la concorrenza sleale parte ii

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“LA CONCORRENZA SLEALE
PARTE II”
PROF. GUIDO BEVILACQUA
Università Telematica Pegaso
La concorrenza sleale (parte seconda)
Indice
1
LA CLAUSOLA GENERALE ----------------------------------------------------------------------------------------------- 3
2
LA SPECIFICAZIONE DELLA CLAUSOLA GENERALE DI CUI AL N. 3 DELL’ART. 2598 CO…----- 9
2.1.
2.2.
LA RECLAME MENZOGNERA ------------------------------------------------------------------------------------------------- 9
LE MANOVRE DI PREZZO---------------------------------------------------------------------------------------------------- 12
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
(L. 22.04.1941/n. 633)
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La concorrenza sleale (parte seconda)
1 La clausola generale
L’art. 2598 cod. civ. contempla una clausola generale (l’art. 2598 n. 3 cod. civ.) ed alcune
ipotesi nominate di concorrenza sleale (i nn. 1 e 2 dell’art. 2598 cod. civ.).
L’art. 2598 n. 3 cod. civ. qualifica sleale l’attività di chi si vale direttamente o indirettamente di
ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale ed idoneo a danneggiare
l’altrui azienda.
I problemi di interpretazione sollevati dalla norma riguardano, in primis, la determinazione dei
parametri della scorrettezza professionale e dell’idoneità dell’atto a danneggiare l’altrui azienda –
nonché del loro reciproco rapporto.
Data l’ampiezza e la genericità della formulazione dell’art. 2598 n. 3 cod. civ., i giudici di
legittimità sono stati spinti ad affermare la natura di “previsione aperta”1.
La formulazione della clausola generale, risalente agli inizi del secolo, mostra ancora oggi la
propria utilità: l’art. 2598 cod. civ., in effetti, riesce ancora oggi a coprire, per la sua estrema
elasticità tutta la possibile area della slealtà commerciale.
Il richiamo alla “correttezza” nel senso più generico possibile, infatti, sin dall’entrata in vigore del
sistema costituzionale, ha consentito all’interprete di fare ricorso alle più diverse fonti integrative
per riempirne di contenuto il concetto.
In ogni caso, il dibattito relativo al significato da dare all’espressione “correttezza professionale” è
stato particolarmente vivo.
La tesi dominante (e la più risalente) intravede nei principi di correttezza professionale il richiamo
ad una vera e propria consuetudine in senso giuridico, quale quella individuata tra le fonti del diritto
all’art. 8 disp. prel. cod. civ.: siffatto orientamento è animato dalla legittima preoccupazione che il
richiamo a fonti normative extra giuridiche possa minare i due caratteri fondamentali delle norme
giuridiche, e cioè la certezza e l’anteriorità della norma al fatto2.
Questo orientamento è stato fortemente criticato, dato che esso, accreditando come fonti dei principi
di correttezza professionale, soltanto gli usi in senso tecnico, dà luogo ad una staticità del sistema,
tagliando fuori dall’ambito di applicazione della norma tutte le pratiche concorrenziali nuove3.
1
Cfr. Cass. 20.04.1996 n. 3787, in Resp. Civ. e Prev., 1997, 136, con nota di Magnani.
Cfr. R. Franceschelli, Studi riuniti di diritto industriale, Milano, 1972, 594.
33
G. Ferrari, Il soggetto attivo dell’atto di concorrenza sleale, in Riv. Dir. Ind., I, 160.
2
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Secondo la visione diametralmente opposta (dunque del tutto metagiuridica) il richiamo alla
correttezza professionale imporrebbe al ceto imprenditoriale di assumere un comportamento che
non possa essere oggetto di riprovazione alla stregua della morale comune, universalmente sentita
come tale: ciò con la conseguenza che il giudice, nel giudicare della liceità o meno dell’operato
degli imprenditori, dovrà dunque farsi interprete della coscienza collettiva di tutto il popolo; è un
campo in cui ogni sentenza ha il valore di un precedente e il compito dello studioso si limita a
raccogliere e coordinare i risultati della giurisprudenza4.
Appare facile cogliere le ragioni che hanno impedito alla teoria esposta di trovare fortuna: essa si
connota per un soggettivismo esasperato nella sua pretesa di affidare all’interprete il potere di
individuare la <<coscienza collettiva del popolo>> 5.
In senso solo parzialmente difforme dalla impostazione sub b), vi è chi individua i principi di
correttezza non già nella morale comune, bensì in quella imprenditoriale: sarebbe contrario alla
correttezza professionale (e qui pare proprio che si privilegi l’attributo) ciò che ripugna alle
convinzioni morali degli operatori economici di un determinato settore6. Per il detto
orientamento varranno censure analoghe a quelle già esposte più sopra.
Largo seguito ha avuto la tesi che individua i principi della correttezza professionale nei
comportamenti abitualmente seguiti dalla classe imprenditoriale: punto di riferimento restano,
dunque, gli usi, qualificati, però, da una inferiore valenza sul piano giuridico poiché privati del
valore di fonte del diritto. Elemento, questo, di certo dotato di una carica fenomenologica
superiore a tutti gli altri fin qui esaminati7. La dottrina successiva non ha mancato di sottolineare
l’insufficienza di siffatta impostazione anche per l’inidoneità dei criteri utilizzati (ora di natura
deontologica, ora tratti dalle <<scienze aziendali>>)8.
Alcune teorie cd. intermedie prendono, invece, atto della difficoltà di rinvenire risposte
soddisfacenti nelle impostazioni sin qui delineate ed approdano all’individuazione dei principi di
correttezza professionale mediante un procedimento logico-giuridico che potrebbe dirsi frutto di
una fusione tra le due teorie estreme esaminate: il contenuto del parametro della correttezza viene
dunque costruito con un duplice procedimento: in un primo tempo di carattere induttivo, in una
seconda fase di tipo deduttivo. Dalle valutazioni concrete già operanti in un dato settore della vita
4
G. Auletta e V. Mangini, Delle invenzioni industriali. Dei modelli di utilità e dei disegni ornamentali. Della
concorrenza, in Commentario Scialoja – Branca, V, Del Lavoro, Bologna – Roma, 1973, 171.
5
F. Scirè, La concorrenza sleale nella giurisprudenza, II, Milano, 1989, 47.
6
F. jr. Ferrara, Teoria giuridica dell’azienda, Milano, 1948, 288 n. 1 e 289.
7
G. Guglielmetti, La concorrenza e i consorzi, in Tratt. Vassalli, Torino, 1970, 25.
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economica per certi comportamenti storicamente verificatesi si deve risalire ai <<principi>>
comuni di valutazione, che, poi, proprio in quanto <<principi>> si dovranno e potranno applicare a
fatti e comportamenti nuovi sui quali in concreto non si abbia ancora avuto un giudizio di
approvazione o di disapprovazione9.
Un contributo alla teoria intermedia sembra, poi, fornire chi, fra la correttezza professionale intesa
in senso <<deontologico>> (come espressione della moralità imprenditoriale) e la correttezza in
senso <<statistico>> (<<come fatto usuale, di prassi, frutto delle consuetudini e pratiche
commerciali>>) non individua una contrapposizione netta ma anzi una possibile composizione alla
luce del criterio interpretativo offerto dal riferimento agli <<usages honnetes du commerce>>
operato dall’art. 10 bis della Convenzione di Unione di Parigi: si precisa, infatti, che gli usi onosti
del commercio non sono gli usi onesti di un anacoreta, non esprimono una forma più alta di
moralità e neppure la morale comune, ma sono gli usi onesti dell’imprenditore: un personaggio,
cioè, che deve fare affari e con essi molte concessioni al suo mestiere, pena la non sopravvivenza.
Sono quindi, in definitiva, quel buon costume mercantile che si differenzia sì dall’entità pura in
quanto legato al paradigma di strategie economiche e finalizzato ad esse; ma non pare contrapporsi
alla stessa eticità se applicata all’homo economicus, e calata nella sua realtà professionale10.
Fra gli orientamenti passati in rassegna, quest’ultimo è certamente ancora oggi quello maggioritario
nella giurisprudenza soprattutto nel Supremo Collegio: la interpretazione più corretta sembra quella
che non fa riferimento ad una consuetudine accettata dal ceto dei commercianti, ma piuttosto ad un
principio etico universalmente seguito da tale categoria, sì da divenire costume. Intesa in tali sensi
la correttezza professionale, è evidente che sia compito del giudice adeguare tale principio ai fatti
ognora mutevoli della vita economica e trarre con riferimento al caso concreto sottoposto al so
esame, le conseguenze valutative che rispondono alla coscienza collettiva di quel particolare
momento11.
Va peraltro rilevato che il legislatore, nel richiamare i principi di correttezza professionale, non si è
limitato alla mera formulazione di un concetto assolutamente generale, ma si è riferito a
8
P.G. Jeager, Valutazione comparativa di interessi e concorrenza sleale, in Riv. dell’Impr., 1970, I, 69 - 71
P.G. Marchetti, Il paradigma della correttezza professionale nella giurisprudenza di un ventennio, in Riv. Impre., II,
208.
10
N. Abriani e G. Cottino, La concorrenza sleale, in Tratt. Dir. Comm., diretto da G. Cottino, II, Diritto Industriale,
Padova, 2001, 292.
11
Cass. 31.07.1957, n. 3270, RDI, 1957, II, 219; nello stesso senso cfr. Cass. 17.04.1962, n. 753, RDI, 1962, II, 12, e
GC, 1962, I, 601, relativa al caso Motta/Alemagna e giustamente famosa per aver riconosciuto per la prima volta la
concorrenza parassitaria; ed ancora Cass. 11.05.1964, n. 1125, RDI, 1964, II, 229. da ultimo si ricorda Cass.
15.12.1983, n. 7399, per avere il merito della utilizzazione di formule espressive diverse da quelle <<tradizionali>>:
9
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consuetudini affermate, quali del buon costume commerciale, cioè, in sostanza, ad una valutazione
sociale negativa (storicamente variabile), osservata in concreto nei confronti di tutti quegli altri
mezzi che, secondo il buon costume commerciale, appunto non devono essere impiegati negli atti di
concorrenza12.
Anche la giurisprudenza di merito ha mostrato larga (ripetitiva e spesso acritica) adesione alla
formula della correttezza come principio etico universalmente seguito, sì da diventare costume
13
.
Verso la fine degli anni sessanta si fa strada una teoria che, in chiave di revisione critica delle
precedenti, ricostruisce la correttezza professionale sulla base delle regole di comportamento
coerente al sistema economico con l’effetto che in primo luogo, momento essenziale della
motivazione della sentenza non è più un giudizio morale, ma un giudizio di conformità ad un
modello economico che si ritiene ottimo e cioè al sistema della libera concorrenza. In secondo
luogo (tenuto conto che il sistema della libera concorrenza non è che una indicazione di massa, e
che le <<leggi dell’economia>> possono assumere diversi contenuti), la valutazione di ciò che è
corretto, coerente ad un dato modello economico ritenuto ottimo, si sposta ancora e presuppone la
discussione e la scelta di quale, tra i diversi tipi di <<economia di mercato>> oggi ipotizzabili sia da
ritenere il migliore14.
Siffatta teoria ha avuto indiscutibilmente il merito di avere posto in luce l’insufficienza dei soli
criteri deontologici e/o fenomenologici a determinare i principi della correttezza professionale, la
quale deve necessariamente restare saldamente agganciata alla struttura economica della società che
esprimerà il giudizi di valore su un determinato comportamento (non è mancato chi ha sottolineato
il pericolo connesso all’adozione di criteri troppo svincolati da valutazioni di ordine deontologico.
In ogni caso l’orientamento in esame pare avere un certo seguito anche nella giurisprudenza di
merito15.
Non sono mancati, in epoca passata, orientamenti giurisprudenziali che avevano tentato di
individuare nei principi costituzionali (in particolare in quello sancito dall’art. 41, 2° co., Cost.),
ovvero nella necessità di tutela dei consumatori il fondamento della correttezza professionale. In
12
Cass. 15.12.1983, n. 7399, GADI, 1983, 212.
Trib. Catania 15.05.1990, GADI, 1990, 524; Trib. Urbino 27.02.1988, GADI, 1989, 118; App. Roma 5.12.1988,
GADI, 1989, 191; App. Milano 16.01.1981, RDI, 1982, II, 306.
14
Cfr. P.G. Marchetti, op.cit., 215 – 216; nello stesso senso, P. Auteri, La concorrenza sleale, in Tratt. Rescigno, vol.
18 ° Torino, 364; G.Floridia, Economicità della gestione e principi di correttezza, in Dir. Ind., 195.
15
Trib. Verona 28.12.1985, GADI, 1986, 294; Trib. Napoli 22.07.1993, DInd, 1994, 138; per un esame approfondito
delle statuizioni, S. Sanzo, Attività di concorrenza sleale posta in essere mediante comunicazioni pubblicitarie via
Internet: qualificazione degli atti, corresponsabilità del titolare del domanin name e problematiche connesse, in R.C.P.,
1998, 217-219.
13
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questo senso soprattutto negli anni ’70, il Tribunale di Milano, nell’occuparsi in diverse circostanze
di problematiche in materia di boicottaggio, era pervenuto all’affermazione dell’illiceità, sul piano
concorrenziale, di comportamenti filo-monopolistici, siccome contrari al precetto costituzionale
dell’utilità sociale.
La pronuncia più nota chiarisce che una ricostruzione della disciplina giuridica del rifiuto di
contrattare in qualsiasi forma posto in essere fra imprenditori non può che prendere l’avvio della
considerazione dell’art. 41 Cost. quale norma sovraordinata ad ogni altra dell’ordinamento che pone
il principio generale d’ordine pubblico della libertà di iniziativa economica. Il presupposto
costituzionale induce a ritenere che, nella misura in cui il rifiuto di contrattare, semplice o
concordato, si pone in contrasto con la garanzia della libertà d’impresa, nella stessa misura ove
posto in essere tra imprenditori concorrenti costituisce patente violazione della generale regola di
condotta intersoggettiva che, imponendo la osservanza dei principi della correttezza professionale
(n. 3 dell’art. 2598 cod. civ.), non può che attingere il suo contenuto dallo stesso precetto
costituzionale16.
Siffatti orientamenti trovano oggi nuove conferme in autorevoli autori ad opinione dei quali ‘la
scelta del legislatore ’42 di rifiutare il criterio della etero-integrazione dell’ordinamento con i dati di
valutazione deducibili dalla realtà sociale, e cioè di rifiutare il criterio adottato dall’art. 10 bis della
Convenzione d’Unione di Parigi nel testo dell’Aja, preclude la possibilità di fare ricorso a
valutazioni deontologiche della stessa categoria imprenditoriale e consente di disciplinare il
conflitto concorrenziale in modo che comunque non ne derivi pregiudizio agli interessi collettivi la
cui tutela condiziona in ogni caso l’attribuzione costituzionale del diritto d’impresa17, con la
ulteriore precisazione che il criterio della auto- integrazione della disciplina codicistica basata sui
doveri di correttezza, ed in particolare sul dovere di correttezza professionale, non differisce perciò
sostanzialmente dalla proposta interpretativa che suggerisce analoga integrazione con le regole
deducibili dai modelli dell’economia di mercato: l’unica differenza essendo che, con linguaggio
economico, viene evocato direttamente e soltanto il principio costituzionale della libertà di
concorrenza come garanzia di accesso al mercato e di mantenimento in esso di una pluralità di
operatori, mentre vengono messi in ombra i limiti dell’utilità sociale e di alcuni fondamentali
16
Trib. Milano 22.03.1976, GADI, 1976, 319; nello stesso senso cfr. Trib. Milano 26.11.1973, GADI, 1973, II, 1340 e
Trib. Milano 29.04.1974, GADI, 1974, 657; Trib. Roma 18.01.1982, RDI, 1983, II, 29, ed infine – a conferma che a
decorrere dagli anni ’80, qualche cosa è cambiata nella giurisprudenza sulla correttezza professionale – Cass.
14.04.1983, n. 2634, GADI, 1983, 52.
17
G. Floridia, Concorrenza sleale e pubblicità, in AA.VV., Diritto Industriale, Torino, 2001, 319.
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interessi individuali dei cittadini che pure, nel disegno costituzionale, limitano l’esercizio della
libertà di concorrenza18.
18
G. Floridia, op.cit., 319.
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2 La specificazione della clausola generale di cui al
n. 3 dell’art. 2598 cod. civ.
La ‘previsione aperta’ della clausola generale contemplata dal n. 3 dell’art. 2598 cod. civ.
trova contemperamento nell’opera giurisprudenziale di ‘specificazione’, che ha dato luogo ad una
sorta di tipizzazione, ovviamente non tassativa, degli atti di concorrenza ad essa riconducibili.
Si tratta, in particolare, di alcune categorie (o pseudo-categorie) abitualmente definite come:
-
la reclame menzognera;
-
manovre di prezzo;
-
violazioni di esclusive contrattuali;
-
boicottaggio;
-
storno di dipendenti;
-
atti di concorrenza compiuti da ex – dipendenti;
-
la sistematica imitazione (cd. parassitaria) di politiche aziendali;
-
violazioni di norme pubblicistiche.
2.1.
La reclame menzognera
Una delle più importanti fattispecie in materia di concorrenza sleale che vengono sanzionate
facendo ricorso al n. 3 dell’art. 2598 cod. civ. è il mendacio concorrenziale, per la frequenza con cui
si riscontra nella pratica.
In relazione alla fattispecie in esame viene in considerazione qualsiasi messaggio rivolto ai
potenziali consumatori o fruitori di determinati prodotti o servizi, che non corrisponda a verità, a
condizione che si tratti di menzogna idonea ad ingannare i suoi destinatari. Solo in presenza di
questa idoneità ad indurre in errore, difatti, la comunicazione di cui si tratta ha la possibilità di
produrre quel danno concorrenziale che condiziona la illiceità delle ipotesi che si riconducono
all’art. 2598 n. 3 cod. civ.
Ciò su cui deve vertere l’inganno o la possibilità di inganno è detto dettagliatamente nell’art. 10-bis
della Convenzione d’Unione che parla di “natura, modo di fabbricazione, caratteristiche, attitudini
all’impiego o quantità dei prodotti”; ed è detto ancora più dettagliatamente nel decreto legislativo
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sulla pubblicità ingannevole e comparativa, che parla di <<caratteristiche dei beni o dei servizi,
quali la loro disponibilità, la natura, l’esecuzione, la composizione, il metodo e la data di
fabbricazione o della prestazione, l’idoneità allo scopo, gli usi, la quantità, la descrizione, l’origine
geografica o commerciale, o i risultati che si possono ottenere con il loro uso o i risultati e le
caratteristiche fondamentali di prove o controlli effettuati sui beni o sui servizi>>, nonché del
prezzo e del modo in cui questo viene calcolato e delle condizioni alle quali i beni o i servizi
vengono forniti, ed ancora delle qualifiche e delle qualità dell’imprenditore che trasmette il
messaggio. Si tratta, chiaramente, di elementi in ordine ai quali un inganno può determinare delle
modifiche nel comportamento del potenziale consumatore sul mercato, in particolare inducendolo
ad acquisti che altrimenti non avrebbe fatto: solo questo tipo di inganno, infatti, può essere
produttivo di danno concorrenziale.
All’inganno su questi elementi, che si riferiscono al contenuto del messaggio, può assimilarsi quello
che riguarda la stessa natura pubblicitaria dell’informazione, la quale viene occultata mediante la
<<mimetizzazione>> del messaggio nel contesto comunicativo (giornale, opera cinematografica,
ecc.) in cui lo stesso viene collocato.
Questo tipo di pubblicità ingannevole, definita pubblicità occulta o nascosta, viene realizzata sulla
carta stampata mediante la tecnica della cd. pubblicità redazionale (consistente in messaggi che si
presentano come effettuati dalla redazione di un giornale e che sono invece annunzi a pagamento),
spesso non riconoscibile come tale e quindi scambiata come raccomandazione di acquisto
proveniente da una fonte autorevole ed oggettiva. Nel caso di opere radiovisive l’inganno viene
invece attuato generalmente mediante il cd. <<product placement>>, cioè mediante la pratica di
mettere in risalto in modo apparentemente causale il prodotto pubblicizzato nelle scene di un film o
di un programma televisivo (nel campo cinematografico, dove la pratica in questione raggiunge
talvolta forme assai sofisticate di integrazione tra narrazione, promozione del film e promozione del
prodotto, il product placement è ora espressamente disciplinato dal d.lgs. 22.01.2004, n. 28). In
quest’ultima forma di pubblicità ad essere celato non è tanto il carattere pubblicitario del
messaggio, quanto il messaggio stesso che verrà per lo più percepito dallo spettatore in modo
inconscio, sfruttando ai fini commerciali il complesso di suggestioni ed emozioni suscitate
dall’opera.
Anche le forme di pubblicità occulta sopra esaminate possono determinare il comportamento del
consumatore, ed in particolare indurlo all’acquisto di beni che altrimenti non avrebbe acquistato, e
sono pertanto idonee a realizzare un danno concorrenziale rilevante ai sensi dell’art. 2589 cod. civ.
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Il requisito essenziale dell’idoneità ad ingannare è di grande importanza. Esso, infatti, anzitutto
discrimina, sottraendole alla qualifica di illiceità, le menzogne innocue, inadatte cioè ad indurre in
errore il destinatario. Per giudicare tuttavia di questa innocuità è necessario stabilire quale sia il
punto di riferimento da assumere. Al riguardo la giurisprudenza ha di solito affermare che per
giudicare l’idoneità ingannevole di una menzogna sia necessario far riferimento al consumatore
medio e ritenere perciò lecite le menzogne che possano essere individuate come tali da un modello
di consumatore magari non particolarmente avveduto, ma nemmeno del tutto sprovveduto. Poiché
tuttavia l’uso di menzogne nelle comunicazioni al consumatore non corrisponde ad alcun interesse
meritevole di tutela, non si vede perché si debba favorire l’imprenditore che lo pratica piuttosto che
il consumatore sprovveduto, che viceversa meritevole di tutela è senz’altro. Dell’idoneità
all’inganno di una comunicazione ai consumatori dovrà dunque giudicarsi con il metro del
consumatore sprovveduto: il che peraltro non significa che ci si debba riferire a delle ipotesi
patologiche. Come inidonee all’inganno vengono di solito da un lato giudicate le affermazioni
iperboliche, le palesi esagerazioni, le vanterie, e dall’altro lato le affermazioni generiche, prive di un
significato preciso. Frequentemente i due caratteri si trovano uniti, essendo l’affermazione
iperbolica di solito appunto generica. Per contro, vengono ritenute illecite le affermazioni false di
fatti specifici.
Assumere come elemento di discriminazione la idoneità ingannevole delle comunicazioni fa si che
possano qualificarsi come illeciti anche messaggi non consistenti in menzogne in senso stretto. Così
potranno rientrare fra le fattispecie vietate le comunicazioni ambigue, le mezze verità, i messaggi in
cui siano omesse notizie essenziali: a condizione che siano idonei ad indurre in errore il
consumatore in modo da modificarne l’atteggiamento di fronte al prodotto o al servizio.
Per giudicare della idoneità ingannevole di un determinato messaggio, infine, è bene considerare le
modalità con le quali il messaggio stesso è diffuso verso il pubblico. E’ chiaro, infatti, che ove il
messaggio venga diffuso con una campagna pubblicitaria, la sua attitudine ad ingannare sarà
maggiore ed aumenterà tanto più quanto più la campagna sia abile, ampia e penetrante. Per contro,
si è ritenuto che quando il messaggio venga diffuso attraverso la stampa qualificata, destinata ad un
pubblico particolarmente esperto, il giudizio sulla sua capacità ingannevole debba essere più
indulgente proprio a causa del maggiore grado di cultura di chi leggerà il messaggio. Infine, sempre
ai fini del giudizio sulla decettività, una differenza va fatta in relazione al tipo dei prodotti di cui si
tratta, riservando una maggior severità di valutazione alle affermazioni mendaci concernenti
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prodotti di largo consumo, all’acquisto dei quali si procede di solito in modo affrettato e senza
particolare attenzione.
2.2.
Le manovre di prezzo
Il ribasso dei prezzi è una delle più diffuse pratiche concorrenziali, dal momento che esso
rappresenta la forma più elementare per “battere” i concorrenti. In un mercato libero, quale
astrattamente è il nostro, l’attività di ribasso dei prezzi è, per convincimento unanime, non solo
lecita, ma persino salutare per il mercato, poiché si risolve in favore dei consumatori.
Diversa è la valutazione da effettuarsi con riguardo alla vendita sotto costo: una simile pratica può
difatti essere attuata da un imprenditore in grado di reggere, per un periodo di tempo più lungo di
quanto non possano i suoi concorrenti, vendite non remunerative, con lo specifico fine di portarli
fuori dal mercato e, all’esito, di fare luogo a pratiche di scorretto rialzo dei prezzi.
La dottrina propende, al riguardo, per l’illiceità in sé della vendita sottocosto, a prescindere dalle
finalità dell’agente19.
Concordemente si ammette, comunque, la prova liberatoria da parte del ribassista, al fine di
dimostrare circostanze specifiche e meritevoli di tutela, idonee ad escludere la finalità
anticoncorrenziale20.
Il sottocosto è concorrenza sleale anche nell’ipotesi di imprese in mano pubblica. Al riguardo, ad
onta di alcune posizioni contrarie, anche recenti, che dicono che in questi casi il sottocosto può
essere giustificato da ragioni politico-economiche coincidenti con l’interesse pubblico, è da ritenere
con una giurisprudenza risalente, che la vendita sottocosto costituisce concorrenza sleale anche
quando è praticata da un’impresa pubblica e che <<il divieto della vendita sottocosto è volto ad
impedire che un’impresa possa acquistare una posizione monopolistica mediante una prolungata
gestione antieconomica che costringa i concorrenti ad abbandonare il mercato e ad impedire che
l’accesso privilegiato alle fonti di finanziamento (anche pubbliche) snaturi il meccanismo selettivo
del mercato concorrenziale>>21.
19
Cfr. V. Mangini, La vendita sotto costo, in Riv. Dir. Comm., I, 470 ss.; G. Floridia, op.cit., 148.
Cfr. F. Scirè, op.cit., 76.
21
Trib. Milano, 26 novembre 1979.
20
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(L. 22.04.1941/n. 633)
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