La “Guerra fredda” e la politica internazionale (1945-1991)1 di Ennio Savi* Le conferenze interalleate Il 2009 è stato un anno ricco di anniversari. Uno di questi è stato il 70° dallo scoppio della seconda guerra mondiale, certamente il più importante di tutti: quella guerra infatti è stata l’evento culminante del XX secolo. In sette interminabili anni tra il 1939 e il 1945, il mondo cambiò radicalmente (2). Alla fine del 1941, con l’entrata in guerra degli Stati Uniti in seguito dell’attacco giapponese a Pearl Harbor, il problema per gli Alleati non fu più se avessero vinto la guerra contro le potenze dell’Asse, ma quando e a che costo. Allo scopo di organizzare lo sforzo bellico e la strategia generale della guerra, gli Alleati organizzarono, tra il 1941 e il 1945, una lunga serie di grandi conferenze a livello diplomatico e militare. Dopo le grandi battaglie di contenimento e le prime grandi controffensive del 1942-1943, a partire dalla conferenza di Teheran le discussioni tra gli Alleati si spostarono progressivamente sempre di più dalla condotta delle operazioni belliche alla definizione dell’ordine politico internazionale dopo la vittoria che si stava profilando sempre più vicina. Ancora a guerra in corso però emerse chiaro il contrasto di vedute e di interessi tra le due principali potenze vincitrici, e cioè gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. Il presidente americano Franklin *Ennio Savi, laureato in Storia contemporanea all’Università Ca’ Foscari di Venezia. D. Roosevelt, partendo dall’inter­ nazionalismo del suo predecessore Woodrow Wilson nel primo dopoguerra (libertà dei mercati e sicurezza collettiva, ma nell’ottica, nuova, di una politica di contenimento degli attori che rimangono fuori da questo ordine), aveva elaborato un ambizioso piano che avrebbe dovuto rivoluzionare totalmente i rapporti tra le nazioni. Esso era basato su tre punti: 1) un’organizzazione mondiale delle Nazioni Unite che sostituisse la vecchia Società delle Nazioni; 2) un’organizzazione economico-monetaria mondiale sotto la guida degli Stati Uniti; 3) un mondo smilitarizzato dove l’ordine internazionale fosse garantito dall’alleanza di quattro potenze militari: USA, URSS, Gran Bretagna e Cina («the four policemen», «i quattro poliziotti»). Quella di Roosevelt era una visione che, al di là degli idealismi, rispondeva perfettamente agli interessi di una potenza in enorme crescita che aveva bisogno di espandere la propria economia all’estero cercando nuovi mercati. Gli Stati Uniti erano infatti emersi dalla guerra, al contrario di tutti gli altri paesi, enormemente rafforzati. Non avevano problemi di ricostruzione, dato che furono l’unico grande paese belligerante a non avere sul proprio territorio le rovine della guerra. Grazie alle forniture belliche, la loro economia era in straordinaria espansione e le loro risorse industriali e tecnologiche non avevano paragone con nessun altro paese. Con la massiccia immigrazione di scienziati di origine ebraica dall’Europa a seguito delle leggi razziali naziste e fasciste, le università e i laboratori americani si trovarono in pochissimo tempo all’avanguardia nella ricerca scientifica. E la supremazia tecnologica degli Stati Uniti era diventata supremazia militare grazie al monopolio della bomba atomica. Non è esagerato dire che sia stata quella americana l’unica vera «superpotenza» emersa dalla guerra. Ma la dirigenza statunitense, ricordando ancora la drammatica esperienza della «grande depressione», aveva un grande timore: che la nuova forza del paese fosse messa in ginocchio da una devastante crisi di sovrapproduzione. Non bastava riconvertire l’industria alla produzione di pace: occorreva anche aprire ad essa nuovi mercati. Per ottenere questo bisognava superare in modo radicale il protezionismo degli anni ‘30, il quale, creando nei vari paesi delle economie chiuse in competizione tra loro (basti pensare alla famosa «autarchia» fascista), aveva contribuito non poco allo scoppio della guerra, e sostituirgli un sistema liberista, con le barriere doganali ridotte al minimo e la libera circolazione dei capitali privati. Era ancora vivo in tutti il ricordo del caos monetario del periodo tra le due guerre e della grande depressione, durante la quale i controlli sul tasso di cambio e le barriere commerciali avevano minato il sistema di pagamenti internazionali su cui era basato il commercio mondiale. I governi infatti avevano usato politiche di svalutazione per far crescere le esportazioni giocando sulla compe7 titività del cambio, con lo scopo di ridurre il deficit della bilancia dei pagamenti, causando però come effetti colla­terali la caduta a picco delle entrate nazionali, la riduzione della domanda, un aumento esponenziale della disoccupazione e un’ondata di protezionismo durante la quale gli scambi si ridussero a ristretti gruppi di nazioni che si riferivano alla stessa valuta, ad esempio il blocco della sterlina inglese del Commonwealth). Questa strategia, tesa ad aumentare i redditi dei singoli paesi nel breve periodo, aveva provocato disastri nel medio e lungo periodo. A tale scopo occorreva creare nuove strutture internazionali, sotto la guida degli Stati Uniti, che potessero regolare un regime globale di libero scambio. Queste strutture furono create con la conferenza di Bretton Woods del luglio 1944 (3). Questa conferenza monetaria e finanziaria delle Nazioni Unite aveva come scopo la ricostruzione del sistema monetario e finanziario dopo la guerra e riunì delegati di 44 nazioni alleate a Bretton Woods (New Hampshire). Dopo un acceso dibattito, durato tre settimane, i delegati firmarono una serie di accordi tesi principalmente a due obiettivi: il primo era l’obbligo per ogni paese di adottare una politica monetaria tesa a stabilizzare il tasso di cambio ad un valore fisso rispetto al dollaro, che veniva così eletto a valuta principale, consentendo solo delle lievi oscillazioni delle altre valute; il secondo la costituzione di un Fondo Monetario Internazionale allo scopo di riequilibrare le dispartià causate dai pagamenti internazionali e di una Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo (detta anche «Banca mondiale»). Le istituzioni divennero operative nel 1946. L’anno dopo fu firmato il GATT (General Agreement on Tariffs and Trade, Accordo Generale sulle Tariffe ed il Commercio), lo strumento principale per gestire il libero scambio internazionale ed evitare le guerre doganali. In pratica il sistema progettato a Bretton Woods era un «gold ex­ change standard», basato su rapporti di cambio fissi tra le valute, tutte 8 agganciate al dollaro, il quale a sua volta era agganciato all’oro. Gli interessi degli Stati Uniti diventavano così gli interessi di tutto l’occidente capitalista. Il sistema di Bretton Woods però non prevedeva un controllo internazionale sulla quantità di dollari emessi, permettendo così agli USA l’emissione incontrollata di moneta, fatto contestato più volte da Francia e Germania in quanto gli USA in questo modo potevano esportare la loro inflazione. La conferenza di Dumbarton Oaks, un ciclo di colloqui informali fra Stati Uniti, Gran Bretagna, Cina e Unione Sovietica, si apr il 21 agosto 1944 e si chiuse il 7 ottobre dello stesso anno, pose le basi del progetto per l’Organizzazione delle Nazioni Unite, che sarebbe stata istituita con la conferenza di San Francisco dell’aprile 1945. La proposta iniziale, elaborata dal Dipartimento di Stato americano, suscit comunque gi in questa sede sostanziali divergenze proprio nelle questioni pi importanti, come la composizione del Consiglio di Sicurezza, il diritto di veto e le forze armate da mettere a disposizione del Consiglio. Non si trov altra soluzione che quella di rimandare la discussione ad ulteriori colloqui. L’Urss in particolare manifestava grandi perplessit sull’idea di un Consiglio di Sicurezza che potesse far rispettare le proprie decisioni con la forza. L’istituzione ufficiale dell’ONU si ebbe con la conferenza di San Francisco dell’aprile-giugno 1945; la firma della Carta delle Nazioni Unite data invece 24 ottobre 1945. L’Unione Sovietica aveva invece prospettive meno mondiali e meno nobili, ma per quanto la riguardava molto più concrete. Subito dopo la guerra, la principale preoccupazione di Stalin e del partito comunista sovietico non poteva che essere la ricostruzione. Le distruzioni della guerra erano state enormi, sia dal punto di vista demo­ grafico (l’URSS soffrì qualcosa come 20 milioni di morti, la percentuale di gran lunga maggiore fra tutti i paesi belligeranti), che dal punto di vista economico. L’economia delle regioni occidentali dell’Unione Sovietica, quelle più ricche e produttive, era stata sconvolta: l’agricoltura, specie in Ucraina, era in un incredibile stato di devastazione, e l’industria era stata spostata in Siberia e totalmente convertita allo sforzo bellico. I sovietici, inoltre, diffidavano della superiore potenza americana e ritenevano necessario sviluppare un sistema socialista chiuso e il piu possibile autosufficiente, in netto contrasto col mondo di mercati aperti, interconnessi e organizzati attorno al dollaro propugnato dal governo statunitense. La strategia di Stalin per il dopoguerra era dunque sintetizzabile in alcuni - pochi ma ben chiari - punti: 1) riportare l’Unione Sovietica entro i confini della Russia zarista; 2) assicurare all’etnia russa la supremazia all’interno dell’Unione Sovietica rispetto alle altre nazionalità (anche con metodi brutali, come le depor­ tazioni di massa); 3) creare attorno all’Unione Sovietica un anello di stati subordinati che ne agevolasse la difesa contro un eventuale nuovo aggressore (era la cosiddetta «dottrina dell’accerchiamento capitalistico»). L’enfatizzazione d’altra parte di una presunta minaccia esterna permetteva a Stalin di giustificare di fronte al popolo russo e ai comunisti esteri la continuazione della repressione del tenore di vita e della libertà individuale tipiche della sua gestione del potere. Il governo britannico di Winston Churchill si trovò spiazzato dal grande progetto rooseveltiano, al quale aderì più per costrizione che per convinzione. Anzi, le idee di Roosevelt andavano direttamente contro gli interessi nazionali inglesi: la loro realizzazione avrebbe infatti sostituito il dollaro alla sterlina come moneta di riferimento dei mercati finanziari, ed avrebbe aperto alla concorrenza americana tutti i mercati tradizionali per le merci inglesi, come i paesi del Commonwealth o il Sud­america. Ma la Gran Bretagna, unico paese ad aver combattuto senza interruzione per tutta la durata della guerra, in Europa, in Africa e nel Pacifico, era nel 1945 finanzia­riamente dissan- guata, e perciò del tutto dipendente dagli aiuti americani. Andare contro la politica americana, rischiando ritorsioni finanziarie, era una cosa che la Gran Breta­gna non poteva permettersi. Ma in particolare, Churchill era preoccupatissimo di quella che per lui era una pericolosa tendenza da parte di Roosevelt a venire incontro alle richieste di Stalin pur di averne l’appoggio per la sua riorganiz­z azione postbellica del mondo. In più il primo ministro inglese era spaventato dall’avanzata dell’Armata Rossa nei Balcani, alla quale rispose dapprima cercando di convincere il grande alleato d’oltreoceano a cacciare i tedeschi dai Balcani creando così nella regione una presenza anglo-americana, e in seguito, di fronte al rifiuto americano di distogliere lo sforzo bellico dalla sua direttrice principale (cioè quella che prevedeva di sbarcare in Francia per combattere poi i tedeschi sul Reno), cercando un accordo direttamente con Stalin. Ne venne fuori il patto Churchill-Stalin di Mosca dell’ottobre 1944, o «accordo delle percentuali»: grosso modo, Romania e Bulgaria sarebbero andate alla Russia; la Grecia agli occidentali; Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia e Jugoslavia invece avrebbero visto una compartecipazione “fifty-fifty”. Questo accordo, fatto senza tener in alcun conto l’autodeterminazione dei popoli interessati, ebbe in seguito grande importanza perché contribuì a creare, quando sorsero regimi comunisti in tutti i territori occupati dall’Armata Rossa, la convinzione da parte degli occidentali che Stalin non fosse stato ai patti. La prima grande conferenza interalleata che influenzò con le sue decisioni l’assetto internazionale del dopoguerra fu quella di Teheran (28 novembre - 1 dicembre 1943). In genere viene considerata di seconda importanza rispetto a quelle successive di Jalta e di Potsdam, ma in effetti la sua importanza fu cruciale. A Teheran infatti furono prese tutte le decisioni fondamentali sul nuovo assetto territoriale dell’Europa: il nuovo confine polacco sulla linea I tre protagonisti della Conferenza di Yalta. Da sinistra: Winston Churchill, Franklin Delano Roosevelt e Josif Stalin. Oder-Neisse; l’annessione all’URSS dei paesi baltici; la conferma del confine russo-polacco così come definito dal patto nazi-sovietico del 1939; il riconoscimento dell’influenza sovietica nei Balcani; la divisione della Germania in zone di occupazione. La conferenza di Jalta (4 - 11 febbraio 1945) fu in pratica un vertice tra Franklin Delano Roosevelt, Winston Churchill e Stalin. Non venne invitato il leader francese Charles de Gaulle, che per il resto della sua vita ricordò sempre con rancore quello che considerava un affronto alla sua persona e all’onore della Francia. Roosevelt riuscì a far progredire il suo grande progetto di organizzazione mondiale: nell’aprile 1945 si sarebbe tenuta a San Francisco la conferenza che avrebbe visto la nascita dell’Organizzazione delle Nazioni Unite. A Jalta fu anche raggiunto un primo accordo di massima sulla composizione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Stalin espresse la sua richiesta di avere «paesi amici» alle frontiere dell’URSS. L’ambiguo significato del termine «paesi amici» fu ciò che conteneva in nuce la situazione venutasi a creare negli anni immediatamente seguenti (4). Per Stalin infatti questo significava paesi comunisti, politicamente, economicamente e militar­mente soggetti a Mosca (anche se si guardò bene dal dirlo); per gli occidentali invece il termine non significava necessariamente la rinuncia per questi paesi al pluralismo politico e all’economia di mercato, ma in sostanza solo la smilitarizzazione dei loro confini con l’URSS. I timori occidentali sulla sorte degli stati occupati dall’Armata Rossa furono sopiti da Stalin con una vaga promessa di elezioni democratiche, e con l’insediamento di governi di coalizione in Polonia e in Jugoslavia. Chur­chill denunciò l’instaurazione di regimi comunisti in Romania e Bulgaria; Stalin negò, e lo statista inglese non poté fare altro che prendere atto del fatto compiuto. L’appello all’au­to­de­ter­­ mina­zione dei popoli liberati dal nazismo per Stalin era solo pura propaganda, un contentino per placare la coscienza dei due alleati occidentali. Questi invece ritenevano di aver vincolato Stalin a rispettare l’autodeter­minazione politica dei popoli dell’Est europeo. Per quanto riguardava la Germania e l’Austria, fu confermata la de9 cisione di azzerarle completamente come entità statuali e di smembrarle in quattro zone di occupazione, ognuna gestita dalle quattro potenze vincitrici (USA, URSS, Regno Unito e Francia). Al di là del suo progetto di ordine mondiale, Roosevelt aveva comunque un motivo ben concreto per essere accomodante con Stalin. Nel febbraio 1945 il Giappone non aveva ancora alcuna intenzione di deporre le armi. Gli americani sarebbero stati impegnati nei mesi seguenti nelle due cruente battaglie di Iwo Jima ed Okinawa, dove avrebbero sperimentato direttamente il fanatismo giapponese nel difendere il patrio suolo. La guerra nel Pacifico sembrava ancora lontana dal concludersi. Gli angloamericani sarebbero sbarcati direttamente in Giappone, ma avevano bisogno che i sovietici, che fino allora erano rimasti neutrali, entrassero in guerra. Pur di assicurarsi che i russi avrebbero attaccato i giapponesi in Manciuria, gli angloamericani concessero loro i territori perduti dallo zar nella guerra del 1905 (5). Alcuni storici parlano di un «mito di Jalta», sostenendo che il ruolo della conferenza nella spartizione dell’Europa in sfere d’influenza non fu così decisivo come si è sempre creduto (6). In effetti questo è vero: prima di tutto, Jalta da sola non spiega molto se non viene inserita nel contesto delle conferenze interal­ leate di guerra, almeno a partire da Teheran in poi; inoltre, Germania a parte, non vi fu alcuna esplicita «spartizione» dell’Europa: la sovie­ tizzazione dell’Europa orientale fu la conseguenza naturale di una serie di fattori scaturiti dall’andamento della guerra, primo tra tutti l’avanzata dell’Armata Rossa. L’idea della «spartizione» ebbe due origini principali: il generale De Gaulle e, negli USA, il partito repubblicano. De Gaulle, che sentì il suo mancato invito a Jalta, in qualità di rappresentante della Francia grande potenza vincitrice, come un affronto personale, utilizzò Jalta come la prova che i tre grandi avevano agito alle spalle dei popoli europei, quello 10 francese - naturalmente - in primis. Altrettanto fecero i repubblicani statunitensi contro i seguaci di Roosevelt: pur essendo ormai vicino alla fine, il presidente avrebbe voluto affrontare la prova di un quarto mandato, col risultato di presenziare al vertice senza la forza di opporsi a Stalin. Sul «tradimento di Jalta» i repubblicani basarono gran parte della loro polemica contro il partito democratico negli anni Cinquanta. Comunque non si sbaglia poi di molto, facendo le debite precisa­zioni, dicendo che fu nelle ultime due conferenze interalleate di Jalta e di Potsdam che iniziarono a delinearsi i conflitti tra occidentali e sovietici che portarono negli anni successivi alla vera spartizione dell’Europa. L’ultimo dei vertici interalleati fu la conferenza di Potsdam, tenutasi dal 17 luglio al 2 agosto 1945 (7). Vi fu un significativo rima­neg­giamento dei rappresentanti di Stati Uniti e Gran Bretagna: morto Roosevelt il 12 aprile, il presidente americano era adesso Harry S. Truman, coadiuvato dal segretario di Stato James F. Byrnes; in quanto alla Gran Bretagna, dopo la sconfitta elettorale di Churchill che portò alle sue dimissioni il 26 giugno, era rappresentata dal primo ministro Cle­ment Attlee e dal ministro degli esteri Ernest Bevin. Unico elemento di continuità con Jalta la granitica presenza di Stalin e del suo ministro degli esteri Molotov. L’ordine del giorno della conferenza comprendeva la ridiscussione delle frontiere europee, l’ammontare delle riparazioni per i danni di guerra, la gestione e il governo del territorio tedesco e la conduzione della guerra nel Pacifico, dove i giapponesi non avevano ancora alcuna intenzione di deporre le armi. A Potsdam furono definite le zone di occupazione della Germania, e fu deciso di dividere in zone anche la città di Berlino. Le decisioni prese nel corso della conferenza di Potsdam dettero luogo alla «Dichiarazione di Potsdam». Furono stabiliti i confini tra Polonia e Germania sulla linea Oder-Neisse e fu deciso che tutta la popolazione tedesca presente nel territorio divenuto polacco, cecoslovacco e ungherese doveva essere espulsa e assorbita in Germania. La Germania fu suddivisa in quattro zone di occupazione amministrate dalle potenze vincitrici. Non vi fu accordo sull’ammontare dei risarcimenti, mentre le potenze occidentali perseguivano una linea più morbida Stalin insistette per dei risarcimenti molto elevati. Per questo motivo fu deciso che all’interno della propria zona di occupazione ogni potenza avrebbe gestito entità e tipologia di risarcimento in modo autonomo. Harry S. Truman, forte del successo del primo esperimento atomico ad Alamo­gordo, lanciò un ultimatum al Giappone che se non si fosse arreso non avrebbe evitato una «immediata e completa distruzione». La bomba atomica L’idea che una reazione a catena nucleare si potesse produrre artificialmente fu sviluppata nella seconda metà degli anni trenta in seguito alle scoperte di Lise Meitner e di Otto Hahn. Un gruppo di scienziati europei rifugiatisi negli Stati Uniti a seguito delle persecuzioni razziali (Enrico Fermi, Leo Szilard, Edward Teller ed Eugene Wigner) si preoccuparono del possibile utilizzo militare della scoperta fatta dai due scienziati tedeschi. Nell’ottobre 1939 Fermi e Szilard convinsero Albert Einstein a scrivere una lettera al presidente Roosevelt per fargli presente il pericolo che i tedeschi potessero costruire una «bomba all’uranio». Roosevelt ne fu colpito e nacque così il «Progetto Manhattan» (8). Nel dicembre 1942 a Chicago Enrico Fermi e collaboratori riuscirono ad assemblare la prima «pila atomica», ossia il primo reattore nucleare a fissione. A quel punto era stata provata la fattibilità di un’arma atomica, e il «Progetto Manhattan» entrò nella fase di industrializzazione, che richiese enormi risorse finanziarie. Nato come semplice programma di ricerca, il progetto Manhattan mutò nel 1942 i suoi obiettivi e crebbe fino a occupare più di 130.000 persone e costando alla fine oltre 2 miliardi di dollari dell’epoca (corrispondenti a 28 miliardi di dollari del 2008). Ad Hanford (stato di Washington), Oak Ridge (Tennessee) e Los Alamos (New Mexico) furono costruiti giganteschi impianti per la produzione dei materiali fissili necessari, e sotto la direzione scientifica di Robert Oppenheimer dopo tre anni di intenso e segretissimo lavoro la bomba vide la luce. Il 16 luglio 1945, durante il cosiddetto «Trinity test», ad Alamogordo (New Mexico) esplose la prima bomba atomica. L’annuncio della riuscita dell’esperimento Trinity fu dato al presidente Truman mentre questi era impegnato nella conferenza di Potsdam. Truman cercò di sfruttare politicamente la cosa, accennando a Stalin della bomba per intimorirlo; ma questi non fece una piega. Infatti era già al corrente dell’ordigno americano, e i fisici sovietici erano già da qualche tempo al lavoro per produrre una loro arma nucleare. Gli americani erano invece convinti che sarebbero passati parecchi anni prima che i russi potessero avere «la bomba». Il 26 luglio 1945 la Dichiarazione di Potsdama aveva stabilito i termini per la resa giapponese. Il giorno seguente, i giornali giapponesi riportarono la dichiarazione, il cui testo venne diffuso anche radiofonica­ mente in tutto il Giappone, ma il governo militare la respinse. Il segreto della bomba atomica era ancora custodito, e la sua esistenza non venne minimamente accennata nella dichiarazione. Truman affermò che se i giapponesi non si arrendevano, sarebbero stati totalmente distrutti, ma si guardò bene dal rendere pubblica l’esistenza della bomba atomica. Il governo giapponese non prese nemmeno in considerazione l’avvertimento (9). I fatti che seguirono sono tristemente noti: la mattina del 6 agosto 1945, una bomba atomica fu sganciata su Hiroshima (10); il 9 agosto, un’altra bomba fu sganciata su Nagasaki. Il giorno prima l’8 agosto, i sovietici attaccarono i giapponesi in Manciuria, per evitare che lo sgancio delle atomiche li privasse dei vantaggi loro promessi a Potsdam in cambio dell’intervento. Un gesto così distruttivo, così Nagasaki, 9 agosto 1945. Il caratteristico “fungo” originato nell’atmosfera dallo scoppio della bomba atomica. gravido di implicazioni militari, politiche e morali, non poteva non essere oggetto al tempo di feroci polemiche, e in seguito di interminabili dibattiti fra gli storici. La tesi “ufficiale” statunitense è che i bombardamenti atomici abbiano costretto i giapponesi ad arrendersi, risparmiando così la vita a milioni di persone, sia americani che giapponesi. Le forze armate USA avevano preparato per l’invasione del Giappone l’«operazione Down­f all», divisa in due grandi sbarchi, «Olympic» e «Coronet», che avrebbero dovuto svolgersi rispettivamente nel novembre 1945 sull’isola di Kyushu e nella primavera 1946 sull’isola di Honshu, mentre l’esercito sovietico avrebbe invaso l’isola settentrionale di Hokkaido. La guerra si sarebbe certamente prolungata almeno fino alla fine del 1946 (11) e gli strateghi americani prevedevano perdite computabili a circa un milione di militari alleati e a una cifra almeno dieci volte superiore tra militari e civili giapponesi. Questa ipotesi non era poi così peregrina, dato che si venne a sapere poi che le autorità militari nipponiche stavano effettivamente preparando un piano di resistenza all’invasore che avrebbe mobilitato l’intera popolazione, e prevedevano di utilizzare nella resistenza enormi masse di kamikaze. Nonostante le due bombe atomiche e l’attacco sovietico, ci volle tutta l’autorità dell’imperatore Hiro Hito per far accettare ai militari nazionalisti la resa, e vi fu da parte di questi ultimi perfino un tentativo di colpo 11 di stato per impedire la richiesta di armistizio. Esistono d’altra parte inchieste e documenti che farebbero supporre l’esatto contrario, cioè che sarebbero bastati ancora pochi mesi di bombardamenti convenzionali e di blocco navale per far cadere il Giappone (12). In ogni caso, non si può certo tornare indietro per vedere come sarebbe andata a finire senza Hiro­shima e Nagasaki, per cui tutto rimane, e rimarrà sempre, nell’ambito delle pure speculazioni. L’America era rimasta sgomenta dalle perdite dei marines avvenute durante gli sbarchi a Iwo Jima e Okinawa. Una carneficina per ridurre alla ragione un nemico già virtualmente sconfitto, che continuava a combattere solo per fanatismo, era qualcosa che nessun americano voleva, la guerra era stata già abbastanza lunga, tragica e costosa: se i giapponesi volevano farsi ammazzare tutti, padronissimi di farlo, ma non una goccia di sangue americano in più doveva essere versata. Questo in quei giorni era il clima psicologico nel governo di Truman e nell’opinione pubblica americana. Ciò non toglie che il bombardamento atomico del Giappone rispondeva anche ad altre logiche, che riguardavano non la guerra che stava per concludersi, ma ciò che sarebbe successo dopo. Una prima preoccupazione era quella di dimostrare al mondo intero il potere distruttivo del nuovo ordigno, allora di esclusiva proprietà degli Stati Uniti, che avrebbero mostrato così il loro nuovo status di “superpotenza”, e nessuno avrebbe più potuto contestare la leadership globale americana: ogni riferimento all’Unione Sovietica è qui tutto fuorché casuale. Per questo fu deciso a tavolino di non utilizzare la bomba su un obiettivo esclusivamente militare, e meno che meno su un’area deserta a solo scopo dimostrativo, come proposto da alcuni scienziati: essa doveva essere utilizzata contro una zona urbana, e a tale scopo Hiroshima fu deliberatamente risparmiata dai bombardamenti convenzionali che devastavano le altre città giapponesi. È difficile non considerare i bom12 bardamenti terroristici delle città tedesche e giapponesi come «crimini contro l’umanità», soprattutto se si pensa che non avevano alcuna giustificazione di carattere militare (13). Un’altra preoccupazione, per quanto aberrante possa sembrare, era di carattere più “tecnico”: i militari americani volevano studiare gli effetti della bomba per capirne le modalità d’uso. A questo scopo per esempio erano aggregati all’aereo con la bomba altri due apparecchi, uno per ricognizione meteorologica e un altro letteralmente stipato di macchine fotografiche e di strumenti scientifici. In questo senso, Hiroshima può essere considerata senza dubbio sia come l’ultimo atto della seconda guerra mondiale, sia come il prologo della guerra fredda. Nel secondo dopoguerra l’arma atomica entrò nell’arsenale tutte le principali potenze mondiali. L’Unione Sovietica recuperò abbastanza rapidamente il ritardo e sperimentò la prima bomba a fissione il 29 settembre 1949, ponendo così fine al monopolio degli Stati Uniti. Il Regno Unito vi arrivò nel nel 1952, dopo che gli Stati Uniti, nonostante la partecipazione britannica al «progetto Manhattan», si rifiutarono di condividere con i “cugini” i segreti della bomba; la Francia nel 1960; la Cina nel 1964. Dalla “guerra calda” alla “guerra fredda”: 1945-1949 Il destino finale della Germania dette luogo a varie discussioni tra gli alleati. A guerra non ancora conclusa era stato preso seriamente in considerazione il «piano di pastora­ lizzazione» di Henry Morgenthau, Jr., segretario del Ministero del Tesoro degli Stati Uniti. La Germania doveva essere divisa in due stati indipendenti, uno per la Germania settentrionale e uno per la Baviera e land limitrofi; i principali centri industriali ed estrattivi tedeschi, cioè le zone della Saar, della Ruhr e della Slesia dovevano essere interna­ zionalizzati o annessi dalle nazioni vicine; tutta l’industria pesante doveva essere smantellata. Al se- condo Convegno del Quebec, il 16 settembre 1944, il presidente statunitense Roosevelt e Morgenthau stesso persuasero il Primo Ministro britannico Winston Churchill, inizialmente molto riluttante, ad acconsentire al programma. Il piano era talmente punitivo che Goebbels poté usare il programma per sostenere la resistenza tedesca sul fronte occidentale (14). Il dibattito sul destino della Germania dopo la cessazione delle ostilità dipendeva in larga parte dalle interpretazioni sulle conseguenze del trattato di Versailles che aveva concluso la prima guerra mondiale. L’interpretazione d’ispirazione keynesia­na (The economic consequences of the peace), faceva notare come le pesanti riparazioni di guerra avesser impedito la ripresa economica tedesca e costituito dunque uno degli elementi basilari del revanscismo tedesco. Altre interpretazioni, come quella di Morgenthau, erano incentrate sulla natura “bellicosa” dello stato prussiano. Il Piano Mor­ genthau, condiviso da Roose­velt, venne accantonato da Truman. Dopo la resa incondizionata del Terzo Reich l’8 maggio 1945 e l’arresto dei leader del governo Dönitz e von Krosigk avvenuto il 23 maggio da parte dell’esercito inglese, le potenze alleate azzerarono lo stato tedesco prendendo a carico direttamente l’amministrazione del paese, così come deciso nell’accordo inter­ alleato firmato a Berlino il 5 Giugno 1945, detto Dichiarazione Comune riguardo alla Sconfitta della Germania (o «Dichiarazione del 1945»). La Germania fu divisa in quattro zone di occupazione, così come era stato deciso a Jalta. La linea Oder-Neisse diventava il nuovo confine con la Polonia. Germania e Austria non esistevano più come entità statali indipendenti (15). Per la Germania il 1945 fu l’«anno zero». In origine, la Francia, anche se facente parte delle potenze alleate, non doveva avere una zona di occupazione, a causa sia della sua storica ostilità con la Germania, sia del ruolo minimo giocato dalla Francia durante la guerra. A Jalta però sia gli inglesi che gli americani si accordarono per concedere una parte delle loro porzioni ai francesi. La città di Berlino fu occupata da tutte e quattro potenze alleate e fu suddivisa pertanto in quattro settori. Ogni potenza possedeva l’autorità di governo della propria zona, ma per coordinare le attività delle quattro potenze occupanti fu istituito un «Consiglio di Controllo». Nel giro di due anni furono liquidati gli ultimi strascichi del conflitto appena concluso. Nel 1946 fu celebrato il processo di Norimberga ai criminali nazisti. Nello stesso anno si aprì a Parigi la «Conferenza dei Ventuno» che si concluse l’anno dopo con la firma dei trattati di pace riguardanti gli alleati della Germania, tra cui l’Italia. La visione roose­ veltiana non vi ebbe alcuna parte: il risultato della pace fu una riedizione della politica delle annessioni che aveva caratterizzato trent’anni prima il trattato di Versailles che chiuse la prima guerra mondiale. La parte del leone, nelle annessioni, la ebbe ovviamente l’Unione Sovietica, che, Polonia e Finlandia a parte, tornò grosso modo ai confini dell’impero zarista. Il drastico spostamento dei confini ad occidente di Unione Sovietica e Polonia portarono a un grande e doloroso esodo verso ovest di tedeschi e polacchi. Il rapidissimo deterioramento dei rapporti tra alleati occidentali ed Unione Sovietica impedì che al trattato di Parigi seguissero regolari trattati di pace con le due grandi potenze sconfitte, la Germania e il Giappone. Già a partire dal 1946 infatti iniziarono le prime crisi legate alla formazione delle sfere d’influenza occidentale e sovietica. Cercando di capitalizzare al massimo la presenza dell’Armata Rossa nei vari territori occupati, Stalin cercò di prolungare l’occupazione dell’Iran settentrionale. Fin dal 1942 gli alleati avevano messo piede militarmente in questo stato mediorientale a causa della sua importanza strategica, non solo per il petrolio, ma soprattutto perché garantiva una sicura via di comunicazione tra le colonie inglesi e l’URSS. La zona sovietica dell’Iran fu isolata dal resto del paese, la Il tracciato della “Cortina di ferro” che divideva i paesi della Nato da quelli del Patto di Varsavia. popolazione curda fu istigata alla rivolta, e fu instaurato un governo comunista della minoranza azera. Nel gennaio 1946 Teheran chiese un intervento del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, ma l’URSS pose il veto, anzi spostò i propri soldati fino alle porte della capitale. A quel punto gli Stati Uniti iniziarono a fornire all’Iran aiuti economici e militari. Ai sovietici non rimase altro che ritirarsi protestando. Inoltre, Stalin iniziò a pretendere dalla Turchia non solo una presenza nel Bosforo e nei Dardanelli, ma anche la restituzione della regione di Kars, conquistata dagli ottomani nel 1917 e rimasta alla Turchia dopo la rivoluzione d’ottobre. Il dittatore sovietico ordinò l’ammassamento di truppe alla frontiera turca. Gli Stati Uniti allora, con la scusa di riportare in patria la salma dell’ambasciatore turco, morto a Washington, inviarono nel Mar Nero una corazzata. Il messaggio fu recepito, e Kars rimase in territorio turco. Le mire sovietiche verso la Turchia e l’Iran erano totalmente ingiu­ stificate da un punto di vista diplomatico, perché la Turchia era rimasta neutrale per tutta la guerra, e l’Iran non aveva mai parteggiato per l’As- se, come invece aveva fatto l’Irak nel 1941. Queste rivendicazioni rispondevano invece non solo al disegno staliniano di ritorno alle frontiere dell’impero zarista, oltretutto forse con un tratto di rivincita personale vista l’origine georgiana di Stalin, ma erano la prosecuzione tale e quale delle vecchie direttrici dell’espansionismo russo nell’Ottocento. Così come in Iran, i sovietici tentarono di fare in Manciuria, da loro occupata nei pochi giorni di guerra contro il Giappone. Anche la Manciuria era una vecchia gloria della politica estera degli zar. Winston Churchill, in un discorso all’università di Fulton (Missouri, USA), il 5 marzo 1946, commentò il deterioramento dei rapporti tra gli ex-alleati con la sua famosa affermazione: «Da Stettino nel Baltico a Trieste nell’Adriatico una cortina di ferro è scesa attraverso il continente» (16). Il nuovo presidente americano, Truman, non aveva la passione di Roosevelt per la politica estera, ed odiava i bizantinismi diplomatici. Anticomunista fino al midollo osseo, si convinse fin da subito che occorreva adottare con i sovietici la «linea dura»: famosa la sua frase «la forza 13 è l’unica cosa che i russi capiscono […]. I russi si stavano preparando a conquistare il mondo» (17). La prima parte della frase è sacrosanta: l’unica cosa che Stalin considerasse, nella sua assoluta mancanza di scrupoli, erano i rapporti di forza (famosa la sua battutaccia su Pio XII: «Il papa! Quante divisioni ha?»). Non aveva invece alcun senso la seconda: al di là delle teorie propagandistiche dell’ideologia marxista-lenini­s ta, l’Unione Sovietica non aveva alcuna intenzione di conquistare il mondo, soprattutto alla fine degli anni Quaranta; le occorreranno ancora almeno dieci anni prima di proporsi in modo credibile come potenza globale. La paura del comunismo era piuttosto un argomento della polemica politica dei repubblicani americani ad esclusivo uso interno. Truman invece, nel suo rozzo ma sicuro istinto politico, aveva compreso benissimo la natura della politica estera sovietica quando disse: «non ci sarà nessuno scontro tra noi e loro, ma i sovietici sono duri negoziatori e sono capaci di chiedere il mondo intero per accontentarsi poi di un acro di terra» (18). Nel 1947 così il presidente americano, ormai convinto della disonestà dei sovietici e perciò dell’impossibilità di risolvere gli attriti con loro tramite trattative diplomatiche, enunciò quella che sarebbe diventata la «Dottrina Truman»: gli Stati Uniti avrebbero appoggiato qualsiasi popolo «minacciato» dalla sovversione interna o dalle ingerenze di potenze straniere. Tradotto in termini concreti, significava che gli USA si sarebbero opposti a qualsiasi tentativo da parte dell’URSS di estendere il proprio dominio su altri stati, oppure da parte dei partiti comunisti di prendere il potere con le armi. In quegli anni la situazione era particolarmente grave in Grecia, dove infuriava la guerra civile tra l’esercito regolare monarchico e i partigiani comunisti, che già durante la guerra erano stati combattuti dai soldati inglesi. Stalin però non fece nulla per loro: la Grecia apparteneva alla sfera d’influenza occidentale, e il dittatore sovietico, pur arrogandosi 14 il diritto di avere le mani libere in Europa orientale, non aveva alcuna intenzione di rischiare una nuova guerra con azzardate politiche espansionistiche. Chi appoggiava attivamente i comunisti greci, nel quadro di un suo piano per fare della Jugoslavia la potenza egemone nei Balcani, era il maresciallo Tito. Ma allora, perché l’Occidente percepiva l’URSS come una potenza aggressiva che aveva intenzione di assoggettare a sé l’intera Europa? Stalin in soldoni faceva questo discorso: io non andrò oltre la cortina di ferro, ma tutto ciò che faccio dietro la cortina di ferro sono solo affari miei. Il fatto era che quell’invisibile ma ben concreto confine non era riconosciuto dalle potenze occidentali; era invece un dato di fatto, originato dal limite dell’avanzata sovietica durante la guerra e dalla spartizione della Germania fatta a Jalta. Gli occidentali basavano invece le proprie rivendicazioni sostanzialmente sull’«accordo delle percentuali» tra Churchill e Stalin. Al di là delle dichiarazioni di principio, nessuno ad occidente obiettava sull’influenza sovietica in Polonia, Romania e Bulgaria; ma non era affatto scontato per gli occidentali che in Cecoslovacchia, in Jugoslavia e in Germania orientale dovessero sorgere dei regimi comunisti. La repentina sovietizzazione dell’Europa orientale fu dunque percepita all’ovest come la prova di un disegno espansionistico globale che avrebbe portato il comunismo in tutto il continente. A sostegno di questa tesi arrivò la costituzione, nell’ottobre 1947, del «Cominform», l’organizzazione internazionale dei partiti comunisti europei, di stretta ortodossia stali­ niana e in effetti docili strumenti degli interessi di Mosca (19). Una simile organizzazione non poteva non apparire come una specie di «quinta colonna» sovversiva all’interno delle democrazie occidentali, soprattutto in Italia e in Francia, dato che PCI e PCF erano gli unici appartenenti al «Cominform» che non provenissero da paesi già nell’orbita sovietica (20). In verità, Stalin nei partiti comunisti occidentali appoggiò l’ala moderata favorevole all’inserimento nei sistemi democratico-parlamentari, piuttosto che gli estremisti che volevano trasformare, senza soluzione di continuità, l’esperienza resistenziale della guerra in rivoluzione proletaria. Per Stalin, i comunisti occidentali dovevano rafforzare la loro presenza nelle istituzioni parlamentari e nella società civile, in attesa che l’inevitabile crisi dei regimi capitalisti aprisse la strada alla «dittatura del proletariato». Il collegamento sempre più stretto tra diffusione del comunismo e tendenze egemoniche della Russia spiega da un lato l’intreccio di motivi ideologici e di politica di potenza nella strategia sovietica, e, dall’altro lato, il progressivo manifestarsi negli stessi partiti comunisti di tendenze autonomistiche non disposte ad accettare supinamente qualsiasi direttiva di Stalin. Fu questo il caso soprattutto della Jugoslavia di Tito. Il progressivo aggravarsi delle tensioni con l’occidente portò ad una nuova mobilitazione militare. L’Armata Rossa, che era passata nell’immediato dopoguerra da 11 a meno di 3 milioni di uomini, risalì a più di 5 milioni. Al monopolio atomico americano i russi risposero quindi con la superiorità nelle armi convenzionali. Questo riarmo fece continuare quello che era il maggior squilibrio dell’economia sovietica, ossia la sproporzione tra l’industria pesante e l’industria leggera. Nella prima metà del 1947, mentre i sovietici paventavano il rischio di un accerchiamento ostile, gli americani erigevano a pericolo centrale del dopoguerra quello di un’espansione dell’influenza sovietica, e si risolvevano a contrastarla con una ferma strategia di «containment», di «contenimento». Fu proprio il 1947 l’anno in cui il termine «guerra fredda» fu introdotto dal consigliere presidenziale Bernard Baruch e dal giornalista Walter Lippmann, per richiamare l’attenzione sui rischi della nuova dottrina statunitense del «containment»: uno stato di tensione permanente tra Usa e Urss basato sul rifiuto di riconoscere la legitti- mita dell’avversario e negoziare le divergenze di interessi per via diplomatica. Risulta oggi poco credibile l’idea che i sovietici, intransigenti ma anche assai cauti, perseguissero un deliberato progetto di espansione. Ma i dirigenti americani contemplavano preoccupati l’accavallarsi di numerosi punti di crisi e instabilità, che essi temevano offrissero grandi opportunita potenziali per la diplomazia sovietica. Dopo il 1945 l’URSS decisse, per dare il via alla ricostruzione, fare affidamento solo alle proprie limitate risorse interne. Anche se questa decisione portava alla rinuncia agli aiuti occidentali, che avrebbero indubbiamente accelerato i tempi e le dimensioni della ripresa economica, d’altra parte garantiva a Stalin la completa libertà di perseguire i propri obiettivi di politica internazionale, senza temere eventuali ritorsioni commerciali. Stalin, la cui condotta fu sempre assolutamente priva di scrupoli, per reperire risorse ricorse in modo vessatorio alle riparazioni per danni di guerra imposte agli stati sconfitti, soprattutto ai danni della Germania Est, che fu spogliata di quasi tutto il proprio apparato industriale. Inutile dire che gli investimenti necessari furono trovati anche mantenendo la popolazione ad uno stato di mera sussistenza ed utilizzando - così come avevano fatto i nazisti - la manodopera gratuita fornita dai prigionieri di guerra e dai detenuti politici. Nel 1949 i legami economici tra l’URSS e le nuove «democrazie popolari» furono for­ma­lizzati con la creazione del «Co­mecon», una specie di mercato comune per mezzo del quale l’Unione Sovietica mirava a organizzare lo spazio economico e geografico che la circondava in relazione ai propri interessi. In occidente invece il problema della ricostruzione fu affrontato in modo ben più costruttivo, anche se sempre in subordine agli interessi economici e commerciali statunitensi. Il generale George Marshall, ex capo di stato maggiore dell’esercito americano durante la guerra, ed ora segretario di stato di Truman (21), in un discorso fatto il 5 giugno 1947 Aiuti dell’UNRRA per l’Italia. all’Università di Harvard annunciò l’avvio dell’«European Recovery Program» (ERP), noto a tutti da allora come «Piano Marshall». Mar­ shall affermò che l’Europa avrebbe avuto bisogno di ingenti aiuti da parte statunitense per la ricostruzione e che, senza di essi, gran parte del continente sarebbe stato esposto al pericolo di un grave deterioramento delle condizioni politiche, economiche e sociali. Gli Stati Uniti si trovavano perciò davanti ad un’altra grande missione: sostenere, favorendo la ripresa economica postbellica, l’economia di mercato in Europa. I primi aiuti all’Europa sconvolta dalla guerra furono gestiti dalla «United Nations Relief and Reha­ bilitation Administration» (UNR­ RA), costituita a Washington il 9 novembre 1943. Si trattava di una organizzazione umanitaria internazionale, fondata con l’accordo di quarantaquattro paesi allo scopo di fornire aiuto e assistenza immediati ai paesi più colpiti dal conflitto. L’UNRRA cominciò a operare in Europa già nel 1944, al seguito dell’avanzata alleata nel Mediterraneo. L’azione dell’UNRRA si concentrò soprattutto nei Paesi europei (Polonia, Grecia, Albania e Italia) e in Cina. Il periodo più intenso dell’attività UNRRA fu dal 1944 al 1946, quando vennero spesi quattro miliardi e mezzo di dollari in aiuti, forniti per lo più dagli Stati Uniti d’America. Gli aiuti comprendevano soprattutto generi di prima necessità quali viveri, medicinali, vaccini e forniture mediche, la distribuzione di vestiario e l’assegnazione di sementi, concimi e macchinari per permettere la ripresa della produzione agricola, nonché di materie prime e beni strumentali per aiutare le industrie locali a riorganizzare la loro attività. Lo sforzo profuso dall’UNRRA fu comunque orientato, in generale, verso le fasce di cittadini più indigenti e verso i bambini. L’UNRRA cessò di esistere nel 1947; i progetti rimasti in sospeso vennero ereditati dall’Organizzazione internazionale per i rifugiati, dall’Organizzazione mondiale per la sanità e dal Fondo internazionale d’emergenza delle Nazioni Unite per l’infanzia (che diventerà in seguito il Fondo delle Nazioni unite per l’Infanzia – UNICEF). Nei tre paesi occupati - Germania, Austria e Giappone – furono invece attivi gli aiuti del programma GARIOA («Government Aid and Relief in Occupied Areas», ossia Aiuti e Soccorsi Governativi nelle Aree 15 Occupate) dal 1946 a circa il 1950. Gli aiuti consistevano soprattutto in viveri per fronteggiare la grave situazione alimentare venutasi a creare nei paesi sconfitti. Passate le prime emergenze, i pianificatori del Dipartimento di Stato americano, fra tutti William Clayton e George F. Kennan (l’ideatore della teoria del «containment» nei confronti dei comunisti), si resero conto che l’Europa necessitava, per rimanere aperta alle istanze commerciali americane, di un programma di sostegno economico che non fosse affatto contingente e disorganico come quelli attuati fino allora: il nuovo piano Marshall, per Clayton e Kennan, doveva assumere un carattere il più omogeneo possibile, in modo da perseguire quattro grandi obiettivi: 1) fornire i capitali e le materie prime necessarie ad alimentare la ripresa delle economie europee; 2) accrescere di conseguenza i livelli di produttività, di reddito e di occupazione; 3) integrare l’economia tedesca in un’area di scambi europea; 4) determinare una duratura interdipendenza dei mercati mondiali, in primo luogo di quelli euro-americani. Questi obiettivi non erano altro che l’altra faccia della strategia del «containment»: il consolidamento di una robusta crescita economica avrebbe stabilizzato le nazioni europee, rafforzando il consenso sociale e marginalizzando le opposizioni comuniste, cosi da contrapporre all’Urss la solidità di un’Europa prospera e fiduciosa della leadership statunitense. L’idea di Marshall, che era stata comunque già sostanzialmente comunicata agli inglesi, venne positivamente accolta dalla Francia che però chiese di estendere gli incontri preparatori anche all’Unione Sovietica. Così, dopo un primo incontro tra il ministro degli Esteri britannico Ernest Bevin e quello francese Georges Bidault, alla metà di giugno, su iniziativa di quest’ultimo si decise di convocare una conferenza a tre a Parigi (che si svolse tra il 27 giugno e il 2 luglio 1947), invitando il commissario agli Esteri sovietico Molo­ tov. Questi, dopo giorni cui alternò 16 collaborazione e ostilità, abbandonò i lavori accusando gli anglo-francesi divoler avallare un piano statunitense per dividere l’Europa in due, non avendo essi accettato la sua idea di presentare piani particolareggiati per ciascun Paese anziché un programma unico. L’URSS di conseguenza, dopo un’iniziale manifestazione di interesse, si rifiutò di partecipare al negoziato, obbligando anche tutti i Paesi della sua zona d’influenza a fare altrettanto. Il 12 luglio 1947 si aprì a Parigi una conferenza di tutti i paesi europei (eccetto Spagna e URSS), indetta da Francia e Gran Bretagna con l’assenso degli Stati Uniti, per predisporre un piano complessivo di aiuti da presentare a Washington. Nessun paese dell’Europa orientale partecipò alla conferenza, dopo che al Governo cecoslovacco - che in un primo momento aveva accettato di presenziare - fu imposto senza mezzi termini da Stalin di ritirarsi. Anche Polonia e Jugoslavia, che avevano espresso una certa disponibilità in merito, vennero meno. La Finlandia, pur in assenza di una chiara richiesta sovietica, decise di non partecipare non volendo indispettire Mosca. Nella Conferenza, che proseguì fino a settembre, emersero posizioni molto distanti dato che, paradossalmente proprio come aveva chiesto Molotov, ogni Paese chiese per sé dei piani particolareggiati, in virtù delle esigenze nazionali. Inoltre, emersero forti divergenze anche tra i paesi occidentali: la Francia chiese esplicitamente che la Germania venisse esclusa dagli aiuti, mentre i paesi del Benelux si espressero in modo diametralmente opposto; la Gran Bretagna cercò di far valere il suo “statuto speciale” di alleato privilegiato degli USA; i paesi scandinavi chiesero che fosse garantita la loro neutralità. Il rappresentante degli Stati Uniti, Clayton, insistette invece sulla presentazione di un piano complessivo, dove fosse promossa l’integrazione economica e commerciale europea. Alla fine venne raggiunto un accordo, per il quale, pur tenendo presenti le esigenze nazionali, si decise di presentare al Governo statunitense un unico programma di richieste. Truman firmò il 3 aprile 1948 il decreto che istituiva ufficialmente l’Economic Cooperation Administration, incaricata di gestire la predisposizione degli aiuti negli Stati Uniti, e l’Euro­ pean Recovery Program, organismo atto ad applicare concretamente in Europa gli stanziamenti previsti in base alle richieste dei singoli Paesi. A questo traguardo si giunse dopo un serrato e complesso dibattito in seno al Congresso, dove la fazione isolazionista dei Repubblicani si oppose al Programma. I paesi che usufruirono del piano Marshall in Europa furono: Austria, Belgio, Danimarca, Francia, Germania Federale (ammessa dopo la sua costituzione nel settembre 1949), Grecia, Islanda, Irlanda, Italia (compresa la «zona libera» di Trieste), Lussemburgo, Paesi Bassi, Norvegia, Portogallo, Regno Unito, Svizzera, Svezia, Turchia (22). Alcuni di questi paesi non avevano partecipato alla seconda guerra mondiale e perciò non avevano problemi di “ricostruzione”, ma era opportuno che rientrassero nella nuova sfera economica dell’Europa occidentale. Con l’obiettivo di favorire una prima integrazione economica nel Continente, nacque contestualmente all’ERP anche la OEEC - Organisation for European Economic Cooperation (in italiano OECE), organismo sostanzialmente tecnico in cui i programmatori inviati da Washington cercarono di spingere gli europei ad utilizzare gli aiuti non per fronteggiare le contingenze del momento quanto piuttosto per avviare un processo di trasformazione strutturale dell’economia dei loro Paesi. L’O­EEC, nata per coordinare gli aiuti del piano Marshall segnò l’inizio dell’integrazione europea. Ma, contrariamente a quanto auspicato, pur non opponendosi alla stabilizzazione delle loro valute e all’ordine del commercio internazionale voluto dagli Stati Uniti, la quasi totalità dei Paesi beneficiari chiese alla Economic Cooperation Ad­mi­ nistration (ECA), l’ufficio preposto alla collazione degli aiuti, di poter utilizzare i finanziamenti forniti dall’ERP per l’acquisto di generi di prima necessità, prodotti industriali, combustibile e, solo in minima parte, macchinari e mezzi di produzione. Nello stesso tempo diverse centinaia di consiglieri economici statunitensi furono inviati in Europa, mentre fu consentito a studiosi ed esperti europei di visitare impianti industriali e di frequentare corsi d’istruzione negli Stati Uniti. Il piano Marshall poneva grossi problemi di politica internazionale, tra cui il principale era lo status politico della Germania, alla quale gli aiuti del piano Marshall arrivavano solo nella parte occidentale. Il progetto originario degli Alleati per governare la Germania come singola unità attraverso il Consiglio di Controllo ben presto si era rivelato inattuabile: la distanza tra le posizioni degli alleati occidentali da una parte e dei sovietici dall’altra aumentava ogni giorno di più. A quel punto gli Stati Uniti, nel 1947, decisero di cambiare politica: non più una lenta e incerta trattativa con i sovietici per mantenere unito il paese, ma invece una rapida rinascita economica e politica della Germania sotto il controllo degli alleati occidentali, sacrificando la zona di occupazione sovietica, che d’altra parte era sotto il diretto - e ormai permanente - controllo di Mosca. Meglio insomma una Germania Ovest economicamente forte e parte stabile del blocco occidentale, che una Germania sì unita, ma debole e politicamente incerta. Alternativa quest’ultima che invece piaceva a Stalin, che avrebbe sempre potuto tentare di mettere le mani su una Germania neutrale e smilitarizzata attraverso l’azione politica di un partito comunista a lui fedele. Stalin inoltre non aveva alcun interesse ad una rinascita economica della Germania: l’unica sua preoccupazione era quella di poter sfruttare fino all’osso il suo diritto alle riparazioni di guerra, in modo da poter scaricare sull’ex-nemico parte dei costi della ricostruzione postbellica dell’URSS. Il Piano terminò nel 1951, come originariamente previsto, nonostan- AIUTI DEL PIANO MARSHALL AI PAESI EUROPEI (in milioni di dollari distribuiti per anni) Austria Belgio e Lussemburgo Danimarca Francia Germania Ovest Grecia Islanda Irlanda Italia e Trieste Paesi Bassi Norvegia Portogallo Regno Unito Svizzera Svezia Turchia 1948/49 1949/50 1950/51 Totale 232 166 120 488 195 222 360 777 103 87 195 385 1,085 691 520 2,296 510 438 500 1,448 175 1 56 45 366 6 22 15 43 88 45 — 133 594 405 205 1,204 471 302 355 1,128 82 90 200 372 — — 70 70 1,316 921 1,060 3,297 — — 250 250 39 48 260 347 28 59 50 137 te i molti pareri contrari. I tentativi di prolungarlo per qualche tempo non ebbero effetto, non solo a causa degli ottimi risultati conseguiti, che fecero ritenere agli Stati Uniti di aver raggiunto i propri scopi, ma anche per lo scoppio della guerra di Corea e la vittoria dei repubblicani nelle elezioni per il Congresso dell’anno precedente. È scontato dire che la storiografia d’impronta marxista, tutta incentrata sulla categoria di “imperialismo” attribuita esclusivamente agli Stati Uniti, ha sempre visto nel Piano Marshall nient’altro che uno strumento per perpetuare il dominio statunitense sull’Europa e per rendere le economie del Continente funzio­ nali alle esigenze del sistema produttivo americano. Questa storiografia, troppo spesso manichea, non ha mai considerato il fatto che, anche nel più gretto egoismo degli intenti, gli interessi nazionali non sono sempre in conflitto, ma in determinate circostanze possono anche convergere. Il piano infatti consentì da una parte agli Stati Uniti di evitare la tanto paventata crisi di sovrapproduzione, e dall’altro all’economia europea di accelerare la ripresa produttiva nel dopoguerra tanto da superare, alla fine del Piano Marshall, l’indice di produzione prebellico. Inoltre, cosa da non sottovalutare, insinuò negli europei l’idea che l’interdipendenza poteva costituire una soluzione ai conflitti che da sempre avevano caratterizzato la loro storia. Sul piano interno l’aiuto statunitense consentì alle fragili democrazie occidentali di rilassare le politiche di austerità e di migliorare le condizioni di vita della popolazione, cosa di cui benefi­ cianoro i partiti politici allora al governo. E siccome l’unica alternativa a questi era una sinistra ege­moniz­zata da partiti comunisti fanaticamente legati all’ortodossia stalinia­na, col senno di poi si può ben dire, citando Leibniz, che il Piano Mar­shall assicurò all’occidente europeo il migliore dei mondi possibili. Già 17 marzo 1948 Benelux, Francia e Regno Unito firmarono il Trattato di Bruxelles che creò l’Unione dell’Europa Occidentale (UEO), ma 17 si trattava ancora di un’alleanza che non aveva ben chiaro se il “nemico” sarebbe stata l’Unione Sovietica o una Germania risorta pronta per il “terzo round”. La tensione tra est e ovest si aggravò ulteriormente con il «blocco di Berlino», che ebbe luogo dal 24 giugno 1948 all’11 maggio 1949, e fu non solo la crisi più grave tra i due ex-alleati prima della guerra di Corea, ma anche la crisi che indusse definitivamente gli Stati Uniti a creare un sistema di alleanze in Europa. Per eliminare la presenza occidentale nell’enclave di Berlino Ovest, Stalin ordinò di bloccarne tutti gli accessi stradali e ferroviari. Il casus belli dell’iniziativa sovietica fu l’introduzione, il 18 giugno 1948, nei tre settori occidentali, del marco tedesco al posto della valuta di occupazione. Era un passo obbligato del progetto americano per la rinascita economica della Germania occidentale. I sovietici protestarono e rinnovarono la loro pretesa di ottenere pagamenti dei danni di guerra anche dai settori occidentali. Truman rifiutò e Stalin rispose dando vita ad un governo comunista tedesco a Pankow, un sobborgo di Berlino, primo atto della futura Repubblica Democratica Tedesca. Il 24 giugno 1948 l’URSS bloccò gli accessi ai tre settori di Berlino ovest, tagliando tutti i collegamenti stradali e ferroviari che inevitabilmente attraversavano la parte di Germania sotto controllo sovietico. Le parti occidentali della città furono anche scollegate dalla rete elettrica, che era alimentata dal territorio orientale. I sovietici avevano messo Berlino ovest sotto assedio. Gli occidentali, segnatamente Stati Uniti e Gran Bretagna, risposero organizzando un grande “ponte aereo”, come già avevano fatto in diverse occasioni durante la seconda guerra mondiale (23). Un blocco è già di per sé un atto ostile, che in genere prelude ad uno stato di conflitto aperto: quando iniziò il ponte aereo, i sovietici non interferirono in alcun modo con i voli, che si svolgevano all’interno di corridoi aerei internazionali (24), ben sapendo che ciò 18 avrebbe significato la guerra. Il blocco di Berlino fu un disastro politico per Stalin e per la dirigenza del PCUS. L’Unione Sovietica si trovò a recitare la parte del paese aggressore che, dopo aver scatenato la crisi, era stato sconfitto dall’enorme potere aereo degli Stati Uniti, che si presentavano ora al mondo come una vera superpotenza globale, in grado di intervenire in modo massiccio ovunque ve ne fosse stato bisogno. Ma il danno non fu solo di immagine. Il timore, nei governi e nell’opinione pubblica occidentale, che il regime comunista sovietico potesse non accontentarsi della spartizione dell’Europa generata dalle conferenze di guerra alleate, e potesse progettare così un’espansione globale del marxismo-leninismo attraverso una nuova vittoriosa guerra. Maturò così l’idea di un’alleanza internazionale dei paesi occidentali per difendersi contro l’aggressività sovietica. Il trattato istitutivo della nuova alleanza occidentale (il famoso «patto atlantico») fu firmato a Wa­shington il 4 aprile 1949 ed entrò in vigore il nell’agosto dello stesso anno: era nata la «North Atlantic Treaty Organization», universalmente conosciuta col suo acronimo NATO (25). I dodici stati membri fondatori furono Belgio, Canada, Danimarca, Francia, Islanda, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Olanda, Portogallo, Regno Unito e Stati Uniti. Il concetto alla base dell’alleanza era quello della «difesa collettiva», che considerava un attacco ad uno dei fir­matari come un attacco a tutti i paesi dell’alleanza (26). Si ripro­poneva così, dopo pochi anni, lo stesso contrasto geopolitico tra una potenza continentale e una potenza marittima: non più Germania e Gran Bretagna, ma Unione Sovietica e Stati Uniti. La scala era però molto più grande: non più continentale, ma mondiale. Dopo la vicenda del blocco di Berlino, gli alleati occidentali si sentirono liberi da ogni remora per quanto riguardava la divisione della Germania. Il ,,, maggio 1949 le tre zone occidentali, già unificate nella “Trizona”, si trasformarono nella Repubblica Federale Tedesca. La contromossa dei sovietici fu l’inevitabile creazione, nell’ottobre dello stesso anno, della Repubblica Democratica Tedesca. Ad ovest l’occupazione continuò ufficialmente fino al 1955, ma dopo la creazione della repubblica federale i governatori militari furono sostituiti da “alti commissari” civili, con funzioni ibride tra quelle di governatore e di ambasciatore. Nel 1955 la repubblica federale fu riconosciuta stato sovrano, entrò nella NATO e partecipò assieme agli altri paesi dell’alleanza al riarmo finanziato dagli Stati Uniti con la formula del «conto MAP», con la quale in pratica gli USA affidavano materiale bellico in comodato d’uso ai paesi alleati. Si trattava di una versione aggiornata della vecchia legge «Affitti e prestiti» che aveva permesso alla Gran Bretagna di resistere durante i primi, critici anni della seconda guerra mondiale. Berlino ovest però non entrò a far parte della Germania Federale: rimase ufficialmente, fino al 1990, sotto l’occupazione degli alleati occidentali, anche se di fatto, per scopi amministrativi, i tre settori della città di loro pertinenza furono riuniti in una strana entità chiamata semplicemente «Berlino Ovest». La sovietizzazione dell’Europa orientale, perseguita con coerenza e determinazione da Stalin fin dagli ultimi mesi di guerra, si compì nell’arco di circa un triennio. In tutti i paesi interessati, i governi di coalizione furono sostituiti appena possibile da governi comunisti, adottando la cosiddetta «tattica del salame»: fetta dopo fetta, il potere veniva sempre più concentrato nelle mani dei partiti comunisti. La prima fase era quella dell’assorbimento dei partiti socialdemocratici e radicali. La seconda era l’instaurazione di governi formalmente di coalizione, ma dove le redini del potere, attraverso le nomine nei ministeri chiave (interni, giustizia, difesa), erano saldamente in mano comunista. La terza ed ultima fase era l’eliminazione degli esponenti politici non comunisti, mediante la tecnica squisitamente staliniana del fabbricare ad arte presunti complotti che finivano con processi-farsa dove era già scontata la condanna degli imputati. Il caso che destò più scalpore nei paesi occidentali fu il cosiddetto «colpo di Praga» del maggio 1948, che costò la vita al ministro degli esteri Jan Masaryk. Non tutto andò dritto però nei progetti di Stalin. L’unica esperienza comunista a sottrarsi alla rigida obbedienza sovietica fu quella della Jugoslavia guidata da Josip Broz, detto Tito, non a caso l’unico paese nell’Europa orientale a essersi liberato dall’occupazione nazista non per l’intervento dell’Armata rossa ma in forza di una propria vittoriosa guerra partigiana. Lo scontro tra Stalin e Tito fu causato non tanto da un anelito di libertà da parte di quest’ultimo, quanto piuttosto dal suo estremo nazionalismo. Tito avviò una efficace opera di mediazione istituzionale tra le varie nazionalita che componevano la nuova Federazione jugoslava, e soprattutto tra le maggiori di esse, la serba e la croata (in passato divise da sanguinosi antagonismi, e che non a caso dopo la sua scomparsa tornarono reciprocamente a scannarsi), e si mostrò sempre piu sospettoso nei confronti dell’egemonia sovietica. Dopo il 1945, consolidato il suo potere, Tito in pratica cercò di ripetere, su scala regionale, in modo autonomo da Mosca, la politica di massi­mizzazione dei dividendi della vittoria portata avanti, su scala più vasta, dallo stesso Stalin. Il caso tristemente più noto dell’aggressivo attivismo titino fu l’occupazione di Trieste e della Venezia Giulia, dove fu effettuata una vera e propria «pulizia etnica» ai danni degli italiani. Il maresciallo non si limitò però all’Italia, ma tentò pure di annettersi l’Austria meridionale ed appoggiò i comunisti greci nonostante l’esplicita proibizione da parte di Mosca. Stalin non poteva tollerare, da parte dei leader comunisti stranieri, iniziative che fossero indipendenti dalle sue diret­tive. I rapporti tra lui e Tito peggiorarono rapidamente, e Berlino - Scorcio su una parte del famoso “muro” che divideva la città. quando nel maggio del 1948 a Lubiana il maresciallo dichiarò che la Jugoslavia non sarebbe mai più stata dipendente da nessuno, la «scomunica» fu inevitabile: Tito fu accusato di «revisio­nismo» e la Jugoslavia fu espulsa dal Cominform. Tutt’altro che terrorizzato, e forte del consenso popolare nel suo paese, Tito denunciò lo sfruttamento operato dall’URSS nei riguardi dei paesi satelliti, rifiutò la teoria dello «stato guida» e si rivolse all’Occidente per ottenere aiuti economici, orientandosi nel con­tempo in politica estera verso posizioni neu­traliste. Stalin ovviamente da parte sua non si lasciò fuggire l’occasione per un’altra bella «purga» ai danni degli esponenti comunisti del Co­minform che non fossero a suo avviso abbastanza su- pini ai suoi voleri. Una vittima illustre di questa nuova fase dello stalinismo nell’Europa orientale fu il polacco Wla­dislaw Go­mulka, che dopo essere stato per anni in carcere, sarà “risuscitato” da Chrusèëv e diventerà poi la guida incontrastata della Polonia comunista negli anni Sessanta e Settanta. E.S. (continua) Note (1) Questo articolo è il risultato della collazione degli appunti raccolti dall’autore per una sua conferenza tenuta a San Gregorio nelle Alpi nel novembre 2009, voluta dall’assessore al turismo del Comune di San Gregorio, Marco Crepaz, al quale vanno i ringraziamenti dell’autore per l’autorizzazione alla pubblicazione. 19 (2) La bibliografia sulla seconda guerra mondiale - a prova della sua fondamentale importanza storica - è a dir poco sterminata. Chi desiderasse un’introduzione generale può rivolgersi, tra le opere di più facile reperimento, a basil liddel hart, Storia militare della Seconda guerra mondiale, Milano, Mondadori 1970, e a cartier r., La seconda guerra mondiale, Milano, Mondadori 1968. (3) http://it.wikipedia.org/wiki/ Con­ferenza_di_Bretton_Woods. (4) Vedi mammarella g., Da Yalta alla perestrojka, RomaBari, Laterza 1990, pp. 5-6. (5) A Jalta fu anche deciso che i prigionieri russi liberati dagli occidentali sarebbero stati tutti consegnati alle autorità sovietiche, indipendentemente dalla loro volontà. Fu un vero crimine contro l’umanità: centinaia di migliaia di persone passarono direttamente dai lager tedeschi ai gulag russi. ­ arella (6) Vedi per esempio mamm g., Da Yalta alla peres­trojka, RomaBari, Laterza 1990, pp. 3-14. (7) http://it.wikipedia.org/wiki/ Con­ferenza_di_Potsdam. (8) l «progetto Manhattan» era ritenuto fondamentale per vincere la guerra contro il Terzo Reich, che erroneamente si supponeva stesse continuando a portare avanti un programma militare analogo sotto la guida di Kurt Diebner. Ma nel 1944, a guerra ancora in corso, gli alleati scoprirono che per fortuna i tedeschi, dopo due anni di lavoro dal 1939 al 1941 per cercare di produrre una bomba atomica, si erano poi fermati ritenendo il progetto irrealizzabile e ripiegando sulla costruzione di un semplice reattore. http://it.wikipedia.org/wiki/ Bom­b a­_ atomica;http://it.wiki­ pedia.org/wiki/ Arma_nucleare; http://it.wiki­pedia.org/wiki/Progetto_Manhattan; http://it.wikipedia. org/wiki/Bom­b ar­d a­m ento_­a to­ mico_­di_­Hiro­shi­ma_­e_Nagasaki. (9) L’etica guerriera giapponese, come è noto, era debitrice del bushido, ossia dell’antico codice d’onore dei samurai. Per il bushido, in guerra le alternative erano 20 la vittoria o la morte, tertium non datur. Questo, assieme all’esasperato nazionalismo, diede origine alla infame condotta di guerra dei giapponesi nei confronti dei civili e dei prigionieri. Vi furono diversi casi in cui i naufraghi delle navi giapponesi preferirono farsi divorare dagli squali piuttosto che essere salvati dagli americani. La differenza tra l’etica militare europea e quella orientale è nettissima. Mentre per gli europei - nonostante purtroppo le innumerevoli eccezioni - il «nemico» mantiene la sua connotazione umana e personale, per cui quando non è più in grado di nuocere è immorale ucciderlo, in genere nelle culture asiatiche esso non è considerato un essere umano, e perciò è lecito - anzi doveroso - ucciderlo anche se si arrende o è disarmato. In Vietnam per esempio i regolari nordvietnamiti e i guerriglieri vietcong, dopo uno scontro, ammazzavano tutti i feriti nemici che trovavano sul terreno. (10) Testimone oculare del bombardamento di Hiroshima fu il padre gesuita e futuro generale dei gesuiti Pedro Arrupe, che allora si trovava in missione in Giappone presso la comunità cattolica della città e che si prodigò nel soccorso ai sopravvissuti. (11) Gli strateghi americani pianificavano di ottenere la vittoria sul Giappone circa 18 mesi dopo la fine della guerra in Germania, cioè intorno alla fine del 1946, ma i pessimisti arrivavano a parlare della primavera 1947. (12) Http://it.wikipedia.org/wiki/ Bom­b ar­d amen­t o_ato­m i­c o_­d i_Hi­ roshi­ma_e­_Na­ga­saki. Secondo questa fonte, l’indagine degli Stati Uniti sul Bombardamento Strategico, dopo aver intervistato centinaia di civili e militari giapponesi dopo la resa del Giappone, riportò: « Basata su investigazioni dettagliate di tutti i fatti, e supportata dalla testimonianza dei leader giapponesi sopravvissuti coinvolti, è opinione dell’Indagine che certamente prima del 31 dicembre 1945, e con tutta probabilità prima del 1° novembre 1945, il Giappone si sarebbe arreso anche se le bombe atomiche non fossero state sganciate, anche se la Russia non fosse entrata in guerra, e anche se nessuna invasione fosse stata pianificata o contemplata». I sostenitori della tesi opposta fanno notare che i bombardamenti convenzionali su Tokyo del marzo 1945 fecero più vittime della bomba di Hiro­shima, e che per costringere i giapponesi alla resa i bombardamenti aerei in ogni caso sarebbero continuati provocando ancora più perdite. (13) L’articolo 25 della Convenzione dell’Aja del 1907 recita: «È vietato di attaccare o di bombardare, con qualsiasi mezzo, città, villaggi, abitazioni o edifizi che non siano difesi». Leo Szilard, uno dei fisici che, dopo aver avuto un ruolo fondamentale nel «progetto Manhattan», di fronte all’inaspettata potenza del nuovo ordigno furono presi da tardivi scrupoli di coscienza, fece negli anni successivi questo eloquente commento: «Se i tedeschi avessero gettato bombe atomiche sulle città al posto nostro, avremmo definito lo sgancio di bombe atomiche sulle città come un crimine di guerra, e avremmo condannato a morte i tedeschi colpevoli di questo crimine a Norimberga e li avremmo impiccati». (14) http://it.wikipedia.org/wiki/ Pia­no_Morgenthau. (15) http://it.wikipedia.org/wiki/ Zone_­di_occupa­zio­ne_del­la_Ger­ mania; http://it.wi­ki­pe­dia­.org­/wiki/ Consi­glio_di­_con­trol­lo_alleato. Il testo della «dichiarazione del 1945» si può trovare in http:// cro­n ologia.leonardo.it/ugopersi/ se­conda_gm/dichia­ra­zio­ne­_do­po­ re­sa.htm. (16) http://it.wikipedia.org/wiki/ Cor­tina_­di_ferro. Curiosamente, il primo ad utilizzare l’espressione «cortina di ferro» fu Joseph Goeb­ bels, che nelle ultime settimane di guerra in Europa scrisse: «Se il popolo tedesco deporrà le sue armi, i Sovietici, in base agli accordi presi tra Roosevelt, Churchill e Stalin, occuperanno tutta l’Europa Orientale e Sudorientale assieme a gran parte del Reich. Una cortina di ferro cadrà sopra questo enorme territorio controllato dall’Unione Sovietica, dietro il quale le nazioni verranno massacrate». Al di là dell’ipocrisia di Goebbels, che taceva il massacro delle nazioni perpetrato dai tedeschi, è significativo il fatto che già alla fine della seconda guerra mondiale era ben chiaro quale sarebbe stato il futuro dell’Europa dopo la vittoria alleata. È risaputo che lo stesso Adolf Hitler nei suoi ultimi giorni di vita ripose le sue ultime nevrotiche speranze su una possibile rottura degli alleati occidentali con l’Unione Sovietica. Speranze illu­sorie, perché prima di combattersi tra loro gli ex-alleati avrebbero comunque prima chiuso i conti con la Germania nazista. http://www.cal­vin.edu/ aca­demic/cas/gpa/go­e­b 49. htm. (17) Citato da mammarella g., Da Yalta alla perestrojka, cit., p. 18. (18) Ibid. , p. 37. (19) I documenti scoperti da Leonid Gibianskii negli archivi di Tito a Belgrado suggeriscono che l’idea del Cominform fosse già stata discussa durante i colloqui fra Stalin e Tito a Mosca nel maggio-giugno 1946. Békés, con documenti provenienti dagli archivi ungheresi, sostiene che non soltanto un programma sovietico per ristabilire un’organizzazione comunista internazionale era già in discussione fin dal marzo del 1946, ma che l’esecuzione del programma sia stata posposta per evitare effetti negativi durante le elezioni in Francia e Cecoslovacchia. Infatti, nel discorso pronunciato dal segretario generale del partito comunista ungherese alla seduta del comitato centrale, 17 maggio 1946, s’informano i membri del partito delle intenzioni dei sovietici circa la creazione di una nuova organizzazione comunista mondiale diversa dalla terza internazionale per come aveva avuto modo di ascoltare fra il 28 marzo e 2 aprile 1946, durante una missione segreta a Mosca, in cui stava provando a realizzare i termini migliori per l’Ungheria alla prossima conferenza di pace. Proprio il 1 aprile 1946, incontrò Stalin e Molotov ed è probabile, per Békés, che a quel punto ricevette le informazioni con le quali si è presentò successivamente al Comitato del partito comunista ungherese. L’idea di installazione posteriore del Cominform, piuttosto che essere una reazione all’intensificazione degli attriti fra gli alleati, fu originariamente parte di uno schema sovietico di più largo respiro rivolto alla promozione del cambio di gestione comunista in Europa centrale e orientale attraverso mezzi pacifici, e contemporaneamente mirante alla conservazione di rapporti di cooperazione pacifica con l’Occidente. Tutto ciò determina una modificazione generale della rappresentazione storica della guerra fredda rispetto all’immagine consolidata. Mas­similiano Aloe, Nuovi orientamenti sulla Guerra Fredda. Rappresentazioni, percezioni e distinzioni, in «Storiadelmondo» n. 38, 16 gennaio 2006, reperibile al sito http://www.storiadelmondo. com/38/alo­e.guerrafredda.pdf. (20) I partiti comunisti che diedero vita a questa specie di Terza Internazionale in formato ridotto erano quelli di URSS, Ungheria, Polonia, Cecoslovacchia, Bulgaria, Romania, Jugoslavia e, appunto, Italia e Francia. (21) Come è noto «segretario di stato» è il nome dato negli USA al ministro degli esteri. (22) Gli aiuti furono estesi poi anche al Canada. Fece richiesta in merito anche l’Argentina, ma Wa­ shington rifiutò a motivo dell’abbondante produzione agricola di quel paese. (23) Si toccò una punta di circa 1.400 voli al giorno, per complessive 13.000 tonnellate circa di rifornimenti. In totale i voli furono 278.228, per un totale di 2.326.406 tonnellate di rifornimenti (soprattutto viveri e carbone). L’Unione Sovietica tolse il blocco a mezzanotte del 12 maggio 1949, ma il ponte aereo continuò fino al 30 settembre in modo da fornire a Berlino scorte sufficienti nel caso i sovietici bloccassero di nuovo la città. Vedi Http://it.wikipedia.org/ wiki/Blocco_di_Berlino e Http:// it.wik­ipe­dia.org/wiki/Pon­te_­Ae­reo_­ di_­Ber­lino. (24) Ufficialmente non era mai stata intavolata una trattativa per chiarire lo status internazionale delle comunicazioni tra la Germania occidentale e Berlino ovest, dato che l’idea iniziale era quella di istituire uno stato tedesco unificato, che comprendesse anche la zona di occupazione sovietica. Si può constatare come entrambi gli schieramenti si preoccuparono di fare in modo che la prova di forza non degenerasse in guerra aperta. Il comandante delle truppe di occupazione americane, il generale Lucius D. Clay, aveva all’inizio proposto a Truman di inviare una grossa colonna corazzata attraverso le strade che collegavano la Germania occidentale a Berlino. La colonna avrebbe marciato pacificamente per scortare gli aiuti umanitari ma sarebbe stata pronta a rispondere al fuoco se bloccata o attaccata. Una simile proposta avrebbe fatto quasi sicuramente degenerare la crisi e Tru­man rifiutò, dando invece ordine all’aviazione americana (United States Air Force, USAF) di studiare la fattibilità di un ponte aereo. (25) http://it.wikipedia.org/wiki/ Nato; http://www.nato.int (sito ufficiale dell’Alleanza Atlantica). (26) L’Art. 5 del trattato recita: «Le parti concordano che un attacco armato contro una o più di esse, in Europa o in America settentrionale, deve essere considerato come un attacco contro tutte e di conseguenza concordano che, se tale attacco armato avviene, ognuna di esse, in esercizio del diritto di autodifesa individuale o collettiva, riconosciuto dall’articolo 51 dello Statuto delle Nazioni Unite, assisterà la parte o le parti attaccate prendendo immediatamente, individualmente o in concerto con le altre parti, tutte le azioni che ritiene necessarie, incluso l’uso della forza armata, per ripristinare e mantenere la sicurezza dell’area Nord Atlantica». Cfr. http://www. nato.int. 21