bra uno scolaro all’esame di maturità, anche se in realtà è un maestro. Che cosa ha scritto quest’ uomo di tanto scandaloso, da provocare una battaglia così violenta? scoppiata all’improvviso, ma era nell’aria da tempo. L’opera di Renzo De Felice (classe 1929, titolare della cattedra di storia dei partiti politici nell’università di Roma, di casa all’Archivio di Stato) si prestava ad attacchi sia nel suo complesso, sia in aspetti particolari. È un insieme di studi monumentale, che non si limita alla biografia mussoliniana (tremila pagine già pubblicate, altri due volumi in gestazione), già di per se stessa di mole tale da schiacciare le velleità concorrenziali degli altri accademici che aspirano, per usare un termine defeliciano, ad «emergere», ma imponente per la documentazione e l’organicità del costrutto storico. De Felice è partito dall’Italia giacobina (1960-65), si è soffermato (1962) su una delle figure più demoniache del fascismo, Giovanni Preziosi, il prete spretato razzista fanatico suicida dopo il 25 aprile, è passato attraverso la «Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo» (1961) ed è approdato al «Mussolini». Nel frattempo ha trovato modo di presentare agli italiani le «Interpretazioni del fascismo», ch’è uno strumento indispensabile per la storia del ventennio, mentre la successiva «Intervista sul fascismo», che l’editore Laterza ha creduto opportuno presentare al pubblico, è una lunga chiacchierata, non sempre rigorosa e ordinata tra l’autore e 1’intervistatore, Michael A. Ledeen, un ebreo polacco sfuggito ai forni nazisti, dove è perita parte della sua famiglia. De Felice, come in una pausa di riflessione del suo ventennale lavoro, si confessa; è un uomo dall’apparenza modesta, ma sicuro di sé; lo si rileva dall’«Intervista» e dal dibattito televisivo, in cui si presenta dotato di scarse doti fotogeniche e accetta con serenità la evidente parte dell’imputato: in un angolo, a destra del moderatore, sem- È L’intervista Brevemente (si fa per dire): De Felice esprime la devozione ai suoi maestri, Federico Chabod, Giuseppe De Luca e Delio Cantimori. Di quest’ultimo tesse il miglior elogio che si possa fare di uno storico. Cantimori «mi diceva: io non sono d’accordo su questo e su questo, però se non ti ho convinto, fai bene a continuare come vuoi, perché posso benissimo sbagliare...» (p. 9). De Felice cita per modello anche Angelo Tasca, uno degli storici più acuti del fascismo: interpretare il fascismo vuol dire farne la storia. Un libro di storia, per De Felice, è un punto di arrivo e un punto di partenza; se l’autore si arresta di fronte alle nuove acquisizioni «ha finito di fare lo storico; fa il teologo o il politico» (p. 22). Molta importanza De Felice attribuisce all’opera di George L. Mosse, «La nazionalizzazione delle masse» (1975), che nessuno degli obiettori dell’«Intervista» dimostra di conoscere. Il Mosse, che studia il problema dal punto di vista germanico, espone la «nuova politica», che parte da Rousseau e attraverso la rivoluzione francese e i movimenti di massa del secolo scorso arriverebbe al fascismo («La folla incomposta del “popolo” divenne, grazie a una mistica nazionale, un movimento concorde nella fede dell’unità popolare»). De Felice lamenta che in Italia, di Mussolini, si parli solo in termini di ripulsa e non «storici». C’è nel fascismo un «movimento», elemento ispiratore, e un «regime», che sarebbe la sua degenerazione. De Felice dichiara 1 senza equivoci che non vuole esprimere un giudizio positivo sul «movimento», ma le differenze sono palesi; ad esempio il movimento è anticlericale, il regime ha fatto la Conciliazione. Il movimento è la componente morale del «consenso», che per De Felice indubbiamente c’è stato. «Il fascismo movimento è stato l’idealizzazione, la vel- medi. Non è un problema che va sparendo, come diceva un certo tipo di marxismo». Sono ceti moderni, anche se non positivi, precisa De Felice. Che poi siano stati traditi, non è cosa eccezionale, basta leggere dice 1’autore, «La rivoluzione tradita» di Leone Trotskij. Tra movimento e regime «entra in gioco la personalità di Mussolini, che è decisiva per capire il fascismo..., il momento di sintesi è Mussolini». Per questo De Felice avrebbe scritto la biografia di Mussolini e non la storia del fascismo. Occorre comunque tener presente che «ogni fenomeno è frutto di innumerevoli cause e componenti». La parola rivoluzione, in senso positivo, o leninista, certo non si addice al fascismo. Il movimento fascista però può essere conservatore, reazionario, autoritario, ma non ha nulla in comune coi regimi conservatori prefascisti, né con quelli dei colonnelli o cileno. La differenza sta nella mobilitazione delle masse e nella loro partecipazione. «Che poi si sia realizzato in forme demagogiche e un altra questione: il principio è quello della partecipazione e non dell’esclusione». E sempre comunque rivolto verso il futuro. A questo punto l’intervista subisce degli sbalzi, dipendenti anche dalle interrogazioni dell’intervistatore. Nel riferire cercherò di mettere un po’ d’ordine. Se la guerra non avesse fatto cadere il fascismo, questo avrebbe conquistato un’area sempre più vasta (p. 45) Se non avesse fatto la guerra il fascismo sarebbe durato a lungo (p. 60). Tornando al ‘19-22 De Felice sostiene che nel ‘20 «il fascismo Renzo De Felice leità di un certo tipo di ceto “emergente”». Il termine, usato per la prima volta in questa accezione, significa il tentativo da parte del ceto interessato di «acquistare potere politico», di affermarsi in quanto tale e di affermare la propria cultura (p. 32). Esso è stato mobilitato dalla prima guerra mondiale. È un ceto incastrato tra capitalismo e proletariato; dinamico, ma anche illuso e frustrato nelle sue aspirazioni. Oggi «il problema centrale dei partiti — della DC, del PSI, del PCI — è quello dei ceti medi» (id). Il partito d’azione ha il merito di «aver capito che il discorso politico in Italia... verte sui ceti 2 bentrop-Molotov le ha accentuate. Non fu quella italo-tedesca un’alleanza ideologica, ma politica. È difficile trascinare un Paese in una guerra per un’ideologia: ne sa qualcosa Roosevelt che per convincere gli americani non ha fatto nulla per impedire Pearl Harbour. Certamente la pretesa universalità fascista non poteva essere neutrale, ma bellica. Oggi si corre il rischio di «arruolare tutti nel mondo fascista». Fascisti non possono essere chiamati i Quisling della seconda guerra mondiale. È possibile un nuovo fascismo in una società moderna? Ludovico Garruccio lo nega. Giorgio Galli ammette che regimi autoritari possano affermarsi anche nelle società industrializzate. Comunque nei gruppi neofascisti è scomparso il nazionalismo ed è sorto una specie di europeismo. I «nostalgici» vanno scomparendo per legge di natura. Sui giovani il neofascismo non fa più presa, sono schiacciati dall’accusa di fascismo. De Felice è cosciente che la sua opera in Italia è generalmente contestata, mentre è apprezzata all’estero. Ciò è frutto della visione demoniaca del nazifascismo, su cui proietta la sua luce l’interpretazione marxista, che ha finito col «fagocitare» le altre. «Questo spiega perché la teoria del totalitarismo non ha avuto circolazione in Italia; infatti tale teoria voleva dire, bene o male — con tutte le differenze possibili e immaginabili — mettere sullo stesso piano, almeno morale, il fascismo, il nazismo e lo stalinismo... Questo però, in una cultura come quella italiana, condizionata e determinata dall’egemonia culturale del PCI, è una cosa assolutamente inaccettabile... Se qualcuno ne ha parlato, si è sentito accusare di essere un fascista camuffato... Ho avuto un attacco sistematico, perché il mio discorso non rientra in uno schema di tipo marxista, in quanto non accetta 1’interpretazione che riduce il fascismo solo ed esclusivamente a motivi di classe» (p. 110-111). Il discorso sul fascismo in Italia è stato più politico che scientifico; quello defeliciano è stato accusato di «essere non era stato preso in considerazione pressoché da nessuno». Dopo il fallimento dell’occupazione delle fabbriche, i fascisti trovarono senza dubbio aiuti economici, soprattutto nei ceti agrari. Nel ‘22 il mondo economico italiano si comportò come quello politico, assumendo il fascismo come guardia bianca. Giolitti. Orlando, Salandra cercarono di inserirlo nel sistema, per svuotarlo. La manovra non riuscì, come era invece accaduto per i gruppi repubblicani, cattolici, radicali e in parte per i socialisti. Le nuove generazioni della vecchia Italia erano insoddisfatte; non sapevano bene che cosa volessero, ma esigevano un cambiamento. Mussolini ebbe l’abilità e le doti per farglielo balenare. Il suo punto di forza fu l’organizzazione di massa; il momento culminante, il discorso del duce. Per De Felice il rituale fascista (il «saluto al duce». l’«appello dei caduti» non fu determinante come nel nazismo. Tra le componenti fasciste c’erano minoranze non reazionarie, come quella di Bottai, che si rammaricava della vecchia mentalità degli industriali, e non mancavano dei buoni tecnici. Tra fascismo e nazismo ci sono fondamentali differenze. Nella pubblicistica fascista colpisce l’ottimismo vitalistico, che non compare nel nazionalsocialismo. Il ciclo storico è un’idea fondamentale germanica; un’idea tragica della vita pervade l’alleato del nord, riscontrabile in Italia solo ai tempi di Salò. Il pessimismo tragico si riflette in quello dei gruppuscoli di destra che vogliono dimostrare di sapersi battere, anche se sanno molto bene che ormai sono morti. La concezione germanica guarda al passato: l’uomo di domani «esisteva già ed era sempre esistito... La missione del nazionalsocialismo era quella di distruggere … (gli) elementi moderni, di liberare l’uomo ariano». Le interpretazioni del razzismo italiano e tedesco sono diverse, spirituale, nazionale il primo, biologico il secondo. L’alleanza con Hitler non era, per De Felice, inevitabile. Nel duce rimangono sempre vecchie e nuove riserve sul nazismo e su Hitler. Il patto Rib- 3 sofia dei lumi... Nell’Italia fascista la riforma della scuola fu opera di Gentile, che pericoloso politicamente». Conclusione: «La mia è la critica dall’interno più profonda di Mussolini... I fatti sono assai più eloquenti e persuasivi delle filippiche di certo antifascismo da comizio e di tante schematizzazioni che fanno acqua da tutte le parti». Anche se De Felice si trova d’accordo col Togliatti delle «Lezioni sul fascismo», e con Amendola, che sarebbe considerato eretico, se non fosse comunista. L’intervista esce con la data di luglio. L’offensiva contro De Felice ha inizio il 5 luglio con 1’articolo di Leo Valiani «No, il fascismo fu proprio nero». La battaglia parte quindi con un «no» deciso. Ho persino dubitato che il titolo, trattandosi del «Corriere della Sera», sia stato manipolato, perché il testo è una critica onesta di uno studioso serio. Il colore nero, simbolo del fascismo, in natura non esiste; qualche barlume di luce si diffonde ovunque. Valiani ha visto il fascismo dall’Aula Quarta del Tribunale Speciale, e ciò non può dimenticarlo: per lui fascismo è olio di ricino, bastonature, violenza organizzata, delitto, soppressione di ogni libertà. Come si può di fronte a simili aberrazioni parlare di consenso? Tuttavia Valiani ammette validità a talune affermazioni di De Felice, come altre ne critica. Riprenderà il discorso in tono pacato sullo stesso «Corriere» e sull’«Espresso», che nel frattempo ha messo a confronto De Felice con Giuliano Procacci e Giuseppe Galasso. Per Valiani il linciaggio di De Felice non è da paragonare a quello che praticavano i fascisti, la sua libertà di espressione «non è in alcun modo in pericolo». (Per il momento no, convengo io pure, ma non garantisco per il domani). Valiani osserva che lo squadrismo ebbe una funzione antioperaia (neanche De Felice lo nega), anche se Angelo Tasca vide operai tra i primi fascisti. Mussolini credeva nell’educazione condizionante, ma la costrizione nell’educazione è stata praticata da tutte le Chiese da millenni: «adottandola, Stalin, e già Lenin o Robespierre, calpestarono per necessità o per scelta, la filo- Leo Valiani, una personalità eminente della Resistenza nell'Alta Italia. Fu proprio Valiani che aprì l'offensiva giornalistica contro De Felice. reputava superata la filosofia illuministica». Domenica 6 luglio. Sul «Giorno» Nicola Tranfaglia scopre che per la prima volta uopo il 1945 ci troviamo di fronte ad una rianimazione del fascismo, insinua il sospetto che dietro De Felice ci sia una manovra politica. Le tesi di De Felice sono inattendibili (ma non spiega il perché). L’articolo di Tranfaglia è un colpo basso, il titolo «La pugnalata dello storico» sarebbe piaciuto a Mussolini. Nell’occhiello dello stesso giornale la frase è riportata negli articoli successivi di Giovanni Ferrara e di Lelio Basso. Ferrara è poi costretto a giustificarsi di un grave errore. Nel frattempo, il 7 luglio Paolo Alatri sul «Messaggero» incolpa De Felice di dare giudizi positivi sul fascismo, fingendo di essere antifascista. Lo stesso Alatri chiuderà un articolo su «Panorama» del 31 luglio così: «Per me, come per tutti, 4 onda in tutta fretta un dibattito. Che cosa e accaduto? Il «Giornale Nuovo» aveva dedicato il 19 al caso De Felice 1’editoriale di Montanelli e l’intera terza pagina con un articolo di Rosario Romeo. Il titolo di Montanelli è «L’eretico al rogo». Il 20 luglio Giorgio Amendola de «l’Unità» dichiarava: «Non ho approvato le reazioni indignate e moralmente esasperate che hanno accolto l’intervista di De Felice». Non condivide il pensiero di De Felice, ma questo non giustifica il comportamento dei suoi oppositori. «Non si possono cancellare vent’anni di storia italiana»; ciò significa non comprendere la pesante eredità fascista e soprattutto non afferrare il significato dell’antifascismo. Perfino il «Manifesto» attraverso la penna di Claudio Pavone rimprovera la cultura marxista di aver lasciato De Felice quasi solo a lavorare sul fascismo. Enrico Mattei sul «Tempo» attacca i politici faziosi come Lelio Basso, gli intellettuali conformisti, come Tranfaglia, Ferrarotti e Ferrara. Luigi Firpo su «La Stampa» condanna il proposito di rimettere continuamente in discussione posizioni acquisite documentariamente: «Il fascismo ha fatto infiniti danni, ma uno dei danni più grossi è stato quello di lasciare in eredità la mentalità fascista agli antifascisti...». Lo stesso parlerà il 20 agosto di «cipigli inquisitori», di «pugnalale alla democrazia», di «denunce per apologia di reato». Il dibattito televisivo quindi si impone. Il moderatore Giuseppe Jacovazzo è evidentemente imbarazzato, ma lascia intravedere la sua propensione a considerare De Felice un imputato. La discussione si svolge in tre tempi, corrispondenti alle domande del moderatore: che cosa sarebbero i ceti emergenti; la differenza tra movimento e regime; è fondata l’accusa a De Felice di aver riabilitato il regime? Ci fu veramente il consenso? È esatto parlare di un fascismo progressista e di un nazismo conservatore? Il neofascismo non è fascismo? La sostanza degli interventi è presa dalla registrazione, che in alcuni punti soltanto è poco chiara per il sovrapporsi delle voci. credo che il fascismo è stato il fascismo. Punto e basta». E anche questo è puro stile fascista, lapidario. Gli articoli ora si accavallano: si distingue particolarmente quello su «Paese Sera» del 14 luglio, del sociologo ufficiale della TV italiana Franco Ferrarotti, per la presunzione di possedere lui solo la verità. Per curiosità del lettore, riporto un breve passo in cui usa un linguaggio non accessibile ai comuni mortali: «Non bisogna... dimenticare che si tratta, appunto, di una extrapolazione, cioè, per dirla in un linguaggio weberiano, di una costruzione ideal-politica, che non ha un corrispondente nella realtà, che in ogni caso non è da confondersi con il processo reale dell’esperienza storica, pena la grossolana reificazione dell’accorgimento interpretativo e l’impossibilità di comprendere il senso vero...». (Confesso che giustifico il pubblico italiano, che preferisce Bocca, Montanelli e G. F. Bianchi agli accademici, che si fanno vanto di non vendere le loro opere). Il modo «asettico» di fare la storia non va a genio a Ferrarotti. Ma coloro che snobbano, io ribatto, come turlupinatura la cosiddetta obiettività, contravvengono a una comune norma di etica professionale. È vero che quella dello storico è la «sua» verità; ma tutti devono tendere all’obiettività come a un ideale. Tacere la verità, perché può nuocere al proprio gruppo sociale, è disonestà bella e buona, come è pure disonesto affermare qualcosa, perché il potere lo impone. Una delle caratteristiche della battaglia sui caso De Felice è che si svolge tra antifascisti. I pochi fascisti superstiti, come il «vociano» Prezzolini, si compiacciono che ci sia un antifascista che non veda tutto nero nell’infausto ventennio. Dopo la violenta offensiva contro l’Intervista, comincia la controffensiva dei defeliciani. Enzo Forcella sul n. 31 del «Mondo» ritiene inconsistente e pretestuosa la polemica. Il dibattito TV Il 21 luglio la TV italiana manda in 5 Gastone Manacorda non esclude «la il fascismo fu un movimento reazionario. Per questo bisogna richiamarsi ai contenuti. presenza, forse la prevalenza di ceti emergenti come base di massa del fascismo», ma I motivi fascisti sono pseudorivoluzionari. La demagogia è una componente essenziale la considera «un’ipotesi in larga parte ancora da verificare». Ammette «la presenza e la del fascismo e la demagogia (vedi Aristotile) portata … anche di ceti medi proletarizzati o è una degenerazione della democrazia. Non minacciati di proletarizzazione... Il discorso possiamo accettare come giudizio storico per me è un altro», continua, «per me questo quello che il fascismo dà di se stesso. Certo ceto emergente attraverso il fascismo non nel fascismo c’è qualcosa di nuovo, manca però la vera partecipazione, anche se esiste emerge ... Velleità rivoluzionarie si, ma rivoluzione no». Dopo la rivoluzione francese un’organizzazione di massa: «senza demodell’ ‘89, il termine ha per lui assunto un crazia, libertà di stampa, libertà di espressignificato positivo. Prima «rivoluzione» sione..., senza il voto... qual è la partecipasignificava mutamento e basta, ora non può zione?». nemmeno assumere il significato che le attribuiscono gli anglosassoni. (Manacorda dimentica che nel XVII secolo gli inglesi hanno fatto due rivoluzioni e che prima del 1789 ne hanno fatta una gli americani. Ricordo che ai primi moti del 1789 un nobile franGiorgio Amendola con Luciano Barca. Sull'"Unità" del 20 luglio scorso [1975], cese osservò il dirigente comunista ha scritto: "Non ho approvato le reazioni indignate e che si trattava moralmente esasperate che hanno accolto l'intervista di De Felice... Non si posdi una rivolusono cancellare vent'anni di storia italiana" e questo pur non condividendo zione, non di affatto il pensiero dello storico in questione. una rivolta; ciò significa Esiste una differenza tra Italia e Germache il termine preesisteva alla rivoluzione nia, è ovvio. Il fascismo diventa però più francese nella sua accezione attuale). Manacorda accetta pure la distinzione europeo, quando va al potere in Germania; prima era un moto periferico. Se ci fu una tra movimento e regime, ma nega che il spinta da sinistra al fascismo, anche con movimento emerga, mentre De Felice, pur ammettendo che il regime si impadronisce motivi demagogici, il nazionalsocialismo non si chiamò così a caso. Per Manacorda, del movimento, tiene fermo che la costante del fascismo sarebbe il movimento. In realtà De Felice sottovaluta la matrice di destra del 6 stato una rivoluzione, ma «un rivolgimento profondo, un sovvertimento profondo nell’esercizio del potere» (l’Arfè chiarirà poi più ampiamente il suo pensiero sull’«Avanti!» del 27 luglio). La distinzione tra movimento e regime non è nuova; può applicarsi anche all’Italia liberale. Il movimento tende via via ad estinguersi per il compromesso con le forze tradizionali i cui intenti non coincidono certo con lo spirito delle origini. Il suo valore si perde col tempo nel dopoguerra. Forse il movimento ha avuto una ripresa nella repubblica di Salò, ma trarrebbe ispirazione più dal nazismo che dal fascismo istituzionalizzato. Arfè esclude la «partecipazione» nel significato attuale. La mobilitazione dei bambini e delle massaie rurali non significa la partecipazione attiva. Fa forse eccezione l’Italia del Sud. Aldo Garosci si dichiara molto vicino all’interpretazione crociana. «Le idee marciano con le persone...» (il concetto è salveminiano e De Felice facendo il «Mussolini» l’ha messo in pratica). Dopo Caporetto l’esercito italiano si trasformò, usò tecniche nuove di propaganda; gli ufficiali di complemento impararono a comandare. Si aggiunga che i contadini che avevano acquistato la terra grazie all’ inflazione si trovarono minacciati da quelli che erano rimasti senza. Arfè non esclude le responsabilità della monarchia e della borghesia. Ritiene però che non si possa spezzare il movimento dal regime. Senza la guerra, le distinzioni sarebbero state riassorbite, sarebbe rimasto il regime; la mobilitazione di massa, con la raccolta dell’oro, con l’esposizione delle bandiere, non fu spontanea, ma una forma di compressione. Il fascismo ha preso da sinistra molte forme di mobilitazione, il simbolo stesso del fascio, i gesti demagogici. Non bisogna poi dimenticare che «Gramsci ha mandato degli articoli al “Popolo d’Italia”, anche se non sono stati pubblicati» ed Ernesto Rossi fu collaboratore del giornale di Mussolini. Certo è stato facile poi per il regime rompere con la sinistra e col movimento. fascismo; il nazionalismo ha de terminato l’ideologia imperialista e reazionaria del fascismo. Per Rosario Romeo i ceti emergenti non sono solo un’ipotesi; ci sono fatti che De Felice rileva nell’intervista e in altri lavori. Ceti medi di carattere moderno guardavano con sfiducia all’inefficienza del regime liberale, speravano in un rinnovamento. «Credettero che lo Stato fascista avrebbe fatto giustizia dei parassitismi, delle incrostature, del protezionismo giolittiano». Rivoluzione in sostanza ci fu nella forma di «appello politico all’azione di massa». Ciò non esisteva nel giolittismo. E il modello di massa divenne irreversibile. Certo nella realtà il fascismo lasciò quasi «inalterate le strutture fondamentali della società preesistente». Il processo di forze diverse, spinte alla partecipazione, ebbe una eco imponente. La distinzione tra movimento e regime è di notevole valore. Il regime nasce dal compromesso che il fascismo fa con la monarchia e le strutture sociali precedenti. Così gran parte delle aspirazioni del movimento rimangono insoddisfatte. La mobilitazione di massa manca di meccanismi di autodecisione, di libertà. Questo però risulta chiaramente nel De Felice. Bisogna infatti rifarsi a tutto il lavoro di ricerca del De Felice, non limitarsi all’intervista. Romeo crede che alla base dell’ideologia fascista non ci fosse un concetto di uomo nuovo, perché «il contenuto ideologico è prevalentemente tradizionale: patria, famiglia, gesto guerriero, frugalità». Tutto questo appartiene «al patrimonio delle dottrine conservatrici, cucinate in “salsa” di destra. Anche il nazismo tedesco aveva un progetto di uomo..., la cultura, il sangue...; ma non è che si presentasse da principio con... (una) idea di morte, che è poi l’idea del crepuscolo degli dei; ...nessun movimento si presenta come crepuscolo, se non nel momento in cui sta per finire; all’inizio c’era il Reich millenario...». Gaetano Arfè non vede chiaro il concetto di società emergente. Il fascismo non è 7 a mano a mano acquisisce certe funzioni pubbliche». Quindi non si tratta di novità fascista: «Se c’è un partito di esclusi, che ha aggregato attorno a sé... una certa forza di esclusi dalla gestione dello Stato liberale, è la massa cattolica, con tutta quella aggregazione di ceti piccolo-borghesi artigianali, che erano stati frustrati». Quindi esiste una concorrenza tra fascismo e partito popolare per catturare i ceti emergenti. De Rosa fa notare che la mobilitazione delle masse si svolse anche attorno a temi che appartengono alla storia della conservazione: la famiglia, la patria. L’uso che il fascismo ne fa è però mistificatorio, un «tambureggiare» sulla testa dei giovani, l’idealizzazione dell’Italia rurale, ad esempio, in opposizione a quella industrializzata. Ciò contribuisce a creare il consenso. De Rosa accetta la distinzione tra regime e movimento. Si può dire che il fascismo burocratizzato «ha buggerato» l’altro fascismo. In polemica con Manacorda sostiene che il fascismo cessa di essere europeo, quando si incontra col nazismo. Allora perde considerazione all’estero e diventa un pericolo per la civiltà occidentale. Le repliche di De Felice ribadiscono concetti, che ho già in parte esposti. A Manacorda fa notare che tutti, tranne lui, hanno dato l’esistenza dei ceti emergenti come dimostrata. Ammette che tali ceti erano preesistenti, ma prima erano stati catturati dai ceti dirigenti; ora vogliono entrare nella vita politica in prima persona, manifestando velleità e aspirazioni di progresso. Il rapporto tra potere e masse nel fascismo è nuovo. La sociologia dà un significato pure nuovo alla rivoluzione. Il movimento non è il perpetuarsi del diciannovismo. Il movimento è un «continuum» con variazioni di istanze. Lo hanno rilevato soprattutto gli studiosi esteri. Esso è ciò «che un certo tipo di fascista avrebbe voluto che fosse il fascismo». Prende varie strade; alcuni, quando si accorgono che si tratta di miti, si ritirano nella tenda, altri passano alla repubblica di Salò. Il discorso del movimento è essenziale Qualcosa del nazismo Per Garosci il fascismo non fu ottimista: si presentò con «insegne di morte, camicie nere», aveva già qualcosa del nazismo. Il razzismo fascista è ridotto, ma pure esiste. Sono le civiltà che sono diverse, non gli ideali. Arfè: «Esiste una dimensione internazionale del fenomeno che non si può sottovalutare...». De Felice: «Esisteva, piuttosto...». Lelio Basso in un atteggiamento pensoso. Egli ha preso parte attiva alla "battaglia" storica con un articolo apparso sul "Giorno" in cui egli parla di "riabilitazione del fascismo". Arfè: «Mi riferisco al fenomeno tra le due guerre...». De Felice: «Allora sì...». Arfè: « Così come internazionale è l’antifascismo …». Gabriele De Rosa esordisce affermando che «La storia italiana... è una storia di ceti emergenti di piccola e media borghesia, che 8 Guttuso e Luchino Visconti, Paolo Grassi ed Enzo Paci, Alfonso Gatto e Mario De Micheli, Agnoletti e Bruno Zevi, Mario Spinella e tanti altri...» che Grimaldi conobbe ai littoriali. Occorre far questo «per togliere dalle mani dei sacerdoti della neoscolastica marxista il problema del fascismo “storico”, che fu più complesso, serio e dannoso di quanto essi non sospettino. Diversamente... che cosa diremo ai figlioli? Che eravamo dei corrotti o dei cretini?». Il 22 luglio la «Nazione» si schiera per De Felice. Lo stesso giorno una cascata di articoli invade le testate italiane. Il 27 fa spicco, perché pubblicato su «Il Giorno», «Parla uno che c’era» di Giorgio Bocca. «E chi erano allora», si domanda l’autore, «i 400.000 squadristi del 1922? E i milioni di italiani che simpatizzarono per essi?». Per Tranfaglia sarebbero stati «mercenari finanziati da Agnelli, come ha scoperto Castronovo. Se così fosse... stia tranquillo Tranfaglia che saremmo nel fascismo anche oggi... La storiografia marxista ha indubbiamente dei grossi meriti, ma conserva, direi, il suo esclusivismo. Se Amendola dice che bisogna finalmente fare la storia dell’ antifascismo e del fascismo, va bene; ma se Io dicono gli altri, no». Un intervento significativo, e concludo, mi pare quello di Claudio Signorile su «l’Avanti!» della domenica 3 agosto. Egli cita l’invito di «Stato Operaio» ai compagni in camicia nera del 1936: «Noi (comunisti) proclamiamo che siamo disposti a combattere assieme a voi e a tutto il popolo italiano per la realizzazione del programma fascista del 1919... Siamo disposti a lottare con chiunque voglia parassiti che dissangua e opprime la nazione e contro quei gerarchi che lo servono». La polemica non è chiusa e ci dispiace per la tirannia dello spazio non citare nomi anche illustri. Conclusioni? 1° In Italia si può ancora dire apertamente il proprio pensiero. C’è però la minaccia di frange faziose, che vogliono l’esclusività del potere culturale, col rischio a quello del consenso. È il movimento che aiuta a tenere in piedi il regime, dando obiettivi velleitari da realizzare. L’idea nazista non è un’idea di progresso. Il nazionalsocialismo riporta in luce un uomo già fatto e preparato, liberandolo dalle incrostazioni di due secoli. Invece nel fascismo c’è la suggestione illuministica che si possa creare un uomo nuovo. C’è «l’idea dei popoli giovani...». Manacorda: «Siamo al livello dei miti...». De Felice: «...ma in una società di massa ciò che conta sono i miti. È chiaro che nel momento in cui un cattolico dice il mito della verginità della Madonna, va be’, il mito non esiste più...». A questo punto il moderatore interrompe bruscamente la discussione: «Professore, dobbiamo concludere». Il sacro e il profano andrebbero approfonditi. Così non se ne parla. Il dibattito fa onore agli studiosi che vi hanno partecipato. Non è stato una mischia: ognuno ha esposto il suo pensiero, rispettoso di quello altrui. L’ascoltatore può in coscienza trarne conclusioni responsabili. Le ultime scaramucce Il 22 luglio compare su «Il Giorno», proprio il giornale che ha visto gli anatemi di Tranfaglia e i successivi ridimensionamenti, una lettera di Ugo Alfassio Grimaldi, scritta evidentemente prima del dibattito televisivo. «È con sgomento che leggo la polemica sul saggio di Renzo De Felice, con le accuse di riabilitazione del fascismo (Basso) o peggio di dare il varo ad un’operazione politica (Tranfaglia) o addirittura di amore per il mostruoso». Grimaldi, cercando di spiegarsi le ragioni dell’aggressione, accenna a cattedratici falliti. Invoca la testimonianza dei Franco Calamandrei, organizzatore dell’attentato di via Rasella, od Olivelli, Giaime Pintor, Curiel, Vittorini, che sono morti; ma Vecchietti e Zagari, Preti e Corona, Ingrao e Alicata, Moro e Taviani, Bufalini e Ferrari Aggradi; o, se si preferisce 9 4° Mi rammarico che nella polemica nessuno si sia ricordato di Gaetano Salvemini, il maggiore storico di Mussolini. 5° Il fascismo, e qui anch’io mi inserisco nella critica a De Felice, non fu solo un movimento e un regime, ma ebbe un’articolazione più complessa. La vita è mille e la storia che la ricrea è mille. Ci furono nel fascismo, oltre a Mussolini, Farinacci e Marinetti, Federzoni e Gentile, Bottai e Rocco e anche Starace. 6° Ultima osservazione: l’Italia giolittiana aveva già messo in atto gran parte dei metodi di corruzione e di violenza che il fascismo ha perfezionato. di riabilitare in tal modo il fascismo. 2° Tutti riconoscono che il fascismo è stata una sciagura nazionale. Quasi tutti che è irripetibile nello stesso modello. 3° Per conoscere che cosa pensassero gli italiani al tempo della guerra d’Africa ho fatto una piccola inchiesta. Ho scoperto, contro le mie stesse previsioni, che ci fu consenso quasi unanime. Riporto solo qualche risposta: un’opinione sintetica del pensiero dei cremonesi: «Me go dat a Mussolini carta bianca». Nella Venezia Giulia: «gli italiani erano tutti fascisti». Un antifascista (di allora) cagliaritano: «Adesso Mussolini, se è quel genio che dicono i suoi, dovrebbe ritirarsi». Un ciabattino della val Rendena: «Contadino sarà sempre contadino». Impaginato per temidistoria.altervista.org 10