito, comporti sempre un aspetto manchevole, un difetto della condotta concreta rispetto ad un modello di condotta astratta, imposta da una regola legale o non 12 Così Bianca, voce Negligenza (Diritto Privato), op. cit., 196. 8 legale13. È appunto questo difetto che giustifica un eventuale addebito di responsabilità a carico del “colpevole”, ed esso viene concordemente individuato nella deviazione della condotta del soggetto da ciò che è ragionevole attendersi alla stregua del relativo modulo di diligenza. Così, mentre la diligenza viene a riguardare più propriamente il momento deontologico della condotta, la colpa si riferisce specificamente al momento negativo, sanzionatorio14. Autorevole dottrina15 ci avverte di come sia in colpa e quindi incorra in responsabilità “chi poteva prevenire l’evento con la diligenza occorrente”. In tale prospettiva, l’unica veramente rilevante per il diritto, la diligenza viene in considerazione quale oggetto di una valutazione ed è inscindibile da essa. Pertanto, diligenza in sé è formula vuota che necessita inevitabilmente di una determinazione riferita ad un certo ambito ed alle circostanze del caso. Essa interessa il diritto esclusivamente dal punto di vista della prevedibilità ed evitabilità dell’evento pregiudizievole, assumendo rilevanza in relazione alla colpa che ne rappresenta sostanzialmente la forma di qualificazione giuridica. Sebbene la diligenza rappresenti genericamente l’aspetto positivo e parallelo della colpa, e questa tenda di conseguenza ad identificarsi con la negligenza, non sembra comunque corretto ritenere, in un’ottica più propriamente tecnicoscientifica, che le due nozioni si sovrappongano senza residui, rappresentando identica cosa su piani antitetici. Poiché con ogni probabilità l’abbinamento dei due concetti risulta storicamente voluto, è necessario comprenderne la specifica portata, pur nella piena validità delle conclusioni generali sinora avanzate. In dottrina si è autorevolmente sostenuto che plausibile interpretazione sia quella che vuole ricompreso nel binomio 13 Cfr. Forchielli, voce Colpa I (Diritto Civile), in Enciclopedia Giuridica Treccani, vol. VI, Roma, 1988. 14 Cfr. Cancelli, voce Diligenza (dir. rom.), op. cit. 15 Così Maiorca, voce Colpa civile (teoria generale), in Enciclopedia del Diritto, vol. VII, Milano,1960, 575. 9 colpa-diligenza ogni possibile forma di condotta dell’obbligato16. La colpa infatti, in un’accezione più restrittiva, rappresenterebbe termine che esprime una condotta attiva, cosicché rispondere di diligenza, oltre che di colpa, servirebbe propriamente “ad includere, nella imputazione, anche la condotta passiva, l’omissione di un atto opportuno a prevenire il danno lamentato”. Dunque, rispondere di diligenza “non si può altrimenti che per aver omesso l’azione che essa include”; mentre rispondere di colpa “vale piuttosto ad indicare l’addebito di un’azione, con eventuale omissione delle necessarie norme di prudenza e di accortezza”. La diligenza, in conclusione, rileva giuridicamente come propria assenza, rappresentando il criterio per l’individuazione della colpa in senso generico. Essa dunque, con particolare riferimento al fenomeno obbligatorio, è, in positivo, sintomo d’adempimento e, in negativo, individuazione e valutazione della responsabilità, concorrendo per tale ultimo aspetto all’attuazione dell’ordinamento giuridico. 2.- Antichi sistemi sui gradi di colpa e diligenza.- Tra gli storici del diritto, si riconosce generalmente che le prime teorizzazioni sulla nozione di colpa, intesa quale omissione di diligenza, siano riconducibili ai maestri postclassici delle scuole orientali, prima, ed ai compilatori giustinianei, poi. Se infatti non si nega che i classici usassero del concetto di colpa, quantomeno nel senso di riconduzione dell’illecito nella sfera di controllo dell’obbligato, è soprattutto nel periodo postclassico e giustinianeo che si riconosce importanza a prospettive soggettivistiche della responsabilità del debitore, nello spirito di 16 Così Cancelli, voce Diligenza (dir. rom.), op. cit, 525-526. 10 concettualizzazione e sistematizzazione che caratterizza questa fase del diritto17. Introdotta nella valutazione della condotta dell’obbligato la prospettiva psicologica e soggettiva della colpa, definita in funzione della diligenza, ne derivava quanto all’imputabilità una graduatoria negli atteggiamenti sanzionabili. È soprattutto agli interpreti medievali del diritto romano, comunque, che si deve l’estremizzazione e la riconduzione a sistema della tradizionale impostazione che distingue la colpa in tre gradi, cui corrispondono altrettante graduazioni di diligenza. Secondo questa ricostruzione, infatti, al dolus, inteso come volontarietà della condotta nociva, segue la culpa lata, cui corrisponde una nimia negligentia, consistente nella negligenza massima di quel debitore che omette le precauzioni più ovvie, non intendendo ciò che tutti intendono, la cui culpa è per ciò stesso proxima dolo. Alla culpa lata segue la culpa levis che si sostanzia nella mancanza della exacta diligentia o diligentia diligentis, ossia nell’omissione di quelle cure e cautele usate generalmente dalle persone ordinariamente diligenti. L’ultimo stadio della colpa è rappresentato dalla culpa levissima, alla quale si contrappone la exactissima diligentia o diligentia diligentissimi, che si individua in quelle omissioni proprie anche degli uomini muniti di prudenza ordinaria, e dalle quali difficilmente riescono a difendersi persino le persone straordinariamente attente e diligenti18. Dunque, nel sistema elaborato dai giuristi dell’età di mezzo, riferibile soprattutto a quella scuola di sistemazione delle fonti romane che prende il nome di Glossa, tutti i soggetti dell’ordinamento sono tenuti a comportarsi osservando una diligenza minima, suggerita dalla stessa natura umana e perciò 17 Su questo, cfr. Cancelli, voce Diligenza (dir. rom.), op. cit; Talamanca, voce Colpa civile (storia), in Enciclopedia del Diritto, vol. VII, Milano, 1960. 18 Sulla ricostruzione dei gradi di colpa e diligenza nel senso del testo, cfr. in particolare, Giorgi, Effetti delle obbligazioni, in Teoria delle obbligazioni nel diritto moderno italiano, vol. II, libro I, parte II, Firenze, 1895. 11 comune a tutti gli uomini. Con specifico riferimento ai rapporti obbligatori, ciascun soggetto deve poi osservare generalmente anche l’esatta diligenza, propria del bonus o diligens pater familias romano, ossia quella “diligenza commisurata a un tipo astratto di uomo, preciso metodico puntuale e memore dei propri impegni”19. In relazione ad alcune specifiche obbligazioni, infine, può accadere che il soggetto sia tenuto a prestare una diligenza particolarmente qualificata, comportandosi secondo un eccezionale grado di accortezza e sollecitudine. La mancata adibizione del grado di diligenza di volta in volta prescritto determina, come suo specifico effetto, il prodursi “di un evento dannoso, prevedibile come conseguenza del comportamento del debitore, ma da questo non previsto”, evento che genera una responsabilità di intensità diversa a seconda del grado di colpa in cui è riconducibile l’omissione. Sulla così delineata tripartizione dei gradi di colpa e diligenza si appuntano, in maniera per così dire trasversale, il criterio della utilitas partium contrahentium e quello della diligentia quam suis, che attengono piuttosto al diverso, ma connesso, profilo della prestazione della colpa-diligenza. Il criterio della utilitas rileva essenzialmente quando si tratta di stabilire se sussistano, ed in quali casi, rapporti obbligatori in cui una delle parti, nell’adempimento della propria prestazione, possa dirsi tenuta all’osservanza della diligenza minima, e non anche di quella che si è definita esatta. È proprio in applicazione di tale criterio, infatti, che si arriva a sostenere, nelle ricostruzioni dei glossatori, che il debitore, qualora non goda di una remunerazione e non tragga dal contratto alcuna utilità, debba prestare solamente la minima diligenza20. Se per il criterio della utilitas non si pongono problemi quanto alla sua riconduzione a sistema, rappresentando, come rilevato, una regola per la determinazione dei limiti della 19 Così Cancelli, voce Diligenza (dir. rom.), op. cit., 523. 20 Su questo, Bellomo, voce Diligenza (dir. interm.), in Enciclopedia del Diritto, vol. XII, Milano, 1964. 12 responsabilità contrattuale, maggiori incertezze comporta la sistematizzazione della diligentia quam suis. La diligentia quam suis rappresenta “l’attitudine che il debitore assume al riguardo delle cose proprie”21, ed in quanto tale è configurabile con riferimento al contenuto di uno qualsiasi dei tre gradi di diligenza. Certo è che, nonostante in un primo momento si cerchi tra i giuristi medievali di considerare questa forma di diligenza come un metro a se stante, è prevalsa infine l’impostazione che la vede sussunta nella culpa lata, rendendola, inoltre, indice sintomatico di un possibile comportamento doloso: la mancanza in rebus alienis della diligentia quam suis “rivelava, dunque, presuntivamente una responsabilità per dolo; ma la rivelava soltanto, e non la determinava”22. Nonostante buona parte dei commentatori successivi si attengano alla tripartizione dei glossatori, che domina incontrastata nella pratica del diritto comune, numerosi sono i tentativi volti a ripensare tale sistema, senza tuttavia produrre risultati fruttuosi e duraturi23. Le alternative proposte sono tutte riconducibili ad una impostazione più o meno comune, e si sostanziano nella configurazione della colpa come generico elemento soggettivo dell’illecito civile, in cui si ricomprende anche il dolo, e nella sua ripartizione in sei specie: culpa latissima (dolus), culpa latior (dolus praesumptus, rivelato dalla violazione della diligentia quam suis), culpa lata (non intelligere quod omnes intelligunt), culpa levis (omissione della diligentia diligentis), culpa levior (sconosciuta alle fonti, si identificherebbe in genere nella culpa levissima in faciendo), culpa levissima (omissione della diligentia diligentissimi). 21 Così Talamanca, voce Colpa civile (storia), op. cit.,526. 22 Così Bellomo, voce Diligenza (dir. interm.), op. cit., 535. 23 Su questo, Talamanca, voce Colpa civile (storia), op. cit. 13 In pochissimi, tra i critici della tripartizione proposta dalla Glossa, si discostano da questa tendenza comune. Il tentativo più serio ed efficace è rappresentato sicuramente dall’opera di Donello, che, respinta la ripartizione della colpa in sei specie, la distingue esclusivamente in lata e levis. Secondo tale ricostruzione la colpa è omne factum inconsultum, quo nocetur alii iniuria. Essa si specifica, da un lato, nella culpa lata, qualora manchi l’adibizione della diligentia quam suis oppure di quella richiesta dalla communis homnium natura, dall’altro, nella culpa levis, qualora il comportamento del debitore sia improntato alla imprudentia. Il sistema dei glossatori, dunque, “per non breve seguito di anni, regnò sicuro e nelle scuole e nel foro”24. Tale è la situazione almeno fino alla metà del XVIII secolo, periodo in cui si colloca la ferma difesa della tripartizione della colpa ad opera di Pothier. Pothier infatti, in accordo con la maggior parte degli antichi interpreti, distingueva tre gradi di colpa: la colpa grave (culpa lata), che presuppone nell’agente una negligenza imperdonabile o una completa inettitudine, tanto da essere assimilata al dolo; la colpa lieve (culpa levis o levior), che è quella che non commette il diligens paterfamilias, uomo dotato di quella diligenza media che corrisponde alla “cura ordinaria che le persone prudenti usano nei loro affari”; la colpa lievissima (culpa levissima), che è quella che non è ascrivibile ad un uomo dotato di una diligenza eccezionale. Quanto all’utilità pratica della tripartizione, Pothier ci avverte di come nei contratti che abbiano ad oggetto soltanto l’utilità del creditore, il debitore non risponde che della colpa grave; al contrario, risponde della colpa lievissima nei contratti conclusi solo in vista del suo esclusivo interesse; infine, nei contratti onerosi per entrambe le parti, il debitore risponde della colpa lieve. È solo con il XIX secolo che si riesce a mettere seriamente in discussione l’impostazione tradizionale. Il 24 Così Giorgi, Effetti delle obbligazioni, op. cit., 28. 14 contributo maggiormente significativo rappresentato dalla ricostruzione di Hasse. ed innovativo è Con Hasse, infatti, si inaugura il sistema dei due gradi della colpa, anticipato da Donello, che vede la soppressione della culpa levissima. La culpa è quindi lata o levis, e per entrambi i gradi si distingue tra culpa in concreto e culpa in abstracto. Considerate in abstracto, la culpa lata e la culpa levis non si discostano significativamente dalle definizioni che ne davano i glossatori. In concreto, invece, esse consistono, la prima, nel non impiegare la diligentia quam suis, la seconda, nel commettere una “trascurataggine grave, avuto rispetto al modo comune di agire degli uomini; leggiera, avuta considerazione alle abitudini proprie del debitore”25. Correlativamente, anche la diligenza si distingue in diligentia in abstracto (diligentia diligentis) e diligentia in concreto (quam in suis rebus adhibere solet). Con riferimento al vecchio criterio dell’utilitas, infine, si stabilisce che il debitore debba generalmente osservare, nell’adempimento della propria obbligazione, solo la diligentia in concreto, qualora non ritragga dall’obbligazione alcuna utilità. I sistemi sulla graduazione della colpa e della diligenza vengono respinti dai compilatori del codice civile francese del 1804. Si afferma infatti che la divisione delle colpe sia “più ingegnosa che utile in pratica […]. La teoria per la quale si dividono le colpe in più classi, senza poterle determinare, può soltanto spargere una falsa luce e divenire materia di più numerose contestazioni”26. 3.- Codificazione napoleonica e influenze sul nostro legislatore.- Nel dichiarato intento di abolire tanto il sistema tradizionale sulla tripartizione della colpa quanto quello, più 25 Così Giorgi, Effetti delle obbligazioni, op. cit., 29. 26 La citazione, attribuita a Bigot de Prèamenue, è riportata da Troplong, Della vendita, Vol. unico, prima traduzione italiana a cura di Baffi, Palermo, 1853, 249, n. 363. 15 recente, della bipartizione27, il legislatore francese introduce nel codice di Napoleone la disciplina di cui all’art. 1137: “L’obbligazione di vigilare alla conservazione della cosa, sia che la convenzione non abbia per oggetto che l’utilità di una delle parti, sia che abbia per oggetto la loro utilità comune, assoggetta colui che ne è gravato a usarvi tutte le cure d’un buon padre di famiglia. – Quest’obbligazione è più o meno estesa relativamente ad alcuni contratti, i cui effetti, a questo riguardo, sono spiegati sotto i titoli che li riguardano”. Sebbene l’articolo si riferisca in principio alla diligenza che il debitore deve impiegare nella conservazione della cosa dovuta, la dottrina e la giurisprudenza francesi non hanno incontrato alcuna difficoltà nell’interpretare la norma come espressione di un principio generale. Come rileva Laurent, infatti, “ce que le code dit de l’obligation de donner s’applique nécessairement à tutes les obligations; il y’n a qu’un seul article concernant la faute dans les contrats, c’est l’article 1137; il est donc général et s’applique à toutes les obligations qui naissent d’un contrat”28. La norma, dunque, si compone di due parti: la prima, contiene l’enunciazione della regola generale per cui qualsiasi debitore, nell’adempimento di qualsivoglia obbligazione contrattuale, è tenuto ad usare di quella diligenza che impiegherebbe un buon padre di famiglia; la seconda, ci avverte invece di come la regola subisca dei temperamenti con riferimento ad alcuni contratti, dando luogo a non pochi dubbi interpretativi. Da gran parte della dottrina successiva si sottolineava, infatti, come il legislatore avesse, per così dire, 27 Nell’Esposè de Motif di Bigot de Preameneu, infatti, si dichiarava formalmente che il codice abrogava le distinzioni che gli interpreti avevano creduto di trovare nel diritto romano, e ciò in quanto la teoria dei gradi della colpa “appariva troppo artificiosa e poco elastica in un settore come quello contrattuale in cui la varietà delle obbligazioni e l’autonomia delle parti contraenti richiedevano una valutazione caso per caso e nessuna graduazione rigida prefissata dalla legge”. Così Visintini, Trattato breve della responsabilità civile, op. cit., 10. 28 Così Laurent, Obligations, in Principes de Droit Civil, vol. XVI, Bruxelles-Paris, 1978, 277. 16 fatto rientrare dalla finestra ciò che aveva inteso cacciare dalla porta, sebbene poi non ci fosse accordo con riferimento a quale delle ricostruzioni fosse implicitamente presupposta nella legge. È proprio la formulazione del capoverso dell’art. 1137, dunque, a ridimensionare alquanto il carattere di rottura, rispetto alle vecchie distinzioni, che i compilatori del codice francese pretendono di assegnare alla nuova disposizione. Dire infatti che “Questa obbligazione può essere più o meno estesa relativamente ad alcuni contratti”, significa verosimilmente riconoscere l’esistenza di una diligenza più o meno estesa di quella del buon padre di famiglia. Inoltre, se si passa ad esaminare i casi in cui il debitore è tenuto ad una diligenza diversa da quella generalmente imposta, ci si accorge che, mentre in effetti non vi sono ipotesi in cui questi debba usare una diligenza più estesa, quelle in cui la diligenza presenta minore intensità fanno specifico riferimento a fattispecie in cui l’obbligato non riceve alcuna utilità29. Secondo un’autorevole ricostruzione, che nel definire la portata innovativa dell’art. 1137 del codice civile francese, ne estende poi le conclusioni a quella che si vedrà essere la corrispondente disposizione del codice civile italiano del 1865, “Di fronte alla disposizione della legge, dove la stessa lettera suggerisce argomenti che nettamente contraddicono all’idea di mutazione radicale che si vorrebbe dedurre dai lavori preparatori, la ricerca non doveva essere ristretta alla questione di graduazione, rispetto alla quale mal si è sollevato dubbio per essere cosa inerente al concetto medesimo della colpa; ed occorreva invece indagare i criteri sulla prestazione”. “Secondo la vecchia teoria, la prestazione della colpa aveva regola nella varia natura dei contratti, ed in genere nel concetto dell’utilità che si ritraeva dall’obbligazione; nell’ordinamento attuale, 29 La critica è riconducibile, tra gli altri, a Troplong, Della Vendita, op. cit. Tra le obbligazioni cui si collega una diligenza minore rispetto a quella del buon padre di famiglia, nel sistema del codice civile francese, si può citare a titolo d’esempio quella del mandatario gratuito ex art. 1992: “la responsabilità relativa alle colpe è applicata meno rigorosamente a colui il cui mandato è gratuito che non a colui che riceve una mercede”. 17 questo criterio dell’utilità è altrimenti inteso, e la prestazione della colpa, abbia o no il contratto per oggetto il vantaggio, l’utilità d’una o d’ambedue le parti, è sempre misurata sulla diligenza del buon padre di famiglia, salve le eccezioni espressamente ordinate. S’è ora detto che il criterio dell’utilità è altrimenti inteso, non scomparso affatto, perché le eccezioni ordinate dalla legge hanno appunto in esso la loro ragione giustificativa: ma la diminuzione della colpa, la minor severità, non inducono, a causa della regola posta, il grado della c. lata”. Per tale dottrina quindi l’innovazione della legge consisterebbe nell’aver limitato l’operatività del criterio dell’utilitas ad ipotesi eccezionali, ed in più nella conseguenza che il minor rigore che continua a dedursi da tale criterio, andrebbe sempre apprezzato sulla base della regola fissata a misura ordinaria della responsabilità contrattuale30. Qualunque sia l’impostazione da accogliere, sembra comunque fuori di dubbio che i compilatori del codice napoleonico “intesero accordare in questa materia al giudice le più ampie facoltà di apprezzamento della colpa del debitore, in riferimento e alle circostanze del caso concreto e alla volontà delle parti contraenti e alla natura del contratto”31. Il dovere di diligenza nell’adempimento delle obbligazioni contrattuali, così come formulato all’art. 1137 del codice di Napoleone, viene recepito quasi letteralmente dall’art. 1224 del codice civile italiano del 1865: “La diligenza che si deve impiegare nell’adempimento dell’obbligazione, abbia questa per oggetto l’utilità di una delle parti o d’ambedue, è sempre quella di un buon padre di famiglia, salvo il caso di deposito accennato nell’articolo 1843. – Questa regola per altro si deve applicare con maggiore o minor rigore, secondo le norme contenute per certi casi in questo Codice”. 30 Così Chironi, La colpa nel dirito civile odierno. Colpa contrattuale, Torino, 1925, spec. 64-65. 31 Così Visintini, Trattato breve della responsabilità civile, op. cit, 10. 18 Rispetto alla previsione francese, la nostra disposizione presenta due differenze soltanto: in primo luogo, essa si riferisce testualmente a tutte le obbligazioni, dettando dunque una norma più ampia rispetto a quella ricavabile unicamente dal tenore letterale della corrispondente disposizione d’oltralpe32; in secondo luogo, si inserisce espressamente nel testo dell’articolo l’eccezione in favore del depositario, eccezione che del resto è presente anche nel codice francese sebbene in sede diversa33. Nonostante queste differenze di carattere testuale, le due norme risultano tuttavia sostanzialmente uniformi ed omogenee, cosicché anche con riferimento alla disposizione italiana si pongono i medesimi problemi circa la rottura più o meno netta con le tradizioni del passato. Probabilmente, coglie nel segno quella dottrina34 per la quale “la diligenza del buon padre di famiglia in astratto è veramente nel diritto nostro la sola misura ordinaria della responsabilità di ogni debitore”, tuttavia è concesso al giudice “di figurarsi il buon padre di famiglia, ora più, ora meno accurato, seguitando le norme indicate dal Codice per taluni contratti”. Alcune precisazioni sembrano comunque opportune. Sebbene infatti dall’art. 1224 “apparisca dovuta per regola generale da ogni debitore, tranne il depositario, la diligenza 32 Si è già detto, tuttavia, di come l’art. 1137 del codice civile francese sia stato interpretato, sin dalle sue prime applicazioni, come riferibile alla diligenza che il debitore deve in genere usare nell’adempimento di qualsiasi obbligazione di fonte contrattuale. 33 Nel codice civile francese si prevede, infatti, all’art. 1927, che il depositario debba usare nel custodire la cosa depositata la stessa diligenza che usa nel custodire le cose proprie. La stessa formula era confluita nell’art. 1843 del codice italiano del 1865, richiamato in via di eccezione dall’art. 1224. L’eccezione per il deposito si giustificava nell’essenza stessa dell’istituto, atteso che “il depositario prende la cosa in custodia e la mette fra le sue altre cose, dunque, nella comune intenzione delle parti deve sorvegliare in guisa in cui egli abitualmente sorveglia le cose che gli appartengono”. Così Visintini, Trattato breve della responsabilità civile, op. cit., 31-32. 34 Così Giorgi, Effetti delle obbligazioni, op. cit., 36, 38, 39, 43. 19 ordinaria del buon padre di famiglia in astratto, pur tuttavia questa regola riceve due restrizioni”: innanzitutto, “è dovuta la diligenza in concreto, quando la diligenza propria ed abituale del debitore superi la diligenza ordinaria del buon padre di famiglia, perché prestare verso il creditore una diligenza minore rispetto a quella impiegata nei propri affari risulta indice di mala fede35; in secondo luogo, poiché “la volontà delle parti è legge suprema del contratto”, ogni qualvolta risulti essere stato voluto dalle parti, e segnatamente dal creditore, di esigere un grado di diligenza minore o maggiore rispetto a quello ordinario, la regola dell’art. 1224 non avrà applicazione. Con riferimento a tale ultimo profilo, si può inoltre aggiungere che le eccezioni previste dalle “norme contenute per certi casi in questo Codice”, “non sono altro che interpretazione della presunta volontà delle parti”, suscettibili in quanto tali di applicazione estensiva36. Vero è, dunque, che con la codificazione il legislatore abbia teso a superare l’ordine tradizionale, ed in particolare la divisione astratta e sistematica della colpa in più gradi. Tuttavia, lasciare al giudice, come sembrerebbe, l’apprezzamento delle circostanze nelle quali si possa esigere una diligenza maggiore o minore37, vale senz’altro a riconoscere “la gradazione naturale, e 35 Critica tale conclusione Chironi, La colpa nel dirito civile odierno. Colpa contrattuale, op. cit., spec. 45, per il quale “la dottrina accennata, sovverte, confondendo i due tipi di diligenza, ogni ragion di presunzione tenuta dal legislatore nello stabilire il modo e la graduazione della colpa”. 36 Ma, in senso contrario, si veda Piola, voce Obbligazioni – Diritto Civile, op. cit., 743, ove l’autore sostiene che “le disposizioni della legge, nelle quali si trova statuita la prestazione d’un grado o d’una specie di diligenza diversa da quella d’un buon padre di famiglia, sono disposizioni eccezionali, che, […] non posson esser estese a casi e tempi in esse non espressi”. Nello stesso senso Chironi, La colpa nel dirito civile odierno. Colpa contrattuale, op. cit. 37 Non è di questo avviso nuovamente Piola, voce Obbligazioni - Diritto Civile, op. cit.,745, il quale, stranamente sottovalutando l’innegabile ruolo creativo svolto dal giudice nell’attuazione del diritto, afferma: “Alla legge e alla convenzione soltanto si deve attendere, per determinare la diligenza dovuta, epperò la determinazione della diligenza dovuta non può avvenire da parte del magistrato. Allorquando dinanzi al magistrato si discute quali siano il grado, la specie e il rigore della diligenza dovuta, il magistrato altro non può fare che applicare i principi esposti nei numeri precedenti, principi dei quali dovrà fare applicazione anche allorquando si tratta di determinare nel caso concreto in che 20 si direbbe continua della colpa”38, o più precisamente della diligenza. La diligenza, infatti, “non è un indistinto, ma anzi ammette delle distinzioni”. “La legge determina la specie, il grado e il rigore della diligenza, con la quale il debitore deve adempiere l’obbligazione, e il principio generale che dalla legge si trova posto, il principio che vale di qualunque specie di obbligazione si tratti e da qualunque fonte l’obbligazione derivi, quello si è, che il debitore deve adempiere l’obbligazione con la diligenza d’un buon padre di famiglia, cioè con quella cura che è abituale a ogni uomo assennato e prudente”. Ciò che in ogni caso risulta indispensabile per la valutazione della diligenza, è tener conto “della natura dell’obbligazione e di tutte le circostanze di persona, di tempo e di luogo, come pure degli usi vigenti nella località in cui l’adempimento deve avvenire”39. La generale previsione di diligenza nell’adempimento dell’obbligazione, unitamente al lavoro interpretativo su di essa svolto, si trasferisce senza rotture nel codice civile italiano del 1942, tuttora vigente. L’art. 1176 recita infatti: “Nell’adempiere l’obbligazione il debitore deve usare la diligenza del buon padre di famiglia. – Nell’adempimento delle obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura della attività esercitata”. Unico elemento di novità rispetto al codice abrogato attiene non alla formulazione del principio, bensì semplicemente alla sua collocazione. Mentre infatti nel codice del 1865 il dovere di diligenza era posto nel capo relativo agli effetti delle obbligazioni, nel codice attuale esso è dettato con riferimento consista la specie, il grado e il rigore della diligenza che dev’essere prestata”. In senso più aderente al testo si esprime invece Giorgi, Effetti delle obbligazioni, op. cit., 36, che definisce la diligenza del buon padre di famiglia “un criterio tanto indeterminato e arbitrario da lasciare al giudice libertà di valutazione quasi indefinita; arbitrio larghissimo nello scusare le colpe”. 38 Così Borsari, Articolo 1224, in Commentario del Codice Civile Italiano, vol. III, parte II, Delle obbligazioni, Torino, 1877, 558. 39 Così Piola, voce Obbligazioni - Diritto Civile, op. cit.,743. 21 all’adempimento in generale, senza che comunque lo spostamento comporti significative differenze di ordine sistematico40. L’attuale legislatore, dunque, mantiene a fondamento della disciplina dell’adempimento delle obbligazioni la diligenza riferita al tipo classico romano disponendo infatti che «nell’adempiere l’obbligazione il debitore deve usare la diligenza del buon padre di famiglia» (art. 1176); viene però chiaramente precisato che tale diligenza non è quella dell’uomo medio desunta in pratica dalla media statistica, sebbene quella del cittadino, del produttore, del professionista, del lavoratore modello, «memore dei propri impegni e cosciente delle relative responsabilità», modello quindi che per sua natura è destinato a modificarsi secondo i tempi, le abitudini, i rapporti sociali, il grado di civiltà. In tale impostazione, il capoverso dell’art. 1176, in cui si dispone che “Nell’adempimento delle obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata”, altro non sarebbe che applicazione della regola appena enunciata. Lo stesso articolo 2236, comunemente interpretato come norma basilare sulla colpa professionale, nel limitare la responsabilità del prestatore d’opera al dolo e alla colpa grave, quando la prestazione si caratterizzi per la soluzione di “problemi tecnici di speciale difficoltà”, non fa altro che confermare che l’impegno cui è tenuto il professionista è quello ordinario, valutato alla stregua dei principi generali e tenuto conto della natura della prestazione, mentre solo quando siano in gioco problemi di eccezionale difficoltà tecnica, la responsabilità viene circoscritta alla colpa grave, nell’accezione però dell’imperizia41: “la colpa grave nella soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà riflette in sostanza la negligenza rispetto al criterio della diligenza del buon 40 In tal senso, Di Majo, Dell’adempimento in generale, op. cit. 41 Cfr. Visintini, Trattato breve della responsabilità civile, op. cit. 22 professionista”42. Coglie nel segno, dunque, autorevole dottrina quando afferma che “il «buon padre di famiglia» possa benissimo costituire il modello non solo di chi coltiva un modesto campicello, ma anche di chi dirige una grossissima impresa, o di chi presta la sua assistenza in una difficile causa, o di chi guida un’automobile da corsa o pilota un velocissimo aeroplano o manovra un ordigno atomico”43. Questa interpretazione è confortata in particolare dal contenuto della Relazione del Guardasigilli al Re, n. 559. Ivi si afferma, infatti, che il criterio della diligenza, “richiamato in via generale nell’art. 1176 come misura del comportamento del debitore nell’eseguire la prestazione dovuta, riassume in sé quel complesso di cure e di cautele che ogni debitore deve normalmente impiegare nel soddisfare la propria obbligazione, avuto riguardo alla natura del particolare rapporto ed a tutte le circostanze di fatto che concorrono a determinarlo. Si tratta di un criterio obiettivo e generale, non soggettivo e individuale: sicché non basterebbe al debitore, per esimersi da responsabilità, dimostrare di aver fatto quanto stava in lui, per cercare di adempiere esattamente l’obbligazione. Ma, d’altra parte, è un criterio che va commisurato al tipo speciale del singolo rapporto; per questo, nell’art. 1176 comma 2, è chiarito, a titolo di esemplificazione legislativa, che, trattandosi di obbligazioni inerenti all’esercizio (e quindi all’organizzazione) di un’attività professionale, la diligenza deve valutarsi avuto riguardo alla natura dell’attività esercitata; per questo, inoltre, pur essendo apparso superfluo riprodurre l’art. 1224 comma 2 c.c. 1865, è da ritenersi certo che sussistono anche nel nuovo sistema dei casi in cui la diligenza deve apprezzarsi con minore o maggiore rigore”. 42 Così Visentini, La diligenza come criterio di responsabilità dell’amministratore, in Afferni – Visintini (a cura di), Principi civilistici nella riforma del Diritto Societario, Milano, 2005, spec. 101. 43 Così Giorgianni, voce Buon padre di famiglia, in Nuovissimo Digesto Italiano, vol. II, Torino, 1957, 596, in risposta a quanti tacciano di anacronismo il tradizionale modello, ma con considerazioni certamente estendibili anche alla specifica questione che qui ci occupa. 23 È innegabile che la legge, o al più la convenzione stipulata dalle parti, possa prevedere delle ipotesi in cui il giudizio sulla diligenza vada condotto sulla base di un rigore maggiore o minore, pur mantenendo come modulo d’appoggio quello del buon padre di famiglia. Nella valutazione della diligenza, dunque, non sarà sufficiente il riferimento al modulo normativo del buon padre di famiglia, ma occorrerà apprezzare il modo di essere della diligenza con riferimento alla possibilità di prevenire il danno nelle circostanze del caso. Ciò inevitabilmente anche sulla base di una seppure minima considerazione delle qualità dell’obbligato, soprattutto quando determinanti l’affidamento dell’incarico. Sulla base di queste considerazioni, la dottrina ha spiegato come la formulazione della tradizionale teoria dei gradi della colpa tenda in realtà ad occuparsi di un falso problema, o comunque di un problema mal posto in quanto condizionato da un equivoco. Ed infatti, si sarebbe erroneamente provveduto “a portare sul piano giuridico diversità che non toccano il momento giuridico della colpa, bensì il momento di fatto della diligenza, della cui valutazione è questione”. Dunque, una possibile maggiore o minore gravità non è riferibile “ai pretesi diversi gradi della colpa, intesi quali figure (forme) di qualificazione giuridica, ma semplicemente alla valutazione della diligenza riferita alle circostanze del caso. Il giudice, cioè, potrà valutare una negligenza più grave o meno grave in relazione alle circostanze in cui il comportamento del soggetto siasi svolto, ma il modulo di valutazione sarà pur sempre quello del «buon padre di famiglia»; e sarà pur sempre uno ed uno solo, ché altrimenti non avrebbe neppur senso di ricercare cosa voglia dire gravità maggiore o minore, o rigore di valutazione maggiore o minore”44. La regola della diligenza, in riferimento alla responsabilità in senso lato contrattuale, è da sempre al centro di un acceso dibattito, del quale è opportuno a questo punto dar conto, sia pure brevemente. Le discussioni che hanno finito col 44 Così Maiorca, voce Colpa civile (teoria generale), op. cit., 581. 24 dividere la nostra dottrina, investono in sostanza il rapporto che intercorre tra diligenza e inadempimento dell’obbligazione del debitore. Si tratta invero di una vexata quaestio della scienza giuridica che attiene essenzialmente alla determinazione del ruolo da assegnarsi al parametro della diligenza, così come codificato all’art. 1176, nel giudizio di responsabilità dell’obbligato, risolvendosi in particolare nella individuazione o meno di un possibile legame tra la norma citata e quella di cui all’art. 1218, ove è specificamente sistemata la disciplina sulla responsabilità per inadempimento del debitore. Com’è noto, l’art. 1218 cod. civ., in apertura del capo relativo all’inadempimento delle obbligazioni, recita testualmente: “Il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”. La norma ci dice in sostanza che il debitore è responsabile se inadempiente, tuttavia l’inadempimento non rileva quale fonte di responsabilità nelle ipotesi in cui la prestazione divenga impossibile per causa a non lui imputabile. Di qui l’origine del rammentato dibattito sul ruolo della diligenza, di qui anche le disparate posizioni dottrinali che si riscontrano sull’argomento e che sono riconducibili generalmente nell’ambito delle contrapposte teorie soggettivistiche ed oggettivistiche dell’inadempimento. Volendo semplificare, nell’impostazione soggettivistica l’inadempimento si identifica sempre in un’omissione di diligenza, tant’è che il debitore si libera da responsabilità se dimostra di aver impiegato di fronte alle difficoltà dell’adempimento uno sforzo conforme a quello di volta in volta suggerito dal metro della diligenza. In tale ordine di idee la negligenza è il fondamento stesso della responsabilità del debitore, e ciò in quanto l’inadempimento viene ad assumere una propria rilevanza giuridica solo nell’ipotesi in cui sia imputabile al debitore. La diligenza è il criterio stesso dell’imputabilità. Per l’impostazione oggettivistica, invece, fonte della responsabilità dell’obbligato è il fatto oggettivo dell’inadempimento, che si specifica a seconda dei casi in 25 inadempimento tout court, adempimento inesatto, ritardo. L’inadempimento, infatti, è da intendersi genericamente come “nozione comprensiva di ogni genere di violazione di obblighi assunti dal debitore, e non soltanto trasgressione del criterio della diligenza”. In tale prospettiva, dunque, poiché “il ruolo della regola della diligenza è circoscritto alla determinazione delle modalità di esecuzione della prestazione”, essa individua solo una forma di inadempimento in cui il debitore può incorrere, e specificamente quella dell’inesattezza della prestazione, con esclusivo riferimento a quelle obbligazioni che “hanno ad oggetto un’attività finalizzata ad un certo risultato”45. Rilevato l’inesatto adempimento, si procede al giudizio di responsabilità che a sua volta è incentrato sul dato oggettivo dell’inadempimento nella specifica forma considerata. La teoria oggettiva dell’inadempimento trova la sua prima e più autorevole sistemazione nell’opera di Osti46. Secondo l’illustre autore, infatti, il fondamento della responsabilità è rappresentato dal solo fatto oggettivo dell’inadempimento, svolgendo la regola della diligenza un ruolo proprio ed autonomo solo con riferimento all’individuazione dell’esattezza dell’adempimento delle obbligazioni cosiddette di fare: “la «colpa del debitore», intesa appunto come mancanza della diligenza dovuta, in questa ipotesi in cui la prestazione è in tutto o in parte costituita proprio da attività del debitore, è né più né meno che un elemento integrante dell’inesatto adempimento, vale a dire del presupposto obiettivo della responsabilità, non una condizione soggettiva che al presupposto obiettivo si aggiunga a costituire il fondamento di quella”47. Il debitore, dunque, va esente da responsabilità solo in caso di impossibilità sopravvenuta della prestazione, quando la causa dell’impossibilità non possa essergli imputata neppure a titolo di colpa-negligenza. Dovrà 45 Così Visintini, Trattato breve della responsabilità civile, op. cit., 177, 202. 46 Gli scritti dell’autore sull’argomento sono stati raccolti a cura di Rescigno nell’opera Osti, Scritti giuridici, I, Milano, 1973. 47 Così Osti, Deviazioni dottrinali in tema di responsabilità per inadempimento delle obbligazioni, in Osti, Scritti giuridici, op. cit., spec. 472-473. 26 trattarsi ad ogni modo di una impossibilità di adempiere oggettiva ed assoluta, laddove l’impossibilità oggettiva individua un impedimento inerente all’intrinseca entità del contenuto della prestazione, non assumendo alcun rilievo la considerazione delle condizioni personali o patrimoniali del debitore, sempre che tali condizioni non attengano immediatamente all’oggetto del rapporto, mentre l’impossibilità assoluta ha riguardo ad un impedimento che non può essere superato dalle forze umane, sebbene si debba “considerare assolutamente impossibile la prestazione anche quando l’eseguirla potrebbe mettere in pericolo quei diritti essenziali della persona: salvo che, trattandosi di obbligazione contrattuale, e compatibilmente con i principi fondamentali dell’ordine pubblico e del buon costume, il debitore ne abbia assunto consapevolmente il rischio”48. In tale impostazione la colpanegligenza diventa il fondamento della responsabilità per sopravvenuta impossibilità della prestazione: “la colpa può bensì essere un presupposto soggettivo imprescindibile della responsabilità, ma solo quando sia sopravvenuta una impossibilità oggettiva della prestazione, ché allora, senza colpa del debitore, l’obbligazione sarebbe estinta”49. All’impostazione di Osti si contrappone l’opera di altro autorevole studioso, Giorgianni, che rappresenta la più compiuta 48 Così Osti, Impossibilità sopravveniente, in Osti, Scritti giuridici, op. cit., spec. 493. I “diritti essenziali della persona” cui l’autore si riferisce sono individuati nel diritto alla vita, alla libertà ed alla integrità personale del debitore, le cui esigenze di tutela devono considerarsi quali limiti alla possibilità della prestazione. Più oltre l’autore sembra comunque mitigare, quantomeno da un punto di vista formale, la propria concezione sulla impossibilità assoluta di adempiere, affermando che “Senza dunque infirmare l’esatto criterio logico della distinzione fra impossibilità assoluta e impossibilità relativa, … l’impossibilità assoluta di una prestazione oltre che da legge inesorabile di natura (quod natura dari vel fieri non potest), può essere determinata dal sopravvenire di un impedimento «non superabile con le modalità di esecuzione che, secondo il comune apprezzamento, debbano intendersi connaturali alla prestazione medesima nel singolo tipo di rapporto di cui essa forma oggetto»”. Così Osti, Impossibilità sopravveniente, in Osti, Scritti giuridici, op. cit., spec. 495. 49 Così Osti, Deviazioni dottrinali in tema di responsabilità per inadempimento delle obbligazioni, op. cit., spec. 467. 27 sistemazione di quell’impostazione che vede nella colpa il fondamento della responsabilità cosiddetta contrattuale50. Nell’interpretazione di tale autore, l’art. 1218 cod. civ. non rappresenta la norma generale sulla responsabilità per inadempimento, poiché essa regola esclusivamente l’ipotesi in cui la prestazione sia divenuta impossibile, per di più limitando in tali casi l’obbligo del debitore di evitare gli impedimenti allo svolgimento della prestazione all’impiego della normale diligenza. Da ciò l’ovvia conseguenza per cui, finché la prestazione si riveli in concreto possibile, il debitore inadempiente non potrà essere considerato per ciò stesso responsabile. In tali ipotesi, la regola cui è necessario riferirsi al fine di accertare eventuali responsabilità sarebbe nuovamente rappresentata proprio dalla regola sulla diligenza, variamente commisurata a seconda del tipo di rapporto. Nel pensiero dell’autore, infatti, solo nelle obbligazioni che hanno per oggetto dare, restituire, trasferire una cosa certa e determinata, il debitore è tenuto anzitutto ad impedire la perdita della cosa, cosicché la norma dell’art. 1218 può ben coprire tutta l’area della responsabilità con riferimento all’attività principale dell’obbligato. Con riferimento ad altri tipi di rapporti, invece, è indispensabile individuare una regola di condotta che informi tutta l’attività del debitore, al fine di poter così disciplinare l’ipotesi del mancato adempimento quando la prestazione sia ancora possibile. La responsabilità del debitore, dunque, risulterebbe fondata, “salve specifiche eccezioni, sulla violazione di una regola di condotta che impone al debitore un certo sforzo o «diligenza»”51. A me pare che le prospettive poste a base delle diverse teorie sull’inadempimento, rappresentino in realtà l’una la risposta alle estremizzazioni dell’altra. È innegabile, infatti, e lo si è cercato di dimostrare in queste pagine, che la regola sulla diligenza svolga un ruolo di tutta importanza in rapporto non 50 Il pensiero di tale autore risulta soprattutto da una monografia che egli ha dedicato all’argomento. Ci si riferisce in particolare a Giorgianni, L’inadempimento, Milano, 1975. 51 Così Giorgianni, L’inadempimento, op. cit., 290. 28 solo all’individuazione ma anche e soprattutto alla valutazione della responsabilità del debitore. Ciononostante, è senz’altro da evitare una ricostruzione del sistema della responsabilità in chiave eccessivamente soggettivistica, che tenda cioè a costruire un particolare metro di giudizio per ogni singolo caso concreto, tenendo per di più conto di condizioni soggettive e pericolosi stati d’animo, laddove invece la specifica considerazione del caso concreto, e dunque anche della sfera soggettiva del debitore, dovrebbe servire piuttosto a graduarne la responsabilità. È ben vero che la diligenza acquista una specifica portata precettiva proprio con riferimento ad obbligazioni connotate da attività del debitore, ma non credo si possa negare che essa sia, per ogni tipo di obbligo, la regola che impone al debitore una certa misura di sforzo nell’adempimento, venendo ad assumere così anche la funzione di criterio di controllo dell’impegno che l’obbligato abbia rivolto alla conservazione della possibilità della prestazione52. Senza dubbio l’ordinamento conosce ipotesi di responsabilità oggettiva o, come si suole dire, senza colpa, ma esse mi sembra rappresentino ipotesi eccezionali, che si giustificano alla luce di esigenze del tutto particolari53. Ad ogni modo, non credo sia questo il caso della violazione di obblighi specifici, obblighi cosiddetti di risultato. Anche con riferimento a tale tipo di obblighi, infatti, mi sembra che la diligenza partecipi al giudizio di responsabilità del debitore in relazione soprattutto all’evitabilità del fatto impeditivo dell’adempimento. Si dice che in tali ipotesi la negligenza è in re ipsa, che essa cioè 52 Sembra esprimersi in senso abbastanza vicino al testo Di Majo, Dell’adempimento in generale, op. cit. Dello stesso avviso è Messineo, Manuale di Diritto Civile e Commerciale, vol. III, Milano, 1959, 319, per il quale “Negligenza è, dunque, omissione delle cure, occorrenti a rendere possibile al debitore l’adempimento regolare della prestazione”. 53 La stessa responsabilità per fatto dannoso degli ausiliari, ex art. 1228 cod. civ., per quanto sia controversa la sua ricostruzione in termini di responsabilità oggettiva, necessita testualmente di un fatto doloso o colposo del soggetto della cui opera il debitore si vale, fatto che è direttamente imputato al debitore stesso quale titolare dell’obbligo primario nei confronti del creditore. 29 si presume dal fatto stesso del mancato raggiungimento del risultato dovuto. È sostanzialmente corretto ritenere che l’art. 1218 cod. civ. rappresenti la norma cardine intorno alla quale ricostruire tutto il sistema della responsabilità per inadempimento del debitore, qualunque sia la prestazione dovuta. Ed è senz’altro corretto ritenere che l’art. 1176 sia la norma generale che disciplina l’adempimento di qualsiasi obbligazione. Responsabilità per inadempimento e adempimento, poi, sono nozioni intimamente legate se è vero, come è vero, che è l’individuazione dell’adempimento dovuto a dare senso alla responsabilità qualora questo sia mancante. La diligenza, lo ripetiamo, è innanzitutto modalità di adempimento della prestazione, qualunque sia l’attività cui il debitore si sia obbligato (dare, custodire, fare, non fare), e per ciò stesso essa concorre alla definizione dell’adempimento. È ben vero che il debitore è responsabile fino al limite dell’impossibilità sopravvenuta di adempiere, dipendente da causa a lui non imputabile54. Ed è indubbio che l’impossibilità ha riguardo alla prestazione in sé e non alla mera difficoltà soggettiva di adempiere. Ma come potrebbe ritenersi responsabile il debitore per uno sforzo al quale non si è obbligato? E come è possibile che egli risponda per un impedimento che in nessun caso avrebbe potuto prevedere o superare sulla base delle energie che 54 Difende incisivamente tale limite della responsabilità Alpa, Istituzioni di diritto privato. Problemi, Torino, 2002, 325, quando afferma che “solo l’impedimento che determina l’impossibilità della prestazione in sé e per sé considerata, vale a dire l’impossibilità obiettiva della medesima, può avere efficacia di liberare il debitore da responsabilità per inadempimento o ritardo, e può addirittura, quando sia definitiva, estinguere l’obbligazione, sempreché ad un simile elemento oggettivo si accompagni quello soggettivo della assenza di colpa”. Sul versante opposto, quello della responsabilità, è interessante la costruzione di Messineo sull’impossibilità sopravvenuta della prestazione per causa imputabile a fatto del debitore, ipotesi che ricorrerebbe sia quando “la «causa imputabile» consista nell’intenzione (dolo) del debitore di non-adempiere”, impossibilità «provocata», sia quando “la prestazione sia divenuta impossibile, ma perché l’abbia resa tale, la negligenza (colpa) del debitore”. Così Messineo, Manuale di Diritto Civile e Commerciale, op. cit., 314. 30 era tenuto ad impiegare, e soltanto quelle?55 D’altra parte, è la stessa corte di Cassazione, “in una sentenza risalente che può parificarsi a un leading case in materia, in quanto ha acquisito l’autorità di un precedente a cui si è uniformata la giurisprudenza successiva”56, ad affermare “che la ‘causa non imputabile’ al debitore, la quale ha determinato l’impossibilità della prestazione, è quella che non può essere evitata mediante l’impiego della normale diligenza”57. Nel silenzio della convenzione, o in generale delle intenzioni delle parti, la diligenza prevista dalla legge rappresenta il confine stesso dell’adempimento. Come potrebbe non influenzare anche il limite della responsabilità che di quell’adempimento è garante? Con riferimento a determinati rapporti contrattuali poi, si parla spesso di un aggravamento della responsabilità, giustificato dal cosiddetto rischio di impresa. Si dice, in sostanza, che chi esercita professionalmente un’attività imprenditoriale è in grado di valutare anticipatamente i rischi 55 Efficace in relazione al discorso che andiamo svolgendo mi pare una bella pagina di Venezian, ove l’autore, pur se impegnato in una estrema difesa del fondamento oggettivo della responsabilità per “torto dannoso estracontrattuale”, afferma: “Nell’ambito dei rapporti contrattuali non si può parlare più di responsabilità oggettiva; tanto il diritto che si cede quanto il diritto che si acquista, dipendono per l’un contraente dalla volontà dell’altro; tutti due misurano quindi il pericolo e la speranza che hanno nell’esporre il proprio diritto, e regolano in conseguenza la responsabilità rispettiva. Sorge qui e si sviluppa in tutta la sua ampiezza la teoria della colpa, dove non si tratta più dell’opposizione a un diritto primario, ma della contravvenzione a un obbligo contrattuale”. E più oltre: “Se per il fatto dell’un contraente la cosa dell’altro, che ad un titolo qualunque è stata trasferita nel suo possesso si deteriora e si perde, non è ancora avvenuto un torto contrattuale … Un torto contrattuale è avvenuto soltanto, quando il detentore della cosa ha mancato di osservare quel grado di diligenza che egli ha assunto come obbligo, e che il proprietario ha imposto come condizione del contratto, prevedendo il pericolo più o meno grande, a cui la sua cosa va incontro per il fatto dell’altro contraente, col quale viene in contatto più intimo e più frequente che con estranei”. Così Venezian, Danno e risarcimento fuori dei contratti, in Studi sulle obbligazioni, vol. I, a cura della Famiglia e della R. Accademia delle Scienze di Bologna, Roma, 1919, 78-79. 56 Così Visintini, Trattato breve della responsabilità civile, op. cit., 174, ma sembrerebbe con finalità diverse. 57 Così Cass., 27 maggio 1955, n. 1638, Giust. civ., 1955, 1632. 31 della sua attività e di provvedere alla loro copertura con una percentuale di profitti. Per queste fattispecie la responsabilità sarebbe indipendente dalla colpa (negligenza), perché la legge pone a carico del debitore il rischio di “eventi, anche incolpevoli, che rientrino nella sua sfera di organizzazione economica e che comunque costituiscono un rischio tipico della sua attività”58. Mi sembra comunque che in tali ipotesi la prestazione si caratterizzi proprio per una funzione di garanzia contro determinati rischi, e la diligenza dunque, lungi dal non interessare affatto il fenomeno, si specificherebbe nella predisposizione di tutte quelle misure idonee all’assorbimento di quei rischi, tenuto conto dell’abituale settore di attività del debitore. La diligenza del buon padre di famiglia è quindi parametro per la valutazione dell’adempimento di qualsiasi obbligazione e, in particolare, rappresenta il criterio per l’accertamento delle eventuali responsabilità dell’obbligato. È comunque innegabile che essa assuma un diverso peso con riferimento al tipo di obbligazione dedotto nel titolo, acquisendo una portata certamente pregnante in relazione a quei rapporti che si caratterizzano sotto il profilo della cura e gestione di interessi altrui. Quando infatti l’obbligazione del debitore si caratterizza non per la produzione di un risultato specificamente determinato, bensì per lo svolgimento di un’attività più o meno discrezionale, volta al soddisfacimento degli interessi della controparte, la diligenza si atteggia a vera e propria regola di condotta, venendo quasi a coincidere con l’oggetto stesso della prestazione59. Questo particolare operare della regola che 58 Così Trimarchi, Istituzioni di diritto privato italiano, Milano, 1995, 349. 59 Il problema è noto in dottrina come distinzione tra obbligazioni di risultato e obbligazioni di mezzi. La distinzione, proposta in Francia da Demogue alla fine degli anni Venti, attiene propriamente all’oggetto dell’obbligazione. Si sostiene infatti che mentre in alcune obbligazioni il debitore promette un certo risultato, in altre promette esclusivamente l’impiego dei mezzi normalmente utili al raggiungimento del risultato, ovvero la diligenza. Di conseguenza, se con riferimento alle obbligazioni di risultato è in genere sufficiente che il creditore dimostri la mancanza del risultato promesso affinché 32 esprime la diligenza è tanto più intenso quanto più esteso risulti essere l’ambito lasciato alla discrezionalità del debitore. Inoltre, avuto riguardo al risultato che pure caratterizza tali tipi di obbligazioni, il problema della diligenza si porrà in maniera tanto più specifica quanto più aleatorio risulterà il soddisfacimento dell’interesse del creditore. Proprio quando il risultato della prestazione è aleatorio, infatti, la diligenza viene ad acquisire quella ulteriore e particolare funzione di distinguere la negligenza, rilevante ai fini della sanzionabilità giuridica, dall’abilità personale e dalla sfortuna, suscettibili di valutazioni politiche, volte a sindacare la maggiore o minore opportunità di taluni comportamenti, ma irrilevanti in ordine alla configurazione di qualsivoglia responsabilità. È il carattere che ritroviamo tipicamente nell’obbligazione del mandatario che, lo ricordiamo, consiste nel compimento di uno o più atti giuridici per conto del mandante. Ma, più in generale, è l’impostazione che caratterizza qualsiasi rapporto che si fondi sulla fiducia, ogni volta in cui la gestione da parte del fiduciario, volta alla realizzazione dell’interesse del fiduciante, sia destinata a confrontarsi e scontrarsi con il rischio dell’affare. Alla luce delle considerazioni appena svolte, nelle obbligazioni fortemente discrezionali ed aleatorie la diligenza – regola di condotta si confonde sovente con la correttezza, fino ad assurgere a vero e proprio criterio di responsabilità del debitore, solo quando la violazione del precetto che essa esprime riveli il sintomo di un comportamento più o meno fraudolento e, comunque, non conforme a buona fede. Di qui una serie di importanti conseguenze, prima fra tutte, l’atteggiamento estremamente cauto della nostra giurisprudenza nel rilevare gli il debitore risponda, salvo che questi riesca a provare l’esistenza di una causa estranea a lui non imputabile, nelle obbligazioni di mezzi il creditore dovrà specificamente provare la deviazione del contegno del debitore da quella regola di condotta che, con riferimento a quel particolare rapporto, è espressa dalla diligenza, spettando a quest’ultimo la prova del contrario o comunque della eventuale causa estranea. Su questa distinzione, cfr. De Lorenzi, voce Obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato, in Digesto, Disc. Priv., Sez. Civ., vol. II, Torino, 1997. 33 estremi del comportamento negligente, quando non ancorato a specifiche violazioni di legge o ad una situazione di conflitto d’interesse quantomeno presunto. Ulteriore conseguenza è rappresentata dalle concrete difficoltà probatorie che si offrono all’attore. Questi infatti, nell’ipotesi in cui intenda realmente contestare la negligenza, sarà inevitabilmente onerato di figurarsi e prospettare, tra le tante astrattamente possibili, quali modalità di comportamento il debitore avrebbe dovuto effettivamente adottare nel caso specifico, perché conformi a diligenza. Ciò spiegherebbe del resto come, nella pratica, sia abbastanza esiguo il numero di domande giudiziali finalizzate a determinare e limitare, con esclusivo riferimento al generale dovere di diligenza, l’oggetto delle controversie trattate nelle nostre aule di giustizia. 34 CAPITOLO II - DILIGENZA E GESTIONE: LA RESPONSABILITÀ DEGLI AMMINISTRATORI DI SOCIETÀ DI CAPITALI (*) 1.- Considerazioni generali.- L’articolo 2392 cod. civ., “Responsabilità verso la società”, al primo comma, nel testo ante riforma∗, dispone: “Gli amministratori devono adempiere i doveri ad essi imposti dalla legge dall’atto costitutivo con la diligenza del mandatario, e sono solidalmente responsabili verso la società dei danni derivanti dall’inosservanza di tali doveri, a meno che si tratti di attribuzioni proprie del comitato esecutivo o di uno o più amministratori”60. (*) Il capitolo riproduce, con alcune aggiunte e modificazioni, il testo della Rassegna di giurisprudenza su “La diligenza come criterio di responsabilità dell’amministratore”, allegata alla Relazione del Prof. Gustavo Visentini, svolta nel corso del Convegno sul tema “Principi civilistici nella riforma del Diritto Societario”, Imperia, 26 – 27 settembre 2003, e pubblicata in appendice a Afferni – Visintini (a cura di), Principi civilistici nella riforma del Diritto Societario, op. cit., 303. ∗ Si è scelto di far riferimento alla vecchia formulazione dell’articolo perché tale è la norma che trovasi ancora applicata dai giudici, in considerazione della recente entrata in vigore della riforma. Si può comunque avvertire sin da ora come, a parere di chi scrive, la nuova formulazione non sembra aggiungere nulla di diverso rispetto alle conclusioni che si potevano trarre con riferimento alla vecchia disciplina. Sulla nuova formulazione del dovere di diligenza, infra. 60 Sono, dunque, due gli elementi costitutivi della responsabilità degli amministratori: nell’operato dell’amministratore si deve ravvisare la violazione degli obblighi derivanti dal suo ufficio; per effetto di questa violazione, si deve poter accertare che è stato recato un pregiudizio al patrimonio sociale. La conclusione è pacifica sia in dottrina che in giurisprudenza. 35 Gli amministratori, dice la legge, devono adempiere i propri obblighi con la diligenza del mandatario61. Il riferimento al mandato è effettuato allo scopo di stabilire il tipo di diligenza richiesto, nel senso che il rapporto di amministrazione riproduce in sostanza la situazione “del conferimento di incarico da parte di un soggetto per il perseguimento del di lui interesse”62. La diligenza richiesta al mandatario è individuata dall’art. 1710 cod. civ., primo comma, nella diligenza del buon padre di famiglia, vale a dire in quella diligenza che si è visto essere normalmente richiesta, ex art. 1176 cod. civ., ad un qualsiasi debitore nell’adempimento della propria obbligazione. Trattasi di un criterio di commisurazione dell’adempimento che, come rilevato, “riassume in sé quel complesso di cure e cautele che ogni debitore deve normalmente impiegare nel soddisfare la propria obbligazione, avuto riguardo alla natura del particolare rapporto e a tutte le circostanze di fatto che concorrono a determinarlo”63. 61 Nel codice di commercio del 1882, gli amministratori erano definiti come “mandatarii temporanei, rivocabili, socii o non socii” (art. 121). Oggi la dottrina è concorde nel ritenere che tale qualificazione non sia più possibile, perché gli amministratori costituiscono un organo indispensabile della società cui la legge attribuisce competenze proprie. Cfr., su questo, Weigmann, voce Società per Azioni, in Digesto, Disc. Priv., Sez. Comm., vol, XIV, Torino, 1997. Il codice continua, tuttavia, a riferirsi alla diligenza del mandatario, nel misurare lo sforzo che gli amministratori devono impiegare nell’espletamento dell’incarico loro conferito, per l’indubbio parallelismo rinvenibile tra il rapporto di mandato e quello di amministrazione, proprio con riferimento al particolare atteggiarsi della diligenza: come nel mandato, infatti, la diligenza richiesta dalla legge agli amministratori, prima di essere eventualmente utilizzata come criterio di responsabilità, svolge la funzione di contribuire all’integrazione dello stesso contenuto della prestazione dovuta, stante il carattere discrezionale proprio dell’attività di gestione di interessi altrui. Cfr., sull’atteggiarsi della diligenza nel mandato, Santagata, Delle obbligazioni del mandatario, in Commentario del codice civile Scialoja-Branca, a cura di Galgano, libro quarto, Delle obbligazioni, Bologna – Roma, 1998. 62 Così Adiutori, Funzione amministrativa e azione individuale di responsabilità, Milano, 2000, 43. 63 Così si esprime, come già sottolineato, la Relazione al codice civile, n. 559, con riferimento al criterio della diligenza, richiamato in via generale nell’art. 1176. 36 Il legislatore, riferendosi alla diligenza del buon padre di famiglia, ha voluto sottoporre la condotta degli amministratori ad un parametro di valutazione che fosse “obiettivo e generale”64. Non sembra, tuttavia, concretamente sostenibile, al di là delle affermazioni di principio pacificamente espresse tanto in dottrina che nella stessa Relazione al codice civile, che il riferimento valga effettivamente a sgombrare il campo da considerazioni di natura soggettiva, basate sulle capacità e qualità personali dell’obbligato65, essendo innegabile che, nei fatti, tali caratteristiche concorrano a condizionare, a diverso titolo, l’affidamento dell’incarico. Il parametro di riferimento, pertanto, andrà necessariamente costruito in relazione al caso concreto, avuto riguardo all’aspettativa del creditore, società o soci, ed al “tipo speciale del singolo rapporto”. Il comportamento dell’amministratore, dunque, dovrà essere valutato con riferimento alla “diligenza che avrebbe usato un amministratore normalmente diligente che si fosse trovato in quella circostanza”66. Ma il giudizio sarà diverso di caso in caso, perché “i doveri degli amministratori variano, sotto questo aspetto, a seconda delle situazioni, a seconda anche dell’oggetto 64 Si consideri, ancora, il contenuto della Relazione al codice civile, n. 559: la diligenza è “un criterio obiettivo e generale, non soggettivo ed individuale: sicchè non basterebbe al debitore, per esimersi da responsabilità, dimostrare di aver fatto quanto stava in lui per cercare di adempiere esattamente l’obbligazione. Ma, d’altra parte, è un criterio che va commisurato al tipo speciale del singolo rapporto”. 65 Sembrerebbe avvalorare la conclusione espressa nel testo la posizione di Carlo Maiorca, che, con riferimento al rapporto tra diligenza e prevedibilità dell’evento nella teoria della colpa, così si esprime: “se pur nell’applicazione del modulo della diligenza potrà aversi riguardo a criteri estrinseci ed oggettivi, è comunque certo che la valutazione della possibilità di conoscere o prevedere va riferita (diremo meglio applicata) al soggetto della cui responsabilità si tratti; e non già a terzi estranei alle circostanze del caso. Infatti, se pur è un modulo ideale (o astratto che dir si voglia) di diligenza che viene assunto ai fini della valutazione, va tenuto presente che il giudizio della responsabilità fa capo al comportamento del soggetto di cui si postula la colpa ed è con riguardo a tale comportamento soggettivo che si propone la valutazione della diligenza”. Così Maiorca, voce Colpa civile (teoria generale), op. cit, 576. 66 Così Bonelli, La responsabilità degli amministratori, in Trattato delle società per azioni, diretto da Colombo e Portale, vol. IV, Torino, 1994, 352. 37 sociale e forse anche a seconda delle caratteristiche peculiari che ogni impresa presenta”67, e dovrà fondarsi su “quella media diligenza che può attendersi da persone che accettano di far parte di un consiglio di amministrazione, tenendo conto della speciale struttura data alla singola società e al suo stesso consiglio in conformità della legge”68. In definitiva, senza voler peccare di empirismo e pur riconoscendo la validità delle formule astratte, non sembra sensatamente contestabile, a meno di non perdere il necessario contatto con la realtà, che “c’è tutta una graduazione di attività amministrativa alla quale risponde una graduazione di diligenza dovuta dal singolo amministratore”69. Chi, ragionevolmente, si spingerebbe fino a negare che, in tale “graduazione”, la posizione dell’obbligato si individui soprattutto con riguardo alle qualità personali ed alle ragioni dell’incarico assunto? L’obbligo di gestire diligentemente la società non comprende l’ulteriore obbligo della perizia, quantomeno in senso tecnico: “il membro di un consiglio di amministrazione di una società anonima, per questa sua sola qualità, può non conoscere la tecnica mercantile delle operazioni che costituiscono l’oggetto sociale, poiché ci saranno altri (direttori, amministratore delegato, institori, ecc.) cui spetta questa particolare conoscenza”70 È, infatti, impensabile richiedere all’amministratore la contemporanea cognizione delle svariate tecniche di gestione dell’impresa71. Ciò che può richiedersi ad un amministratore diligente, semmai, è di far fronte alle proprie 67 Così Frè, Società per azioni, in Commentario del codice civile ScialojaBranca, a cura di Galgano, libro quinto, Del lavoro, Bologna – Roma, 1997, 838. 68 Così De Gregorio, Responsabilità degli amministratori, in Il codice di commercio commentato, vol. IV, Delle società e delle associazioni commerciali, Torino, 1938, 336. 69 Così De Gregorio, Responsabilità degli amministratori, op. cit., 337. 70 Cosi De Gregorio, Responsabilità degli amministratori, op. cit., 337. 71 A conferma della conclusione enunciata nel testo, sembra essere la circostanza che nel sistema giuridico italiano non sia richiesta una particolare qualificazione professionale per i membri del consiglio di amministrazione. Si veda, in tal senso, Weigmann, voce Società per azioni, op. cit. 38 carenze, avvalendosi della consulenza tecnica di collaboratori ed esperti72. Che dire, allora, del caso in cui l’amministratore sia notoriamente un perito? La legge, in generale, non sembra spingersi fino ad esigere dall’amministratore un simile rigore nell’adempimento dell’incarico. Ma come negare che, nuovamente, colga nel segno l’antica dottrina quando afferma che, “se egli usa abitualmente nella trattazione degli affari propri la diligenza del diligentissimo padre di famiglia, eguale diligenza dovrà porre nell’esercizio del mandato ricevuto, in quanto la sua conosciuta diligenza di diligentissimo padre di famiglia può appunto essere stato il motivo determinante il mandante ad affidargli il mandato”73? D’altra parte, con riferimento al mandato che, lo ricordiamo, è espressione tipizzata della più generale categoria delle c.d. relazioni fiduciarie, tra le quali è certamente inquadrabile il rapporto di amministrazione, la dottrina è solita affermare che “qualora il mandato sia conferito a soggetti con specifica considerazione delle loro capacità professionali (…), il criterio della «diligenza del buon padre di famiglia» deve necessariamente adeguarsi alla peculiare accortezza e perizia, che è lecito attendersi da chi sia dotato della correlativa idoneità professionale”74. Nell’organizzazione societaria la funzione amministrativa si specifica nel compimento di tutti quegli atti necessari affinché la società realizzi il suo scopo. La legge non fornisce un elenco di tutti gli obblighi che, nell’espletamento dell’incarico, gravano sugli amministratori, ma si limita a disciplinarne alcuni in concorso con lo statuto; né sarebbe seriamente prospettabile una diversa soluzione, se si ha riguardo 72 Cfr. App. Milano, 30 marzo 2001, in Giur. Comm., 2002, II, 200, su cui infra, nel testo. 73 Così Pipia, voce Società Anonima, in Il Digesto Italiano, vol. XXI, Torino, 1903-1906, 427. 74 Così Santagata, Delle obbligazioni del mandatario, op. cit., 30, sebbene l’autore sembrerebbe spingersi fino a ravvisare una specifica professionalità dell’amministratore di società. 39 alla pluralità di adempimenti amministratori sono tenuti. cui quotidianamente gli Accanto ad obblighi aventi un contenuto specifico, la cui violazione è di per sé sufficiente al sorgere della responsabilità, perché valutata a priori dalla legge come negligente, gli amministratori sono investiti dell’obbligo generico di gestire la società con diligenza, in relazione al quale il comportamento dovuto va determinato di volta in volta, con riferimento a tutte le circostanze del caso75. Questa distinzione comporta rilevanti conseguenze qualora si decida di sanzionare la condotta degli amministratori, con particolare riferimento al regime probatorio. Mentre infatti la violazione di un obbligo specificamente determinato dalla legge è di per sé sintomo di negligenza, 75 Questa differenza si coglie con estrema nitidezza, ancora una volta, in una pagina di Umberto Pipia, scritta nel vigore dell’abrogato codice di commercio, della quale si fornisce la riproduzione per estratto, in considerazione degli indubbi chiarimenti apportati all’intero argomento oggetto di analisi: “Nei rapporti di rappresentanza volontaria, che hanno cioè attinenza ai vincoli contrattuali di mandato posti in essere tra società mandante e amministratori mandatari, gli amministratori, nell’esercizio delle incombenze loro affidate dal patto, sono tenuti così per il dolo, come per la colpa, […] perché, siccome gli amministratori non sono costretti dalla legge a porre in essere i rapporti scatenti dalla rappresentanza, ad accettare l’esercizio di incombenze siffatte, devono giustificare la fiducia che hanno riposta nelle proprie forze, adoperando la diligenza astratta e tipica di un solerte e regolato commerciante […], così dovendo intendersi nella specie la nozione tipica del buon padre di famiglia. […] Gli amministratori d’una società anonima, se assumono e prestano personale responsabilità ponendo in essere qualche operazione senza portarvi la diligenza di un solerte e regolato amministratore, non l’assumono e non la prestano più ove, in seguito ad una lievissima negligenza che sarebbe pure sfuggita al tipo comune del regolato commerciante, ne fosse derivato qualche danno, il quale sta a rappresentare più il rischio insito in ogni impresa commerciale, che non la conseguenza della lievissima colpa. […] Trattandosi per contro di rappresentanza necessaria, purchè l’inadempimento sia imputabile, derivi cioè da imprudenza o negligenza, la quale è presunta in re ipsa, nel fatto stesso, l’amministratore deve rispondere dell’evento dannoso che ha susseguito il proprio fatto illegittimo. […] Convien quindi ritenere, per quanto si attiene alla generica determinazione della responsabilità nei rapporti di rappresentanza necessaria, che, perché essa sorga, basta il fatto puro e semplice dell’omissione imputabile dei precetti legislativi, delle incombenze affidate in base alla rappresentanza necessaria stessa”. Così Pipia, voce Società anonima, op. cit., 426427. 40 risultando pertanto sufficiente provare l’inadempimento, inteso quale violazione del precetto legale che pone quell’obbligo, la prova della negligenza richiede la dimostrazione che la condotta effettivamente tenuta dall’amministratore in quella data situazione, è colposamente difforme da quella che sarebbe stato ragionevole attendersi secondo diligenza. 2.- Orientamenti giurisprudenziali.- L’esame della giurisprudenza mostra come raramente si sia arrivati a ritenere la responsabilità degli amministratori per violazione del solo obbligo di agire con diligenza. Tra le sentenze analizzate, sembrerebbe che solo in pochissimi casi i giudici si siano spinti fino ad emettere una condanna fondata esclusivamente sulla pretesa mala gestio dell’organo amministrativo. La portata di queste pronunce va, comunque, mitigata in quanto in ognuna di esse i giudici arrivano, in maniera più o meno espressa, a paventare il rischio di un conflitto di interessi, senza spingersi, tuttavia, fino ad accertarne concretamente la sussistenza. La violazione del solo dovere di diligenza è stata, innanzitutto, riscontrata in ipotesi di perdita dell’intero patrimonio sociale per essere stato arrischiato in imprese rovinose e fonti di sicuro e prevedibile danno. La fattispecie è specificamente considerata in una risalente pronuncia del Tribunale di Firenze del 11 novembre 1952, in Dir. fall., 1953, II, 752: “Fallimento S.C.E.I.”. Nella sentenza si legge che la perdita totale risultante in bilancio consegue, “se non da dolosi intenti, quantomeno da una spaventosa incapacità commerciale ed amministrativa e da una evidente inesperienza del ramo di impresa”, lasciando sottintendere un probabile conflitto d’interessi. Il caso è il seguente: gli amministratori della società S.C.E.I. sono convenuti in giudizio dalla curatela fallimentare, ex art. 2394 cod. civ., perché ritenuti responsabili della perdita del patrimonio sociale. In particolare, si contesta agli amministratori la conclusione di tre contratti di appalto, nei quali si concentrò tutta 41 l’attività della società fallita, a condizioni rovinose e cioè con un ribasso di circa il 32% sui prezzi base adottati dal genio civile per le aste dei lavori. Il Tribunale di Firenze, ritenute ampiamente provate, con la consulenza tecnica in atti, le disastrose condizioni di assunzione dei lavori, ritiene la responsabilità degli amministratori sulla base del fatto che il patrimonio della società “andò interamente perduto per essere stato arrischiato in imprese che fino ab origine erano intrinsecamente insostenibili e fonti di sicura e prevedibile perdita”. Un caso analogo, “Fallimento Mercante”, deciso dal Tribunale di Milano con sentenza del 28 marzo 1985, in Soc., 1985, 1083, riguarda la perdita del capitale sociale per essere stato impiegato in operazioni ad alto rischio, comportanti l’assunzione di obbligazioni di importo notevolmente superiore al capitale stesso. L’amministratore viene riconosciuto responsabile per essersi limitato ad intraprendere quanto proposto dal marito della socia di maggioranza, senza procedere ad un accertamento diretto delle condizioni in ordine alla possibilità di concreta attuazione dell’affare ed alla sua reale convenienza, con sospetto, quindi, di conflitto d’interessi. Il caso attiene ad un’azione di responsabilità esercitata dal curatore fallimentare nei confronti dell’amministratore della società fallita, con riguardo al rilascio di vaglia cambiari per importo notevolmente superiore al capitale sociale. L’atto addebitato viene censurato sia perché il rapporto sottostante non rientrerebbe in modo diretto nell’oggetto sociale sia perché riguarderebbe obbligazioni contratte con imprudenza e negligenza, tali da rendere il patrimonio sociale insufficiente al soddisfacimento dei creditori. Nella specie, l’amministratore della società Mercante s.r.l. conferiva mandato ad un terzo, marito della socia di maggioranza, per il rilascio di vaglia cambiari a nome della società, allo scopo di consentirne la partecipazione ad un’operazione prospettatagli come notevolmente vantaggiosa. Tale operazione prevedeva l’esecuzione di un progetto edificatorio e la creazione di un centro commerciale, nel quale la società avrebbe potuto assicurarsi un vantaggioso punto di vendita, per il commercio di oggetti di antiquariato, secondo le previsioni dello statuto sociale. Il Tribunale di Milano ritiene che la domanda proposta dal curatore fallimentare debba essere accolta, “poiché risulta come in ogni caso il convenuto non abbia agito con la diligenza 42 del mandatario”. In particolare, il Tribunale considera l’amministratore responsabile per essersi limitato ad intraprendere quanto proposto dal marito della socia di maggioranza, senza procedere ad un accertamento diretto delle condizioni che avrebbero consentito di riscontrare la possibilità della concreta attuazione dell’affare e la sua reale convenienza, trattandosi per di più di operazione ad alto rischio, comportante l’assunzione di obbligazioni per un importo notevolmente superiore al capitale sociale. Probabilmente il caso di maggiore interesse, ai fini della comprensione del tema trattato, attiene ad una controversia sottoposta all’esame della Corte di Cassazione e decisa con sentenza del 12 novembre 1965, n. 2359, in Giur. it., 1966, I, 1, 401: “Cooperativa Lavoratori di Arzignano”. La sentenza è particolarmente interessante per la completezza della motivazione da cui risulta che la condotta dell’amministratore viene sindacata con riferimento sia all’aspetto sostanziale che procedurale. Nel caso di specie, infatti, la responsabilità dell’amministratore risulta non solo dal fatto che questi avrebbe alienato il principale cespite patrimoniale senza che la situazione economica e finanziaria della società imponesse un sacrificio di tale gravità, ma anche perché la vendita sarebbe avvenuta con “modalità sospette”, tali da far presumere un personale interesse nell’operazione. Il caso è il seguente: la società cooperativa Lavoratori di Arzignano agisce in responsabilità contro gli amministratori, contestando loro la violazione del generale obbligo di comportarsi con diligenza (art. 2392 cod. civ., primo comma) in relazione alla vendita di un cinema-teatro, posta in essere allo scopo di far fronte a necessità di denaro liquido. La Cassazione ritiene incensurabile e sostanzialmente corretta la decisione della Corte d’Appello (App. Venezia, 26 novembre 1963), la quale ha accertato che “gli amministratori, lungi dall’adempiere ai loro doveri con la diligenza del buon padre di famiglia, si resero responsabili di colpa grave nell’esecuzione delle loro funzioni”. Secondo la Corte d’Appello di Venezia, infatti, all’epoca dei fatti contestati la situazione economica e finanziaria della cooperativa non era così disastrosa da richiedere un sacrificio di eccezionale gravità, e cioè la vendita del cinema-teatro, che costituiva il maggior cespite patrimoniale 43 della società e l’oggetto delle prevalenti finalità sociali. In particolare, la Cassazione osserva come la correttezza della decisione di merito risulti dal fatto che il sindacato dei giudici abbia investito non quale tra le varie soluzioni fosse la più idonea a fronteggiare la crisi (giudizio che, come vedremo, è precluso all’autorità giudiziaria), bensì l’accertamento della reale necessità di un provvedimento di tanta gravità. La decisione dei giudici di merito, a giudizio della Suprema Corte, risulta ancor più avvalorata dalle modalità della vendita: “Ma ciò che più conta è che la vendita del cinema-teatro avvenne con modalità sospette, quasi all’improvviso e quasi clandestinamente, in quanto gli amministratori non interpellarono nessuno, non provocarono alcuna gara fra i possibili acquirenti ed addivennero frettolosamente alla vendita, stipulando il contratto preliminare nello stesso giorno della deliberazione. E la vendita avvenne, per giunta, a prezzo vile, cioè un prezzo (lire 32.750.000) inferiore di circa 17 milioni al suo valore di scambio (49 milioni)”. La responsabilità per violazione del solo obbligo di agire con diligenza sembra, da ultimo, affermata nel caso “Rotostar”, deciso con sentenza del Tribunale di Milano del 28 dicembre 1989, in Soc., 1990, 638, in relazione all’operato di un amministratore delegato che si era discostato ingiustificatamente dalle indicazioni del consiglio di amministrazione ed aveva mostrato una palese negligenza nella gestione dell’affare. Sebbene i giudici non vi facciano riferimento, neppure implicitamente, anche in questo caso si potrebbe forse arrivare ad ipotizzare il concorso nell’operazione di un personale interesse dell’amministratore, avuto riguardo al concreto atteggiarsi della propria condotta. Il caso è il seguente: la società Rotostar s.p.a. chiede che sia dichiarata la responsabilità dell’amministratore delegato per violazione del generale dovere di comportarsi con diligenza (art. 2392 cod. civ.). Nella specie, l’amministratore, incaricato di compiere gli atti necessari all’acquisto di un impianto di depurazione, si era discostato ingiustificatamente dalle indicazioni del consiglio di amministrazione ed aveva mostrato una palese negligenza nella gestione dell’affare, procurando un danno alla società. Gli addebiti contestati attengono, in particolare, all’ordine conferito per la fornitura dell’impianto, che comportava una spesa superiore al limite fissato dal 44 consiglio di amministrazione, ed al pagamento dell’intera commessa prima della consegna e della positiva verifica dell’opera. Il Tribunale di Milano ritiene fondata la domanda di responsabilità perché l’amministratore non ha provato la sussistenza di fatti motivi o circostanze tali da consentirgli di discostarsi legittimamente dalle direttive del consiglio e perché il danno sofferto dal patrimonio sociale è riconducibile al suo illegittimo ed incauto comportamento, in quanto, “a fronte dell’integrale corrispettivo della commessa, la società ha ricevuto un impianto incompleto e non funzionante”. Viene spesso segnalata in dottrina76, come esemplare condanna degli amministratori per violazione del solo obbligo di agire con diligenza, la sentenza del Tribunale di Milano, 26 giugno 1989, in Soc., 1989, 1179. La pronuncia, tuttavia, è stata completamente ribaltata in appello (App. Milano, 16 giugno 1995, in Soc., 1995, 1562), quanto alla fonte della responsabilità. Si tratta del noto caso “La Centrale”, relativo all’acquisto, ad un prezzo ingente, di una rilevante partecipazione della Rizzoli s.p.a.. Il Tribunale di Milano aveva riconosciuto la responsabilità degli amministratori per violazione dell’obbligo di diligenza, rilevando come l’operazione fosse stata “condotta e gestita con emblematica imprudenza, sommarietà ed irragionevolezza”. La Corte d’Appello di Milano, investita della questione, pur mantenendo ferma la responsabilità degli amministratori, ne ancora il presupposto ad un diverso apprezzamento delle risultanze processuali: la responsabilità degli amministratori si fonderebbe, nella specie, non sulla negligenza della condotta in sé, bensì sul perseguimento di finalità extrasociali. Il caso è il seguente: la società La Centrale Finanziaria Generale s.p.a. agisce in responsabilità ex art. 2392 cod. civ. contro gli amministratori per aver concluso operazioni finanziarie rovinose in violazione del generale dovere di diligenza. I fatti gestionali denunciati attengono, soprattutto, all’acquisto di una partecipazione della Rizzoli s.p.a., fortemente indebitata al tempo di tale operazione, pari circa al quaranta per cento del capitale 76 Si veda, per tutti, Bonelli, Gli obblighi e la responsabilità degli amministratori, op. cit. 45 sociale, ad un prezzo ritenuto del tutto spropositato, ed al successivo concorso nella ricapitalizzazione di detta società. In primo grado, i giudici riconoscono la colpevolezza degli amministratori ed, in particolare, del presidente del consiglio d’amministrazione, Roberto Calvi, per essersi comportati con assoluta irragionevolezza. La Corte d’Appello conferma la condanna di primo grado, riconoscendo, tuttavia, come la fattispecie sia piuttosto riconducibile all’ipotesi del conflitto d’interessi. In particolare, i giudici di secondo grado rilevano come l’operazione sarebbe andata a vantaggio del Banco Ambrosiano, che avrebbe conseguito una riduzione della propria esposizione creditoria verso la Rizzoli. La Centrale era, infatti, una società finanziaria controllata dal Banco ed, in entrambe le società, Roberto Calvi rivestiva la carica di presidente del consiglio d’amministrazione. L’acquisto della partecipazione Rizzoli ad un prezzo superiore al suo valore di mercato e la successiva ricapitalizzazione ne avrebbero evitato il fallimento che, in caso contrario, avrebbe inferto un duro colpo al Banco. Dall’esame dei casi concreti si evince, dunque, come l’atteggiamento della nostra giurisprudenza sia improntato a notevole cautela: si afferma la responsabilità degli amministratori, per il profilo in esame, solo in presenza di circostanze che, oltre a fondare la violazione dell’obbligo di gestire la società con diligenza (art. 2392 cod. civ., primo comma), facciano presumere l’inadempimento dell’ulteriore obbligo di non agire in conflitto d’interessi (art. 2391 cod. civ.). In molte sentenze, soprattutto recenti, che affrontano il problema della diligenza, gli amministratori sono stati assolti, in quanto accertato che le scelte gestorie, indipendentemente dal loro esito infausto, siano state ponderate sulla base di concrete e ragionevoli aspettative oppure avvalendosi di controlli e consulenze. Il riferimento alle aspettative trovasi affermato, in particolare, in una sentenza del Tribunale di Parma del 3 novembre 1999, in Nuova Giur. Civ., 2001, I, 220, ove si ritiene conforme a diligenza l’operato degli amministratori con specifico riferimento al settore di attività della società: “Fallimento Editoriale Parma”. Il caso attiene al fallimento di una società per azioni, la Editoriale Parma, avente ad oggetto la pubblicazione e la 46 diffusione di un quotidiano locale. Intervenuto il fallimento della società, il curatore fallimentare agisce in responsabilità contro gli amministratori per violazione del generale obbligo di diligenza, contestando, in particolare, lo sconsiderato avvio dell’attività di pubblicazione del giornale, avuto riguardo all’insufficienza del patrimonio della società rispetto al raggiungimento dello scopo e all’ammontare delle spese sostenute. Il Tribunale di Parma ritiene non sussistere la fondatezza dell’addebito in quanto il compimento dell’attività denunciata appare conforme a diligenza, tenute presenti le modalità attraverso cui le scelte sono state effettuate e le circostanze esistenti nel momento in cui gli atti sono stati posti in essere. Nella sentenza, in particolare, si legge che “quando si arrivi al convincimento che le scelte gestorie, indipendentemente dal loro esito infausto, non siano state né irragionevoli, né avventate, ma ponderate sulla base di concrete e ragionevoli aspettative, deve necessariamente concludersi che non ricorra la responsabilità degli amministratori”. Fa riferimento a considerazioni di carattere propriamente procedurali, invece, una sentenza della Corte d’Appello di Milano del 30 marzo 2001, in Giur. Comm., 2002, II, 200, in cui si ritiene assolto l’obbligo di diligenza degli amministratori, in relazione all’acquisizione di altra società, nell’aver disposto controlli e consulenze, tenuto conto della difficoltà oggettiva di comprensione della gestione dell’acquisenda società: “RCS Editori”. La questione prospettata ai giudici milanesi attiene all’esercizio dell’azione di responsabilità da parte della società RCS Editori s.p.a., contro il presidente del consiglio di amministrazione, per violazione del dovere di diligenza nell’acquisizione di altra società. La RCS Editori s.p.a. procedeva all’acquisto della partecipazione di controllo della società Gruppo Editoriale Fabbri dalla precedente controllante. Dalle perizie e revisioni dei bilanci non era emerso che la metà del fatturato dell’acquisenda società rimaneva insoluto in quanto i crediti insoddisfatti venivano ceduti ad una società di factoring, garantita dalla precedente controllante. Con la decisione di acquisto, la RCS Editori s.p.a. subentrava nella garanzia con conseguenze disastrose per il patrimonio sociale. La Corte d’Appello di Milano conferma la decisione di primo grado, che aveva negato la sussistenza della responsabilità, 47 ritenendo assolto l’obbligo di diligenza nell’aver disposto controlli e consulenze, tenuto conto della difficoltà oggettiva di comprensione della gestione dell’acquisenda società. Nella stragrande maggioranza dei casi, in cui si è effettivamente arrivati ad una condanna per violazione del dovere di diligenza, è da notare come gli amministratori fossero stati chiamati a rispondere anche, ed innanzitutto, per altre violazioni di legge. Tra le ultime sentenze, a titolo d’esempio, se ne può segnalare una del Tribunale di Milano del 20 febbraio 2003, in Soc., 2003, 1268, in cui si riconosce la responsabilità degli amministratori sia per mancata diligenza che per aver compiuto nuove operazioni dopo la perdita del capitale sociale: “Fallimento Ceta”. Il caso è il seguente: il curatore fallimentare conviene in giudizio gli amministratori della società fallita Ceta s.r.l., contestando loro sia la violazione del divieto di compiere nuove operazioni dopo la perdita del capitale sociale sia l’aver compiuto specifici atti di mala gestio relativi alla concessione di finanziamenti ad altre società ed all’acquisto di un capannone. Il Tribunale di Milano – premesso che gli atti in contestazione “devono essere valutati sotto una duplice visuale: di atto specifico di mala gestio causativo di danno, a prescindere dalla perdita del capitale sociale ed implicante semmai una valutazione della scelta gestoria; di atto compiuto in situazione di perdita del capitale sociale, rilevante in quanto pregiudizievole, indipendentemente dalla ragionevolezza o meno della scelta gestoria” – riconosce la responsabilità degli amministratori per entrambi i profili considerati. La difficoltà nell’accertamento della responsabilità degli amministratori per violazione del solo obbligo di agire con diligenza si spiega alla luce del principio della insindacabilità nel merito delle scelte di gestione, cosiddetta business judgement rule. L’operatività del principio comporta che il giudice, investito di un’azione di responsabilità per condotta negligente degli amministratori, non possa apprezzare il merito dei singoli atti di gestione, valutandone, così, l’opportunità e la convenienza. La gestione della società, infatti, in quanto attività d’impresa, comporta un alto margine di rischio e richiede il riconoscimento di un ampio potere discrezionale in capo all’organo amministrativo, in relazione alla scelta delle 48 operazioni da intraprendere. Se si consentisse al giudice di compiere una valutazione sull’opportunità e convenienza delle scelte gestorie, si legittimerebbe un’indebita ingerenza dell’autorità negli affari sociali, in pregiudizio all’autonomia ed indipendenza dell’organo amministrativo e con probabile paralisi del normale svolgimento dell’attività d’impresa77. Ciò che forma oggetto di sindacato da parte del giudice, dunque, non può essere l’atto in sé considerato ed il risultato che abbia eventualmente prodotto, bensì, esclusivamente, le modalità di esercizio del potere discrezionale che deve riconoscersi agli amministratori. La giurisprudenza è unanime nel riconoscere l’applicabilità del principio del business judgement: in tutte le decisioni che si occupano, più o meno direttamente, della diligenza si trova enunciato, infatti, che “deliberata e promossa l’azione di responsabilità contro gli amministratori, a norma dell’art. 2393 cod. civ., il giudice non può fondare il suo giudizio su di un diverso apprezzamento discrezionale della opportunità dei singoli atti dai medesimi compiuti […]. In effetti il giudice non può sindacare il merito degli atti e dei fatti compiuti dagli amministratori, o meglio non può giudicare sulla base di criteri discrezionali di opportunità o di convenienza, poiché in tal modo egli sostituirebbe, ex post, il proprio apprezzamento soggettivo a quello espresso ed attuato dall’organo all’uopo legittimato. Ai fini dell’azione di responsabilità, il giudice deve accertare e valutare il comportamento degli amministratori in base ai principi generali che regolano gli inadempimenti contrattuali (in senso lato) ed il risarcimento dei danni. Di conseguenza, in applicazione dell’art. 2392 cod. civ., egli deve accertare (nei limiti delle domande proposte dalle parti) se e quali inadempienze siano imputabili 77 Gli amministratori, infatti, sarebbero costantemente esposti al rischio di un eventuale responsabilità, derivante da un diverso apprezzamento soggettivo degli atti di gestione e, per di più, influenzato dal “senno di poi”. Ciò porterebbe ad una penalizzazione delle operazioni innovative e inusuali, che, valutate ex post, dopo il loro fallimento, ben potrebbero apparire come condotte con assoluta negligenza. Si veda, in tal senso, Bonelli, Gli obblighi e la responsabilità degli amministratori, op. cit. 49 agli amministratori, in relazione ai doveri ad essi imposti dalla legge e dall’atto costitutivo”78. L’affermazione secondo cui “il giudice non può sindacare il merito degli atti e dei fatti compiuti dagli amministratori”, non va intesa, comunque, nel senso di una preclusione nell’apprezzamento di situazioni, circostanze di fatto e ragioni connesse alle scelte di gestione, bensì nel senso che la responsabilità dell’amministratore potrà essere ritenuta soltanto qualora il giudice, valutando la condotta dell’amministratore con riferimento al momento in cui fu posta in essere, la giudichi non conforme a diligenza. A conferma delle conclusioni enunciate, circa il tipo di sindacato che si richiede al giudice, si segnala la sentenza della Suprema Corte, n. 280 del 16 gennaio 1982, pubblicata in Giust. civ., 1983, I, 603: “Finanziaria Castello”. La sentenza viene spesso citata in dottrina in relazione al contenuto dei poteri da riconoscersi all’autorità giudicante, in quanto nella massima si afferma che “in sede di accertamento delle responsabilità ex art. 2392 c.c. di amministratori di società per azioni che abbiano compiuto con debitori sociali transazioni non vantaggiose per la società, il giudice non deve confrontare i negozi posti in essere con ipotetiche transazioni che in astratto avrebbero potuto essere stipulate, perché le singole modalità del rapporto giuridico che si costituisce con la transazione rientrano nei poteri discrezionali dell’organo amministrativo, cui compete di valutare la congruità del negozio nell’interesse della società per cui agisce”. Il caso è il seguente: l’amministratore delegato della società Finanziaria Castello s.p.a. invece di agire in giudizio contro due debitori sociali inadempienti, stipula con loro due transazioni. Cessato dalla carica, l’amministratore viene convenuto in giudizio 78 Così, testualmente, Cass., 12 novembre 1965, n. 2359, citata nel testo. Sembra opportuno ribadire come, essendo la responsabilità degli amministratori una responsabilità da inadempimento, in nessun caso si potrebbe arrivare a sostenerne la sussistenza sulla base delle conseguenze dannose derivanti dalle loro scelte discrezionali di gestione: il nostro sistema giuridico, infatti, non impone agli amministratori l’obbligo di amministrare con successo economico la società loro affidata. 50 dalla società che ritiene le transazioni concluse rovinose e manifestamente contrarie a diligenza. Nel giudizio di merito si riconosceva la responsabilità del cessato amministratore sulla base del giudizio del consulente tecnico d’ufficio, che aveva ritenuto inopportune le due operazioni, confrontandole con altre che in astratto si sarebbero potute compiere. La Corte di Cassazione denuncia, sostanzialmente, due errori della decisione di merito: il primo, consistente nel fatto che il giudice, invece di esprimere direttamente un giudizio sulla diligenza o meno dell’amministratore, si è limitato a recepire le conclusioni del consulente tecnico; il secondo, attinente al fondamento della responsabilità, riscontrato non già sull’accertamento di inadempimenti, negligenze omissioni dell’amministratore, bensì sulla difformità riscontrata tra le transazioni poste in essere e quelle immaginate in ipotetica ed astratta. La Corte, inoltre, nel rinviare ad altro giudice di merito l’accertamento circa l’impiego della dovuta diligenza da parte dell’amministratore nella conclusione dei negozi transattivi, lo invita a procedere ad un riscontro diretto della situazione economica dei debitori, al fine di stabilire quali possono essere, secondo l’id quod plerumque accidit, le probabilità di recupero del credito vantato dalla società. La giurisprudenza, pur affermando costantemente il principio del business judgement, ne attenua spesso il rigore, valutando la ragionevolezza della decisione (Trib. Milano, 26 giugno 1989, vedi retro) e, soprattutto, analizzando la fase prodromica all’assunzione della stessa, al fine di attestarne la ponderatezza (Cass., 28 aprile 1997, n. 3652, in Soc., 1997, 1389). Particolarmente interessante è la sentenza n. 3652, del 28 aprile 1997, pronunciata dalla Corte di Cassazione nel caso “Associazione Calcio Monopoli”, perché in essa si trova enunciato il discrimine tra valutazioni di mera opportunità, come tali non censurabili in sede giudiziaria, e valutazioni concernenti la violazione dell’obbligo di diligenza. A giudizio della Suprema Corte, infatti, “la scelta tra il compiere o meno un certo atto di gestione, oppure di compierlo in un certo modo o in determinate circostanze, non è mai di per sé sola (salvo che non denoti addirittura la deliberata intenzione dell’amministratore di nuocere all’interesse della società) suscettibile di essere apprezzata in termini di responsabilità giuridica, per 51 l’impossibilità stessa di operare una simile valutazione con un metro che non sia quello dell’opportunità e perciò di sconfinare nel campo della discrezionalità imprenditoriale; mentre, viceversa, è solo l’eventuale omissione, da parte dell’amministratore, di quelle cautele, di quelle verifiche o di quelle informazioni preventive normalmente richieste per una scelta di quel genere che può configurare la violazione dell’obbligo di adempiere con diligenza il mandato di amministrazione e può quindi generare una responsabilità contrattuale dell’amministratore verso la società”79. Nel caso in esame, la società Associazione Calcio Monopoli s.r.l. agiva in responsabilità contro gli amministratori per la violazione dell’obbligo di diligenza e di altri specifici obblighi. In particolare, la società si doleva: 1. dell’ingaggio, a costi elevati, di giocatori non più giovani; 2. degli artifici contabili, volti al mascheramento delle perdite sociali; 3. dello storno di denaro dalle casse della società. I giudici di merito avevano respinto la domanda della società. La Corte di Cassazione, investita della questione, respinge le censure inerenti agli addebiti sub 1. e 2., mentre, con riferimento all’ipotesi sub 3., cassa con rinvio la sentenza, ritenendo il punto non sufficientemente approfondito. Con particolare riferimento al profilo della diligenza, la Cassazione sottolinea come, nel caso in esame, “l’avere gli amministratori della società Monopoli deciso d’ingaggiare certi giocatori, piuttosto che altri, e di sostenere i relativi costi, si sottrae – di per 79 In termini del tutto analoghi si esprime da ultimo il Tribunale di Milano con sentenza del 14 aprile 2004, in Giur. it., 2004, 1897, nella cui massima si legge: “Il giudizio sulla diligenza dell’amministratore nell’adempimento del suo mandato non può mai investire le scelte di gestione (o le modalità o le circostanze di tali scelte), ma solo l’omissione delle cautele, verifiche e informazioni preventive normalmente richieste per una scelta di quel tipo, operata in quelle circostanze e con quelle condizioni”. Nel caso di specie, il Tribunale rigetta la domanda della società attrice nei confronti del cessato amministratore delegato, in relazione all’addebito di negligenza gestoria concernente la conduzione del rapporto commerciale con un cliente rifornito dall’attrice per merce di rilevante valore. In particolare, il Tribunale ritiene di non poter reputare negligente la condotta dell’amministratore convenuto, per aver proseguito le forniture al cliente pur in presenza di esposizioni debitorie via via accumulatesi e da ultimo sfociate nel fallimento, e ciò in quanto l’amministratore avrebbe contemporaneamente attuato un costante monitoraggio della situazione, non essendo univocamente prevedibile la negativa evoluzione del rapporto, anche alla luce del suo precedente sviluppo. 52 sé – ad ogni possibile censura di legittimità, volta che non è stato dedotto che tale scelta sia stata compiuta dagli amministratori senza assumere adeguate informazioni sulle qualità sportive, sull’età e sullo stato fisico dei calciatori in questione, oppure sui prezzi usualmente praticati, sulle condizioni del mercato o su altre simili circostanze”. In conclusione, l’analisi della giurisprudenza ha mostrato come quasi mai i nostri giudici siano arrivati a condannare gli amministratori di società di capitali per violazione del solo obbligo di gestire la società con diligenza. Ciò è accaduto, per lo più, in presenza di macroscopiche violazioni che potevano far presumere anche la violazione dell’ulteriore obbligo di non agire in conflitto d’interessi. La difficoltà di un simile accertamento deriva, soprattutto, dall’operatività in materia del principio dell’insindacabilità nel merito delle scelte di gestione compiute dagli amministratori nell’esercizio dell’impresa. Stante l’applicabilità del principio, la giurisprudenza ritiene che il giudizio sulla diligenza non possa mai investire le decisioni amministrative, ma al più il modo in cui esse sono state compiute, a nulla rilevando, inoltre, l’eventuale esito negativo delle stesse. 3.- Riforma delle società e nuova formulazione del dovere di diligenza.∗- Nell’analizzare il dovere di diligenza con riferimento all’incarico gestorio, ci si è volutamente riferiti alla vecchia formulazione dell’art. 2392, primo comma, cod. civ., tralasciando ogni considerazione sulla portata dell’intervento di riforma che ha parzialmente riscritto il testo della disposizione. ∗ Il paragrafo prende a base le conclusioni svolte dal Prof. Gustavo Visentini nel corso del Convegno di Imperia, 26-27 settembre 2003, i cui Atti sono raccolti in Afferni – Visintini, Principi civilistici nella riforma del Diritto Societario, op. cit. 53 La scelta, come detto, è stata intenzionale, sia perché tale è la norma ancora oggetto di applicazione da parte della giurisprudenza nei singoli casi specifici, sia perché si ritiene che solo attraverso la ricostruzione delle interpretazioni che hanno dato senso alla vecchia formula del dovere di diligenza, si possa cogliere concretamente l’importanza dell’innovazione che, per la verità, sembra piuttosto trascurabile. Com’è noto, il nuovo testo della disposizione in esame recita testualmente: “Gli amministratori devono adempiere i doveri ad essi imposti dalla legge e dallo statuto con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze”. La diligenza degli amministratori, dunque, non viene più definita, per rinvio alle norme sul mandato, come la diligenza che un buon padre di famiglia deve usare nell’adempimento dell’obbligazione. Ma in effetti, con il plauso di quanti hanno più volte tacciato il tradizionale parametro come anacronistico ed inadeguato, forse non del tutto consapevoli delle potenzialità di una ragionata attività interpretativa, si è voluta coniare una formula che fosse autonoma e propria di quella particolare fattispecie. Superato l’entusiasmo che troppo spesso accompagna i nostri farraginosi interventi di riforma, mi pare in realtà che l’innovazione sia piuttosto limitata al piano meramente semantico. Si è infatti sostituito al discusso parametro della “diligenza del mandatario”, un criterio certamente più neutro, ma che nulla aggiunge a quanto già ritenuto dalla migliore dottrina e giurisprudenza. In particolare, non credo che per il tramite della modifica in esame, il legislatore abbia voluto finalmente introdurre per gli amministratori il riferimento alla diligenza professionale dell’art. 1176, secondo comma, cod. civ., che alla lettera sembrerebbe prevedere un particolare modulo di diligenza. Al di là di ogni considerazione circa l’opportunità di intendersi una volta per tutte sull’esatta portata del secondo comma dell’art. 1176, nel senso che esso non impone “all’agente professionale una diligenza più severa, ma intende solo solennizzare, richiamandola espressamente, la diligenza del 54 bonus pater «professionale», sintetizzata dalla formula «a regola d’arte»”80, rappresentando dunque nient’altro che un corollario accessorio del relativo primo comma, credo infatti che il frequente riferimento alla diligenza professionale nella materia de qua derivi più da un equivoco che dall’effettivo riconoscimento legislativo di una specifica professionalità amministrativa. Mi sembra, infatti, che da più parti si tenda a confondere la complessità che l’attività di gestione sociale sicuramente presenta con il possesso da parte del soggetto agente di una particolare professionalità, tralasciando del tutto la considerazione che in nessuna norma legale, di carattere generale, è rintracciabile la prescrizione del possesso di specifici requisiti professionali per accedere alle cariche 81 amministrative . Per convincersene basti d’altra parte considerare come per assumere il diverso incarico di sindaco, il legislatore effettivamente, ed espressamente, imponga come necessario il possesso di ben individuati requisiti di professionalità. Circostanza questa che trova il suo giusto pendant in una diversa formulazione del criterio di imputazione delle responsabilità, ove infatti si prevede che i sindaci debbano “adempiere i loro doveri con la professionalità e la diligenza richieste dalla natura dell’incarico”. Come spesso accade, dunque, mi pare si tenda piuttosto a confondere il piano della mera opportunità con quello della effettiva giuridicità, sovrapponendo valutazioni essenzialmente politiche alla concreta sanzionabilità della condotta amministrativa, e dimenticando in definitiva come ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit. 80 Così Forchielli, voce Colpa I (Diritto Civile), op. cit., 5. 81 A conferma di quanto affermato nel testo, si consideri la disposizione del nuovo art. 2387 cod. civ. che, con riferimento al possesso speciali di requisiti di onorabilità, professionalità e indipendenza, cui sottoporre l’assunzione dell’incarico amministrativo, stabilisce che sarà lo statuto a poter disporre in tal senso. 55 L’enunciata conclusione sulla sostanziale irrilevanza della modifica del criterio di diligenza, risulta oltremodo evidente alla lettura della Relazione di accompagnamento al decreto delegato: “Nell’adempimento dei doveri imposti dalla legge o dallo statuto gli amministratori devono usare la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico: il che non significa che gli amministratori debbano necessariamente essere periti in contabilità, in materia finanziaria, e in ogni settore della gestione e dell’amministrazione dell’impresa sociale, ma significa che le loro scelte devono essere informate e meditate, basate sulle rispettive conoscenze e frutto di un rischio calcolato, e non di irresponsabile o negligente improvvisazione”. Degno di nota mi sembra, comunque, il riconoscimento nella lettera del testo di quella “graduazione di attività amministrativa alla quale risponde una graduazione di diligenza dovuta dal singolo amministratore”82, della cui esistenza non sembra lecito dubitare. Il riferimento alla “natura dell’incarico” e alle “specifiche competenze”, infatti, credo vada letto nel senso della opportuna introduzione di considerazioni inerenti alla nomina e alla posizione concreta che l’amministratore viene ad assumere all’interno della società, ai fini della valutazione dell’esatto adempimento e, in difetto, delle eventuali responsabilità. In particolare, sostenere che l’amministratore debba adempiere i doveri propri della sua funzione con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico, ritengo equivalga anzitutto a richiamare il generale riferimento “al tipo speciale del singolo rapporto”, che la Relazione al codice del 1942 suggerisce in considerazione dell’adempimento di qualsiasi obbligazione. Inoltre, la previsione consentirebbe di prendere in esame, ai fini della individuazione della diligenza in concreto dovuta, tanto la ragione dell’incarico quanto la posizione effettiva che l’amministratore viene ad assumere in società. Quanto alle “specifiche competenze”, invece, la precisazione credo valga a riservare spazio, questa volta sì, alla considerazione delle qualità 82 Così De Gregorio, Responsabilità degli amministratori, op. cit., 337. 56 professionali dell’amministratore, nel senso che, se questi ne sia comunque in possesso e tale circostanza sia stata effettivamente valutata ai fini del conferimento dell’incarico, allora sarà ragionevole attendersi dall’amministratore una condotta conforme agli standards che regolano l’esercizio di quella specifica professione, con la conseguenza che l’eventuale responsabilità andrà graduata oltre che con riferimento allo specifico ruolo rivestito, anche sulla base delle personali cognizioni tecniche in ipotesi possedute. In conclusione, dunque, la nuova formulazione del dovere di diligenza è scarsamente innovativa sotto il profilo delle soluzioni interpretative ed applicative, tuttavia essa presenta sicuramente il pregio di riconoscere normativamente elementi di concretezza alla valutazione della condotta dell’amministratore. 57 CONCLUSIONI Diligenza è innanzitutto termine di uso comune che trova un peculiare impiego in campo giuridico, senza che da ciò ne risulti sostanzialmente mutato il senso. Come nel linguaggio parlato, così nel diritto, la diligenza evoca infatti l’idea della tensione verso il buon fine, specificandosi nella “applicazione assidua, attenta, sollecita”, con riferimento allo svolgimento di una qualsivoglia attività. In ambito propriamente giuridico, la diligenza, quale modo di essere della condotta, è essenzialmente parametro per l’individuazione dell’esatto adempimento, assumendo rilievo soprattutto come fondamentale criterio di valutazione delle eventuali responsabilità. È di immediata evidenza, infatti, l’indubbio e stringente rapporto che lega il mancato impiego della dovuta diligenza, la negligenza, e la sussistenza della colpa quale elemento soggettivo dell’illecito, nel senso che è nel sentire comune, prima ancora che giuridico, la sovrapposizione, a dire il vero non perfettamente coincidente, tra l’una e l’altra qualificazione del comportamento umano. È proprio il momento negativo della diligenza ad interessare il diritto, perché è solo con riferimento a tale momento che la regola di condotta che la nozione esprime diventa sostanzialmente azionabile e sanzionabile, concorrendo così all’applicazione e all’attuazione dell’ordinamento giuridico. L’impiego della diligenza nel mondo giuridico è una costante comune a tutti gli ordinamenti in ogni epoca storica, ma la maggiore considerazione ed elaborazione della materia è certamente riferibile al lavoro di interpretazione e sistemazione delle fonti romane ad opera dei giuristi medioevali. È in questa fase, infatti, che prende corpo la tradizionale teoria dei gradi della colpa e, correlativamente, della diligenza che, unita ai complementari criteri dell’utilitas e della diligentia quam suis, costituisce il sistema sanzionatorio della condotta del debitore, con particolare riguardo all’adempimento delle obbligazioni contrattuali. Il sistema di graduazione della colpa e diligenza, sebbene oggetto di diverse formulazioni che tuttavia non riescono ad alterarne sostanzialmente l’essenza, conserva il proprio ruolo fondamentale di determinazione della responsabilità in relazione ai singoli rapporti almeno fino alla codificazione napoleonica. Si deve infatti ai compilatori del codice francese il primo tentativo di riconoscere, in via generale ed astratta, un uniforme modulo legale della diligenza e, di conseguenza, un’unica intensità della colpa. Tale tentativo di reductio ad unum, tuttavia, per quanto formalmente riuscito e consolidato attraverso la recezione del code civil ad opera di altri ordinamenti, tra cui il nostro, non sfugge ad alcune inevitabili aperture, tanto legali che convenzionali ed interpretative, originate dalla spontanea considerazione che la diligenza, anche nel diritto, non è un indistinto, bensì riflette una graduazione naturale che è insita nelle diverse tipologie di relazioni e comportamenti umani. Dunque, quand’anche si volesse ancorare la valutazione della diligenza ad un parametro, predeterminato per legge, che fosse veramente “obiettivo e generale”, non mi sembra che ciò riesca effettivamente a sgombrare il campo dalla specifica considerazione del singolo caso concreto e, in particolare, da riflessioni di natura soggettiva, le quali nei fatti concorrono ad influenzare la scelta dell’obbligato in relazione all’affidamento dell’incarico. Con queste premesse, il nostro codice all’art. 1176 disciplina il dovere di diligenza che il debitore deve osservare nell’adempimento dell’obbligazione. Il legislatore sceglie di affidarsi al tradizionale modulo del buon padre di famiglia, che è parametro espressivo ed elastico, suscettibile di adattarsi al mutare dei tempi e delle circostanze. Il riferimento alla diligenza del buon padre di famiglia vale ad esprimere quella soglia di attenzione che la persona accorta impiegherebbe con riferimento a quella data situazione. Questo canone generale è inevitabilmente destinato ad adeguarsi ai diversi tipi di attività in relazione alle differenti tipologie di rischio, cosicché il secondo comma della norma in esame va certamente interpretato come una mera esemplificazione legislativa della regola enunciata nel primo comma: il legislatore infatti, e per suo tramite la società, non richiede diligenze estreme, bensì semplicemente idonee. La regola di condotta che esprime la diligenza assume un’importanza diversa a seconda del tipo di prestazione richiesta. In particolare, con riferimento alle cosiddette obbligazioni di mezzi, obbligazioni cioè in cui non si richiede al debitore il conseguimento di un risultato specificamente determinato, ma semplicemente lo svolgimento di un’attività discrezionale ed aleatoria nell’interesse del creditore, la diligenza, oltre a rappresentare il metro di valutazione delle eventuali responsabilità, finisce per identificarsi con il contenuto stesso della prestazione. In tali ipotesi, infatti, il creditore, qualora voglia effettivamente far valere la responsabilità per inadempimento del debitore, sarà onerato di figurarsi la condotta che in astratto era ragionevole attendersi, secondo diligenza, dal debitore in quelle circostanze, per poi fornire la prova che il contegno in concreto tenuto sia colposamente difforme da quello atteso. La situazione appena descritta presenta proprie peculiarità soprattutto quando si abbia riguardo ad attività di gestione nell’interesse altrui, laddove la diligenza diventa la regola fondamentale, di carattere generale, per l’apprezzamento della conformità o meno della gestione all’interesse gestito, pur sempre nei limiti del rischio che qualsiasi attività di tal genere comporta. Tipica espressione di tale assetto di interessi si ha certamente con riferimento al rapporto di amministrazione di società, inquadrabile nella più generale categoria delle relazioni fiduciarie. L’amministrazione di una società, infatti, specie se si tratti di società per azioni, comporta sempre una dissociazione tra i titolari dell’interesse, la società e i soci, e il soggetto che materialmente si occupa della gestione. Inoltre, essendo la società dedita ad affari di carattere imprenditoriale, la gestione viene a configurarsi come un’attività fortemente discrezionale, soggetta ad elevato rischio. Nel rapporto di amministrazione, dunque, la diligenza è regola generale cui gli amministratori devono uniformare la propria condotta nell’espletamento dell’incarico. Di conseguenza, nell’ipotesi in cui dalla gestione dovesse risultare un danno all’interesse gestito, la diligenza diventa criterio fondamentale per l’apprezzamento delle eventuali responsabilità. Sebbene siano numerosissime le sentenze in materia di responsabilità degli amministratori che si occupano della diligenza, un’attenta lettura delle motivazioni mostra invece come quasi mai i giudici siano arrivati a pronunciare la condanna sulla base della sola violazione del dovere di diligenza. Nella stragrande maggioranza dei casi, infatti, la condotta degli amministratori è stata qualificata negligente perché relativa ad una situazione di conflitto di interessi o all’inosservanza di specifiche disposizioni di legge. Sono dunque rarissime le pronunce in cui i giudici arrivano a sanzionare la condotta degli amministratori per violazione del solo dovere di diligenza, e ciò esclusivamente in presenza di macroscopiche negligenze, tali da far quantomeno presumere la sussistenza di un conflitto di interessi. Quanto alle fattispecie, la violazione de qua è stata accertata in ipotesi di perdita dell’intero patrimonio sociale a causa di operazioni altamente rischiose, condotte in modo totalmente sconsiderato, oppure in caso di alienazione del maggior cespite patrimoniale della società in modo anomalo e senza che ve ne fosse una reale necessità, o ancora in ipotesi pagamento della commessa relativa alla fornitura di un impianto prima della consegna e della positiva verifica dell’opera. Come è agevole constatare, la nostra giurisprudenza assume un atteggiamento estremamente cauto in relazione al concreto operare della regola che esprime la diligenza. Ciò, ritengo, sostanzialmente per due ragioni: innanzitutto perché, al di là di alcune ipotesi particolari, il nostro legislatore non esige in generale alcuna accortezza straordinaria da chi accetti di assolvere la funzione amministrativa; inoltre, e soprattutto, perché la materia è pacificamente regolata dal principio dell’insindacabilità nel merito delle scelte di gestione, cosiddetta business judgment rule, in base al quale si esclude che il giudice possa apprezzare liberamente il merito degli atti di gestione posti in essere dagli amministratori, potendo esclusivamente valutare le modalità di assunzione delle decisioni amministrative, al fine di sindacarne la ponderatezza. A tali circostanze, bisogna senz’altro aggiungere la concreta difficoltà che la stessa prova della negligenza di per sé inevitabilmente comporta. Con la recente riforma delle società di capitali, si è provveduto a modificare il testo dell’art. 2392, primo comma, cod. civ., e, con esso, la formulazione del dovere di diligenza degli amministratori. Si è infatti sostituito al tradizionale parametro della “diligenza del mandatario”, quello “della diligenza richiesta della natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze”. Non mi sembra che il cambiamento sia particolarmente significativo sotto il profilo delle soluzioni interpretative ed applicative, nel senso che esso non aggiunge nulla a quanto già ritenuto dalla migliore dottrina e giurisprudenza. Soprattutto, non credo che valga ad imporre, in via generale, un particolare modulo di diligenza in capo ai nostri amministratori. Quello che invece è certamente innovativo, oltre che senz’altro lodevole, mi pare essere il riconoscimento, finalmente anche a livello legislativo, che “c’è tutta una graduazione di attività amministrativa alla quale risponde una graduazione di diligenza dovuta dal singolo amministratore”.