A11
555
Santi Barbagallo
PARAFFI
LA QUESTIONE DEL PARERGON
DA KANT A DERRIDA
Copyright © MMX
ARACNE editrice S.r.l.
www.aracneeditrice.it
[email protected]
via Raffaele Garofalo, 133/A–B
00173 Roma
(06) 93781065
ISBN
978–88–548–3577–1
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,
di riproduzione e di adattamento anche parziale,
con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.
Non sono assolutamente consentite le fotocopie
senza il permesso scritto dell’Editore.
I edizione: ottobre 2010
Indice
7
Proemio
7
Il problema
13
25
La cosa, la firma
In fede
25
Firmare la verità
34
Topologia della firma
42
Res, nomos, logos
50
Diversi modi di firmare
61
Spielzeug
137
La scarpetta di Cenerentola
171
Tube type
233
Paraffi. D(on)arsi la cosa
253
Bibliografia
Proemio
Il problema
Per cominciare, prima di cominciare, un testo, una
scrittura, un esercizio congiunto di pensiero e di linguaggio, occorre sempre innanzitutto porsi, mettersi —
all’opera o nell’opera — in anticipo lì davanti, restando
immobili, fermi sui blocchi di partenza con l’orecchio teso
per sentire lo sparo: collocarsi in posizione di ―ascolto‖,
per prima cosa, e aver cura di pre–disporsi per bene
all’incipit. È da lì, infatti, prima di cominciare, che tutto
comincia, sempre. Come questo incipit: «L’uomo parla»;
una frase che è già una firma, o meglio, un paraffo, con i
suoi ricci e i suoi lembi riconoscibili, e che magari poco
più in là rafforzerà il suo tratto (Riss), per esempio in
un’anafora, in una complexio, in una ripetizione — il nobile ―osso rosicchiato‖ di Hamann o il più servile Wiederholungszwang di Freud e di Lacan —, insomma, nella
ricorsività tipica dell’idioma, determinando (del testo, della scrittura) ipso facto e senza mediazioni concettuali il
ductus… Quell’incipit e quella firma, «L’uomo parla» sono, naturalmente, di Heidegger, che usa spesso di queste
locuzioni o fatismi oracolari per cingere in anticipo il suo
campo d’opera, il suo modo di ―agire‖ sul foglio bianco,
la sua agricoltura scrittoria, salvo lasciare tutti di stucco a
7
8
Paraffi
metà del discorso, al centro o ai suoi margini con un truismo accecante dopo una glossa incomprensibile. Come
quest’altra celebre frase: «Il linguaggio è il linguaggio»
(Die Sprache selbst ist die Sprache).1 Intendiamo dire: la
frase è staccata, separata, circoscritta da due punti prima
e dopo; è recintata. È un articolo, insomma, venuto fuori
da uno stoccaggio, sullo stesso principio di un morso, o di
un étron, direbbe Derrida cui il nostro libro, anzi, per rafforzare il suo essere già da sempre allogato in uno spazio
identificabile come l’intercapedine di una libreria a muro,
il nostro ―volume‖ è idealmente ―restituito‖ fin dal titolo
nel modo di un malapropismo impertinente (Paraffi invece
di Paraggi). Oppure, pescando dallo stesso bazar di
scampoli al dettaglio, è un prodotto ―desiderante‖, scaturito da un ―inconscio macchinico‖, da un sistema automatico di tagli di flusso e di prelievi parziali in una materia
ideale infinita (hylé):
Una macchina si definisce come un sistema di tagli (coupures). […] Essa funziona come macchina per tagliare il
prosciutto: i tagli operano dei prelievi sul flusso associativo. […] Ogni flusso associativo deve essere considerato
come ideale (idéel) flusso infinito d’una coscia di porco
immensa.2
1
M. HEIDEGGER, Il linguaggio, in ID., In cammino verso il linguaggio, a c. di A. Caracciolo, Mursia, Milano 1990, p. 29.
2
G. DELEUZE, F. GUATTARI, L’anti–Edipo. Capitalismo e schizofrenia, tr. it. di A. Fontana, Einaudi, Torino 1975, pp. 38–39.
Proemio
9
Ed è in fondo nello stesso senso che diciamo che, per
cominciare o prima di cominciare, in filosofia come in salumeria — o nel luogo anfibologico di un’improbabile
Wurstwarenhandlung “della” filosofia — occorre, sempre, porsi il problema, senza cioè per questo affrettarsi a
dedurne sbrigativamente la domanda: ―quale?‖, oppure:
―di cosa?‖. Soprattutto, non bisogna mai essere troppo ingenui o corrivi nel sentenziare, con fatua quanto anodina
opacità, il verdetto topico della prontuaria demologica, la
Urteil succedanea sopravvissuta all’incantesimo dei packagings, del suntuario e dell’effimero — tutto un Tauschwert del sense obvie e della parola ―data‖— per esempio nel plastismo: ―qual è il problema?‖, che un problema
presupponga una ―domanda‖ (un problema da poco, se si
pensa a tutti i tradimenti offerti e sofferti da questa parola
che i linguisti chiamano un false friend: problema o questione senza domanda — in inglese e in francese: question). Proprio oggi il salumaio, cui chiedo due etti di crudo, mi dice che c’è un ―problema‖: il prosciutto è da cominciare. L’inizio non è mai buono. In salumeria, come in
filosofia, la virtù è nel mezzo. Prima di cominciare, dunque, occorre porsi il problema del cominciamento. Pro–
ballein, dice il greco: gettare qualcosa là fuori, lì davanti,
gettarlo prima o all’inizio (ma è lo stesso?), tanto per cominciare, tanto e per cominciare, o mettere una questione
sul tavolo, come si dice con un altro plastismo, gettare il
prosciutto sul banco dell’affettatrice.
10
Paraffi
Porsi il problema del cominciamento. Insisto su questo costrutto, sulla sua triplice tautologia, o meglio, sulla
sua isometria paradossale — sintassi o tagmemica omeostatica: l’isocolon del ―porre‖, del ―pro‖–blema e del
―pro‖–emio — solo per vedere meglio la cosa, per vedere
cioè con i miei stessi occhi qualcosa che ho gettato là fuori, per vederlo meglio. Se la mettiamo così (nel senso in
cui si dice per esempio: ―buttarla lì‖, ex abrupto, avanzare
un’ipotesi provvisoriamente e senza troppo pensarci), il
mondo è pieno di problemi, non ci sono che problemi nel
mondo; e questo se non altro perché il mondo è pieno di
―cose‖, perché le cose sono, a modo loro e tanto per cominciare, problemi: Gegenstanden, objecta, ecc.
«Il problema della cosa» (Die Frage nach dem Ding) è
un titolo, è il titolo di un libro, guarda caso, ancora di
Heidegger. Di questo libro ci occuperemo, tra l’altro, più
avanti, così come della necessità tributaria e dell’obbligo
di restituzione quasi programmatici, cui Heidegger sembra
voler adempiere come a una tradizione dovuta, imposta
tacitamente e dall’alto (hypsos) — quella di una ponderazione maestosa e di un’architettura sublime (turris eburnea o templum acropolitano) meglio conosciute con il nome di ―classico‖? Una tradizione, quella della filosofia, o
piuttosto, della ―Grande‖ filosofia occidentale, che risalirebbe all’origine storica della filosofia propriamente detta,
della filosofia come philo–sophia, al logos e
all’apophansis greci? — di esporre fin dal titolo e attra-
Proemio
11
verso il titolo il problema posto in oggetto o come oggetto,
la questione (Frage), che gli dà il titolo e che dal suo titolo
prende forma, cui il libro cercherà di dar voce e ascolto
nella forma di una risposta, fosse pure una risposta in
forma di domanda — una risposta sospesa — e di farlo,
spesso e per l’appunto, nella forma ontointerrogativa che
pro–pone il problema stesso come un interpellare, che lo
denuda in anticipo in quanto question (―che cos’è?‖, ―che
cosa significa?‖) e che, proprio per questo e seguendo
Derrida, ne svela sintomaticamente il carattere affermativo, il suo essere già una risposta e un’affermazione impliciti, fatti passare, con un gioco di luci e una pratica di cosmesi, per un chiedere e un interrogare ―autentici‖. Ma
non anticipiamo. Per il momento, e visto che la cosa non è
una cosa come tante, smerciabile sottocosto con una politica forfettaria, visto che, oedem tempore, quella della
cosa non è, per noi che ce ne occupiamo o ce la poniamo,
una questione tra le tante, una questione o un problema
come tanti; visto insomma che la questione della cosa
prima e dopo il titolo La quesione della cosa è una questione tutta da vedere — gettandola là fuori sulla table
d’hôte — occupiamoci ancora della questione iniziale, che
abbiamo posto all’inizio e proprio relativamente al porsi
del problema, a quel tipo di porre che è il problema e che
nello stesso tempo abbiamo riconosciuto consistere nella
(o identificarsi con la) questione del cominciamento. Se
volessimo porci una domanda su questo problema, sul
problema del cominciamento, essa suonerebbe più o meno
12
Paraffi
così: ―Quando comincia un problema?‖. Domanda abissale. Si direbbe che per rispondervi non ci sia altra strada,
altro percorso che quello sbarrato dell’aporia, sempre che
si voglia, leggendola, vedervi una soluzione giocando
d’anticipo, vedervi una soluzione senza soluzione,
un’impossibilità di soluzione cui diamo provvisoriamente
il nome e la soluzione di aporia, per seguirne silenziosamente e a bocca aperta il trauma incoativo della significazione, del dire e del detto senza rinunciare a tutto ciò, rinunciando a tutto ciò… Eppure, lo abbiamo visto, basterebbe dire, per cominciare, che un problema si dà ogniqualvolta ce n’è, di questo e del ―questo‖, e si può dare.
Può darsi. Ma come, ad ogni modo? Forse come tratto,
suggerirebbe Heidegger, che al tratto dedica sempre parole
appassionate, facendone volentieri una sorta di vessillo del
suo stesso pensiero, una sua fondamentale attrattiva
(Reiz); o tutt’al più per il tramite di quelli che chiameremmo i suoi modi accessori, i suoi precipitati, per esempio in un trattato o in una trattazione, o in un contratto,
cioè nelle tre modulazioni complanari della res, del logos
e del nomos — ma non abbiamo ancora garanzia della
derivatività di questi tre elementi da un tratto fondamentale (Grundriss), come substantia o hypokeimenon, che risponderebbe al Wort ideale e disincarnato, anteriore di
―tratto‖.
Per cominciare, basterebbe dire quindi che c’è là (io lo
vedo!) qualcosa, una montagna o un promontorio, forse un
Proemio
13
vulcano, pronto a sbuffare cenere e lapilli se mi avvicino
troppo, in ogni caso una sporgenza, una prominenza,
qualcosa che è là solo in ragione del fatto che io lo vedo,
fermo restando che, se lo vedo, è anche perché ne faccio
un ―oggetto‖, del mio interesse e del mio disinteresse, del
mio desiderio e della mia avversione, e forse anche della
mia professione (la montagna del geologo o il prosciutto
del salumaio). Quanto dire che la questione, adesso, si
complica, moltiplica i suoi termini, sottopone il suo enunciato a una trazione innaturale allungandosi come un chewing–gum, per poi assestarsi in una specie di geometrismo
tetragono; ―fa quadrato‖, per dirla con i palafrenieri, si
rapprende nei suoi bordi materiali, nella sua concrezione
ipofisica, perché interdice il concetto e la parola che vorrebbero sistematicamente interrogarla, analizzarla nella
sua fenomenalità quadricipite: Porsi il problema del cominciamento della cosa.
La cosa, la firma
Se non ci siamo sbagliati, la traiettoria del problema
permette più d’una condizione di risolvibilità, più percorsi
interpretativi che, lo vedremo subito, corrispondono ad altrettanti sentieri invalicabili o selciati scoscesi giù dai quali si rischia ad ogni passo di capitombolare, inciampando
scandalosamente su qualche molesto pietrone. L’enunciato,
14
Paraffi
questo enunciato: porsi il problema del cominciamento
della cosa, ruzzola esso stesso. In avanti, guadagnando
terreno su tutto ciò che incontra e qualifica come eterogeneo; avanza, colonizza e contamina la stessa precondizione, per il discorso che segue, di disarticolarsi in una nuova
rete: è il gioco dello statista, la politica espansionistica
dello stratega di guerra che si predispone tatticamente sullo scacchiere. All’indietro, piegando a sé il livello semantico, utilizzando il suo senso offerto, decifrato, il suo contenuto apofantico più evidente e riconoscibile per tentare,
con un percorso à rebours rigorosamente simulato, di
condizionare pesantemente l’elemento sensibile, il contenuto materiale, l’oggetto o la cosa, insomma, tutto ciò che
―ci sta di contro‖ come non linguistico, anastorico, alogico, per dedurne un certo diritto normativo e un’ipoteca
statutaria per mezzo della parola (Kein ding sei wo das
wort gebricht). In avanti e all’indietro, insieme, per proporci una storia paradossale, entropica, quella di una ―posizione‖ d’acchito, di un proporsi o di un mettere le mani
avanti e in avanti verso qualcosa che sfugge, che scivola
come una saponetta bagnata sottraendosi alla ―comprensione‖ (seguendo l’etymon) del presente, perché passato,
collocato all’indietro, in un luogo ipotetico in cui ha avuto
inizio, e che, per questo motivo, possiamo solo cogliere retrospettivamente, anzi, fondare e istituire per principio, nel
presente, solo anamnesticamente dopo che ha avuto luogo,
in un non luogo, da qualche parte nel passato. È il gioco
del nostalgico, del filosofo che ama ricordare e raccontare,
Proemio
15
di qualcuno che ama dire e parlare di qualcosa a qualcuno
(parlare per parlare, raccontare di gesta eroiche inesistenti, tutta un’epopea isterica, un gonflage d’aria compressa
e una fantastoria della ―cosa‖ che però richiedono che li si
prenda piuttosto seriamente, come un falso riconoscimento: Cane Nero magna bella Persica…).
In tutti i casi è in opera una certa retorica della cosa
(ma anche una poetica della figura retorica), un preterirne
l’interdizione strutturale alla parola, al linguaggio, al concetto nel momento in cui, della cosa e del suo mutismo, ne
facciamo parola, usando un linguaggio o formulando dei
concetti. Insomma, io vi dico: c’è qui qualcosa, che non è
un qualcosa, ma una cosa che, in quanto è qualcosa in più
di qualcosa perché ha qualcosa in più (precisamente: la
sua parola), posso, meglio, ―devo‖ poterne rintracciare la
parola, il linguaggio, il concetto corrispondenti nel dizionario (ma perché? Non sono già in opera, nella parola ―dizionario‖, nella parola che indica la cosa ―dizionario‖,
uno shibboleth fonologico, una politica orocentrica e particolaristica, un privilegio metafisico accordato al dire, al
parlare, alla presenza, ecc.? Ipotesi per un grammario…).
Ma vi dico, anche: non ascoltatemi, non leggetemi, non
prendetemi alla lettera e sulla lettera; la cosa è sempre
un’altra, un’altra cosa dalla cosa che vi dico, e che non
posso dirvi a meno di tradire, con i mezzi della parola, e la
parola e la cosa. Una filosofia e una critica rigorose devono saperlo nel momento in cui si predispongono a fare il
loro lavoro, sempre «posto che il pensiero sia un mestiere»
Paraffi
16
(daß das Denken ein Handwerk ist).3 Lo dice Kant in
un’osservazione marginale della prefazione alla Critica
del Giudizio:
Da una parte, così, essa (la critica) raffrena le pericolose
pretese dell’intelletto, che avendo facoltà di fornire a priori
le condizioni della possibilità di tutte le cose che esso può
conoscere, vorrebbe racchiudere in questi limiti (diesen
Gränzen) anche la possibilità di ogni cosa (aller Dinge) in
generale; e, dall’altra, guida l’intelletto stesso
nell’osservazione della natura secondo un principio della
completezza, sebbene esso non possa mai raggiungerla, e
promuove in tal modo quello che è lo scopo finale di ogni
4
conoscenza.
Limiti del fonologocentrismo. Interrogheremo più avanti la ―doppia genitività‖ di questo allografo sintagmatico ironicamente prescritto nella forma di un epitesto vestibolare (fingiamo qui di non riconoscerne la provenienza);
e, se tanto mi dà tanto, se l’aposiopesi e il cleuasmo del
soggetto,5 della domanda che afferma e dell’affermazione
3
M. HEIDEGGER, L’origine dell’opera d’arte, in ID., Sentieri interrotti, tr. it. di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1984, p. 4.
4
I. KANT, Critica del Giudizio, tr. it. di A. Gargiulo, intr. di P.
D’Angelo, Laterza, Roma–Bari 1997, pp. 3–5.
5
In Heidegger, naturalmente. Per esempio nel celebre «E tuttavia…» (Und dennoch) che precede la descrizione del ―quadro famoso‖
di Van Gogh ne L’origine. Questo passo della descrizione del quadro, «momento di abbandono patetico e ridicolo», dice Derrida, contrasta con le premesse, tutte heideggeriane, di lasciare la parola alla
Proemio
17
che interroga si lascia sussumere sotto la medesima proprietà commutativa, avremo di che parlare, di che dichiarare fingendo di chiedere. Ma diciamo subito che questi
limiti non sono esclusivamente privativi, non si limitano a
limitare; sono anche, come tali, tutto ciò che non vi ricade
all’interno, ciò che garantisce il ritorno circolare al concetto che delimitano nel gioco delle eso– e delle endoreferenze, sono la possibilità di determinare un campo,
un’egemonia, un controllo a distanza del luogo oltre la
propria giurisdizione — out of place, extra moenia, tutta
un’economia contrattuale del trascendens, del fuori,
dell’au–delà, ecc.
Kant deve saperlo. Mentre trattiene (züruck zu halten),
il limite rilascia, rilascia mentre e perché trattiene. Fin qui
poche novità. Ciò che fa di questa perimetria circolare —
e rinunciamo, per il momento, a parlare del tema complesso del circolo, della circolarità ma soprattutto dello Zwiefalt, della ―piega tra due‖, del tratto che si sdoppia e che
inscrive, in modo piuttosto paradossale e contro ogni logica geometrica, il movimento circolare e autoriflessivo della Terza critica (ma così come, naturalmente, della Enzyklopädie di Hegel) non meno che dell’Origine di Heicosa, cioè all’arte, per chiedere ad essa che cosa e come essa sia
(fragen das Werk, was und wie es sei). È sempre il linguaggio desoggettivato che parla (Die Sprache spricht) in Heidegger, mentre lui,
l’umile filosofo vestito alla zuava, si lascia parlare, interrogando(si) o
lasciando(si) interrogare (fragen) mentre passeggia solitario nella
selva.
18
Paraffi
degger — , ciò che fa di questo gioco delle ―segnature‖
qualcosa di sorprendente, un paraprosdokian eccentrico e
uno Stoss da coup de théâtre, è l’effetto di firma (signature) che in esso si produce, l’effetto di firma che esso produce. In cosa consiste? Anche di questo ci occuperemo
più in là nel testo. Accontentiamoci di anticiparne soltanto
i termini preliminari, ammesso che ci sia un prima e un
dopo in questioni del genere, e in ogni questione in generale.
Nel capoverso successivo al passo della prefazione alla
Critica del Giudizio citato più sopra, Kant dice che non
sarebbe stato possibile affrontare la questione del Giudizio
di per sé e come una parte staccata, come una questione a
sé stante in mancanza di una predisposizione anteriore, nel
tempo e nel concetto, che ne definisse il campo in seno al
progetto generale della critica delle nostre facoltà di conoscere. Diciamolo meglio: la questione del giudizio vien
fuori essa stessa da una mancanza (Mangel), da una non
esaustività delle due critiche precedenti, le quali, tuttavia,
sono in sé esaustive, complete, assicurate, in senso proprio
(eigentlich), al proprio senso, al sicuro possesso (sicheren alleinigen Besitz) del loro senso circoscritto, delimitato, segnato internamente ed esternamente, e messo al riparo dagli altri competitori (Competenten: perché evidentemente si tratta di segnare un territorio, di mettere in gioco
una strategia di dominio (Gebiet) ai fini della sopravvivenza — il riparo, il chiuso, il protetto, ecc. — in una vera e propria Struggle for Life di tipo epistemologico).
Proemio
19
Questa parte staccata, ―speciale‖ (besonderen Theil) tuttavia è di vitale importanza nell’economia del sistema della conoscenza, nell’esplorazione del terreno (Boden) per la
costruzione del suo edificio (Gebäude), dato che bisogna
trovare un ponte (Brücke) che idealmente riunisca intelletto e ragione per farne qualcosa di completo, di compatto e
di solido perché la costruzione tenga e il crollo (Einsturz)
sia evitato. Questa parte staccata, questo non meglio precisato elemento architettonico che può indifferentemente
inerire al teorico e/o al pratico, è per Kant il Giudizio, il
quale non può essere teorizzato senza un certo necessario,
fisiologico imbarazzo (Verlegenheit). E il filosofo lo dice
subito, mettendo le mani avanti in quello spazio paratestuale, parergonale e atopico che è la Prefazione (Vorrede); l’unico spazio in cui può farlo. Spazio autobiografico, anche, in cui Kant fa riferimento alla sua crescente
vecchiaia (zunehmenden Alter), si scusa, avverte, promette, infine firma e ratifica. Sottoscrive. Parte staccata nella
parte staccata dal sistema della conoscenza. C’è qui una
curiosa sintomatologia della firma, del firmare come sintomo che dovremo tenere presente fin d’ora: sia che si tratti di cose, di oggetti, di opere d’arte, di forme e di colori,
sia che si tratti di riferire ad essi sentimenti, gusti e piaceri, il discorso filosofico si flette al livello emotivo, diventa
calligrafico, ―chirografico‖, anche e forse soprattutto
quando vorrebbe essere rigoroso, sforzandosi di presentarsi sotto una veste logica, adattando al logos le esigenze del
pathos, applicando alla hybris un’improbabile misura di
20
Paraffi
contenimento. Un’eccedenza percorre la struttura discorsiva da tutte le parti, e il colpo di teatro che ne vien fuori è
proprio un sintomo, una spia, il segnale o l’avvisaglia di
una situazione di krísis, di un punto critico della critica,
l’inevitabilità di un ―doppio tradimento‖ (tradire
l’intelletto normativo, le leggi del pensiero e della logica e
i loro limiti critici, ma anche tradire attraverso i segni uno
stato, un imbarazzo, un faticoso stare a galla nella mareggiata). Sarà per questo che Deleuze e Guattari dicono della terza Critica kantiana che è «un’opera sfrenata; e quelli
che verranno dopo non cesseranno di rincorrerla: tutte le
facoltà dell’anima superano i loro limiti, quegli stessi limiti che Kant aveva così accuratamente fissato nei libri della
maturità».6
Seguiremo dunque, qui, questi effetti di firma, disseminati un po’ dappertutto nella Kritik der Urteilskraft di
Kant. Ma seguiremo anche tutti i possibili effetti del tratto
che firma, del con–tratto firmato, i meccanismi della trazione, della at–trazione, della dis–trazione (di capitale, di
plusvalore, ecc.), della sot–trazione di proprietà e
dell’appropriazione indebita (il problema dello eigen e dei
suoi derivati) nella scrittura della cosa in Heidegger. Tutto
ciò sarà connesso al sistema della ―duzione‖ (produzione,
riproduzione, riduzione, ecc.) analizzato da Derrida ne La
vérité en peinture (ma si tratterà di un’implicita corri6
G. DELEUZE, F. GUATTARI, Che cos’è la filosofia?, a c. di C. Arcuri, tr. it. di A. De Lorenzis, Einaudi, Torino 1996, p. X.
Proemio
21
spondenza o, per dirla con Nietzsche, di uno zwinkern mit
den Augen!). Nello specifico e passim, cercheremo (solleciteremo) un inedito raccordo (teorico, iconologico, antropologico, ecc.) tra gli effetti autobiografici della firma e
del firmare e la struttura neutra, mobile, staccabile e multifunzionale del parergon. Connesso alla connessione, alla
facoltà di connettere, all’improprio del supplementare,
dell’aggiunto, del posticcio, della Stück, del pezzo o della
parte rattoppata [«dell’impossibilità della cultura (culture)
senza cucitura (couture)»],7 il parergon è l’espunto,
l’estromesso, l’impronunciabile, diremmo, della parola
pronunciata, l’origine irriflessa e insieme lo scandalo del
fonologocentrismo, ciò che rende possibile nella sua trasparenza il darsi articolato del discorso (tramite un meccanismo che abbiamo già definito di kenosis, di donazione
di senso eterologico mediante uno svuotamento di senso
proprio).8
Insomma,
tratteremo
dell’intrattabile,
dell’intrattabilità del tratto, dell’arto (dell’articolo e
dell’articolazione) e del suo fantasma che ritorna a ossessionare con la sua quasi presenza ultrice il testo scritto, il
filo e la trama della filosofia dell’arte, sconvolgendone
l’intreccio, l’ordo rationis e la mise en page filologica e
storiografica.
7
S. BARBAGALLO, La critica e i suoi fintivi, Aracne, Roma 2009,
p. 58.
8
Ibidem, p. 51.
22
Paraffi
Di tutto ciò che ce n’è, e resta, cioè avanza, come il
gesto autografo di una firma cancellata dal tempo, che sopravvive al suo proprio autore:
Par définition, une signature écrite implique la non–
présence actuelle ou empirique du signataire. Mais, dira–t–
on, elle marque aussi et retient son avoir–été présent dans
un maintenant passé, qui restera un maintenant futur, donc
dans un maintenant en général, dans la forme transcendantale de la maintenance. Cette maintenance générale est en
quelque sorte inscrite, épinglée dans la ponctualité présente, toujours évidente et toujours singulière, de la forme de
signature. C’est là l’originalité énigmatique de tous les
paraphes. Pour que le rattachement à la source se produise,
il faut donc que soit retenue la singularité absolue d’un événement de signature et d’une forme de signature: la reproductibilité pure d’un événement pur.
Y a–t–il quelque chose de tel? La singularité absolue d’un
événement de signature se produit–elle jamais? Y a–t–il
des signatures?
Oui, bien sûr, tous les jours. Les effets de signature sont la
chose la plus courante du monde. Mais la condition de possibilité de ces effets est simultanément, encore une fois, la
condition de leur impossibilité, de l’impossibilité de leur
rigoureuse pureté. Pour fonctionner, c’est–à–dire pour être
lisible, une signature doit avoir une forme répétable, itéra-
Proemio
23
ble, imitable; elle doit pouvoir se détacher de l’intention
9
présente et singulière de sa production.
9
J. DERRIDA, Signature événement contexte, in ID., Marges – de
la philosophie, Éditions de Minuit, Paris 1972, pp. 391–392, corsivo
nostro (tr. it. Firma evento contesto, in Margini della filosofia, tr. it.
di M. Iofrida, Einaudi, Torino 1997, pp. 421–422).