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DIRETTORE SANITARIO: Dott. Francesco Leone
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Direttore Sanitario Dott. Francesco Leone
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Periodico della BIoS S.p.A. fondata da Maria Grazia Tambroni Patrizi
”
L’editoriale
Il ruolo della prevenzione “secondaria” in difesa della salute:
il futuro “molecolare” dei check-up
Direttore Responsabile
Fernando Patrizi
2
Disfunzione erettile e terapia di primo livello
Gianrico Prigiotti
3
Attività fisica quale prevenzione e terapia dell’osteoporosi
Marta delli Falconi
5
Fattori di rischio associati all’ipertensione:
strategie di trattamento
Massimiliano Rocchietti March
Mixing
Alessandro Ciammaichella
A tutto campo
a cura di Lelio Zorzin e Silvana Francipane
Il Punto
Terapia antibiotica ragionata
Augusto Vellucci
Selectio
Direzione Scientifica
Giuseppe Luzi
Segreteria di Redazione
Gloria Maimone
Coordinamento Editoriale
Licia Marti
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Comitato Scientifico
Armando Calzolari
Carla Candia
Vincenzo Di Lella
Francesco Leone
Giuseppe Luzi
Gilnardo Novellli
Giovanni Peruzzi
Augusto Vellucci
Anneo Violante
Hanno collaborato a questo numero:
Alessandro Ciammaichella, Marta delli Falconi,
Silvana Francipane, Giuseppe Luzi, Paolo Macca,
Gianrico Prigiotti, Massimiliano Rocchietti March,
Maria Giuditta Valorani, Augusto Vellucci,
Lelio Zorzin.
La responsabilità delle affermazioni contenute
negli articoli è dei singoli autori.
1
Direzione, Redazione, Amministrazione
bioS S.p.A. Via D. Chelini, 39
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13
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Autorizzazione del Tribunale di Roma:
n. 186 del 22/04/1996
Leggere le analisi
La formula leucocitaria
a cura di Giuseppe Luzi
21
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spettanze relative alle immagini delle quali
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Pubblicazione in distribuzione gratuita.
Imparare dalla clinica
Un caso clinico: sindrome paraneoplastica?
Alessandro Ciammaichella
26
Bios – Novità per il medico
Una diagnosi ad alta tecnologia per le allergie più comuni
Giuseppe Luzi, Paolo Macca
28
From bench to bedside
a cura di Maria Giuditta Valorani
33
Finito di stampare nel mese di settembre 2012
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IL RUoLo DELLA PREvENzIoNE
“SECoNDARIA” IN DIFESA DELLA SALUTE:
IL FUTURo “MoLECoLARE” DEI CHECk-UP
Giuseppe Luzi
2
L’EDIToRIALE
G
li studenti di Medicina, quando affrontano le basi essenziali nello studio dell’epidemiologia delle malattie cronico-degenerative e dell’infettivologia acquisiscono rapidamente i tre concetti fondamentali sul ruolo della
prevenzione: prevenzione primaria, secondaria e terziaria.
Questi termini si riferiscono all’immediata identificazione
delle modalità di intervento che possono essere attivate
per migliorare la qualità della vita e fornire alle strutture
sanitarie un adeguato spettro di probabilità in grado di “anticipare” la conoscenza corretta nel manifestarsi delle varie forme morbose. Per prevenzione primaria si intendono
le azioni che mirano a promuovere e mantenere la salute
con interventi individuali e/o collettivi messi in atto su una
popolazione di individui sani (in sostanza si tratta di ridurre o eliminare i fattori di rischio). Nell’ambito della
prevenzione secondaria si colloca la diagnosi precoce e/o
l’intervento di terapia per mezzo di uno screening conoscitivo adeguato. Con la prevenzione terziaria ci si rivolge agli interventi che mirano a prevenire le complicazioni di forme morbose già in atto e non reversibili. Mentre
per le malattie infettive ha un valore essenziale la prevenzione primaria e solo in parte è possibile intervenire con
gli strumenti della prevenzione secondaria, nelle malattie
a carattere cronico-degenerativo l’intervento di prevenzione è possibile con ampio spettro. Nella fase “libera”
delle patologie non infettive, quando si deve agire sui fattori di rischio, l’intervento riguarda i molteplici aspetti relativi alla salubrità dell’ambiente e alle abitudini di vita,
mentre prima del manifestarsi di una forma clinica conclamata (circostanza nella quale è possibile solo una prevenzione terziaria), gran parte dell’azione benefica si gioca nel periodo pre-clinico intervenendo con una diagnosi
precoce (vera prevenzione secondaria ottenuta con metodiche di screening opportune).
I fattori di rischio possono essere riferiti all’individuo
o essere attribuiti a elementi ai quali la persona è esposta.
In pratica esistono fattori genetici di rischio non modificabili, e fattori almeno in parte modificabili (caratteristiche ambientali e stile di vita). Già in passato, in queste pagine, è stata trattata l’importanza dei check-up e della loro efficacia. Si ribadisce di nuovo che la situazione attuale economico-sociale, in un clima “duro” di spending review, se devono essere salvaguardati i progressi ottenuti
nell’assistenza sanitaria, impone di utilizzare strumenti in
grado di attivare un monitoraggio della popolazione sana
o a rischio proprio per ridurre lo stato di “non ritorno” che
la malattia degenerativa assume nella sua spesso inevitabile evoluzione cronica. Le analisi di laboratorio, l’adeguato controllo clinico-specialistico, una corretta anam-
nesi dell’individuo sano nel contesto delle procedure per
la prevenzione secondaria sono elementi cruciali di acquisizione dati. Ma è essenziale che questi dati siano sintetizzati in forma di contenuti “operativi”, leggibili e comprensibili per il soggetto in esame. Il costo “economico” di
un check-up è di sicuro inferiore al valore diagnostico e
di monitoraggio che implica la sua attuazione. Indubbiamente c’è il rischio di una qualche dispersione delle informazioni se queste vengono acquisite in forma episodica,
come conoscenza “spot” (tanto per fare e per sentirsi “tranquilli”).
Il futuro, per altro già iniziato e in fase di evoluzione,
dovrà tenere sempre in maggiore considerazione lo stretto legame tra background genetico individuale e il rischio
del manifestarsi di un processo morboso. Quindi è compito della ricerca medica applicata operare sulla base di
screening in grado di utilizzare metodiche nuove in un
contesto di sintesi clinica corretta, non più semplificabile.
In questo numero viene illustrata, per esempio, una metodica di laboratorio per la diagnosi allergologica (test con
microarray), ma è solo un esempio di come dovremo affrontare l’introduzione in diagnostica dei sistemi di indagine molecolare su larga scala. La nostra popolazione, in
Italia (ma anche in altri nazioni) invecchia e una malattia
cronico-degenerativa, per definizione, si manifesta dopo
un lungo periodo di latenza (anche decenni) con sintomi
vaghi e non facilmente interpretabili. L’attuazione di uno
check-up adeguatamente predisposto con metodiche di laboratorio adeguate (e nella giusta età) è la premessa di una
sintesi efficace tra contenimento della spesa (che si può
senz’altro ridurre) e qualità/durata della vita. Come è stata già detto da alcuni, è importante non dare anni alla vita, ma vita agli anni. Siamo ora in un punto critico nel quale le discipline di base e applicate possono fornire un contributo pratico solo se integrate in breve tempo nel loro
operare. Le discipline statistiche e di analisi con modelli
matematici offrono una nuova dimensione alle opportunità di conoscenza, non più riconducibili a sistemi rigidi
applicati acriticamente: scegliere un check-up individuale deve essere frutto di una lavoro in progress, nel quale
non certo paradossalmente, si valorizza la metodologia clinica di sempre (a sua volta “rimodellata” nel contesto di
una visione biologica e pertanto mutabile dell’evento osservato). Il progetto è: prevenzione secondaria personalizzata, adeguato screening preclinico su base geneticomolecolare (fase iniziale ma in rapido sviluppo), eliminazione di test inutili e applicazione di una routine essenziale nei controlli periodici predefiniti. In sintesi: dalla quantità “aspecifica” degli esami alla qualità “personalizzata”
DISFUNzIoNE ERETTILE
E TERAPIA DI PRIMo LIvELLo
Gianrico Prigiotti
P
er disfunzione erettile (DE) si intende la difficoltà a indurre e/o mantenere un’erezione
valida per un rapporto sessuale soddisfacente. Indagini epidemiologiche indicano una crescente
incidenza nei prossimi anni di questa patologia,
e l’invecchiamento medio della popolazione
sembra essere un causa importante di questa evoluzione. La prevalenza di DE a livello mondiale
aumenterà dai 152 milioni di uomini nel 1995 a
quasi 322 milioni nel 2025 (1).
I pazienti potenzialmente più a rischio di sviluppare una DE di tipo organico sono:
• anziani;
• diabetici;
• soggetti con patologie cardiovascolari;
• ipertesi;
• dislipidemici,
• fumatori;
• pazienti depressi;
• pazienti sottoposti a chirurgia pelvica demolitiva;
• pazienti affetti da patologie peniene tipo induratio penis plastica.
3
Una categoria a parte sono i pazienti affetti
da DE di origine psicogena.
Esiste poi una percentuale rilevante di pazienti affetti da DE a patogenesi mista (organica
+ psicogena).
Le alterazioni di tipo vascolare rappresentano la causa più frequente di DE (2).
Cardiopatia
Aterosclerosi
Fumo
DISFUNZIONE
ENDOTELIALE
Ipertensione
Diabete
DISFUNZIONE ERETTILE
Un dato particolarmente interessante emerso
in studi piuttosto recenti è che la cardiopatia
ischemica ha una stretta associazione con la DE
e questa, spesso, precede la manifestazione clinica della malattia coronarica (3).
La fine degli anni novanta del XX secolo è una
tappa storica per l’andrologia. Vengono, in quegli
anni, evidenziati gli effetti benefici del Sildenafil
(Viagra) sull’erezione. D’allora la diagnosi e la terapia dei pazienti affetti da DE ha subito un radicale mutamento. In commercio oggi esistono anche altre molecole, Tadalafil (Cialis) e Vardenafil
(Levitra). Questa categoria di farmaci viene chiamata inibitori della fosfodiesterasi 5, proprio per
la loro azione a livello del tessuto cavernoso che
favorisce il rilasciamento della muscolatura liscia
con conseguente aumento dell’afflusso del sangue.
Gli inibitori delle fosfodiesterasi 5 sono compresse da assumere al bisogno, (15’-30’, alcune
ore prima, dipende dalla molecola), o in cronico
(Cialis 5), indipendentemente dal momento del
rapporto sessuale.
Le formulazioni dei farmaci per DE sono:
• 25-50-100 mgr cpr per il Viagra;
• 5-10-20 mgr cpr per il Cialis;
• 10-20 mgr e 10 mgr cpr orodispersibili (sublinguali) per il Levitra.
4
Per tutte e tre le categorie di farmaci è necessaria una adeguata stimolazione sessuale post assunzione e per alcune è preferibile evitare
pasti abbondanti prima o subito dopo.
La terapia con Viagra, Cialis, o Levitra, oggi è
considerata il trattamento di primo livello per i pazienti affetti da DE. Non bisogna tuttavia trascurare di modificare eventuali fattori di rischio e/o
stile di vita (abolizione del fumo, riduzione nell’assunzione di alcool, riduzione del peso, ecc.)
La risposta agli inibitori PDE5 migliora cor-
reggendo gli eventuali scompensi metabolici
(diabete non controllato, ecc.) e normalizzando
una eventuale carenza di testosterone.
In alcuni pazienti le prime compresse possono non dare il risultato sperato (motivazioni psicologiche, timori di effetti collaterali, tempi non
rispettati, paura di non avere una risposta adeguata). In altri l’acquisto improprio, tramite internet, può causare un’alterata o pericolosa risposta al trattamento. Generalmente per considerare i soggetti sicuramente non responder, si
consiglia di aspettare come minimo otto somministrazioni senza un’adeguata risposta. In tal caso si dovrà procedere con le indagini diagnostiControindicazioni assolute all’utilizzo dei
PDE5 inibitori:
• pazienti che assumono nitroderivati;
• pazienti con infarto del miocardio recente o
con ictus recente;
• pazienti le cui condizioni cardiologiche sconsigliano l’attività sessuale.
Particolare attenzione nei pazienti che assumono cimetidina, ketoconazolo, eritromicina, e nei
pazienti trattati per HIV.
che e terapeutiche di secondo livello.
L’efficacia clinica delle tre molecole di inibitori delle fosfodiesterasi 5 è quasi sovrapponibile.
Bisogna pertanto personalizzare il trattamento in funzione delle esigenze dell’individuo e
Bibliografia
1
Aytac I.A. et al.
BJU Int 1999; 84: 50-56.
2
Rubanyi J.
Cardiovasc Pharmacol 1993; 22(4) S1-S4.
3
Montorsi P. et al.
Disfunzione erettile e cardiopatia ischemica: due
patologie distinte o due aspetti distinti della stessa patologia? Giornale italiano di Andrologia;
2003; vol.: 16-18.
Presso la BIOS S.p.A. di Roma in via Domenico Chelini 39 svolge la sua attività di consulente andrologo il dr. Gianrico Prigiotti.
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L’ATTIvITà FISICA qUALE PREvENzIoNE
E CURA DELL’oSTEoPoRoSI
Marta delli Falconi
È
ormai ampiamente dimostrato che l’età media dell’individuo è, senza ombra di dubbio,
decisamente aumentata. L’Italia ha la popolazione più longeva in Europa con una media di 76
anni per il sesso maschile e di 82 anni per quello femminile.
La “Terza Età” oggi rappresenta una fetta importante della popolazione alla quale è necessario dedicare la giusta attenzione per poter garantire uno stile di vita adeguato. Il problema che si
pone è la non-corrispondenza tra mente e corpo,
con livelli di vita socio-economici sempre più
evoluti. Con la miriade di sollecitazioni e di
informazioni anche da parte dei “mass media”
oggi l’anziano è un soggetto assai consapevole
della propria realtà ed esigenze, ancora impegnato dal punto di vista lavorativo o comunque
inserito nel contesto sociale o familiare nel quale ha un ruolo importante, per esempio, nella gestione quotidiana dei nipoti.
L’anziano è ancora in grado di condurre un
autoveicolo e d’altra parte è sicuramente più
esposto ai rischi di un ritmo di vita frenetico poiché la sua capacità di adattamento è minore ri-
spetto a quella di un soggetto giovane.
I livelli di attenzione debbono essere mantenuti piuttosto alti (basti pensare alla guida di un autoveicolo in una grande città) anche se tutto questo
è sicuramente molto stimolante per il cervello.
Ma l’aumento del livello socio economico
porta anche sedentarietà e cattiva alimentazione.
Quest’ultima negli anni è diventata sempre più
sofisticata e impoverita dei suoi contenuti essenziali e il fattore alimentare ha una grande importanza nel mantenimento di una corretta forma fisica in rapporto con l’età.
Un’ultima considerazione degna di nota è
che spesso si arriva alla soglia della Terza Età e
ci si accorge che il fisico non è poi così allenato
come ci si aspetta o si scopre di essere affetti da
una patologia osteopenica od osteoporotica: il fenomeno molto frequentemente si osserva nella
fascia adulta che va dai 25 ai 45-55 anni, fascia
nella quale una rilevante frazione pratica il cosiddetto “low training”, ossia un’attività fisica
moderata che non è utile all’organismo in quanto non provoca modificazioni su di esso ma che
il soggetto ha l’illusione comunque di svolgere.
Per una buona prevenzione o per il manteni-
5
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mento dei risultati raggiunti nella cura dell’osteoporosi un punto fermo è rappresentato dall’esercizio fisico. Gli effetti benefici del movimento sono molteplici, anche perché la sedentarietà diminuisce le forze muscolari applicate all’osso e quindi lo scheletro riduce la sua mineralizzazione come adattamento. Ecco perché, per
essere efficace, il movimento deve avvenire contro gravità (e non in acqua), come dimostra l’osteopenia a cui sono andati incontro gli astronauti dopo una prolungata assenza di peso o dalla differenza di densità ossea tra un atleta e un
individuo sedentario.
Come i muscoli, anche le ossa si irrobustiscono con l’esercizio per i seguenti motivi: con il movimento, si genera una stimolazione meccanica
dinamica che causa un effetto osteoblastico sull’osso; questo avviene perché i cristalli di calcio,
sottoposti a tensione meccanica alternata, generano variazioni di cariche elettriche all’interno di esso con stimolazione del metabolismo cellulare.
Un altro fattore importante deriva dal fatto
che, essendo l’osso una struttura resistente ma
anche elastica, è indispensabile che i cristalli di
calcio si depongano secondo precise geometrie
in modo biomeccanicamente ottimale. Di contro,
se si assume calcio ma non si fa movimento potremo far aumentare la densità ossea ma con una
disposizione casuale con il risultato di un osso
più rigido e meno elastico. Anche l’attività fisica aerobica è importante poiché migliora l’irrorazione, cioè aumenta l’arrivo di sangue ai tessuti, con relativo aumento di concentrazione di
materiali nutritivi e ossigeno. Eventuali terapie
farmacologiche potrebbero anche subire una riduzione dei dosaggi terapeutici.
Studi clinici hanno dimostrato che, in sog-
getti anziani sottoposti ad attività fisica, il rischio
di cadute si riduce fino al 57,3%, come pure è
stato evidenziato un aumento tra il 2,5% e il 5%
della densità minerale ossea in donne in menopausa, usualmente sedentarie, dopo 7-9 mesi di
esercizio fisico di 2-3 ore alla settimana.
I punti cardine del movimento sono rappresentati da:
• coordinazione dinamica generale;
• equilibrio miotensivo e posturale;
• resistenza cardio-polmonare (se possibile).
La sollecitazione avviene mediante esercizi
che possono essere generali e distrettuali, isometrici, isotonici a carico naturale, con pesi leggeri o
resistenza elastica progressiva, poiché si deve generare una stimolazione moderata in senso compressivo, intermittente, prolungata nel tempo.
Oltre alle ginnastiche cosiddette “dolci”, le
attività migliori sono rappresentate dal cammino, dalla marcia, dal salire le scale e ballare.
Infine, bisogna considerare anche l’aspetto
psicologico, estremamente importante poiché il
sentirsi meno utili nella società è spesso motivo
di depressione nel soggetto anziano; il gruppo
dunque è fondamentale per stimolare interesse e
scambi emotivi; se poi è eterogeneo è senz’altro
più positivo, e l’anziano non viene ghettizzato.
E ancora, il miglioramento della funzionalità,
oltre a ritardare la perdita di indipendenza e a dare una maggiore consapevolezza e scioltezza dei
movimenti, contribuisce al raggiungimento di
una buona qualità di vita con una maggiore stimolazione cerebrale.
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FATToRI DI RISCHIo ASSoCIATI
ALL’IPERTENSIoNE:
STRATEGIE DI TRATTAMENTo
Massimiliano Rocchietti March
7
L
a presenza di fattori di rischio associati all’ipertensione (quali dislipidemia, fumo, diabete mellito) condiziona la stratificazione del rischio cardiovascolare e come tale influenza la
prognosi del paziente iperteso. Questa stratificazione si basa sia sull’entità dei valori pressori sia
sulla presenza di danno d’organo, ma anche sull’associazione con i fattori di rischio cardiovascolare. Numerosi studi infatti hanno mostrato
come la mortalità e la morbilità del paziente iperteso siano fortemente influenzate dalla presenza
di fattori di rischio cardiovascolari associati.
Si concorda quindi unanimemente che un approccio terapeutico corretto al paziente affetto da
ipertensione arteriosa non possa esulare da un
approccio globale che abbia come target oltre ai
valori pressori, anche il trattamento dei fattori di
rischio associati, dato ben evidenziato dalle Linee Guida Europee ESH/ESC dell’ipertensione
arteriosa del 2007 e la loro recente revisione del
2009 (1,2).
TERAPIA IPoLIPEMIzzANTE
È noto come i livelli di colesterolo nel sangue
siano correlati allo sviluppo di eventi cardiovascolari. Questa associazione è ancora più evidente per la malattia coronarica rispetto all’ictus.
Molti trials clinici hanno valutato gli effetti
positivi della terapia con statine sia in prevenzione primaria sia secondaria. Nonostante i dati
siano a favore di una più stretta relazione tra livelli plasmatici di colesterolo ed eventi coronarici rispetto a quelli cerebrovascolari, gli studi
interventistici mettono in evidenza una notevole
efficacia delle statine nel ridurre entrambi gli
eventi, indipendentemente dalla presenza di ipertensione arteriosa. Ad esempio lo studio Heart
Protection Study ha dimostrato che la simvastatina riduceva significativamente gli eventi cardiaci e cardiovascolari in pazienti con malattia
vascolare conclamata. Risultati analoghi sono
stati ottenuti con la pravastatina nello studio
PROSPER, condotto in pazienti anziani, il 63%
di essi iperteso. Un effetto preventivo efficace è
stato osservato anche con l’atorvastatina in pazienti con pregresso stroke. Quindi tutti i pazienti
ipertesi con malattia cardiovascolare conclamata o con diabete mellito di tipo 2 dovrebbero essere candidati alla terapia con statine, avendo come target terapeutico una riduzione di colesterolo inferiore a 100 mg/dL o meno, se possibile.
Inoltre i pazienti ipertesi senza malattia cardiovascolare conclamata, ma con elevato rischio
cardiovascolare (> 20% a 10 anni) dovrebbero
eseguire una terapia con statina in ogni caso, anche se il colesterolo LDL non è elevato (1,2,3).
CoNTRoLLo GLICEMICo
8
Un efficace controllo glicemico è senz’altro
fondamentale per ridurre l’incidenza di complicanze macro e microangiopatiche nei pazienti
ipertesi diabetici, nei quali il trattamento ha l’obiettivo di ridurre i valori di emoglobina glicata
al di sotto del 7.0%. Un atteggiamento più aggressivo (< 6.5%) potrebbe essere auspicabile in
pazienti con diabete di più recente insorgenza,
minor rischio di ipoglicemia severa e assenza di
importanti comorbidità (3).
TERAPIA ANTIAGGREGANTE
La terapia antiaggregante piastrinica, in particolare l’aspirina a bassa dose (75-100 mg/die),
dovrebbe essere prescritta a tutti i pazienti ipertesi con pregresso evento cardiovascolare (prevenzione secondaria), valutando il rischio di sanguinamento.
L’aspirina a basse dosi può essere considerata invece in prevenzione primaria nel paziente
iperteso, se ad elevato rischio, nei diabetici o nei
pazienti con un moderato aumento della creatininemia.
Tuttavia per evitare il rischio di emorragia cerebrale, la terapia antiaggregante piastrinica dovrebbe essere intrapresa dopo il raggiungimento
di un buon controllo pressorio (target pressorio:
<140/90) (1,2,3).
In conclusione l’individuazione e il trattamento dei fattori di rischio associati all’ipertensione è di fondamentale importanza ai fini di un
approccio globale al paziente iperteso (linee guida ESH/ESC del 2007 e loro recente revisione).
Infatti la mortalità e la morbilità cardiovascolare del paziente iperteso sono fortemente influenzati dalla compresenza di altri fattori di rischio
associati, che quindi devono essere adeguatamente trattati.
Bibliografia
1
2
Mancia G., De Backer G., Dominiczak A. et al.
Guidelines for the Management of Arterial Hypertension: The Task Force for the Management of Arterial Hypertension of the European Society of Hypertension (ESH) and the European Society of Cardiology (ESC). J Hypertens 2007; 25: 1105-87.
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Reappraisal of European guidelines on hyperten-
3
sion management: a European Society of Hypertension Task Force Document. J Hypertens 2009;
27: 2121-58.
Taddei S., virdis A., Bruno R.M. et al.
Trattamento dei fattori di rischio associati. In: Terapia dell’ipertensione arteriosa: un aggiornamento. Agabiti-Rosei Ed; Milano, 2011: 109-119.
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Il suo vantaggio è che non avviene combustione: non sono cioè rilasciate sostanze cancerogene prodotte dalle comuni sigarette. È stata
finora considerata una valida alternativa per i fumatori. Ma un’ordinanza del Ministero della Salute ne vieta la vendita ai minori di 16 anni poiché la quantità di nicotina in essa contenuta, sia
pure minima, potrebbe causare dipendenza e poi
indurre all’uso della sigaretta tradizionale.
ANTICoAGULANTI NEL PoMERIGGIo
Alcuni cardiologi, non tutti, consigliano di
assumerli nel pomeriggio in quanto – realizzandosi in tal modo il più alto tasso ematico nelle
ore notturne – proteggono meglio dalla trombosi, facilitata dal rallentato flusso ematico proprio della notte.
FANS E CARDIoPATIA ISCHEMICA
Nei coronaropatici occorre prudenza nell’uso
degli antiinfiammatori non steroidei, specie naprossene e indobufene, poiché potrebbero favorire l’infarto miocardico. L’uso prolungato dei
FANS potrebbe anche aumentare il rischio di fibrillazione atriale.
BETABLoCCANTI E BPCo
Nei pazienti con bronchite cronica ostruttiva
o con asma bronchiale, tra questi farmaci, sono
da preferire quelli cardioselettivi (atenololo, me-
toprololo, acebutololo, bisoprololo, nebivololo)
che agiscono sui recettori cardiaci beta-l. Sconsigliati quelli che agiscono sui recettori beta-2,
presenti nelle vie respiratorie.
RISCHIo DI TRoMBoEMBoLISMo
vENoSo
Uno studio su 2.300 soggetti ha consentito di
prevedere i seguenti rischi per questa patologia:
età avanzata, sovrappeso, fumo, varici, neoplasie, scompenso cardiaco, pneumopatia cronica
ostruttiva, flogosi intestinali, farmaci (estro progestinici, tamoxifene, antipsicotici), allettamenti prolungati.
ESoFAGo DI BARRETT
Interessa l’esofago distale nel quale l’epitelio
squamoso è sostituito da epitelio colonnare, di
tipo gastrico o intestinale. È soprattutto in questo
secondo caso che vi è il rischio di adenocarcinoma esofageo, specie se si tratta di uomini oltre
50 anni: utile l’endoscopia ogni 2 anni; per l’altro tipo è sufficiente ogni 5 anni.
MIxING
SIGARETTA ELETTRoNICA
9
PISToRIUS E LE oLIMPIADI DI
LoNDRA 2012.
10
Oscar Pistorius, il famoso corridore disabile
di 25 anni, nato a Johannesburg, all’età di 11 mesi subì l’asportazione delle gambe per una
malformazione alla nascita. Probabile piede torto congenito (equino-varo), affezione più frequente nei maschi; molto più frequente nelle
femmine è la lussazione congenita dell’anca. Già
campione paraolimpionico, desiderava fortemente partecipare per la corsa alle Olimpiadi di
Londra 2012. Il Comitato olimpico sudafricano
ha dato parere favorevole per la “400 metri” e la
staffetta. L’eventuale ostacolo sarebbe nato dal
fatto che, in questo caso, la componente umana
della sua prestazione sportiva sarebbe stata pesantemente sopraffatta dalla componente tecnologica: gambe e piedi in fibra di carbonio.
LE GUARIGIoNI DI LoURDES
Vige in merito il massimo rigore da parte del
“Bureau mèdicale”. Meno dell’1% delle guarigioni ritenute non spiegabili dal punto di vista
medico è ratificato come miracolo: la guarigione
deve essere “istantanea”, “perfetta”, “duratura”.
SoSPENSIoNE DELL’ASA
Pazienti in cura con ac. acetilsalicilico per
una pregressa ischemia cardiaca o cerebrale non
dovrebbero mai sospenderlo – neppure per pochi giorni – in quanto potrebbero rischiare una
recidiva ischemica.
a cura di A. Ciammaichella
In questa caricatura d’epoca (1800), su una
famosa rivista satirica inglese, sono illustrate in
un soggetto le tipiche manifestazioni della gotta,
ossia l’impegno infiammatorio e doloroso di alcune sedi articolari (piedi e una mano); contestualmente gli altri due protagonisti del convivio
lamentano disturbi riferibili ad effetti collaterali
dell’assunzione del “Porto” (“Punch”): deperimento organico (“tisik”) e diarrea (“colic”) dovuti al contenuto in piombo della bevanda! L’impiego successivo del “Madera” evitava questi effetti tossici.
tate dalle così dette “fossette” di Venere, che corrispondono alle spine postero-superiori dell’osso
iliaco. Nella suddetta area Stanislas de Sèze e
Antoine Ryckewaert segnalano la possibilità di
riscontrare alla palpazione la presenza di due noduli, espressione di ernie grassose che attraversano l’aponeurosi profonda; questi noduli sono
le “ernie di Copeman”. Le ernie di Copeman sono più frequenti
nel
sesso femminile e talvolta
possono essere dolorose.
SPUNTI SToRICI SULL’ANAToMIA DEL
“LATo B”
Nella porzione inferiore del così detto “lato
B” a cavallo del XVIII secolo Adolf Michaelis,
ginecologo di Kiel, descriveva la omonima “losanga” le cui estremità laterali sono rappresen-
Le frecce
evidenziano le
caratteristiche
“fossette di
venere”
A TUTTo CAMPo
SToRIA DELLA GoTTA
11
ANENCEFALIA
IPPoCRATISMo DIGITALE
Un triste argomento portato recentemente all’attenzione del pubblico dai mass-media è quello dell’anencefalia. La notizia sull’anencefalia
ha portato alla ribalta la scarsa conoscenza sulla
reale prevalenza di questa malformazione e d’altra parte ha messo in luce la delicata questione
dell’eventuale interruzione di gravidanza, una
volta accertata ecograficamente detta malformazione. Va precisato che per anencefalia si intende l’assenza congenita della volta cranica con gli
emisferi cerebrali, completamente assenti o ridotti a piccole masse adese alla base cranica. È
una condizione incompatibile con la vita.
L’ingrossamento delle falangi ungueali delle
dita delle mani (vedi foto) e/o dei piedi giustifica il termine “dita a bacchetta di tamburo”; si associa il dismorfismo delle unghie, definite a “vetrino di orologio”. Questo dismorfismo, denominato “ippocratismo digitale”, può essere isolato oppure espressione dell’osteopatia ipertrofizzante pneumica di Bamberger-Pierre Marie. È
importante sottolineare l’importanza di tale reperto “storico” che può rappresentare un segno di
allarme per un’eventuale neoplasia polmonare o
affezione acuta o cronica dell’apparato respiratorio (ascesso polmonare, bronchiectasie). Questa manifestazione, per i suddetti motivi, rientra
nel capitolo delle affezioni paraneoplastiche e risponde al criterio della scomparsa con l’eliminazione della relativa causa. Le “dita a bacchetta di tamburo” possono anche essere l’espressione di una patologia lavorativa, come nel caso dei
tornitori.
AUTISMo: UN PRoBLEMA CHE
SUPERA I CoNFINI DELLA FAMIGLIA
12
Ognuno di noi ha in sé un mondo esclusivo,
con il quale convive perennemente e che “confronta” con quello esterno, nel rispetto di precise
regole sociali. Il bambino autistico è chiuso in un
suo mondo inaccessibile, ha uno sviluppo psichico diverso da quello degli altri bambini e rende
estremamente difficile ogni rapporto anche con la
stessa famiglia. Taluni di questi bambini hanno difficoltà ad esprimersi e altri non si esprimono affatto; comunque il loro linguaggio è del tutto personale e non finalizzato al rapporto interpersonale.
La patogenesi di questa condizione è tuttora oggetto di discussione: secondo la psicoanalisi l’evoluzione patologica della personalità autistica dipenderebbe dallo stesso rapporto iniziale madrebambino. Comunque non si può ancora dire con
certezza se le cause siano organiche, psicologiche
o di entrambi questi fattori. È più che evidente che
il problema del bambino autistico coinvolge in modo drammatico la famiglia, che deve essere informata sul comportamento che deve assumere nei
confronti del bambino stesso: infatti devono essere esclusi ogni forma di isolamento sociale e ogni
atteggiamento di rassegnazione a questa eventualità. Si devono assumere iniziative per ottenere aiuti pubblici e privati, al fine di garantire al bambino
ogni possibilità, anche se limitata, di guarigione.
Esempio di dita ippocratiche con le caratteristiche
“bacchette di tamburo” e le unghie che assumono
la forma a “vetrino d’orologio”.
a cura di Lelio Zorzin e Silvana Francipane
TERAPIA ANTIBIoTICA RAGIoNATA
I
medici vengono frequentemente accusati di
prescrivere troppo spesso gli antibiotici, ma
non possiamo non considerare quanto sia difficile impostare una terapia chemio-antibiotica
razionale nelle infezioni acute acquisite in comunità, senza la possibilità di una rapida diagnosi microbiologica. Il quadro clinico spesso
non permette di differenziare le forme virali,
che non necessitano di antibioticoterapia, da
quelle batteriche. Inoltre di fronte a una malattia come quella infettiva – che presenta i caratteri della patologia acuta e che necessita quindi
di un trattamento immediato – il medico deve
prendere decisioni rapide, e all’inizio non può
che basarsi su valutazioni essenzialmente epidemiologiche e cliniche.
Cerchiamo quindi di conoscere le basi per
una corretta antibioticoterapia ragionata e per fare in modo che non si legga più su famosi testi di
Farmacologia (Goodman and Gilman: The Pharmacological Basis of Therapeutics) che “antibiotics: these pharmaceutical agents have be-
come the most misused of those available to the
practicing physician”
CENNI SToRICI
Paul Ehrlich (1854-1915), allievo di Koch, è
considerato il padre della Chemioterapia, sempre alla ricerca della “pallottola magica” (“die
Zauberkugel”) che riuscisse a legarsi ai germi e
quindi a ucciderli. Egli diceva sempre che: “corpora non agunt nisi fixata”.
Alla notizia che Laveran
trattava la tripanosomiasi con
l’arsenico, studiò una sostanza
arsenicale atossica ma poco efficace (chiamata Atoxil), da cui
preparò 606 derivati, l’ultimo
dei quali (il Salvarsan, ancora
tossico, e poi il Neo-Salvarsan,
utilizzabile in terapia) aveva attività oltre che sui Tripanosomi Paul Ehrlich
IL PUNTo
Augusto Vellucci
13
Alexander Fleming
14
Howard Florey
Ernst Chain
Giuseppe Brotzu
anche sulla Spirocheta pallida,
causa della Sifilide (che dal 1494,
quando le truppe di Carlo VIII tolsero l’assedio a Napoli e tornarono in Francia, iniziò a devastare
l’Europa).
Fu poi l’osservazione di
Alexander Fleming (1881-1955)
sulla inibizione batterica di una
sostanza, che denominò Penicillina, prodotta da un altro germe
(una muffa), che aprì il campo allo sviluppo della terapia antibiotica. Somministrata a vari animali
con infezioni batteriche, svolgeva
una inaspettata attività terapeutica; Fleming riferì tali risultati il 3
febbraio 1929 al Medical Research Club, ma fu accolto solo da ilarità; ne fece allora comunicazione
al Br J Exp Path, senza suscitare
interesse.
Nel 1940 Fleming lesse sul
Lancet del 29 agosto che due ricercatori di Oxford, H.W. Florey
ed E.B. Chain, avevano ottenuto
risultati sorprendenti trattando con
la penicillina topi infetti. I tre studiosi lavorarono da allora insieme
(e con Abraham); il 12 febbraio
1941 somministrarono il farmaco
al poliziotto Albert Alexander, colpito da una grave sepsi strepto-stafilococcica, ottenendo una miracolosa guarigione. Da allora, impiegando prima il Penicillum notatum
e poi il P. chrisogenum esplose
l’impiego in terapia di questo farmaco.
I tre ricercatori ebbero il premio Nobel nel 1945. Fleming morì
nel 1955 e la sua tomba è nella
Crypt Chapel della St Paul’s Cathedral di Londra, vicino a quelle di
Wellington, Nelson e Lawrence
d’Arabia.
A Giuseppe Brotzu si deve la scoperta delle
Cefalosporine.
Professore in Igiene dell’Università di Cagliari, nel 1944 capì perché le acque di mare, che
vicine allo scarico delle fogne erano torbide, 300
mt più in là divenivano limpidissime. Infatti
quelle torbide pullulavano di salmonelle Typhimurium, mentre dove divenivano chiare era presente una certa muffa. La muffa era il Cephalosporium acremonium e Brotzu ipotizzò che qualche sostanza prodotta dalla muffa (che egli stesso denominò Cefalosporina) inibisse lo sviluppo
delle salmonelle. Nessuno in Italia gli dette credito e solo nel 1948, in Inghilterra, Florey e altri
fecero conoscere al mondo le cefalosporine.
Iniziò così l’era degli antibiotici.
CoME AGISCE L’ANTIBIoTICo
Ricordiamo che OGNI INFEZIONE È UNA
GARA DI CORSA tra la carica microbica che
tende a elevarsi e il progressivo dispiegarsi della risposta immunitaria che tende a ridurla, fino
a dominarla ed eliminare il patogeno. Un antibiotico efficace, riducendo la carica microbica,
aiuta le difese immunitarie a vincere la gara.
L’aggiunta di un antibiotico in dosi adeguate
a una coltura batterica può ottenere tre effetti:
• non modificare la curva di crescita (resistenza);
• bloccarla (batteriostasi);
• ridurla verso lo zero (batteriolisi).
Le modalità di azione che i vari antibiotici
svolgono sui germi sensibili sono diverse; le
principali sono:
1) inibizione sintesi o/e assemblaggio di strutture parietali (betalattamine che si legano alle PBP, glicopeptidi, bacitracina, polimixine);
2) interferenza con i processi di sintesi proteica
- a livello dei ribosomi (50s =macrolidi e
CAF, 30s = tetracicline e amino-glicosidi);
- per interazione con proteine varie,cui seguono alterazioni metaboliche (sintesi di
acido folico= cotrimoxazolo), proteosin-
EVERY INFECTION IS A RACE
early response – no disease
microbic multiplication
multiplication
treshold for disease
immune
response
recovery
days
1
2
3
4
5
6
7
8
9 10 11 12 13 14 15
delayed response – disease
multiplication
treshold for disease
microbic multiplication
disease
15
delayed
recovery
immune
response
delayed
days
1
Log Number of viable bacteria
tetiche (RNA - sintetasi = mupirocina),
della sintesi del DNA (DNA-girasi A =
chinolonici; DNA - girasi B = novobiocina), sintesi dell’RNA (RNA - polimerasi
= rifampicina), interazione diretta con
acidi nucleici (metronidazolo).
Comunque perché agisca, il farmaco deve
riuscire a legarsi a specifiche strutture batteriche
in quantità adeguata a svolgere il suo effetto. Pertanto, ampliando la definizione di Ehrlich, possiamo dire che “corpora non agunt nisi satis
fixata”.
Risulta fondamentale, oltre alle dosi e alla
modalità di somministrazione del farmaco, lo
studio della sua FARMACoCINETICA cioè
delle caratteristiche di assorbimento, distribuzione, legami, metabolismo ed escrezione del
farmaco, e della concentrazione che esso può
raggiungere nella sede della sua azione, in relazione alle condizioni cliniche del paziente.
Si definisce BIoDISPoNIBILITà di un
farmaco la percentuale che questo raggiunge nel
sangue rispetto alla quantità somministrata; essa
varia a seconda della via di somministrazione:
100% se per via endovenosa, variabile se per os
o per i.m., a seconda della molecola impiegata e
di altri aspetti fisiologici dell’ospite (ad esempio
se diamo rifampicina a stomaco vuoto, l’assorbimento è rapido e la biodisponibilità elevata;
l’opposto se a stomaco pieno).
È importante ricordare che molti antibatterici continuano a svolgere azione inibente per ore
(cosiddetto Effetto post-antibiotico) anche dopo che la loro concentrazione è ridiscesa al di
sotto della MIC.
Definiamo MIC o Concentrazione minima
inibente per una data specie microbica la minore concentrazione del farmaco che riesce a svolgere effetto battericida o batteriostatico per il
maggior numero di cellule batteriche (MIC50
per il 50% e MIC90 per il 90% delle colonie).
Se la concentrazione raggiunta da un antibiotico nella sede dell’infezione supera la MIC in
vitro rilevata per quel germe, si otterrà la sua eradicazione; se è inferiore avremo un insuccesso
terapeutico.
2
3
4
5
6
7
8
9 10 11 12 13 14 15
Control
Drug addition
+ Bacteriostatic agent
+ Bactericidal agent
Time
Ma esistono altri fattori, suggeriti dalla Farmacodinamica, per ottenere un più efficace effetto antibatterico. Infatti i farmaci battericidi sono divisi, in base alla velocità d’azione, in:
1) farmaci rapidamente battericidi (o concentrazione-dipendenti): per esempio AMINOGLICOSIDI, FLUOROCHINOLONICI, per la cui migliore efficacia è meglio
somministrare dosi elevate, per raggiungere alte concentrazioni, anche a intervalli
lunghi;
2) farmaci battericidi lenti (o tempo-dipendenti): per esempio BETALATTAMICI, GLICOPEPTIDI, MACROLIDI, che vanno invece somministrati con maggiore frequenza,
anche continuativamente.
LA RESISTENzA BATTERICA
16
Nel marzo 1942 una donna di 33 anni a New
Haven (Connecticut) stava morendo per una sepsi streptococcica; ottenuta una piccola quantità
di una nuova sostanza da poco scoperta, chiamata Penicillina, i medici la iniettarono. Dopo
ripetute dosi, dal sangue della malata scomparvero gli streptococchi, la donna guarì e visse poi
fino a 90 anni. Sessantasei anni dopo, in San
Francisco, un uomo di 20 anni, con una endocardite causata da un enterococco (E. fecium)
vancomicina-resistente, fu trattato per giorni e
giorni con i più potenti antibiotici disponibili; ma
i medici non riuscirono a sterilizzare il suo sangue e il malato morì ancora batteriemico (NEJM
360: 5 january 29, 2009).
La resistenza viene definita, da un punto di
vista microbiologico, come la capacità di alcuni
microrganismi di una specie di sopravvivere (e
anche moltiplicarsi) in presenza di concentrazioni di antibiotico di norma sufficienti per inibire o
uccidere i microrganismi della stessa specie
Dal punto di vista clinico, se la concentrazione di farmaco necessaria per inibire o uccidere il microrganismo è maggiore della concentrazione tollerata dall’ospite, il germe è considerato resistente
Perché si instaura la resistenza batterica?
“È legge naturale che, nel prevalere di popolazioni su altre, nella lotta per l’esistenza, risultino favorite quelle più idonee ad adattarsi e a superare le variabili condizioni sfavorevoli dell’ambiente” (Darwin).
E l’antibiotico modifica le condizioni ambientali; il nuovo ambiente induce la prevalenza
(“natural selection” e “preservation”) delle specie microbiche resistenti, che ora risultano favorite (“favoured races”) rispetto a quelle sensibili.
La resistenza può essere acquisita:
• tramite una o più mutazioni dei propri geni
cromosomici, trasmessa poi verticalmente alle cellule figlie;
• più frequentemente tramite il trasferimento
orizzontale di fattori genetici di resistenza da
parte di cellule donatrici, per trasformazione, trasduzione o coniugazione.
Lo scambio trasversale di materiale genetico avviene mediante elementi genetici mobili,
quali plasmidi – elementi spesso portatori di virulenza – e trasposoni – elementi più piccoli
che traslocano – o tra parti dello stesso cromosoma, o tra cromosomi e plasmidi e viceversa,
oppure tra cromosomi di batteri diversi (detti
trasposoni coniugativi). Nel batterio che riceve, il trasferimento genico è favorito dagli integroni (“facilitanti l’integrazione”), che costituiscono siti per l’inserzione dei geni di resistenza; talora questi siti sono raggruppati in
cassette mobili, che permettono il trasferimento di resistenza multipla.
La pressione selettiva degli antibiotici (ingigantita dal loro impiego eccessivo) favorisce poi
la selezione e il predominio dei ceppi resistenti
rispetto a quelli più sensibili.
Resistenza acquisita. Meccanismi principali:
1) inattivazione dell’antibiotico da enzimi
prodotti dai batteri (es. betalattamasi);
2) modifica dei target batterici, con ridotta affinità di legame, sia sulle PBPs parietali
(pneumococco per le betalattamine), sia sulle subunità ribosomiali 50S (sito peptidiltransferasico per i macrolidi) e sia su alcuni
geni (es. girasi e topoisomerasi IV per i chinoloni);
3) efflusso attivo del farmaco, con riduzione
delle concentrazioni intrabatteriche dell’antibiotico (betalattamine, macrolidi, chinolonici, CAF, tetracicline, am-glicos.).
Altre situazioni possono indurre resistenza
alla terapia antibiotica, come ad esempio alcuni
comportamenti delle colture batteriche che permettono ai germi di non essere raggiunti dai farmaci. Un esempio è quello dei cosiddetti BIOFILM. Un biofilm è un assemblaggio di cellule
microbiche fortemente adese a una superficie e
inglobate in una matrice di materiale di tipo polisaccaridico (“slime”). Gli organismi unicellulari solitamente mostrano due distinte modalità
di comportamento. La prima è la familiare forma
fluttuante, o planctonica, nella quale le cellule
separate fluttuano o nuotano indipendentemente
in un supporto liquido. La seconda è lo stato aggregato, o sessile, in cui le cellule sono strettamente vincolate e fermamente attaccate l’una all’altra e anche, di solito, a una superficie solida.
I biofilm formati da molte specie di batteri prendono il nome di “consorzio batterico”. La formazione di biofilm sembra essere disciplinato
dalla secrezione di molecole particolari, secondo
un processo di comunicazione tra cellule batteriche, denominato “quorum sensing”. I batteri presenti in un biofilm possono essere fino a 4.000
volte più resistenti agli antibiotici rispetto a
quando si trovano in un ambiente allo stato libero.
I maggiori problemi di resistenza sono quelli legati a:
• Strept. pneumoniae per le betalattamine;
• Enterococco per vancomicina e teicoplanina;
• Staph. aureus per la meticillina e poi per la
vancomicina;
• Enterobatteri per le cefalosporine di terza generazione (soprattutto da betalattamasi ad
ampio spettro – ESBL-);
• Batteri gram positivi e negativi per i chinolonici;
• Bacillo di Koch.
Oggi si parla di:
TB multi-resistente (MDR-TB); resistenza ad
almeno isoniazide e rifampicina;
• TB a resistenza estesa (XDR-TB): MDR-TB
con resistenza anche a tutti i fluorochionolonici e ad almeno 1 dei 3 farmaci iniettabili di
secondo impiego (capreomicina, kanamicina, amikacina);
Di recente sono comparsi organismi produttori di carbapenemasi (enzimi in grado di idrolizzare i carbapenemi) resistenti a tutti i singoli
antibiotici disponibili; sono enterobatteri (klebsiella, ecc.) che causano infezioni sistemiche,
polmonari e urinarie (comparsi prima in India e
Pakistan e poi in Europa), dotati di un gene chiamato NDM-1 (“New-Delhi-Metallo”) che fa
esprimere una proteina (metallo-beta-lattamasi)
che respinge l’attacco di tutti gli antibiotici impiegati.
•
Ma perché assistiamo oggi a una così diffusa
resistenza batterica agli antibiotici?
La principale causa è il sempre più ampio
uso degli antibiotici nell’uomo e negli animali. È stato calcolato che negli Stati Uniti vengono prodotti annualmente oltre 30.000 tonnellate di antibiotici, la metà per impiego terapeutico nell’uomo (gran parte comunque con
uso inappropriato) e la metà per la promozione
della crescita degli animali e per il trattamento
di alberi da frutto. Infatti vengono trattati con
questi farmaci, e su larga scala, animali destinati ad entrare nella catena alimentare umana;
batteri resistenti agli antibiotici sono frequentemente presenti nel tratto gastro-intestinale di
gran parte di tali animali. Gli antibiotici vengono qui impiegati come promotori della crescita della produzione animale, nello intento di
evitare le infezioni a rapida diffusione in allevamenti intensivi, con un gran numero di giovani animali, ristretti in aree limitate, e tutto
ciò invece di migliorare le condizioni igieniche
degli allevamenti. È chiaro che tale massiccio
uso degli antibiotici esercita una formidabile
pressione selettiva per lo sviluppo di germi resistenti.
17
18
In alcune aree si impiegano antibiotici al posto dei pesticidi per la protezione di verdure e alberi da frutto. Tutti questi farmaci, impiegati per
la protezione delle piante, si riversano nel suolo
e passano nelle acque sotterranee, dove si possono selezionare germi resistenti (esempio Pseudomonas). Ricordiamo ancora che oggi, per molti prodotti OGM, si usano organismi appunto geneticamente modificati nei quali sono incorporati indicatori, basati su geni di resistenza per gli
antibiotici (es. marker di resistenza a neomicina,
o beta-lattamasi per ampicillina) e ciò per valutare se la modificazione genetica ha avuto successo; ingerendo tali cibi, questi geni potrebbero essere trasferiti in germi intestinali, che acquisirebbero così ulteriore resistenza.
Ricordiamo due altri concetti:
• si definisce “tolleranza” a un antibiotico il
fenomeno per cui si determina azione batteriostatica a basse concentrazioni, ma per ottenere l’azione battericida necessitano concentrazioni elevatissime. Esempio: tolleranza
di un germe alla penicillina se la MIC batteriostatica è < 0.1 mg/L e la MIC battericida è
> 128 mg/L;
• si definisce “patogenicità indiretta” il fenomeno per cui un germe di per sé sensibile
a un antibiotico può risultare resistente perché un’altra popolazione microbica presente
nella sede dell’infezione produce enzimi che
lo inattivano.
Come si effettua una terapia antibiotica ragionata: è indispensabile conoscere o presumere, in modo attendibile, quale sia il patogeno da combattere.
La terapia antibiotica può essere attuata con
tre modalità:
1) terapia specifica, quando è accertata una precisa entità clinico-eziologica (es. TB);
2) terapia mirata, quando è disponibile il reperto microbiologico causale;
3) terapia ragionata, quando non si conosce il
microbo causa della malattia, che però può
essere definito in base all’anamnesi, alla sede dell’infezione e ai dati epidemiologici.
Per la terapia antibiotica “ragionata”, è pertanto necessario basarsi su tutti i dati clinici ed
epidemiologici valutabili al momento della visita del malato. Non ci dimentichiamo quello che
diceva il prof. W. Osler, grande clinico canadese,
“ if you listen carefully to the patients they will
tell you the diagnosis”.
È poi quasi sempre possibile, prima di prescrivere un antibiotico, effettuare alcune semplici e rapide indagini, che possono rivelarsi di
estrema utilità per una diagnosi eziologia della
malattia, come emocromo, VES, PCR, Procalcitonina e, in caso di impegno respiratorio, un esame batterioscopico dell’espettorato e una radiografia del torace.
Una volta che in base a tali elementi si raggiunge un ragionevole convincimento di quale
sia il patogeno causale dell’infezione da trattare
e in quale parte del corpo essa si sia sviluppata,
si attua la terapia ottimale in base ai seguenti
princìpi di efficacia e di prescrivibilità:
EFFICACIA: in una infezione batterica,
l’antibiotico è efficace quando se ne riesce a ottenere, nella sede dell’infezione, una concentrazione maggiore della MIC in vitro, per entità e
tempo necessari alla sua inibizione, tenendo conto delle caratteristiche farmacodinamiche della
molecola impiegata, dell’eventuale resistenza del
germe, della gravità della malattia e delle condizioni escretoria e immunitaria del paziente.
PRESCRIvIBILITà: a parità di efficacia,
l’antibiotico da impiegare è quello con maggiore tollerabilità, minori effetti collaterali, minor
costo.
Gli antibiotici a disposizione del medico sono numerosi; ne ricordiamo i principali:
• BETALATTAMINE
- penicillina, metic., ampic., amoxic. piperacillina;
- cefalosporine (cefamezina, cefuroxim,
mefoxin, cefotaxim);
- ceftriaxone, ceftazidim, cefodizime,
maxipime;
- carbapenemi (merop., imip., ertap., doripenem);
•
MACROLIDI
- claritromicina, azitromicina, telitromicina o ketec;
• FLUORO-CHINOLONICI
- ciprofloxacina, ofloxacina, levofloxacina,
- moxifloxacina o avalox, prulifloxacina o
keraflox;
• GLICOPEPTIDI (vancomicina, teicoplanina,
dalbavancina);
• AMINO-GLICOSIDI (gentamicina, tobramicina, amikacina) TETRACICLINE (doxic.,
minocic.), LINCOSAMIDI, LINEZOLID,
STREPTOGRAMINE, CAF, RIFAMPICINE;
• IMIDAZOLICI (metronidazolo), CO TRIMOXAZOLO, ecc.
È pertanto indispensabile che il medico, dei
principali gruppi di antibiotici, conosca bene almeno le molecole che vuole impiegare in terapia, soprattutto per quanto riguarda:
1) lo spettro antibatterico (attività e MIC90 in
2)
3)
4)
5)
vitro per Gram positivi, Gram negativi, anaerobi) nei riguardi dei germi abituali e di eventuali germi resistenti;
la capacità del farmaco di localizzarsi nelle
varie sedi di infezione e, se necessario, nell’ambiente intracellulare;
le vie e le dosi più idonee (quantità e intervalli) da somministrare, per far raggiungere,
nella sede delle infezioni, concentrazioni efficaci (superiori alla MIC in vitro, tenendo
conto anche della Farmacodinamica della
molecola);
se necessario, in relazione alla gravità della
forma morbosa e all’eventuale deficit immunitario del paziente, saper scegliere il farmaco e la via di somministrazione più rapidamente efficaci;
infine, a parità di efficacia, tenere presente la
via di eliminazione del farmaco, per escludere le molecole più tossiche per tale via.
19
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di check-up personalizzato di valutazione diagnostica clinica e strumentale.
Per informazioni e prenotazioni: CUP 06 809641
NoN fare troppi programmi
Seneca
da “L’arte di vivere”
La vita è breve: evitiamo, dunque, programmi troppo estesi; ogni giorno, ogni
ora ci mostra la nostra nullità e ricorda a noi smemorati, con qualche nuovo argomento, la nostra fragile natura. Allora noi, che facciamo programmi come se
la nostra vita fosse eterna, siamo costretti a pensare alla morte. Si volge, infatti, ad attendere il futuro solo chi non sa vivere il presente.
UN aforisma “NoN relativo”
20
SELECTIo
Albert Einstein
Cento volte al giorno ricordo a me stesso che la mia vita interiore ed esteriore
sono basate sulle fatiche di altri uomini, vivi e morti, e che io devo sforzarmi
al massimo per dare nella stessa misura in cui ho ricevuto.
meglio di NieNte
Pensiero attribuito a Voltaire
L’arte della medicina consiste nel divertire il paziente mentre la natura cura la
malattia.
forse è proprio così
Marziale
L’uomo buono è sempre un inesperto.
UN poco di saNa elasticità
Mario Ageno (fisico, tra i pionieri della Biofisica)
in: Metodi e problemi della Biofisica (pag. 16; Ed. Theoria, Roma-Napoli, 1992)
Per potere imparare la biologia, il fisico deve fare un notevole sforzo per superare la sua tradizionale presunzione e arroganza intellettuale, liberandosi da
tutta una serie di pregiudizi e di luoghi comuni sostanzialmente devianti.
L
’esame emocromocitometrico (emocromo,
nel linguaggio comune medico e non medico) descrive il numero e la distribuzione di
tutte le cellule che formano il sangue. Viene
suddiviso in vari gruppi per le componenti di
riferimento: globuli rossi, globuli bianchi, piastrine, frazione liquida. In questa breve revisione dei parametri più significativi nella routine ci
occuperemo soltanto dei globuli bianchi o leucociti.
A tutti, prima o poi, è capitato di recarsi in
laboratorio per eseguire l’esame emocromo e di
valutare il numero e la distribuzione dei globuli bianchi. Questo accade di solito quando il
medico sospetta un’infezione o uno stato infiammatorio. I leucociti (dal greco λευκός,
leukós „bianco“ e κύτος, kýtos „cellula“, „cavità“) ovvero i globuli bianchi hanno un ruolo
essenziale nella nostra vita e possiedono un corredo di funzioni estremamente ampio e funzionalmente articolato. Di essi bisogna conoscere
la quantità e il significato fisiologico. La loro
funzione principale consiste nel conservare l’integrità biologica dell’organismo grazie a meccanismi di difesa diretti contro patogeni di varia natura (virus, batteri, miceti, parassiti) e contro molecole o corpi estranei penetrati nell’organismo superando le barriere costituite dalla
cute e dalle mucose.
Se partiamo da un semplice prelievo di sangue venoso e versiamo il sangue in una provetta
possiamo vedere, dopo un certo tempo di centrifugazione ed evitando l’attivazione del coagulo,
che le componenti liquide e cellulari del sangue
si dividono in tre frazioni: i globuli rossi (circa il
45% del volume), il plasma (con acqua, proteine,
sali, lipidi, glucosio e altri elementi, circa il 55%)
e una piccola quantità (circa 1%), stratificata al
di sopra della massa di globuli rossi, che raccoglie i globuli bianchi (bianchi non sono in verità,
ma il loro insieme stratificato forma una specie
di spessore biancastro).
Il termine generico leucociti comprende popolazioni cellulari assai differenti tra loro: il
LEGGERE LE ANALISI
LA FoRMULA LEUCoCITARIA
21
Granulocita neutrofilo
Linfocita
22
Monocita
Granulocita eosinofilo
Granulocita basofilo
gruppo dei granulociti polimorfonucleati, distinti in:
• granulociti neutrofili;
• granulociti basofili;
• granulociti eosinofili;
e due insiemi di cellule prive delle caratteristiche granulazioni, che si chiamano agranulociti:
• monociti;
• linfociti (questi ulteriormente classificabili in
diverse sottopopolazioni e con valore funzionale di grande importanza nella struttura e
funzione del sistema immunitaria).
Quando si vogliono caratterizzare i globuli
bianchi bisogna identificare due parametri essenziali: il loro numero e la loro distribuzione per
tipologia di cellule (sia come percentuale sia come valore per unità di volume). Si sottolinea che
quando si fa riferimento al numero totale dei globuli bianchi in un millimetro cubo di sangue nel
conteggio vengono calcolati tutti i tipi di globuli bianchi (neutrofili, eosinofili, basofili, linfociti, monociti). Questo dato, in prima approssimazione, serve a caratterizzare la presenza di infezioni e a stabilire se le difese naturali svolgono
correttamente il loro compito. I valori dei leucociti nel soggetto sano vanno da 4.500 a circa 910.000 per mmc.
• Un numero inferiore può essere la spia di una
ridotta capacità dell’organismo di difendersi
dalle malattie, oppure di una perdita o riduzione della capacità da parte del midollo osseo di generare nuove cellule.
• Un numero di leucociti più elevato della norma va sempre considerato con molta attenzione: può dare conferma di un processo infettivo in atto (verosimilmente, ma non sempre, sospettato dal medico in base ai sintomi
del paziente) o di uno stato di intossicazione.
Ma se i globuli bianchi salgono di molto come numero è lecito sospettare che si abbia un
quadro leucemico.
Una conta leucocitaria al di sotto dei normali valori viene definita leucocitopenia, mentre un
eccesso di leucociti di morfologia normale nel
sangue periferico si definisce leucocitosi.
Quale è l’intervallo nel quale considerare i
valori dei globuli bianchi nel soggetto normale?
I riferimenti standard sono così riassumibili:
• i granuloci neutrofili, nel soggetto adulto, sono tra il 50-55 e il 70%, vivono da 6-8 ore fino a 24-36; si riconoscono molto bene osservando un vetrino al microscopio in quanto
assumono un fine colore rosa (talora più intenso) e hanno un nucleo polilobato;
• i granulociti eosinofili hanno un range di variabilità tra 1 e 4-5%, di solito sono bilobati,
e hanno granuli di colore rosa/arancione; vivono fino a 12 giorni dopo essere stati immessi nel sangue dal midollo osseo;
• i granulociti basofili (con granuli di intenso
colore blu) sono di solito al di sotto dell’uno
per cento e hanno vita da poche ore al massimo due giorni;
• i monociti (8-10%) migrano dal sangue verso gli altri tessuti e si differenziano in specifici macrofagi e in cellule di Kupffer nel fegato; vivono da poche ore a due, tre giorni.
I linfociti (25-35%) sono cellule mononucleate con diametro di circa 7 micron e vivono
anche anni. In realtà la popolazione dei linfociti
ha assunto un grandissimo rilievo nella biologia
del nostro organismo e la loro valutazione (numerica, morfologica e funzionale) ha rappresentato nel corso del XX secolo un capitolo fondamentale per conoscere la risposta immunitaria
nelle sue più diverse articolazioni.
Per quanto premesso, la valutazione della
formula leucocitaria di un soggetto adulto sano
ha queste oscillazioni:
• granulociti neutrofili: 55-65%;
• granulociti eosinofili: 1-4%;
• granulociti basofili: 0-1%;
• monociti: 4-8%;
• linfociti: 25-35%.
Ma attenzione, i valori percentuali della così
detta formula leucocitaria vanno sempre rapportati al valore dei globuli bianchi circolanti calcolati per millimetro cubo. Questa osservazione,
ben si comprende, fornisce un dato informativo
di alta significatività. Infatti, per esempio, un valore di globuli bianchi attorno ai 2.000 per mmc
indica una significativa leucocitopenia per cui,
se anche la distribuzione delle varie componenti rientra nella percentuale della norma, il dato è
patologico e va studiato.
I granuli presenti all’interno dei granulociti
neutrofili sono divisi in base alle loro caratteristiche e al loro contenuto: alcuni hanno gli enzimi necessari per la funzione antimicrobica, altri
sono lisosomi contenenti idrolasi acide, lisozima, un fattore permeabilizzante, altri ancora contengono sostanze che idrolizzano la membrana
basale e favoriscono la penetrazione delle cellule nel connettivo. I granulociti neutrofili o polimorfonucleati neutrofili (PMN) rappresentano
una popolazione cellulare con proprietà fagocitaria. Derivati dalla cellula staminale pluripotente del midollo osseo (promielocito => mielocito
=> neutrofilo) i polimorfonucleati svolgono un
ruolo fondamentale nel controllo delle infezioni
batteriche e fungine. Queste cellule tuttavia hanno un limitato potere battericida per cui è possibile che alcuni microrganismi riescano a sopravvivere all’azione litica, con la cronicizzazione di
un processo infettivo. La loro emivita non supera nel sangue le 24-36 ore ed è pertanto necessaria una produzione quotidiana di 1010-1011 elementi maturi. In generale, in presenza di un’infezione acuta i neutrofili ematici aumentano in
grande numero, e possono avere origine sia dalla riserva del così detto “compartimento marginato” sia dal midollo osseo (leucocitosi).
L’azione fagocitaria è il risultato di un insieme di eventi che mirano ad indirizzare il neutrofilo nella sede dell’invasione batterica. Questo
processo si basa sull’arresto del flusso all’interno
dei vasi (ruolo delle molecole di adesione), con
superamento della barriera endoteliale grazie a un
meccanismo di diapedesi. Nella sede dell’infezione si generano gli stimoli che indirizzano la
cellula presso l’area di intervento (chemiotassi).
Il momento della fagocitosi è preceduto da
un contatto (adesione) tra la parete del batterio e
il PMN. Se i batteri risultano opsonizzati, cioè
rivestiti da anticorpi (IgG) specifici e dalla frazione complementare C3b, l’inglobamento è più
efficace. All’interno del citoplasma il fagosoma
si fonde con i granuli generando la figura del fa-
golisosoma. Inizia ora il momento conclusivo
con il killing del microrganismo ingerito.
Un gruppo cellulare scarsamente rappresentato nel sangue periferico, ma importante, è quello dei granulociti eosinofili (circa il 4%). Essi sono particolarmente efficaci nel controllo degli elminti (vermi) e svolgono un ruolo centrale in
corso di infiammazione allergica. Anche gli eosinofili prendono origine dal midollo osseo grazie all’intervento di molecole differenziative. È
possibile distinguere negli eosinofili due popolazioni cellulari: quella normodensa e l’ipodensa. Poiché l’ipodensità è propria degli eosinofili
attivati, in condizioni normali la loro proporzione nel sangue periferico è inferiore all’8-10%.
Nei granuli secondari degli eosinofili si raggruppano quattro importanti proteine cationiche:
la proteina basica maggiore (MBP, Major Basic
Protein), la proteina cationica eosinofila, la perossidasi eosinofila e una neurotossina. Secondo
un’interpretazione funzionale è probabile che la
cellula eosinofila (così definita perché i granuli
presentano una potente affinità per i coloranti
acidi) sia evoluta per il controllo dei parassiti voluminosi, come sono gli elminti (vermi), che non
possono essere aggrediti nel citoplasma. Ne consegue che non potendo questi parassiti essere fagocitati, la finalità del loro controllo può esplicarsi con la liberazione di molecole citotossiche
nell’ambiente extracellulare solo al di fuori del
citoplasma. Tra le caratteristiche degli eosinofili si ricorda come essi siano dotati in superficie di
recettori per il C3b. Infatti la sequenza degli
eventi, almeno in alcune condizioni, parte dalla
presenza sugli elminti della frazione C3b. Questo rivestimento o involucro esterno permette
agli eosinofili di aderire sull’agente aggressore
(essendo la superficie cellulare dotata di recettori per il C3b) e di attivare la risposta cellulare con
la liberazione delle sostanze in grado di danneggiare il parassita.
Le cellule più piccole tra i granulociti sono i
basofili. Essi hanno un diametro di circa 6 micron e in condizioni fisiologiche si trovano nel
sangue periferico nell’ordine inferiore all’uno
per cento. Presentano sulla loro membrana re-
23
24
cettori ad alta affinità per le molecole di IgE e
possiedono granuli intracitoplasmatici ricchi di
istamina. In generale il nucleo appare multilobato e la membrana del citoplasma è piuttosto liscia, con alcuni ripiegamenti. Quando si verifica
un processo infiammatorio i basofili tendono ad
accumularsi nei tessuti soprattutto in condizioni
di ipersensibilità (per esempio in corso di rinocongiuntivite allergica). I granulociti basofili sono associati all’inizio dei processi infiammatori,
hanno recettori per una porzione degli anticorpi
nota come Fc e grazie a questa struttura le immunoglobuline (anticorpi) si legano ai recettori
presenti sulla membrana dei basofili. Nell’interazione con gli antigeni viene liberata istamina e
questo fenomeno può causare una reazione anafilattica in grado di indurre un quadro clinico di
shock.
I monociti (leucociti agranulociti) rappresentano fino a 8-10% dei leucociti totali e sono cellule abbastanza voluminose (definite anche come
macrofagi, per cui si usa il termine monociti/macrofagi). Il loro nucleo è piuttosto voluminoso e
può ricordare una figura tra il fagiolo e il ferro di
cavallo. I monociti circolano nel sangue e quando superano la barriera degli endoteli assumono
la denominazione di macrofagi (nei tessuti). La
funzione dei monociti si espleta essenzialmente
come macrofagica con potente capacità fagocitaria in grado di inglobare materiale estraneo. I monociti/macrofagi svolgono una funzione importante cooperando con i linfociti dopo aver elaborato le molecole estranee che hanno inglobato
(producono citochine): hanno il compito importante di presentare in modo adeguato gli antigeni
(viene definito antigene una sostanza che può
provocare una risposta nel sistema immunitario)
ad alcune particolari cellule linfocitarie.
La popolazione dei linfociti rappresenta un
capitolo particolare nella valutazione della formula leucocitaria. Osservando un preparato al
microscopio ottico le sottopopolazioni linfocitarie non possono essere distinte fra loro su base
di caratteristiche ben definite. A riposo ogni cellula si presenta con un nucleo che occupa quasi
completamente lo spazio citoplasmatico, il qua-
le forma un esiguo rivestimento al di sotto della
membrana cellulare.
Nel sangue circolante dell’adulto i linfociti
rappresentano, come già premesso, circa il 2030% della popolazione dei globuli bianchi; in età
pediatrica la loro percentuale è più alta. Il ruolo
del linfocita consiste nel riconoscimento specifico di una sostanza estranea (antigene). Utilizzando opportuni metodi di laboratorio (anticorpi
monoclonali e test funzionali) si differenziano le
sottopopolazioni linfocitarie responsabili della
risposta immunitaria.
Il numero dei linfociti nel nostro organismo
ha ordine di grandezza fra 1010 e 1012. I linfociti (distinti in T e B) che ancora non hanno incontrato il proprio antigene sono funzionalmente quiescenti e possiedono dimensioni ridotte
(non superiori a un diametro di 6-7 micron). Dopo l’incontro con l’antigene la morfologia cellulare cambia radicalmente e si osserva un ingrandimento con forte crescita del volume dando luogo alla figura del linfoblasto. Da questo stadio,
per proliferazione e differenziazione, si originano le cellule effettrici e quelle dotate di memoria
immunologica.
I precursori dei linfociti, come avviene per
gli altri globuli bianchi, si trovano nel midollo
osseo. Essi però hanno destini diversi: alcuni
linfociti maturano completamente all’interno del
midollo osseo (linfociti B, che stimolati si trasformano in plasmacellule e producono anticorpi) mentre altri precursori devono albergare nel
timo e quando fuoriescono da questo organo si
definiscono linfociti T (per l’appunto, derivati
dal timo).
In ambito funzionale i T sono distinti come
helper o come linfociti citotossici (CTL) e per
convenzione si associa alla caratteristica helper
una struttura di membrana identificata con la sigla CD4, mentre la sigla CD8 è associata alle
cellule T citotossiche. I Thelper sono inoltre raggruppati in TH1 (regolatori della risposta cellulo-mediata a carattere infiammatorio) e TH2 (che
producono citochine in grado di stimolare la via
linfocitaria B e pertanto agiscono sulla produzione di anticorpi).
RIFERIMENTI PRATICI
Leucocitosi
L’aumento dei globuli bianchi va caratterizzato in base al tipo di popolazione cellulare descritta. Per esempio una leucocitosi neutrofila
(anche neutrofilia) è causata da infezioni batteriche acute, ma può associarsi anche a processi
infiammatori non infettivi o all’infarto del miocardio. Un aumento degli eosinofili si verifica
nelle allergie, ma anche in neoplasie di varia origine (cutanee, linfomi); anche le infezioni parassitarie possono indurre un aumento dei granulociti eosinofili (eosinofilia). Assai raro è l’incremento dei basofili: se aumentano in modo
consistente può essere sospettata una forma di
leucemia. I monociti aumentano in alcune malattie infettive (per esempio la tubercolosi), ma
sono associabili a forme virali, a malattie infiammatorie croniche e a sindromi autoimmuni.
I linfociti hanno un incremento numerico (linfocitosi) in corso di alcune malattie batteriche (la
stessa tubercolosi), nella mononucleosi infettiva, in diverse forme virali. Ovviamente sono importanti in corso di leucemia linfatica e in corso
di linfomi.
Leucocitopenia
Per leucocitopenia si intende una diminuzione del numero dei globuli bianchi al di sotto
di 4.000 cellule/mm³; con questo termine si
esprime una diminuzione leucocitaria generalizzata e non si fa distinzione in merito alle varie
popolazioni leucocitarie che risultano diminuite.
Nel linguaggio comune si usa il termine più diffuso di leucopenia. Pur non entrando in merito a
dettagli strettamente medici alcuni concetti base
devono essere sottolineati:
• una leucocitopenia può essere causata da una
•
•
•
•
ridotta produzione da parte del midollo osseo
oppure da un’aumentata distruzione in periferia;
il difetto della produzione da parte del midollo può anche dipendere da un arresto nella mobilitazione delle cellule che dal compartimento midollare vanno verso il sangue;
alcuni fenomeni autoimmuni possono distruggere i globuli bianchi;
se calcoliamo la popolazione dei granulociti
neutrofili in corso di un loro decremento numerico dobbiamo considerare che la neutropenia è definita grave o severa quando i neutrofili sono meno di 500 per microlitro; il rischio di infezione aumenta e il paziente necessita di particolare attenzione con trattamento antibiotico e antifungino; in casi gravi (neutrofili meno di 200/microlitro) si usa
l’espressione di agranulocitosi, condizione
clinica che può avere esiti mortali;
un particolare valore assume la linfocitopenia: la linfocitopenia o linfopenia viene definita quando il numero di linfociti nell’adulto è inferiore a 1.000 cellule per mmc e, in
età pediatrica, quando le cellule sono inferiori a 2.500 per mmc; con l’epidemia da virus HIV (malattia da HIV), i linfociti hanno
assunto un grande significato prognostico e
una loro sottopopolazione (T helper o linfociti CD4+) è importante per gestire la terapia
antiretrovirale e per monitorizzare nel tempo
l’andamento della risposta immunitaria; se i
linfociti T CD4+ (cellule che regolano diverse funzioni anche di altre componenti cellulari) sono al di sotto dei 200/mmc il paziente
è a grave rischio di infezioni (classificazione
di AIDS in forma conclamata).
a cura di Giuseppe Luzi
25
UN CASo CLINICo:
SINDRoME PARANEoPLASTICA?
26
IMPARARE DALLA CLINICA
Alessandro Ciammaichella
D
onna con periodica dolenzia anale e minute rettorragie alle quali la paziente, un
po’ confusa, non ha mai dato peso. Varici arto
inferiore sinistro. Diagnosticato “adenocarcinoma ano-rettale infiltrante”, sanguinante, con
anemia ipocromica. Rettoscopia: nel retto a
monte del canale anale, vasta formazione vegetante congesta, friabile, facilmente sanguinante. TC torace e addome: metastasi multiple di polmoni e fegato, carcinosi peritoneale
con affastellamento delle anse intestinali. Rilevato poi alla palpazione piccolo linfonodo
duro inguinale sinistro rapidamente ingravescente, che dopo 5 mesi con l’esame ecografico arriva a un diametro di cm 3,6. Nel frattempo progressiva tumefazione dell’arto inferiore sinistro. Ecocolordoppler venoso: poplitea incontinente con reflusso, cross safeno-
femorale incontinente, safena interna accessoria di coscia incontinente.
Osservazione. Considerando che la flebolinfostasi dell’arto inferiore e l’ingrossamento
del linfonodo inguinale stanno progressivamente aumentando, si deve pensare che la metastasi carcinomatosa del linfonodo si stia
estendendo all’adiacente vena femorale, compromettendo così il deflusso ematico e linfatico. Non si tratta quindi di sindrome paraneoplastica.
All’opposto, nelle sindromi paraneoplastiche la patogenesi è completamente diversa:
dal tessuto tumorale vengono prodotte sostanze, più o meno note, le quali – entrando
nel circolo ematico – si diffondono a tutti gli
organi, provocando i sintomi più disparati a
seconda della sede colpita. Sul piano clinico,
tra i più frequenti meccanismi al riguardo, figurano:
a) produzione di anticorpi antineoplasia:
cellule neoplastiche con aggregati piastrinici che coinvolgono le cellule ematiche;
b) adenocarcinomi secernenti mucina: producono una serin-proteasi che attiva il fattore x della coagulazione;
c) carcinomi mammari (40%), plasmocitoma (20%), carcinomi bronchiali (12%),
tutti secernenti un fattore osteoclastico
che produce un paratormone atipico:
consegue ipercalcemia e ipercoagulabilità
ematica.
Un caso al riguardo di vera sindrome paraneoplastica, di osservazione personale,
molto significativo, è stato il seguente. Il primissimo segno di morbo di Hodgkin in un
paziente di 55 anni è stata una lievissima microflebite manifestatasi con un sottilissimo
cordoncino infiammato, lungo circa 1cm, alla spalla.
È chiaro che in questo caso non vi è stata
alcuna contiguità anatomica tra questa piccola vena sottocutanea e il tessuto neoplastico. Si può pertanto concludere che questo
paziente ha presentato una vera “flebite paraneoplastica”.
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LA DIAGNoSI DI ALLERGIA
L’allergologia è una branca della Medicina
che si occupa della prevenzione, della diagnosi e
del trattamento delle allergie. Con il termine di
allergia si identifica un insieme di patologie caratterizzate da ipersensibilità verso determinate
sostanze. All’origine del termine comunemente
impiegato, talora con errori interpretativi nel linguaggio comune, ci sono i lavori di C. von Pirquet e B. Schick, all’inizio del XX secolo. In sostanza von Pirquet e Schick osservarono come
nel corso della risposta immunitaria si potessero
sviluppare risposte “alterate”, dannose, quando
veniva inoculato un siero eterologo in un paziente e si praticava la vaccinazione per il vaiolo con finalità di terapia. La parola allergia ha
origine dai vocaboli greco ἄλλος, che vuole dire “altro”, ed ἔργον che significa “lavoro”. Ovviamente molte interpretazioni di quegli anni
erano approssimative data la limitazione delle
conoscenze e con la parola ipersensibilità si intendeva un raggruppamento eterogeneo delle al-
lergie: si riteneva infatti che un po’ tutte le manifestazioni allergiche fossero riconducibili a una
risposta “sbagliata” del sistema immunitario.
Con il graduale progredire delle conoscenze su
struttura e funzione del sistema immunitario venne in chiara evidenza che vari meccanismi erano
implicati nella risposta di tipo allergico. Dobbiamo arrivare ai lavori di P. Gell e R. Coombs, dei
primi anni Sessanta del Novecento, perché venisse ben organizzato l’inquadramento dei diversi meccanismi alla base delle immunoreazioni patogene. Venne proposta una classificazione
che prevede quattro tipi di reazioni di ipersensibilità, conosciute come immunoreazioni patogene, distinte in quattro raggruppamenti: da I a IV.
Con questa classificazione, successivamente ampliata e in parte modificata, il termine “allergia”
fu limitato alla sola ipersensibilità di tipo I. Secondo la definizione di von Pirquet, «allergia»
significava infatti “reazione modificata” del sistema immunitario, e il termine poteva applicarsi tanto alla malattia da siero classificata poi ipersensibilità di tipo III (mediata da complessi anti-
gene-anticorpo), quanto alla reazione alla tubercolina (classificata come ipersensibilità di tipo
IV cellulo-mediata, o ritardata).
Gli anticorpi responsabili delle reazioni allergiche sono le “IgE“ (definite anche “reagine”).
Le IgE sono abitualmente presenti in tutti gli individui sani e hanno un ruolo importante nella
difesa contro alcuni patogeni, come si verifica
per le elmintiasi. Tuttavia nei soggetti geneticamente predisposti all’allergia, per complessi
meccanismi di alterata regolazione, la sintesi di
IgE nei confronti di alcune sostanze allergizzanti aumenta in modo significativo. Il dosaggio nel
sangue si esegue con un test chiamato PRIST
(Paper Radio Immuno Sorbent Test). Un livello
elevato di IgE nel sangue orienta verso allergia
ma può essere trovato anche in soggetti che non
sono allergici. Il test fondamentale per la diagnosi di allergia è il test cutaneo “prick-test“. Per
eseguire questo test (“in vivo”) si pone una minima quantità di allergene (sostanza verso la quale è possibile che si sia manifestata la reazione
allergica) sulla cute lievemente scarificata del
soggetto in esame (grazie all’impiego di lancette “calibrate” con una punta molto piccola). Se
nel sangue del soggetto allergico sono presenti
anticorpi IgE attivi contro un determinato allergene si osserverà una reazione di edema localizzato con prurito (pomfo) in corrispondenza della piccola area cutanea dove è stata posta la sostanza alla quale è allergico (o si suppone sia allergico) il paziente. Un’altra indagine utilizzata è
il RAST (Radio Allergo Sorbent Test) che consente di identificare “in vitro” le IgE “specifiche”
verso un determinato allergene.
I sintomi dell’allergia di tipo I sono abbastanza facilmente identificabili. L’allergia può interessare tutti, a qualsiasi età e senza differenze
di sesso; si manifesta a volte all’apparato gastroenterico con nausea, vomito, diarrea (rara e
non necessariamente stagionale), a volte sulla
cute, a volte a livello respiratorio. Le manifestazioni più fastidiose e frequenti, ben conosciute
dalle persone interessate e dai medici, possono
essere riassunte come segue:
• sintomi nasali e respiratori: starnuti frequen-
ti, anche “a raffica”, secrezioni acquose nasali, naso chiuso, prurito. senso di mancanza
d’aria, tosse di origine irritativa, respiro affannoso e accorciato;
• sintomi oculari (oculorinite): prurito, arrossamento, gonfiore, lacrimazione, fastidio alla luce (fotofobia);
• sintomi cutanei: prurito, edemi, arrossamenti (orticaria).
I sintomi possono presentarsi con caratteri limitati, possono avere stagionalità (pollinosi, fioritura di piante) o essere associati in modo vario.
Una delle complicazioni dell’allergia a livello respiratorio consiste nell’instaurarsi dello stato
asmatico, realmente limitativo per la qualità di
vita del paziente e talora condizione che può
mettere a rischio la vita stessa.
TEST PER IL DoSAGGIo DELLE IgE SU
MICRoARRAy ISAC
Molte sono le sostanze in grado di provocare allergia e alcune di esse hanno una reattività crociata, condizionando il rischio di manifestazioni cliniche anche gravi e causando
obiettive difficoltà diagnostiche. Per ovviare
alla difficoltà diagnostica di individuare lo specifico allergene con test in vitro è disponibile
in laboratorio un test particolarmente avanzato per identificare le IgE. Il test è noto come
ImmunoCAP- ISAC (Phadia, Uppsala – Svezia) e permette la definizione del profilo di
sensibilizzazione di ogni singolo soggetto in
modo molto dettagliato, non ottenibile con i test cutanei (skin test) o con gli altri di sistemi
noti di valutazione delle IgE: per il dosaggio
delle IgE con metodo ISAC vengono utilizzate molecole altamente purificate, sia naturali
sia ricombinanti.
immunoCAP iSAC igE permette di evidenziare contemporaneamente, partendo da una
goccia di siero o plasma del soggetto in esame, la presenza di IgE dirette contro numerosi determinanti allergenici che vengono fissati
su una superficie solida precostituita. La me-
29
microlitri). La determinazione semiquantitativa, basata sull fluorescenza, definisce un range di risposta da 0,3 a 100 ISU-E. La procedura completa prevede 4 ore.
Nel panel del microarray si hanno 112 allergeni con la distribuzione riportata nell’immagine Phadia (fig. 1).
La risposta al test in unità ISU-E è semplice
e di prima evidenza. Il sistema standardizzato
prevede 4 livelli:
• < 0,3: test negativo (non esiste nel sangue
esaminato nessuna IgE specifica verso gli allergeni);
• <0,3 – 0,9: positività bassa;
• <1,0 – 14,9: positività moderata-alta;
• ≥ 15: positività molto alta.
Per facilitare la lettura viene fornito, nel foglio della risposta, un gradiente cromatico di riferimento vicino a ciascun valore. Questa modalità di rappresentazione permette, a colpo d’occhio, di comprendere il livello di positività
(aspetto semiquantitativo) o la negatività della
risposta (fig. 2).
Allergen Components by Source
Food
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30
todica, di alto livello tecnologico e già impiegabile nei laboratori più attrezzati, è un nuovo
approccio, realmente innovativo, basato sull’impiego di biochip per l’analisi semi-quantitativa delle IgE. Con l’attuale kit si possono
valutare fino a 112 componenti allergeniche.
In pratica il test consente di effettuare un vero
e proprio screening a tutto campo, rapido ed
efficace, per la ricerca di anticorpi IgE rivolti
verso un’ampia gamma di molecole potenzialmente causa della sensibilizzazione allergica
e, dato di grande rilievo clinico, il test permette di riconoscere eventuali allergie dovute a
reattività crociate, ovvero presenti verso componenti molecolari che si possono trovare in
vari composti, anche molto diversi fra loro (per
esempio allergeni alimentari e sostanze allergeniche inalanti).
immunoCAP iSAC igE è un test immunologico in fase solida. Le frazioni molecolari (allergeni) sono fissate in formato microarray su
un substrato solido. I “protein microarray” (detti anche biochip, proteinchip) sono utilizzati
nelle applicazioni biomediche per determinare
la presenza e/o la quantità di proteine in campioni biologici, ad esempio nel sangue. In italiano array può essere semplicemente tradotto
con il termine “raggruppamento”. E di un vero
e proprio micro-raggruppamento di allergeni si
tratta. Le componenti allergeniche, immobilizzate sul substrato solido, vengono incubate con
campioni di plasma o siero umano in esame. Il
legame tra gli anticorpi IgE specifici e le componenti allergeniche legate alla fase solida, viene rilevato grazie a un anticorpo secondario anti-IgE umane marcato con un composto fluorescente. Una scansione con un appropriato scanner per microarray consente l’acquisizione delle immagini. Il programma MIA (Phadia – Microarray Image Analysis Software) permette
poi l’analisi dei risultati e la determinazione
delle ISU (ISAC Standardized Units) per IgE
specifiche (ISU). Il sistema ISU può definire,
con questo approccio, una valutazione semiquantitativa. Per l’esecuzione del test è sufficiente una quantità minima di plasma (20-30
ImmunoCap* ISAC contains a wide array of
proteins from various allergen sources
Fig. 1 - Distribuzione delle varie proteine allergeniche nel test microarray ISAC (fonte dell’immagine: Phadia).
Componenti aeroallergeniche principalmente specie-specifiche
Pollini di graminacee
Erba canina
Coda di topo
nCyn d 1
Graminacee Gruppo 1
5,9 ISU-E
rPhl p 1
Graminacee Gruppo 2
6,2 ISU-E
rPhl p 2
Graminacee Gruppo 3
2,0 ISU-E
nPhl p 4
Enzima ponte berberina (BBE)
1,4 ISU-E
rPhl p 5b
Graminacee Gruppo 5
5,7 ISU-E
rPhl p 11
Proteina correlata Ole e 1
2,2 ISU-E
rPar j 2
Proteina trasferimento lipidico (LTP)
0,9 ISU-E
rFel d 1
Uteroglobina
0,7 ISU-E
nDer f 1
Cisteina proteasi
1,6 ISU-E
nDer p 1
Cisteina proteasi
2,7 ISU-E
Pollini di erbe
Parietaria
Animali
Gatto
Acari
Acaro della polvere
Componenti cross-reattive
Profiline
Betulla
rBet v 2
Profilina
0,6 ISU-E
Lattice
rHev b 8
Profilina
1,4 ISU-E
Mercorella
rMer a 1
Profilina
2,0 ISU-E
ISAC Standardized Units (ISU-E) Level
<0.3
Negativo
0.3-0.9
Basso
1-14.9
Moderato-Alto
≥ 15
Molto alto
31
Fig. 2 - La figura riporta il risultato di un’indagine al microarray ISAC dove si evince il diverso livello di
positività: per esempio per l’allergene rPhl p 5b (Graminacee Gruppo 5), il valore è 5,7 ISU-E, quindi con
positività moderata-alta (vedere freccia).
UN ESEMPIo PRATICo:
PRoFILINE E CRoSS-REATTIvITà
Le profiline sono proteine molto diffuse in natura e appartengono a strutture allergeniche anche non correlate filogeneticamente. Si trovano
sostanzialmente in tutte le cellule nucleate e il loro ruolo consiste nell’agire durante la polimerizzazione di filamenti actinici, elementi essenziali
nella struttura del citoscheletro. Data l’importanza funzionale delle profiline le sequenze della
struttura primaria sono ben conservate attraverso
le specie vegetali anche evoluzionisticamente divergenti, con un 80% di omologia e una sorprendente somiglianza anche nella struttura seconda-
ria e terziaria. Verso la fine del ventesimo secolo,
nei primi anni Novanta, alcuni ricercatori osservarono che le IgE specifiche di soggetti con allergia verso il polline di betulla potevano reagire
con la profilina presente in granuli di polline e
con reattività crociata con altre profiline distribuite in alimenti di origine vegetale. In questo
modo venne chiaramente dimostrato come le profiline potevano essere responsabili delle così dette sensibilizzazioni crociate tra pollini e alimenti
di origine vegetale. Viene coniato da questo momento il termine di panallergene. Ora è evidente
che la sensibilizzazione verso il panallergene profilina fornisce risultati crociati che rendono difficile, se non impossibile, arrivare a una diagnosi
ricorrendo ai soli test cutanei. Sono evidenti le
implicazioni pratiche, di natura profilattica e terapeutica. Per esempio l’adozione di un trattamento iposensibilizzante (immunoterapia specifica, il così detto “vaccino”) dovrebbe essere programmato dallo specialista con l’indagine di
marker allergenici specifici. Ecco perché un test
con ISAC è di grande aiuto: non ha invasività (è
sufficiente una quantità minima di prelievo ematico), non risulta condizionato da terapie farmacologiche, è un’indagine ottimale per la ricerca
di sensibilizzazione verso allergeni frequenti sia
di tipo inalatorio sia alimentare. Poiché, inoltre,
vengono utilizzati solo allergeni con struttura molecolare del componente (ricombinanti o antigeni naturali purificati) la specificità è garantita.
Un esempio pratico: i soggetti che
hanno allergia al polline di betulla sono
assai spesso allergici ad alimenti che
hanno sostanze simili (mele, sedano,
carote).
Si ha una vera e propria sensibilizzazione crociata “occulta”, celata
fra componenti correlati che
però hanno diversa provenienza: questa sensibilizzazione
crociata può essere messa in
evidenza con un solo passaggio “diagnostico” nel sistema
microarray che consente il
confronto di numerose molecole nello stesso tempo.
LA PRoCEDURA CoMPLETA DAL PRELIEvo ALLA TERAPIA
Il prelievo di sangue
32
Esecuzione del Test ISAC
Prepare serum
Prewash slides
Incubate
sample
Stain with
Detecting Ab-conj
Wash
Scan biochip
Analyse
images
Create
report
Wash
Duration: 1 hour
Duration: 10 minutes
DIAGNoSI E TERAPIA
Presso la BIOS S.p.A. di Roma in via Domenico Chelini 39, è possibile effettuare quotidianamente il prelievo per il Test ISAC, che viene eseguito in collaborazione con il laboratorio analisi dell’Ospedale Pediatrico “Bambino Gesù”
in Roma.
Per informazioni e prenotazioni: CUP 06 809641
ANDARE A PIEDI FA BENE ALLA SALUTE E CoMPoRTA vANTAGGI ECoNoMICI PER IL SISTEMA SANITARIo
http://eurpub.oxfordjournals.org/content/early/2012/0
3/07/eurpub.cks015.abstract?sid=09b5adc8-3524414b-a8ad-f30e69f0ab18
Secondo uno studio dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) e dell’Agenzia di
Sanità Pubblica di Barcellona (ASPB), sostituendo ogni giorno con una camminata uno spostamento che richiederebbe circa cinque minuti
di auto, non solo si raggiungerebbero i limiti minimi raccomandati di attività fisica giornaliera,
ma ci sarebbe un notevole guadagno in salute e
in longevità, e si farebbero anche risparmiare milioni di euro al Sistema Sanitario Nazionale.
In uno studio spagnolo, guidato dalla dottoressa Catherine Pérez della Healthcare Information Service Systems, e pubblicato nella Rivista
European Journal of Public Healthcare, i ricercatori hanno usato i dati di un sondaggio realizzato nel 2006 dalla motorizzazione della Catalogna, che ha coinvolto circa 80.000 persone, di
età superiore ai 17 anni. Partendo da queste
informazioni, gli studiosi hanno calcolato che la
percentuale di popolazione in Catalogna che fa-
ceva poca attività fisica giornaliera e utilizzava
l’automobile per ogni spostamento era del 77,2%
degli uomini e del 67,7% delle donne. Almeno
circa il 15% di queste persone – riportano gli autori dello studio – potrebbe migliorare la propria
condizione fisica sostituendo con una camminata anche un tragitto di soli cinque minuti in macchina.
Usando poi una scala di conversione stabilita dalla stessa OMS, la “Health Economic Evaluation Tool” (HEAT), che stima i benefici di un
aumento dell’attività fisica sulla riduzione della
mortalità, gli studiosi hanno anche messo in evidenza i benefici economici annuali conseguenti
al calo di mortalità dovuto a questa “dose extra”
di attività motoria.
Tenuto conto che l’OMS suggerisce di eseguire un’attività fisica moderata e aerobica – come una passeggiata a passo spedito – per almeno 150 minuti a settimana (cioè circa mezz’ora al
giorno), sono ancora molte le persone che si sottraggono a questo “dovere”, che potrebbe portare davvero numerosi benefici sia alla salute sia,
come detto, alle casse della Sanità Pubblica.
Camminare è dunque molto utile, è considerata un’attività fisica moderata e soddisfa le raccomandazioni dell’OMS.
FRoM BENCH To BEDSIDE
I BENEFICI CLINICI DELLA RICERCA:
SELEzIoNE DALLA LETTERATURA
SCIENTIFICA
33
LA PRIMA MAPPA DEL DNA DEGLI
SPERMATozoI RIvELA IL SEGRETo
DELLE MUTAzIoNI
http://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S009
2867412007891
34
È stata ottenuta la prima mappa completa del
DNA degli spermatozoi umani. Il risultato, ottenuto da 91 cellule germinali di un singolo individuo di 40 anni, fa luce sui segreti delle mutazioni e apre nuovi scenari per la genetica. Il risultato, pubblicato sulla rivista Cell, dimostra infatti che la frequenza delle mutazioni negli spermatozoi di un singolo individuo è più elevata rispetto a quanto immaginato finora.
“Si apre una nuova pagina per la genetica”, ha
commentato il genetista professor Giuseppe Novelli, dell’Università di Roma Tor Vergata. La ricerca si deve a un gruppo dell’Università americana di Stanford, California, USA e potrebbe avere ricadute importanti anche per lo studio del cancro e dell’infertilità. La cosa più importante è comunque che per la prima volta i ricercatori hanno
a disposizione l’intera sequenza del DNA di una
cellula riproduttiva (gamete) umana, che contiene 23 cromosomi anziché 46 come le altre cellule.
La mappa del DNA degli spermatozoi è particolarmente interessante, spiegano gli esperti, perché permette di comprendere il processo di ricombinazione naturale, ossia il processo grazie al quale il DNA di un bambino è risultato della combinazione del DNA di tutti e quattro i suoi nonni. Finora bisognava affidarsi agli studi genetici delle
popolazioni per stimare la frequenza della ricombinazione nel singolo spermatozoo o nell’ovulo,
così come la “miscela genetica” che ne risulta.
“La mappa del DNA degli spermatozoi ci
permetterà di tracciare e capire come varia la ricombinazione tra gli individui in modo molto
dettagliato”, ha osservato uno dei ricercatori del
gruppo, dr. Gilean McVean. Si tratta, ha aggiunto, di un’importante prova di principio che “ci
consentirà di studiare le dinamiche fondamentali della ricombinazione negli esseri umani e se
queste sono coinvolte in questioni quali l’infer-
tilità maschile”. Il risultato, spiega il prof. Novelli, dimostra che negli spermatozoi vi è una
frequenza di mutazioni più elevata rispetto a
quanto si ritenesse.
ANALISI DEL DNA DEL FETo DA SANGUE
MATERNo: APERTA LA STRADA A UNA
DIAGNoSI PRENATALE NoN INvASIvA
http://www.nature.com/nature/journal/vaop/ncurrent/full/nature11251.html
Ottenuta l’analisi del DNA di un feto utilizzando un campione di sangue della madre. Il nuovo metodo apre le porte alla diagnosi prenatale di
malattie genetiche, senza esami invasivi come ad
esempio l’amniocentesi. Il risultato, pubblicato
sulla rivista Nature, nel luglio 2012, si deve a un
gruppo di ricerca coordinato dal dr. Stephen
Quake, dell’Università americana di Stanford in
California, USA. La diagnosi precoce di malattie
genetiche nel feto, secondo gli esperti, può consentire ai medici di anticipare trattamenti dopo la
nascita del bimbo. Il prossimo passo, rilevano i
ricercatori, sarà sviluppare una tecnica per un
eventuale uso clinico.
DA DNA DIAGNoSI PRENATALE PIù
PRECISA: TEST NoN INvASIvo CoN UN
CAMPIoNE DI SALIvA DEL PADRE E DI
SANGUE DELLA MADRE
http://stm.sciencemag.org/content/4/137/137ra76.abstract?sid=c6eefd67-7ba8-41e5-868f-800723a8223a
Da un’altro studio condotto dal gruppo di ricerca del dr. Jacob O. Kitzman si è potuto dimostrare che basta un campione di saliva del padre
e un prelievo del sangue della madre per decifrare il DNA del nascituro ed escludere migliaia
di minuscole mutazioni che possono dare origine a malattie genetiche. A consentire una diagnosi prenatale sempre più precisa, alla 18ma settimana di gravidanza, è un nuovo test non invasivo messo a punto dai ricercatori dell’Università di Washington e illustrato nella rivista Sci-
ence Translational Medicine, nel giugno 2012.
L’obiettivo anche in questo studio è di utilizzare
test non invasivi per la diagnosi prenatale di malattie genetiche del feto.
oLIMPIADI 2012: SPoRT DRINkS SoTTo
ACCUSA
http://www.bmj.com/content/345/bmj.e4753?view=lo
ng&pmid=22810387
http://www.bmj.com/content/345/bmj.e4737
http://www.bbc.co.uk/programmes/b01l1yxk
Un’indagine, opera della giornalista Deborah
Cohen, basata soprattutto sui risultati di uno studio dei ricercatori dell’Università di Oxford e
pubblicato sul british Medical Journal open,
portale open access della Rivista inglese, mette
sotto accusa gli sport drinks, bibite come il Gatorade o il Powerade (la bevanda sportiva ufficiale delle Olimpiadi di Londra) che sono definiti
dalle pubblicità salutari, rinfrescanti e ricchi di
utili sali minerali.
Non sempre però ci si dovrebbe fidare delle
pubblicità. Infatti, nell’indagine del british Medical Journal, svolta in collaborazione con bbC
one Panorama, si svela oggi l’“incredibile mancanza di prove” a sostegno della presunta capacità di molte di queste bevande di migliorare le
performance sportive, sottolineando come questo renda impossibile una scelta informata da
parte dei consumatori.
Gli studiosi hanno preso in esame i siti internet di 104 prodotti sportivi, tra cui sport drinks,
integratori proteici e scarpe, per valutare le prove scientifiche a supporto dei loro slogan pubblicitari. Il risultato è stato che solo il 2,7% dei
74 studi valutabili sono scientificamente affidabili, una circostanza che i ricercatori definiscono
“preoccupante”, richiamando l’attenzione sulla
necessità di ulteriori ricerche nel campo.
Il rischio non è solo quello di sprecare soldi
in un prodotto inutile. Il dr. Matthew Thompson,
ricercatore del team di Oxford, è preoccupato anche dall’effetto che questi drinks possano avere
sulla salute dei più giovani, tra i quali sono in au-
mento obesità e sovrappeso. “Dire che queste bevande fanno bene alla salute potrebbe contrastare pratiche realmente salutari come fare più esercizio fisico, giocare di più a pallone o andare più
spesso in palestra”, ha dichiarato Thompson.
“Per ora”, si legge nell’indagine, “le uniche
prove scientifiche a disposizione portano a una
ricetta semplice ed economica per restare in forma: seguire una dieta bilanciata, bere acqua,
comprarsi un paio di comode scarpe da ginnastica e cominciare fare una regolare attività fisica”. STAMINALI DEL LIqUIDo AMNIoTICo
CoNTRo LA DISTRoFIA MUSCoLARE
http://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1002/stem.1134/
abstract;jsessionid=88AA71A150610E8D0587E7A2
B73D5E3C.d03t01
Le cellule staminali del liquido amniotico potrebbero essere una nuova fonte di terapia per la
cura delle distrofie muscolari. È quanto emerge
da uno studio del gruppo del professor Paolo De
Coppi, ricercatore dell’Università di Padova e
dell’Istituto di Ricerca Pediatrica “Città della
Speranza”.
La ricerca è stata pubblicata sulla rivista
Stem Cells. Sfruttando collaborazioni internazionali con l’University College London, dove
il prof. De Coppi è primario di Chirurgia Pediatrica, l’Hôpital Necker di Parigi, dove lavora
la professoressa Marina
Cavazzana-Calvo, leader
nella terapia genica e cellulare, i ricercatori dell’ateneo di Padova hanno
dato nuova speranza alla
cura delle miopatie e in
particolare delle distrofie
muscolari. Lavorando
con cellule staminali scoperte nel liquido amniotico, si era capito che esse sono in grado di
differenziarsi in diversi tessuti ed organi ma solo oggi è chiaro, attraverso il loro trapianto in
un modello animale di atrofia spinale muscolare, che potrebbero curare anche malattie geneti-
35
Dr.ssa Martina Piccoli e
gruppo di ricerca del Laboratorio di Stem Cells
and Rigenerative Medicine, Fondazione Città
della Speranza e Università di Padova.
che. La dott.ssa Martina Piccoli, primo autore
del lavoro, spiega che “questi animali hanno la
particolarità di avere affetto in modo grave il
muscolo scheletrico” e “il trapianto in singola
dose di una piccola quantità di cellule staminali del liquido amniotico ha permesso loro di sopravvivere per lungo tempo” ma anche “ha fermato la progressione della malattia migliorando
e guarendo la loro capacità motoria”.
TRAPIANTo TRACHEA FoLLow-UP A
DUE ANNI DoPo L’INTERvENTo
http://www.thelancet.com/journals/lancet/article/PIIS
0140-6736(12)60737-5/fulltext
36
Il trapianto di trachea funziona, e due anni
dopo l’intervento il primo paziente, un ragazzo
di 11 anni, ha una vita normale. Lo afferma un
articolo su Lancet pubblicato dai chirurghi, fra
cui l’italiano Paolo Macchiarini, che hanno effettuato l’operazione. Il bimbo era nato con una
stenosi tracheale, una patologia che fa sì che la
trachea sia troppo sottile, ed è stato operato al
“Great Ormond Street Hospital” di Londra utilizzando la trachea di un donatore italiano. Dall’organo erano state eliminate le cellule lasciando uno scheletro su cui erano state fatte crescere
le staminali del ricevente. Dopo due anni, scrivono gli autori, il ragazzo respira normalmente,
va a scuola ed è cresciuto di 11 centimetri e non
ha bisogno di terapie antirigetto. Secondo la rivista il successo del trattamento dovrebbe stimolare una maggiore ricerca nel campo, per riuscire a farla diventare una procedura di routine:
“Per diminuire il tempo necessario all’intervento abbiamo bypassato la procedura normale, che
prevede di far crescere le cellule in laboratorio,
preferendo coltivarle direttamente nel corpo del
ricevente.” – spiega il prof. Martin Birchall dell’University College di Londra, uno degli autori
dell’intervento – “Abbiamo bisogno però di più
studi su come le staminali crescono all’interno
dell’organismo per poter convertire questo primo successo in un trattamento disponibile a tutti”. a cura di Maria Giuditta Valorani
HANNo CoLLABoRATo A qUESTo NUMERo
prof. Alessandro Ciammaichella
Medico chirurgo, Specialista in Medicina Interna
già Primario medico ospedaliero
dott. Gianrico Prigiotti
Specialista in Urologia
Master in Andrologia
dott. Marta delli Falconi
Medico-chirurgo
Specialista in Medicina Fisica e Riabilitazione
dott. Massimiliano Rocchietti March
Dirigente medico I livello
Ospedale “S. Andrea” Roma
dott. Silvana Francipane
Medico chirurgo
Maria Giuditta Valorani, PhD
Research Associate
Institute of Child Health
University College of London – London, GB
prof. Giuseppe Luzi
Specialista in Allergologia e Immunologia Clinica
Professore associato di Medicina Interna (f. r.)
Docente presso “Sapienza” – Università di Roma
Facoltà di Medicina e Psicologia
Paolo Macca
Biologo
Responsabile del Laboratorio di Patologia Clinica BIOS
prof. Augusto Vellucci
Specialista in Clinica Medica e Malattie Infettive
già Primario ospedaliero di Malattie Infettive
prof. Lelio R. Zorzin
Medico chirurgo, Specialista in Reumatologia
Professore associato Reumatologia (f.r.)
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