Studio critico di Luigi Natoli su Giovanni Meli

LUIGI NATOLI
GIOVANNI MELI
STUDIO CRITICO
PALERMO,
TIPOGRAFIA DEL GIORNALE «IL TEMPO»
Diretta da Pietro Montaina
1883
1
SUL TUO SEPOLCRO
O MADRE MIA
BENEDICENDO A LA TUA MEMORIA
DEPONGO QUESTO LIBRO.
CHE ALTRO POSS’IO OFFERIRE
A L’OMBRA TUA SACRA
DI PIÙ CARO
CHE QUEGLI STUDI CUI TU M’ANIMAVI
FORTE E SORRIDENTE
NE LE TEMPESTE DE LA VITA?
2
PREFAZIONE
Se qualcuno avesse voglia di scrivere una bibliografia
melica, troverebbe innanzi a sè un numero considerevole di
critici e letterati abbastanza conosciuti che fan testimonianza di
quanto studio sia meritevole questo nostro poeta 1 . Ma si
accorgerebbe ancora che nessuno di tanti critici ha pensato di
esaminare il Meli da quel lato onde è meritamente grande: chè
ognuno o partendosi da preconcetti, o rimanendo a la esteriorità
de le poesie, o togliendo a esaminare alcuna de le doti de la
forma, non è penetrato a scoprire quel che ci sia di sotto al
sorriso bacchico di questo nuovo pagano, e donde provenga
questo sorriso.
Lo stesso De Sanctis, ne la sua conferenza guarda il Meli ne
la sola Fata Galanti, componimento giovenile che manca di
quella maturità filosofica, o meglio scientifica, che domina le
Bucoliche e le Odi.
Ma per conoscere il Meli non basta nemmeno leggere tutte le
poesie; Egli non ci rivela che una parte di sè stesso. Si vuol
leggere anche le lettere in parte inedite2, i numerosi manoscritti,
il suo lavoro scientifico su la Natura, tutti quei pezzi di carta,
che paiono insignificanti, ma che contengono un pensiero,
un’idea, una parola del grande poeta, pensiero, idea, parola che
illustrano, che finiscono quanto si contiene nelle poesie.
Tutto questo tesoro di documenti esiste ne la Biblioteca
Comunale di Palermo in diciotto volumi, eredità preziosa, che ci
narra tutta la vita del Meli; vita che pare un sorriso perpetuo ed è
una lotta sanguinosa.
Lo studio critico che io affido per le stampe si ingegna di
1
Fra gli scrittori che si sono occupati del Meli, noto qui: il Foscolo, che tradusse
qualche poesia, l’Emiliani-Giudici nella Storia della letterat. Vol. II, il Settembrini
Storia della letterat. Vol. III; il Guerzoni Terzo Rinascimento; il De Sanctis Nuovi
Studi Critici, 2. ediz. e ancora Agostino Gallo, Scinà, Galeotti, Pizzuto, Avolio, l’abb.
Di Marzo, il prof. Di Giovanni ecc. ecc. Non parlando de le traduzioni greche, latine,
italiane, francesi, tedesche e qualcuna anche inglese.
2 Recentemente le lettere, quasi tutte, furono pubblicate per cura del Sac. Luigi
Boglino, e a questa pubblicazione rimando i lettori.
3
presentare il Meli dal suo vero aspetto; e perché quel che verrò
dicendo non paia gratuita affermazione, ho illustrato il mio
lavoro con l’aiuto dei manoscritti. E qui, poiché mi si potrebbero
muovere degli appunti, m’affretto a dichiarare che io non ho
inteso né di scrivere una vita, né di illustrare i tempi del poeta;
ma semplicemente e puramente di esaminare nel modo più
completo donde e come proceda l’arte sua, perché egli
indipendentemente dal suo genio poetico sia sempre una grande
figura de la nostra istoria letteraria, perché egli sia grande non
solo come poeta ma come scienziato.
Forse a tanto non sarò pervenuto; che le molestie e le cure
affannose de la mia vita han turbato sovente quella serenità
d’animo necessaria al critico; ma ho fede, se non altro, che
questo mio studio scuota un po’ i letterati di Sicilia, perché ci
arricchiscano e presto di un lavoro più completo e più finito.
Lavoro, a cui da un pezzo io avevo messo mano, ma al quale non
ho potuto più attendere, costretto come sono a un’arida e pesante
fatica che mi dia il pane cotidiano.
Ed ora non mi rimane che salutare il mio libretto, e
augurargli che il ceto dei critici sia con lui meno arcigno e
anche.... ho a dirla? meno partigiano.
Palermo, Novembre 1882.
LUIGI NATOLI.
4
GIOVANNI MELI
I.
Francesco De Sanctis in una sua splendida conferenza sul
Mel3, non senza alcuna leggerezza e con patente contraddizione,
dà de l’arcade al nostro poeta, ed afferma il contenuto de le sue
poesie esser vecchio, e di nuovo, di grande, di geniale non aver
che la forma, potente per freschezza di gioventù. Come a
«freddure insipide» si possa dar forma viva e inebriante, non so,
poiché forma e pensiero, specialmente ne ‘l Meli, stanno così
organicamente concorporati, che parmi impossibile scinderli e
ravvisarvi dove l’uno finisca per cominciar l’altra.
A l’occhio del leggitore o del critico, che, contro suo
costume, si compiace di sorvolare, il Meli infatti appare come un
vecchio così rubizzo, così ben ritinto da esser creduto un bel
giovanotto; la sua poesia parrà bene cosa graziosissima,
profumata, voluttuosa; ma non ci si scorgerà quel che ci ha di
alto, di nuovo, di scientifico.
Non è vecchio, non è gesuitico, come crede il De Sanctis,
questo contenuto; il Meli dei gesuiti esiste appena in quelle
cicalate che non dicono nulla, e che piacevano tanto al principe
di Campofranco e a le grulle academie di fannulloni, ove
gl’intelletti si eviravano in mutui incensamenti; e finisce ne la
3
Nuovi Saggi Critici.
5
Fata Galanti. Il Meli è nuovo, non solo, ma è in Sicilia il più
ardito pensatore dei suoi tempi. Vi hanno in lui, è vero, due
uomini, come in Des Cartes 4 ; il naturalista a la maniera di
Epicuro, educato a la scuola degli enciclopedisti, e il teista a la
maniera di Rousseau. Non si può dir però che fu di questo o di
quel filosofo: fedele in massima al metodo di Bacone5, cercò pur
di formarsi una specie di eccletismo nel conciliare quei metodi
che pareva a lui avessero una base solida ne l’esperimento e ne
la natura, e respingendo ogni metodo aprioristico, metafisico.
In Sicilia le nuove idee giungevano con l’ultimo treno; e
quando altrove un sistema era già condannato a l’assurdo, qui
sapea di fresco, e ad esso bevevano gli spiriti sitibondi di sapere.
Onde a i tempi del Meli, i sistemi che fluttuavano urtandosi e
distruggendosi a vicenda, davano ne l’isola quell’aspetto che il
Lefèvre argutamente, nel suo ultimo libro, ritrae a la filosofia del
secolo XVIII6.
In quel tempo adunque c’erano tre sistemi che si disputavano
4
I Cartesiani rimasero abbagliati da le parti più assurde del sistema di Des Cartes,
come, e. g. da la psicologia umana; e non guardarono intanto che egli ne la filosofia
naturale riducevasi a un perfetto materialismo. Infatti il Mondo (pubblicato dai
discepoli di Des Cartes) è retto da un determinismo assoluto indefettibile: i corpi che
l’abitano e i fenomeni che vi succedono non sono che risultato de la combinazione di
particelle mobili; — e ne la linea generale esso è fondato su l’estensione e sul
movimento. La sua fisiologia ha lo stesso carattere; e da le lettere a Marsenne si
ricavano prove irrefutabili di tale materialismo, che è poi negato col cogito, ergo sum,
e quel che segue. Vedi Lefèvre, La Philosophie ecc.
5 Né da le poesie, né da le prose rilevasi questa specie di baconianismo ne le vedute
generali del Meli; ma si ha un documento assai più interessante dei lavori a stampa, ed
è l’epistolario, in parte inedito, che trovasi, raccolto per cura di Agostino Gallo, nel
codice ms. Qq. D. 4 della Comunale di Palermo. Ebbene, da la lettera diretta al
professore Francesco Paolo Avolio, a foglio 89 del cod. tolgo la frase seguente: «...
metodo uguale a quello che per istudiare la fisica propose ai filosofi il gran
Cancelliere Bacone» — Altrove dice: «Insomma per le scienze fisiche deve eseguirsi
ciò che propose il celebre cancelliere Bacone, cioè di bandire tutte le ipotesi e di
correr dietro ai fatti e alle sperienze.» (lett. a f. 40). E altrove: «Io non credo che alla
sola esperienza.» (lett. a f. 22 retro).
6 «L’histoire philosophique du dixhutième siècle est une forêt touffue dont on ne
sortirait pas, si l’on n’y perçoit deux ou trois grandes routes qui coupent les méandres
d’innombrables sentiers et viennent se raccorder en ligne droite aux principales
directions de la pensée moderne.» Lefèvre. La Philosophie. Paris, Reinwald 1879.
6
il primato: il Cartesianismo, che era divenuto officiale ne le
mani dei gesuiti, ed era il più ortodosso; il Leibnizianismo a cui
si erano dati gli spiriti più liberali, e che l’ortodossia, dopo la
ricucinatura wolfiana già tentava di conquistarsi; 7 il
Micelianismo che più originale di quei due, ma come quelli
assurdo, non contava né grandi avversari né entusiasti
discepoli8.
E intanto mentre in Francia il soffio potente de la
democrazia spazzava le nebbie e scoteva le fondamenta del
vecchio mondo, qui, in Sicilia, spento da la reazione gesuitica
l’umanesimo del rinascimento, si rinnovava ancor più fitta la
notte ascetica medioevale. Ed eran ancora quelle terribili paure
de l’oltretomba; quel sacro orrore dei fenomeni de la natura che
apparivan segni de l’ira divina; quel rifuggiarsi, ne la fredda
calma semitica de le chiese, da le tentazioni vitali de la materia;
quella macerazione perenne de la carne e de lo spirito, che
soggiogava non solo le masse ignoranti e superstiziose, ma
anche i dotti e quegli stessi filosofi che si credean liberi e
indipendenti.
E in processioni infinite di imagini sante con cui si pretendea
salvare gli infermi, e in qualche atto di fede contro poveri
maniaci, e nei giudizi continui contro le streghe e negli editti che
comminavano pene acerbe per gli irreligiosi si manifestava la
pietà dei tempi.
La paurosa tirannia aveva bevuto agli insegnamenti de la
reazione religiosa. Essa per gli occhi de la censura guardava
dentro a tutte le opere che si stampavano, e ove in alcuna
ravisasse germi di libertà, o anche una larghezza di vedute,
spiegava tutte le sue forze con tutto lo sfoggio di sua maestà.
E così ne l’ottobre del 1776 per mano del boia si bruciavano
le decisioni della Gran Corte, raccolte e pubblicate dal Milanese
di Catania, che era stato Ministro del Patrimonio; giacché il re
… «E se i gesuiti non fossero stati espulsi, ei sarebbon divenuti wolfiani.» V. Scinà
— Prospetto della Storia Letteraria di Sicilia. Palermo 1825.
8 Vedi per la filosofia ontologica del Miceli i dotti lavori dell’ab. V. Di Giovanni: Il
Miceli, o dell’Ente Uno e reale — Apologia del Sistema — Storia della Filosofia in
Sicilia ecc. ecc.
7
7
avea scorto in quei responsi del magistrato, qualche cosa che,
accennando a le antiche prerogative e a le antiche libertà,
offendesse i dritti sacri de la corona. E ne lo stesso torno di
tempo, gli editti pioveano per proibire non solo di vendere, ma
anche di tenere le opere dei filosofi francesi. Frati e preti si
univano per loro interessi a promulgar con prediche e pastorali
quelli editti, ma non seppero fare che quelle opere non
penetrassero ne l’isola, e non imbevessero di nuove dottrine
qualche filosofo.
Pure la storia letteraria di Sicilia non ebbe periodo più
splendido di quello in cui sorse il Meli. Malgrado tutto, ne l’aria
c’era qualcosa di nuovo. La storia non si arresta per ceppi e
pastoie che la tirannia possa imporre al pensiero. Ella prosegue
animosa a conquistarsi le grandi vittorie de lo spirito; e se
l’ascetismo soffocava qui ogni desìo di libertà, ella si rifaceva,
spingendo gli intelletti per altre vie.
E fu quello il tempo in cui Rosario Gregorio scoteva la polve
da i vecchi diplomi, da le vecchie pergamene, e fondava una
scienza nuova; il dritto pubblico siciliano, che con titolo falso
eludeva la censura e si produceva per le stampe; e rifaceva la
storia in base ai documenti, classificava diplomi, ordinava
cronache, guidato sempre da quel senso storico onde Hume fu
detto il padre degli storici inglesi, e Montesquieu il più
penetrante politico dei tempi.
Il Pasqualino tentava di porre basi più solide a l’origine del
dialetto siciliano, e dava fuori il suo dizionario etimologico, sei
volumi di fatiche colossali, se non proficue. E come il Gregorio
correggeva i raccoglitori infaticabili che lo aveano preceduto,
così il Pasqualino tentava di rifare ciò che il proprio padre e il
gesuita Dal Bono aveano abbozzato. Il Piazzi investigava i cieli
e scopriva astri novelli: il Velasquez disegnatore e affreschista
fortissimo, rompeva la maniera dei pittori suoi antecedenti e
richiamava l’arte a la severa grazia de le forme. E già il
marchese de Natali, ne la via de le riforme criminali precorreva
quasi il Beccaria, e il viceré Caracciolo, che vissuto in Francia e
in dimestichezza con gli enciclopedisti aveva portato in Sicilia
quest’alito rinnovatore, si rendea interprete dei tempi, e con gran
pompa aboliva il Tribunale del Sant’Ofizio, bruciandone gli
8
odiosi archivi. I gesuiti veniano espulsi, la censura taceva
dispettosa: tali tempi, tale movimento intellettuale formavano il
Meli, e preparavano lo Scinà, il Palmeri e la gloriosa pleiade de
la nostra epoca rivoluzionaria.
L’arte sola in tanto rinnovamento ricalcava ancora le
vecchie forme. Le academie, protette, anzi fondate da principotti
vanitosi e di una mediocrità letteraria discutibile, non servivano
che a profondersi lodi reciproche e ad ammazzare non dico
l’arte, ma anche il buon senso. L’arcadia imperava, né parea
disposta a lasciare il suo dominio. Ne le academie del Buon
Gusto, degli Ereini, dei Riaccesi, ne la Patriottica, e in cento
altre sparse per tutta l’isola si mutuavano elogi; e ove non
discutevano di storia ecclesiastica, e se santa Silvia fosse o no
messinese, e se era bene prestare i libri, e donde avesse origine
l’usanza di mangiar tacchini a S. Martino; si riunivan con gran
pompa per festeggiare il matrimonio del re, per lodare la pulce, e
anche il pitale!
Questa era l’arte ufficiale.
Fuori de le academie i poeti isterilivano l’ingegno a scrivere
satire pungentissime contro le donne, come il Sarmento
carinese, cui le donne facean rispondere da un loro apologista:
altri scrivevano oscenità come il Tempio, altri belavano, eco ai
belati d’arcadia.
Ma tutti rivelavano quella educazione floscia e inerte che
tenea da la Reazione gesuitica; tutti si slombavano in quei
dolciumi inutili, di una forma decrepita; nessuno tentò di
umanizzare l’arte. Contemplavano la natura attraverso cristalli
nebiosi forniti da poeti ciechi o guerci; onde parea che le muse
ne lacrimassero in quel loro Parnasso di pan di Spagna e butirro.
Ben vero qualche ingegno vigoroso, come nel lato filosofico
tentava di emanciparsi da la scolastica, così nel lato artistico,
tentava richiamare l’arte a la sua nobiltà. Tale fu Tomaso
Campailla, di Modica, il quale fu il più poderoso campione del
Cartesianismo, a cui s’informa il suo poema filosofico:
L’Adamo; poema ibrido, falso e inestetico, e a cui si potrebbero
aggiustare le parole del Meli, assai giuste, che alla sola Epopea
si convien titolo di poema (vedi Lettere inedite, nel cod. ms. Qq.
D. 4 de la Biblioteca Comunale). Ingegno vigoroso fu pure il de
9
Natali, che cantò la filosofia di Leibniz con grande ardimento,
tanto da esserne perseguitato. Ma costoro non seppero uccidere
quel regno insipido de l’Arcadia, giacché la loro arte ancella di
un sentimento che trascendea la natura, non poteva ricondursi a
le sue pure fonti e rinnovellarsi. Fortuna per l’arte è certo il Meli,
che è uno di quei genii benefici, che, pare, precorrono i tempi. Il
Meli, che, come ben dice il De Sanctis, ne la Fata Galanti, avea
conchiuso col grido: abbasso il seicento, viva Metastasio! il
Meli, dico, sentiva ora quest’aria nuova; e l’arte sua diventava
un’altra, mano mano che la sua mente geniale aprivasi a dottrine
più sane e si fortificava nella salutare redenzione de la scienza.
10
II.
Prima che il Meli scrivesse il suo libro sul Meccanismo della
Natura, aveva studiato tutti i sistemi di filosofia, specialmente il
Wolfiano coi gesuiti; ma ei soleva dire che l’uomo deve
consultare e contemplare liber naturae per la filosofia e liber
conscientiae per la morale9, onde esaminando tutti i sistemi e
trovandoli in urto fra loro se ne stancò, e si rivolse agli studi
scientifici.
E chi volesse tener dietro agli studi del Meli non avrebbe che
a svolgere i manoscritti, che fra un’ode e un’altra, fra una
lezione di chimica e una ricevuta di pigione, fra una supplica e
un invito troverebbe citazioni e trascrizioni di brani scelti e
traduzioni e osservazioni e indicazioni di libri che non finiscono
mai. Così troverebbe citati i libri di Rousseau e di Bonet, di
d’Alembert e di Locke, di Hume e del Conte di Tressan;
troverebbe trascritti brani di M. Pagano, di Mercier, del Traitè
de la Nature, Révérie sur l’homme primitif, de l’Enciclopédie, di
Fontenelle e di Voltaire e del Macchiavelli. Osservazioni di
filosofia e di scienza, di storia e di economia politica: un
catalogo di più che 40 opere che trattano in favore de la
Massoneria, altri di scienze fisiche e filosofiche.
Il suo metodo quindi non deriva da sentimento di novità, né
da ignoranza, né da preconcetti; ma da giudizio maturo: quel
giudizio stesso che gli dettò le succose parodie de l’Origini di lu
Munnu.
Né gli idealisti platonici né i Kantiani, né Des Cartes né
Leibniz, né spiritualisti né materialisti sono risparmiati. Ma la
satira più sanguinosa è a l’ontologismo miceliano; a quel
panteismo dinamico soggiogato da la teologia, che con quella
sua concezione che tenea da Bruno e da Spinoza e la cieca fede
di Tomaso d’Aquino, non riuscendo di essere né ortodosso né
eterodosso, pareva ipocrisia e stoltezza 10 . E a tale sistema il
9
Vedi a f. 5 i del Cod. 409. D. 6.
Dice Giove:
La sostanza è unica e sugnu Eu
Essenzialmenti opposta a lu gran Nenti;
10
11
Meli, oltre a la parodia de la Cantica, rivolse un vivacissimo
epigramma; non certo per campanilismo, essendo la scuola di
Palermo avversaria di quella di Monreale, ma perché era il più
fresco, era frutto contemporaneo, anzi, e del paese11.
Quali siano i criteri del Meli in fatto di filosofia appare da la
magnifica prefazione a le sue Riflessioni sul Meccanismo della
Natura. Come un nostro contemporaneo, egli arditamente scrive
che la Natura dee ricercarsi «dentro ai confini della medesima,
giacché essa a marcio dispetto di ogni umano pensiero è stata ed
è sempre una, sempre la medesima, uguale a sé stessa, ed in
conseguenza libera e indipendente dai capricci dei filosofi, dalle
loro ipotesi, dai diversi voleri dell’uomo, dall’istessa loro
ragione.»
Così egli emancipa la scienza dall’apriorismo, e chiama
falso e chimerico ogni metodo che ricerca la natura fuori di essa.
Pirchì è veru impossibili ch’ora Eu
Mentri sugnu ed esistu, fussi nenti;
Pirtantu siti vui, pirchì sugn’Eu;
Cioè, quannu distintu da lu Nenti
Vogghiu me stissu a mia rapprisintari,
Multiplicu lu miu mudificari…
11
Cci sarrà, cci sarrà cui farà suppa
’Ntra stu sistema, e cu tutti s’allappa;
Ma comu lu scravagghiu ’ntra la stuppa
D’un’assurdu si sbroggia e in autru ’ncappa;
Presumirá di sciogghiri sti gruppa,
Ma su tutti attaccati ’ntra ’na rappa,
Criditi a mia, picciotti, nun cc’è nuddu,
Chi truvari saprà lu pidicuddu...
Recipe di Miceli la sustanza
Modificata beni cu l’essenza;
Poi l’essenza li modi e la sustanza
Li cummini, e nni estrai ’na quint’essenza;
Poi ’mbrogghia arreri l’essenza e sustanza;
Riduci la sustanza ad una essenza;
Cussì ’ntra modi, ’ntra essenza e sustanza
Truvirai d’ogni scibili l’essenza.
12
«Non possiamo rinvenire dentro di noi la ragione di ciò che si
passa al di fuori e ne è totalmente libero e indipendente, quindi la
inutilità delle ipotesi dei sistemi e dei voli metafisici;» Onde lo
studio de la natura dipende da la fisica; la libertà de l’investigazione, dal non formarsi alcun sistema12. Il filosofo deve scoprire
tutte quelle «disposizioni, combinazioni, rapporti, tendenze,
evoluzioni, si interne che esterne, che potranno render conto di
sua essenza e sussistenza: giacché ogni effetto fisico non è che il
risultato delle diverse combinazioni della materia, e però la
essenza e sussistenza degli individui hanno loro ragione in dette
modificazioni,... e l’uomo stesso non potrassi riguardare per la
parte della fisica come solo e isolato, ma dovrà considerarsi
come una delle tante possibili modificazioni della materia, che
viene determinata a quella particolare essenza da una serie
infinita di cause che emanano dal nesso universale delle cose…»
Per ciò l’espressione di microcosmo data a l’uomo deve
estendersi anche «dalla scimmia al polipo d’acqua dolce, da
questo alla sensitiva, dalla sensitiva all’epitimo; imperciocché
ogni individuo sia del regno animale o vegetale, raggira entro sé
stesso un piano di conservazione che tende ancora a distingarne
tanti altri simili a sé.» La parte più sana dei criteri onde si parte il
Meli è l’emancipazione de le scienze dal giogo de la filosofia:
Nun ha chi fari la filosofia
Chi cu l’omini suli, e nenti affattu
Cu lu restu di tuttu l’universu.
Pensa a l’astri l’astronumu,
Lu fisicu contempla la natura
E attenni lu filosofu
A la perfezioni di se stissu13.
12
«Io stesso facendo eco al celebre Cancelliere Bacone, gridavo che più sistemi sono
gli asili del sofisma, sono i palazzi incantati nel nostro atlante, dove a ciascuno pare di
travedere quel che cerca e non trova mai... Il mio libro dunque ha avuto la sorte di tutti
quelli libri appoggiati sopra sistemi, che io pure, non già per politica, ma per convinzione ho condannato a morire;»
Lettera a D. Giacomo Sacchetti, segretario dell’Accademia letteraria di Siena — Sta
a f. 28, retro, del Cod ms. citato.
13Parafrasi del dialogo di Fontenelle.
13
Ai giorni nostri è perfettamente accaduto quel che qui
indovinava il Meli: ogni scienza si è sottratta a la speculazione
per acquistare fisonomia propria, e si può dire che i versi del
Meli siano la sintesi di quel che oggi scrive il Ribot ne la sua
stupenda introduzione la Psycologie Anglaise14. Se non che il
Meli riduceva la filosofia a la sola Ethologia15 ignorando che
anche questa è una scienza indipendente da la filosofia, avente
sue basi ne l’antropologia, ne la psicologia, ne la sociologia ecc.
mentre noi ancora non possiamo con sicurezza dire a che si
ridurrà ne l’avvenire, parendo, fin d’ora, che l’unica tavola a cui
potrà afferrarsi per sornuotare sul naufragio, onde si dibatte, è la
vera e genuina metafisica16 .
E quindi non è filosofia il vaneggiare «dietro le ombre, i
sogni, i deliri della nostra imaginazione» non è da filosofo
«l’ambizione di penetrare l’arcano santuario della metafisica, in
cui adorasi il mistero fra la caligine che lo circonda.» E
l’Ethologia non è quella che si comprende nei volumi di Platone
e di Aristotele o di chiunque altro17. Poiché scopo de la filosofia
è dominare le passioni, e le passioni sono e agiscono per gli
organi, crede il Meli che non si possa esser moralisti senza
essere anche fisici o naturalisti o sia senza avere alcuna
cognizione de la struttura degli organi umani. Onde è, che egli
« Si l’on demande ce que la philosophie a été à l’origine, il est aisé de le dire; elle
était la science universelle... Le travail lent et continue de la vie, une tendance
naturelle vers le progrès, fera sortir de la philosophie des sciences... Toutes les
sciences particuliers qui existent aujourd’hui sont sorties... de la philosophie». Ribot.
Introduzione al bel libro La Psvcologie Anglaise. Paris, Germer Baillière. 1875.
15 «Ma la mia filosofia, conoscendosi limitatissima per tutto ciò che riguarda la natura
delle cose, cerca di applicarsi almeno a dominare le proprie passioni »
Lettera al Sacchetti, già citata, trof. 28 del Cod. Locke Hume, Condillac hanno lo
stesso senso di sfiducia per le conoscenze umane.
16 «Plus tard elle ne contiendra que les spéculations générales de l’esprit human sur les
principes primiers et les raisons dernières de toutes choses. Elle sera la metaphysique;
rien de plus.» Ribot. Psycologie Anglaise già citata.
17 «... principi , resi misteriosi dalle venerate tenebre della filosofia» (Bozza di lettera,
non si sa a chi, sta a f. 12 del Cod. citato.)
14
14
invece di scrivere un libro di teorie astratte si parte da l’elemento
fisiologico per giungere al filosofico18.
Per sommi capi le idee del Meli son queste.
Seguace di Locke, che cita a proposito, respinge le idee
innate; essendo le idee la trasformazione de le imagini degli
obbietti, trasmesse dai sensi: ma con patente contraddizione, non
potendo comprendere una ragione organica in cui, quelle verità
che pare precedano il raziocinio, e sieno quindi innate e
indipendenti da ogni operazione intellettuale di prova
(convenienza), non sono che trasmesse in noi da l’eredità e da
1’educazione, e acquisite da lunga esperienza degli organi, il
Meli, a spiegarsi tale fenomeno intellettuale, e non cadere ne le
astrazioni, si lascia vincere da le apparenze, e ammette una
specie di istinto, un senso secreto, che senza il soccorso de la
ragione, giudica, discerne le verità cardinali, come questa: una
cosa stessa non può nel tempo stesso essere e non essere19.
«Il piacere e il dolore sono le primiere molle per mezzo delle
quali l’animale è costretto fra il pungolo e l’allettativo a calcar
quelle vie che portano alle mire della natura20... Piacere e dolore
sono gli interpreti della sensibilità... La sensibilità risiede nelle
fibrette midollari e nervose, che son credute i primi stami del
corpo animale 21 ... La sensibilità veglia in custodia della
18
«... Si conferma la necessità che si è detta sopra... di una medicina, che riguardi
l’armonia fisica per rapporto alla morale non solo, ma alla civile società, giacchè,
come si è osservato, gli affetti e le passioni sono in ragione alle sensazioni,
all’armonia della macchina ed alle modificazioni dell’animo.» Meccanismo della
natura, L. III, § VIII.
19 Questo istinto, o senso secreto venne al Meli da Rousseau, che lo tolse a Hutcheson
e a Reid, modificandolo verisimilmente, in un modo più stretto al sensualismo di
Locke, con la teoria del senso intimo di Hemsterhius. Pure se il Meli avesse meglio
letto i suoi autori francesi, e specialmente Condillac, avrebbe visto che, ciò che pare
innato non è che acquistato per lunga esperienza: così Condillac nell’Essai sur l’ Orig.
de la Conoiss. hum. Vedi Ritter Histoire de la philosophie moderne. Vol. III.
Paris-Librairie philosophique de Ladraque 1861.
20 In questo è d’accordo con Condillac e con tutti i sensualisti, e un cotal poco anche
coi fisiologi moderni. Vedi Condillac Des sensations.
21 Anche il Bonet, che è il fisiologista della scuola francese del secolo XVIII, ha la
stessa opinione sulla sensibilità.
15
macchina22... dalla diversa modificazione di essa secondo gli
organi diversi, ne risultano i sensi... i quali sono incaricati o di
avvertirla dei perigli o di suggerirle i bisogni... L’istinto è la
potenza che risulta dal meccanismo dell’animale, ossia è la
rivelazione dei bisogni della macchina 23 . Le tendenze
dell’istinto a ciò che soddisfa si chiamano appetiti, e il
soddisfare agli appetiti genera la voluttà... Onde l’istinto ha per
principio lo stimolo o il dolore e per oggetto la voluttà.»
Ma fin qui l’uomo nulla ha di superiore a l’animale, onde il
Meli, che pur vuole spiegarsi tale superiorità, ricorre al
sentimento, che è quel senso intimo, quel senso secreto che,
connaturale e universale, è la facoltà di giudicare de le verità
cardinali.
Questo sentimento è «l’essenza dell’uomo» «il risultato
della natura fisica e della natura morale, il punto in cui vanno a
unirsi le facoltà dell’una e dell’altra.»
Questo sentimento ne l’uomo è appercezione, ossia
coscienza di sè; è istinto morale o coscienza morale; è estetica.
Come istinto morale, esso è una «inclinazione naturale,
involontaria, indipendente d’ogni considerazione umana e sacra,
della religione, delle leggi penali e remuneratrici, dell’amore e
dell’onore, dei pregiudizi e delle mire dell’amore proprio...24»
22
Il Sergi, uno dei filosofi nostri contemporanei più forti, chiama la sensibilità:
Sentinella della vita. V. Elementi di psicologia. Messina 1879.
23 L’instinct est un pouvoir non appris d’accomplir des actions de toute sorte et
particulierement celles qui sont nécéssaires ou utiles à l’animal.» Così il Bain, e il
Lefèvre: «Si può definire l’istinto un’abitudine fissata dall eredità o dall’educazione,
esso non è che un sinonimo del bisogno. »
24 Queste parole sono di Hutcheson, il quale volendo scappare al rigore, per lui
desolante, di Hobbes, che pone l’interesse come base de la morale, scostandosi da
Locke creava questo sentimento innato.
Ma la scienza contemporanea à messo in sodo la base utilitaria de la morale umana
con l’analisi dei fatti e con la storia alle mani.
Il Meli rimane abbagliato da l’universalità, secondo lui, de l’istinto comune del bene e
del male, ma ciò che credeva innato, non era che il sentimento etico collettivo,
ereditato per lunga esperienza di secoli nei nostri organi, e che fu trovato
corrispondente agli interessi di uno stato sociale. (Spencer.)
16
Questo istinto è perciò giudice in ciò che è bene e in ciò che è
male, come l’istinto fisico lo è pel piacere e pel dolore. Teoria
tolta di peso a Rousseau, il quale ammise un sentimento innato
del giusto e de 1’ingiusto, istinto interiore che ci rischiara la via
del dovere25.
Ma non v’ha un bene e un male assoluto.
Quel che giova a tutti è un bene ed è giusto. Onde l’interesse
collettivo, sociale, altruistico è base de la morale, e su di esso
riposa anche l’edificio de lo stato. Così il Meli, senza volerlo,
viene a distruggere il disinteresse del Sentimento morale innato;
e per rigore di logica distrugge tutto l’edificio che innalza su di
esso con gran pompa di frasi. Quanto a le passioni, essendo esse
uno stato di violenza del sentimento, procedono da due tendenze
fisico-morali de l’individuo: gli affetti relazione di armonia
verso il tutto, l’amor di sè stesso relazione di armonia verso la
propria macchina, che corrispondono in Rousseau, a l’istinto di
conservazione, sorgente de l’amor proprio; istinto di pietà,
sorgente degli affetti sociali26.
Riepilogando: il Meli non avendo ammesso un’anima e una
ragione organica, e mantenendo il dualismo fra le due nature de
l’uomo che egli tenta di conciliare, distingue due istinti; il fisico
che si risolve ne le sensazioni del piacere e del dolore; il morale
che si risolve nel sentimento del giusto e de l’ingiusto, del bene e
del male, del vero e del falso. Ma il sentimento non è la
coscienza de la sensazione, sebbene qualche cosa di inorganico,
di spirituale, che sta indipendente da la materia, e che anzi nulla
ha di comune con la materia27.
25
Vedi Ritter Histoìre de la philosophie ecc. ecc.
In fondo parmi che il Meli divida il sentimento etico in egoismo e altruismo secondo
la denominazione di Spencer.
27 Anche Locke ammette qualche cosa di innato, ma non è altro che la disposizione
naturale de l’uomo a poter percepire la verità; ma questa disposizione si sviluppa per
l’esercizio, onde le idee cardinali, sono sempre acquistate. Questa disposizione dal
Locke è detta senso intimo, o riflessione: «La première faculté de l’esprit humain c’est
d’être propre a recevoir les impressions que font sur lui ou bien les objets extérieurs
par le moyen des sens, ou bien ses propres opérations quand’il y applique sa
rèflèxion». Essai sur l’entend. hum. V. Ritter, op. cit. Alcuni filosofi contemporanei
ammettono un senso morale ne l’uomo, ma dissentono quanto alla sua origine. Bain
26
17
E intanto, non potendo negare, lui medico, l’esercizio degli
organi ne le passioni, si occupa di esse non dal lato del
sentimento, ma dal punto di vista fisiologico.
Quanto a la filosofia de la natura le sue idee sono più vere e
più sane e si accostano a 1’antico materialismo. Vero si è che
comincia il suo lavoro col definire la natura secondo le viste dei
teologi; ma pare non abbia fiducia né in questa, né in ogni altra
definizione metafisica, e dice, essere la natura «un aggregato
armonico di forze attive inerenti alle parti costituenti l’universo,
appoggiato a cause puramente meccaniche.» La quale
definizione parmi che riduca la natura a un simbolo di gruppi
meccanici che ascendono sempre a forme più complesse. E
investiga la natura seguendo il metodo di quei filosofi che hanno
inteso prescindere da ogni causa soprannaturale e divina
«conciossiachè è questa veduta molto comoda in filosofia,
scorgendosi nel nesso universale delle cose, epilogata la sorte e
le vicende di tutti gli esseri.»
Ma il creato è materia, c materia contempla il filosofo, che
nulla vede fuori che la materia28 disconosce atomi o monadi che
son punti metafisici e che non possono dar materia, «come soli
zeri non danno numeri, né punti matematici estensioni solide.»
Agli atomi, e ai corpuscoli, ai punti di Zenone, a le monadi, egli
sostituisce le molecole; ossia a la teoria atomistica dei
metafisici, la teoria molecolare dei chimici.
E in tutto questo egli non si occupa de la creazione e del fine
de la creazione; e parla di Dio assai vagamente; al modo stesso
che parlando di bene o di male, di piacere, di vita non si occupa
crede che esso si acquisti durante la vita di ogni individuo; ma Darwin rigetta questa
opinione: egli invece appoggia il senso morale agli istinti sociali de l’uomo, onde esso
nasce con l’uomo, perché organico, si moltiplica per l’eredità e si sviluppa con
l’organismo individuale e sociale. De la stessa opinione in parte è Spencer. Vedi
L’Origine dell’uomo. III. Torino Unione Tipog. Edit. 1871.
28 ... «sfere, piani, monti, colline, animali d’ogni specie, innumerevoli eserciti
d’insetti, l’universo insomma non si riduce finalmente che a materia; meteore,
stagioni, vicende, rovine, desolazioni, fuochi, incendi, stragi, dissoluzioni,
riproduzioni ecc. non sono finalmente che moto, che forze fisiche inserite alla
materia». Meccanismo della Natura. II. § I.
18
per nulla di una vita futura e di un godimento o di un castigo
postumo. Anzi protesta di non voler ricercare che la terrestre
felicità, e da tutti i suoi scritti questo solo traluce. In una lettera a
Maddalena Mayer, parlando di Chateaubriand, confessa che egli
volle darsi, non a la contemplazione del bello divino, ma del
bello terrestre29.
Insomma il Meli, mentre proclama la morale, o meglio il
senso morale indipendente da la religione, e per conseguenza
rigetta l’intervento de la grazia divina ne la virtù; mentre non fa
de l’uomo una classe privilegiata al tutto diversa dagli animali
inferiori, ma per la parte fisica, lo trova uguale a qualunque altro
organismo animale, e arriva anche a compararlo ai vegetali30;
mentre riduce il mondo a un simbolo di gruppi meccanici, e
studia la materia che è quella che sola gli cade sotto ai sensi;
mentre confessa che le forze attive sono inerenti a la materia,
mentre insomma esclude la presenza di un intervento
soprannaturale; a simiglianza di Locke, e di Condillac e di tutti
gli altri filosofi sensisti non sa emanciparsi da quel dualismo fra
lo spirito e la materia e di quando in quando ti nomina l’anima e
la creazione, come una protesta.
Ben vero però egli relega la creazione al primo atto, a lo
stabilimento di quelle leggi per cui la natura da sola è divenuta
quella che è; e protesta di credere in Dio, come ai giorni nostri il
Darwin31, inconsapevole, forse, che con un sistema uguale, Dio
e la creazione diventano un assurdo, un controsenso.
Ma il Meli beveva l’aura dei tempi, il battesimo salutare di
quelle dottrine che scotevano la Francia e di cui mostravasi
29
«Altri però (come me), che ci troviamo più involti nel terrestre limo, né abbiamo
saputo leggere così chiaro nel cielo... siamo andati tentoni dietro al bello di questa
terra.» Vedi lett. a f. 36 del Cod.
30 «A guardarlo di fibra in fibra pei sughi che vi scorrono dentro è una macchina
hydraulico-pneumatica. Se questa veduta si estende più oltre, sino alle facoltà di
crescere e propagarsi, è una pianta». Meccan. della Nat. III. § ultimo.
31 Darwin non nega l’esistenza di Dio, anzi «proteste que son système n’est en aucun
façon contraire à l’idèe divine» Clémence Royer Préface à l’oeuvre de Ch. Darwin
L’Origine des Espèces.
19
studioso, non seppe interamente rinnovarlo. Egli aveva paura
dell’epiteto di ateo, materialista, naturalista, che allora
suonavano infamia e vergogna, e valevano a turbare quella sua
pace, quella sua tranquillità allietata dagli amplessi fecondi de la
Musa.
E a questa Musa noi chiederemo tutta l’anima del poeta, e
quella ingenuità, che vi rispecchia la sua bontà infinita;
chiederemo quel sentimento limpido de la natura che in lui
derivava dal senso scientifico de le cose che egli s’era formato, e
lo rende nuovo, grande, geniale.
20
III.
Il capolavoro del Meli è certamente la Bucolica in essa si
svela tutta la sua grande arte, tutto il suo genio. Egli è poeta
lirico, ma la sua lirica non deriva da una sentimentalità morbosa,
o da quell’intimo contrasto fra la natura scettica ed eternamente
serena e un cervello irrequieto, ansioso delle grandi battaglie de
la vita, o ribelle al fatale avvicendarsi de le forme migranti.
Genio completamente obiettivo, ritrova la sua più alta
manifestazione nel contemplare la natura e rassegnarsi a le leggi
serene ed eterne de l’essere: e perché l’entusiasmo ecciti in lui
tutte le corde del sentimento, ei convien che ci sia una qualche
cosa che lo commuova, che lo infiammi. Questa contemplazione
è intera ne la Buccolica, collezione di quadri saturi di vita, nei
quali gli aspetti verdeggianti o brumosi de la natura ti si rivelano
in una ubertosa copia di imagini smaglianti e pregne dei profumi
e del sole di Sicilia.
«Non lusingandosi in quell’età (aveva 27 anni) di incontrare
in Palermo una riputazione di medico si contentò esiliarsi in
Cinisi»32 per campare la numerosa famiglia di cui per la pazzia e
poi per la morte del padre era rimasto a capo; e ne la calma di
quella vita, lontano da quella società artefatta che egli ben
sovente morde con la sua originale vivacità33, sdegnato ancora!
del mal governo di certi signorini che anche in quel lontano e
insignificante feudo facean coi loro soprusi rivoltare lo stomaco
al poeta34, procurava di rifocillarsi lo spirito ne le magnifiche
campagne che si stendevano innanzi a lui.
32
Cinisi era in quel tempo feudo del Monastero di S. Martino delle Scale, la cui
comunità appunto aveva affidato la cura di quei coloni al Meli che vi stette dal 1767 al
1771.
33 Vedi la canzone: Palermu si ridussi ’na piccula Girnevia... ecc. l’altra: Porta nova;
l’altre ancora: Nun cchiù a Porta Filici, Nun cchiù ’ntra dda marina ecc. L’Invettiva,
ecc. ecc.
34
Vedi nel Cod. cit. la lettera del 7 agosto 1770 a f. 8 e seguente.
21
Muntagnoli interrutti da vaddati;
Rocchi di lippu e areddara vistuti;
Caduti d’acqui chiari e inargintati;
Vattali murmuranti e stagni muti;
Vausi e cunzarri scuri ed imbuscati;
Sterili junchi e jinestri ciuruti;
Trunchi da lunghi età malisbarrati;
Grutti e lammichi d’acqui già impitruti;
Passari sulitarii chi chianciti;
Ecu, chi ascuti tuttu e poi ripeti;
Ulmi abbrazzati strini da li viti;
Vapuri taciturni, umbri segreti;
Ritiri tranquillissimi, accugghiti
L’Amicu di la paci e la quieti.
Benché queste poesie pastorali abbiano apparenza di canti
disgiunti, pure vi ha in esse una unità organica, un centro al
quale convergono tutte, e che è il risultato di quel concetto che il
Meli ha de la natura.
Il centro è l’amore de le cose che scherza ne la varietà, ne
l’incostanza, nel disordine stesso degli aspetti de la materia; è
quell’ armonia dilettosa, che egli, il poeta, formavasi nel suo
cervello, nel sentirsi concorde ed uno con la natura.
Quest’armonia universale, che non è però prestabilita, ma risulta
da le cose stesse e vi è inerente, chiamata Amore ne le poesie,
non è l’Eros di Esiodo, né l’Amore dei platonici: si potrebbe in
qualche modo assimilare a la voluttà, a la Venus di Lucrezio:
l’ideale de le feconde attività de la natura, che governano le
vicende de la materia, e che, convertite da l’animo commosso in
gruppi estetici, scoppiano per tutte le vie del genio35.
35
«La denominazione di Amore o di Voluttà che noi abbiamo circoscritta ad una
tendenza morale degli esseri animati, era forse concepita in un senso estesissimo, che
esprimeva ed abbracciava tutto ciò che noi intendiamo per attrazione, affinità,
simpatia, genio, inclinazione, ecc.»
22
Alle lacrime de le cose, il poeta sostituisce l’amore de le
cose; ei vuol convertire la via dolorosa de la vita in un festino
olimpico, e invece di attraversare la rude palestra de la materia
ribelle, vi si adagia sorridendo e vi compone il suo paradiso
estetico36.
Coloro che non avendo sott’ occhio le lettere del Meli, non
cercarono nemmeno di investigare e ritrovar 1’uomo sotto il
poeta, si formarono di lui un tipo di cuor contento, uno
scialacquatore che si diverte, che ride, e lascia rovinare il mondo
intorno a sè stesso. E così se lo gabellan l’Emiliani-Giudici e il
De Sanctis, e la comune dei lettori null’altro sa vedere in Meli
che un ozioso cicalone che trastulla le brigate.
Ma questa tranquillità ove il poeta si adagia gli costa. «Non
vale al certo la pena ch’io vada riandando nella memoria le
miserie ed amarezze di mia vita, quelle che con tanto studio ho
cercato di coprire e palliare a me stesso ed agli altri con le
poetiche illusioni e col trasportarmi alle antiche età del mondo
per togliermi da questa almeno col pensiero e colla
imaginazione»37. Ecco quel che lo stesso Meli dolorosamente
Nota all’Egloga II. Li Munti Erei.
Che l’Amore del Meli sia la Venus di Lucrezio si rileva poi da questo tratto del Mec.
della Nat. II. § 4. «L’attrazione, la simpatia, il magnetismo, l’amore non sono che
modificazioni diverse di una legge generalissima della natura, la quale dalla diversa
disposizione delle parti ne produce quella direzione di forze attive che si conviene al
secondamento delle sue mire... Quindi un sublime ingegno, altrettanto filosofico
quanto poeta, ha esaltato sotto il simbolo di Venere la suddetta rilevantissima legge;
addossando a questa pretesa deità il sovrano impero sopra tutta la natura ecc. ecc.»
Si noti che Lucrezio in quel tempo per il suo materialismo epicureo era sfuggito, forse
senza esser nemmeno letto, e che appunto in quel secolo e in Sicilia il Campailla era
stato con fervore salutato dai teologi un Lucrezio cristiano e italiano.
36 Trezza. Epicuro e l’Epicureismo. Firenze, Barbera 1877.
37Lettera al Barone di Rehfuens a f. 96 del Cod. citato. Che i lettori e i critici avessero
dovuto gabellarlo per un beato Ermolao, Egli, il P. lo sospettava; infatti per una
edizione de le sue poesie, aveva preparato il seguente sonetto inedito (che leggesi a f.
19 del cod. ms. 4 Qq. D. O) a guisa di prefazione:
Chi legga queste mie gioconde rime
Fra se dirà: invero è fortunato
Costui, che gode un viver si beato,
Come si narra de le genti prime.
23
confessa: onde egli ci appare come un Titano che attraversa la
vita e si conquista tra gli stenti la felicità del rimaner sereno e
tranquillo.
Qui è la grandezza de la sua filosofia: la saggezza è riposta
nel non cedere ai dolori; ma ricomporsi un paradiso ne la
serenità de l’animo: e quando il savio ha questo raggiunto non
contemplerà la vita come una perpetua frode, e si rassegnerà a
tutte le vicende de l’essere. E l’arte sua sarà tanta più alta,
quanto più in lui si compenetrerà il sentimento de la natura
contemplata qual è.
Ma esaminiamo alcuna di queste Bucoliche. Ho detto che il
Meli sostituisce a le lacrime, l’amore de le cose: or questo
sentimento ne la Primavera ti domina su l’agilità de le forme e
de le imagini e su l’agilità dei ritmi; perché ne lo svegliarsi de
l’anno le forze feconde de la natura ti paion più potenti, più
attive, e tutto par che frema di voluttà.
Tu apri l’animo a le carezze de la gioia, quando ti trovi in
aperta campagna, allor che i mandorli sono in fiore, e per l’aria,
Quant’erra uman giudizio! ahi non esprime
Sempre il canto del cor vero lo stato,
Chè tra ceppi talor lo sventurato
Crea imagini liete e ’l duol comprime.
Verde ramo così da vento oppresso
Piega al suolo la cima e poi risale,
Per l’innato vigor ch’egli ha in sè stesso;
E fra ’l crudo ondeggiar che lo dibatte,
Mentre che or cede al turbo ed or l’assale,
Sembra che si trastulli, eppur combatte!
Variante V. 1. e 2.
Chi legge a caso mie gioconde rime
Dirà seco medesmo, oh fortunato...
v. 6 Sempre il canto del cuore il vero stato...
v. t 3 Mentre che al turbo or cede ed or l’assale...
24
tra i miti raggi del sole, nel susurro degli insetti che si agitano,
nei profumi senti la gioventù del tempo che è gioventù de la vita,
e senti i fremiti nuovi che serpono per le vene del giovane che sa
oramai sè stesso.
Già nni ’nvita, già nni chiama
Primavera ’ntra li ciuri:
Ogni frunda nni dici: ama;
L’aria stissa spira amuri.
Quali cori è rinitenti
A un piaciri accussì gratu,
Quannu tutti l’elementi
Nni respiranu lu ciatu?
«La dura montagna sente la potenza di amore e si appara di
verzura che dispenza ai pascoli. Un zefiro amoroso vola in una
nube di odori e grazioso e soave scherza e ride co i fiori.»
Scurri e va di. cosa in cosa
Certu focu dilicatu
Chi fa vegeta la rosa,
Chi fa fertili lu pratu.
Già la senti la jinizza
Già a lu tauru s’accumpagna
Di muggiti d’alligrizza
Già risona la muntagna...
Questo sentimento di amore che soggioga la natura va mano
mano incalzando in un movimento di imagini, finché la fiamma
del sentimento prorompe in quella veemente esclamazione:
«Ahi, tu sola, tu sola, o amata Clori, sarai sorda ed ostinata,
quando la natura parla: deh! dolce amore, mia vita, cotesta
bellezza che è miracolo, non sia inutile a te, né sia tormento a chi
ti ama.»
Così egli vela modestamente il desiderio intenso dei sensi,
senza strozzarlo ipocritamente con quei lagni evirati degli
academici onde era infestata l’arte italiana.
25
Ma vi ha di più — L’idillio Martinu è per il contenuto il più
alto e il più scientifico. La Natura toglie ad ammaestrare l’uomo,
giacché essa è il vero maestro, ed il conformarsi ai suoi dettami
può arrecare la vera felicità, mentre lo staccarsene genera
malvagità e corruzione e solitudine38.
Ma la più grande legge, anzi la prima legge de la natura è
l’amore: amare e farsi amare, godere e far godere 39 la qual
legge è scolpita in ogni cuore40; «essa ti stende e ti moltiplica gli
esseri da ogni parte e ti attacca al mondo41. Senza di essa tu
saresti estraneo e in una guerra perpetua.»
E la Natura qui novera a Martinu i grandi beneficii da lei
fatti a l’uomo:
«La menti e l’intellettu
Ti detti a rilevari
Chi chiddu è giustu e rettu
Chi a tutti pò giuvari.»
Ecco qui il principio morale del Meli che è fondato su
l’interesse collettivo, su l’amore universale, come egli lo
chiama. Al modo stesso che la Natura è un aggregato di forze
La natura maestra dell’uomo è idea dei sensisti, specialmente di Condillac (Des
sensations); ma Rousseau con la sua teoria del sentimento, portò nel campo morale a
de le conseguenze metafisiche questo principio che ha base fisiologica. E l’Émile in
fondo non arriva che a questa conclusione: l’uomo ne lo stato naturale, ubbidendo al
suo istinto morale sarà virtuoso; mentre raffazzonato artefatto da l’educazione
convenzionale, si corrompe, e ove conservi la virtù, fugge lo stato sociale, e si chiude
ne la sua solitudine per non essere insozzato dal fango.
39 «Aimer c’est remplir la vue de la nature, c’est satisfarne à un besoin.» Lettres de
med.lle Ninon de Lenclos. Brano citato dal Meli ne le note a le stanze inedite del suo
Poema italiano: La Ragione f. 140, (Cod. 4. Qq , C. 31). Questa legge il poeta consacra
anche in un’ode: La Natura inedita che trovasi a f. 144 del Cod. mss. Qq. C. 33.
40 Vedi le parole di Hutcheson, che il Meli riporta nel Meccanismo della Natura, e ne
le note al poema inedito: La Ragione.
41 «L’amore sessuale è la prima base de la società, costituendosi per esso la famiglia
che è il primo vincolo che rende l’uomo più legato a la terra. Tutta la umana società è
connessa tra sè medesima per l’amore e l’amicizia.» Lett. a pag. 12 del Cod. Qq. D. 4.
38
26
attive inerenti a le parti de l’universo, appoggiato a cause
puramente meccaniche, la società a la sua volta non è che un
aggregato di attività, ossia di individui; che stanno al tutto
sociale come le forze attive al gran tutto del mondo.
Or gli uomini si riuniscono in società per due motivi: per i
rispettivi interessi, o per i rispettivi umori, sistemi, maniera di
pensare e di vivere42. Ma la prima maniera di unione è pel Meli
precaria, attaccata ad esterne accidentalità, onde egli non crede,
come Hobbes, che l’interesse sia il vero fondamento de la
società, la quale ha invece per base l’amore, o sia l’istinto
sociale per cui 1’uomo è condotto indipendentemente da ogni
consenso de la ragione a ricercare il suo simile43.
Tale istinto sociale innato è una de le forme de l’istinto
morale innato; il quale perciò riconosce come onesto e giusto e
buono tutto che giova agli interessi generali; e allora si avrà una
società perfetta, quando ognuno concorrerà amorosamente con
tutte le sue forze a mantenere 1’equilibrio dei legami sociali.
Onde l’inazione o il deviamento di una de le attività, come ne
l’universo produrrebbe disordini, ne la società produce un
turbamento.
L’interesse quindi non è materiale, ma esclusivamente
morale, perché appoggiato agli affetti.
Su questa base egli fonda ancora l’edifizio de lo Stato:
questo è anche un meccanismo complicato. A partire dal re fino
a l’ultimo suddito, tutti devono concorrere a formare la felicità
de lo Stato, che è riposta ne la ricchezza e ne la pace; ma come le
42
Lettera a f. 12 del Cod. cit.
Ciò malgrado, il Meli si contradice poiché ammettendo che il principio de la
conservazione degli esseri è in una lotta perenne, deve per conseguenza ammettere
che la società non può esistere senza la lotta; e la lotta non può essere determinata che
da l’interesse, «Altro non ci presenta insomma la superficie del mondo che un gran
campo di battaglia, dove ogni specie è destinata a sussistere per la distruzione
d’un’altra. Chi crederebbe la conservazione della specie doversi a questa guerra che
ne minaccia la distruzione?... E però l’equilibrio e ci sia lecito chiamarlo il jus
economico della specie, è fondato su quello di una guerra scambievole...».
Meccanismo della Naturali § III.
43
27
guerre turbano la tranquillità necessaria al libero svolgimento de
le attività de lo Stato, così le ingiustizie sociali, le infingardagini
di alcune professioni, 1’accattonaggio tolgono ne l’interno
braccia infinite, e dissanguano lo Stato senza mai essere
produttivi44. Ei vorrebbe che si moltiplicassero gli uomini, non
essendo essi corrispondenti ai bisogni agricoli e industriali,
prima e vera fonte di ricchezza; che il lusso dei potenti non
assorbisse braccia utili al lavoro, e che fra potenti e umili si
stabilisse quell’armonia necessaria a uno stato perfetto.
Ma la Natura prosegue, ammaestrando Martino:
Li sensi a custodiri
La propria tua esistenza
E a fariti sentiri
La grata compiacenza..,
In questi versi il Meli adombra una di quelle grandi leggi
fisiologiche su cui la scienza ha innalzato il suo edificio, dico il
principio estofilattico, onde la sensibilità dai dotti viene definita:
sentinella della vita45.
E continua la Natura sfolgorando tutte le sue bellezze
innanzi a 1’uomo, e invitandolo a specchiarsi in lei, ove desideri
uno stato tranquillo e felice.
Noi avremo tempo di esaminare in seguito questo principio
morale; notiamo qui che le Bucoliche contengono un sentimento
alto e scientifico de le cose, ancor più alto che tutte le poesie
pastorali fin qui scritte, poiché il Meli in quella illusione serena
de la vita, in quella pacifica contemplazione in cui dimenticava
sé stesso, non pensava solamente di richiamare quell’età de l’oro
che egli avrebbe voluto nel mondo46, ma anche di adombrarvi i
44
Vedi Riflessioni economiche sullo Stato della Sicilia, a f. i e seg. del Cod. di 4 Qq.
D. 3.
45
Vedi più sopra a pag. 18.
«L’occupazione ordinaria e connaturale della mia attenzione è stata quella di
escogitare i mezzi più plausibili per ordinare e sistemare la società degli uomini in
maniera che il giusto non fosse soperchiato dall’ingiusto, che l’onesto trovasse da
vivere senza oppressione né avvilimento, che la virtù ottenesse la considerazione
46
28
veri de la scienza e de la morale.
E invano tu cercheresti negli ammaestramenti de la Natura
una legge che esca fuori e la trascenda: non troverai il
metastasiano
Dovunque il guardo io giro
Immenso Dio ti vedo...
Il poeta non pensa che nel creato debba per esser buon
cristiano ammirare un intervento divino. Ammira la natura in sè
stessa, nel molteplice suo spettacolo, né accenna in modo alcuno
che questa grande natura possa essere un atomo in faccia a Dio,
ovvero ludo e capriccio di una volontà superiore. Pagano per
sentimento, evoca la vita di quei tempi antichi e ne la illusione
del suo paganesimo si purifica e si rinnovella; non si preoccupa
del funesto oltretomba non disperde il sentimento ne le demenze
orride di una seconda vita misteriosa e terribile47.
Rassegnato a le vicende immutabili de l’essere, egli, lungi
dal rivelarne la fraude dolorosa che vi par concorporata, te ne
sorprende le parti più alte da quel tempio sereno ove si è levato,
e ne ritrae lo spettacolo in quelle forme estetiche che ti empiono
di maraviglia. E per questo si comprende in lui quella mirabile
potenza descrittiva e quella efficace naturalezza, per cui agli
occhi tuoi si svolgono quadri viventi che non ti stancano mai di
piacere.
Quanta e quale sia questa potenza pittorica appare da quei
quadri ove ti presenta la natura:
Via sedi a l’umbra mentri chi d’intornu
dovutale e che le leggi non servissero per un traffico vile e rovinoso allo Stato ed ai
singoli con impiegare un ceto numerosissimo di manimorte, di ciarlatani, o di
malviventi; né per esimere dal loro giogo quelli, cui è affidata l’amministrazione delle
medesime.» Lettera al Barone Refhues, a f. 95 del Carteggio.
47 La censura non vedea di buon occhio l’ardimento del Meli: quando egli scrisse il
libro Riflessioni sul Meccanismo della Natura, parve a quei degni inquisitori, che
malgrado le proteste di fede cristiana, l’autore sapesse di ateismo, e non vollero
permetterne la stampa; ma l’arcivescovo di Palermo mons. Sanseverino, lo fece
stampare a Napoli per i tipi di De Dominicis nel 1777.
29
Regna lu suli e tuttu brucia ed ardi.
Vidi comu li pccuri ritornu
Fannu a li macchi, e li viteddi e vacchi
Mettinu a l’umbra l’unu e l’autru cornu.
L’oceddi ’ntra li gai posanu stracchi;
Sulu si esponnu a li cucenti arduri
Li friddi serpi cu li spogghi a scacchi.
Eccovi dunque in una vasta campagna silenziosa e infocata,
in un meriggio d’està: gli armenti riposano sotto le ombre, gli
uccelli si nascondono fra le siepi, tutti cercano un pò di frescura,
mentre le verdi lucertole si distendono fredde e immobili e
attendono gli insetti. Tutto è calma, perché è l’ora del riposo
meridiano. Ma la scena cambia; le spiche sono bionde; da la
pastorizia si passa all’agricoltura:
Già sutta di la fauci
Cadinu li lavuri
Li gregni a li chianuri
Eccu di ccà e di ddà
La cicaledda rauca
Tra l’arvuli e li spichi
Cu lu so zichi-zichi
Nni annunzia l’està...
Chiudiamo gli occhi e l’illusione sarà completa: innanzi a
noi si distendono le campagne di Cinisi che corrono via via sino
al mare; spaziose pianure disseminate di glauchi ulivi e di cupi
carrubbi, che tagliano co la loro ombra di trasparente cobalto, il
biondo de le spiche. Qua e là i campi sono schiomati, ma l’irte
ristoppie ancora biondeggiano; sugli alberi, fra le verdi cortine,
la cicala rauca stride senza stancarsi: tu vedi la truppa dei
mietitori, sotto la cui falce cadono i manipoli del frumento; ti par
di vedere i bagliori pacifici delle falci, di sentire il riso argentino
delle donne, che si adornano il capo di spiche, e folleggiando
allietano il faticoso lavoro degli uomini. E pensiamo ai riposi e
30
ai mille episodii che s’intrecciano e si compiono a l’ombra dei
gelsi: e le nostre idee si associano, si richiamano, si succedono,
per il magistero di otto versi che ne la loro ricca concisione ti
suscitano un mondo vivo e reale.
Ma la tavolozza del Meli svolge agli occhi del lettore una
serie di quadri che si compiono l’un l’altro: 1’està non è finita;
dopo mietuto, il frumento si trebbia:
Curri lu voi ’ntra l’arii
Da chista parti a chidda
E lu frumentu sgridda
Sutta lu pedi sò
Li juculani ’mmattiti
Sprannuzzanu la pagghia
Chi lu tridenti scagghia
Quantu cchiù in autu pò.
Ma il caldo incalza; le fonti disseccano.
Lu ciumi è tantu poviru
Chi sempri trova intoppi
E cu pitruddi e sgroppi
Si metti a tu pri tu...
Non si sarebbe potuto dir meglio: quella povertà di acqua,
nel suo umile corso da le ghiaiuzze, dagli sterpi, da le
irregolarità del suo letto obbligata a rompere il suo tranquillo
viaggio, a deviare, a contrastare il passo, è evidente: tutto il
magistero de la pittura è ne l’ultimo verso, in quella metafora
viva del dialetto che ti raffigura come due avversarii il
torrentello e il suo alveo. E tuo malgrado nel cervello ti si
associa l’imagine del fiume rigoglioso che copre anche i sassi
più alti, che tenta le sponde e va rapidamente minacciando i
coloni. E allora ti rammenti della superba ode del Testi:
Ruscelletto orgoglioso...
in cui il contrasto tra i due aspetti del torrente si distende per
31
una lunga strofe, per una lunga serie di imagini48, quando nel
Meli sono appena tre imagini chiuse nel breve giro di una
quartina settenaria.
Ma giunge l’essiccator agosto:
Li venti cchiù nun ciatanu
Nè cchiù lu voscu scrusci,
Ma movi l’ali musci
Un zefiru chi c’è.
S’infocanu li vausi
Sutta l’ardenti lampa
Chi scarmuscisci e allampa
L’irvuzza virdi, ohimè!
Qui siamo proprio nel solleone: non alita un fresco: tutto è
fuoco: il bosco non offre più riparo; la vampa solare brucia
l’erbe: un zefiro afoso muove le flosce ali; e allora che cosa
propone il poeta? propone un bagno, in una conca di acqua che è
dolcemente ombreggiata da alberi, e dove le anitre e le oche
trescano e schiamazzano.
E appunto per questo invito a la sua amica, egli ha svolto in
tutta la sua infocata evidenza il quadro dell’està, affinché la
potenza del calore renda più soave e più fresca la voluttà del
bagno.
48
Ruscelletto orgoglioso
Che ignobil figlio di non chiara fonte
Un natal tenebroso
Avesti infra gli orror d’ispido monte
E già con lenti passi;
Povero d’acqua isti lambendo i sassi;
Non strepitar cotanto
Non gir sì torvo a flaggellar le sponde
Che benchè maggio alquanto
Di liquefatto gel t’accresca Tonde
Sopravverrà ben tosto
Essicator di tue gonfiezze Agosto.
Ode a Raimondo Montecucco
32
Ma non è certo inferiore a questa la dipintura dell’autunno: il
Meli ha una tavolozza così ricca, e ha tanta giustezza d’occhio
che percepisce nettamente le varietà di linee e di colore. Facoltà
questa del Genio, che sa non essere monocorde, e a cui
difficilmente pervengono gli ingegni che son dominati da quella
particolar maniera che i pittori chiamano cifra. Ma senza la
continua osservazione tale facoltà non si educa né si nudrisce: e
se nel nostro poeta tu trovi tanta copia di colori veri, gli è che
egli studiava attentamente la Natura 49 , e a essa attingea
largamente, mirando in specie di non staccarsene né per
correggerla, come pretendono alcuni critici, né per renderla più
vaga di quella che è realmente.
L’iridi pinta di culuri varii
S’incurva e un ponti fa ’ntra mari e nuvuli;
Fannu vuci li groi straurdinarii.
Comu si ’ncelu s’addumassi pruvuli,
Supra lu polu surruschi si vidinu,
E cc’è un frischettu poi suvuli suvuli
L’anatri e l’ochi pri alligrizza stridinu;
Ca l’acqua unn’iddi triscanu e si sguazzanu
Già supra di la testa si la cridinu.
’Mmenzu a li crapi li corvi svulazzanu
Ittannu vuci squacquarati e orribili
E li giurani a funnu s’arrimazzanu.
La vacca isa li naschi e l’invisibili
Aria nova si suca: e fora solitu
49
Giustamente opinava il Meli che non si può essere buon poeta senza essere uomo di
scienza; e ne la prefazione a l’ediz. del 1814 scrive: «Ci basti dire che… l’uomo dotto
non è sempre poeta, ma il poeta deve essere necessariamente uomo dotto... che vale
l’istesso... un uomo scientifico.»
33
Canta cchiù voti lu gaddu sensibili...50
Questo è stupendo. Non si può dare quadro più evidente, più
finito: i due penultimi versi:
La vacca isa li naschi e l’invisibili
Aria nova si suca...
sono di una fattura maravigliosa e incidono la imagine con
una potenza più tosto unica che rara. Già tu sei in autunno; il
tempo si fa maturo: tutto si veste di malinconia, ma l’uomo sa
procurarsi anche in questa stagione la giocondità de la vita.
Quella natura che si rinfresca dopo tanta arsura, e apre il suo
grembo a la benefica pioggia, e impregna di umori le uve,
riempie 1’animo di una molle voluttà.
Cadinu li primi acqui,
Li venti fannu guerra,
L’oduri di la terra
Gratu si senti già.
’Nvirdicanu l’olivi
Matura è la racina;
Filli, biddizza fina,
Eccu l’autunnu è ccà.
Senti li strepiti,
Curuzzu, senti;
Già si priparanu
Tini e palmenti
Cui stipi accomuda
Cui vutti fa..
E qui ti si presentano i vendemmiatori, che si inseguono e si
nascondono fra le vigne neri di mosto ed ebbri:
50
Confronta questa pittura con quella slombata del sonetto di Menzini: «Sento in quel
fondo gracidar la rana.»
34
Jocanu, ballanu,
Spreminu mustu
Tutti si nni untanu
Sinu a lu bustu
Arruzzulannusi
Di ccà e di ddà...
Cu scattagnetti e ciotuli
Ballannu pri la via,
Lu Diu di l’alligria
Ognunu onurirà.
Nui cunsacramu a Baccu
Lu duci sò licuri,
Ma di lu Diu d’amuri
Lu cori poi sarà.
Deh ! vui tissitinni
La tila ordita,
Baccu e Cupidini,
Di nostra vita
’Mmenzu l’amabili
Tranquillità.
Qui il sentimento scorre per tutte quelle forme agili, per tutti
quei ritmi ebbri di una tal quale festività, che par il riflesso delle
antiche dionisiache campestri, ne le quali gli spiriti sitibondi si
commovevano nel sacro tumulto de l’estasi, e scoppiavano
vivamente per tutte le vie del sentimento51.
In questo canto de l’autunno l’ebbrezza del vino è
meravigliosamente trasfusa ne la varietà ritmica che si succede
con una vivacità snella; e ti pare di vedere quei balli bacchici che
si compiono intorno ai colmi tini, dai quali il mosto manda i suoi
flammei splendori e il suo forte sito.
51
Trezza, Nuovi Studii Critici. Verona, Drucker 1881.
35
IV.
Ma le Bucoliche non contengono solo questo sentimento de
la natura in generale; vi ha in esse, come ne la maggior parte de
le altre poesie un sentimento etico che domina, e intorno a cui si
aggirano tutte le parti di ogni singolo componimento.
Quando l’amore non predomina, è il senso morale il centro
de la poesia.
Così l’idillio Martinu di cui abbiam visto il contenuto
scientifico: in esso sono svolte le idee del Meli su la educazione;
idee, che partendosi da quell’innato sentimento del bene e del
male, vorrebbero a la sola natura affidato il compito de
l’educazione. È come si è detto il criterio donde si parte il
Rousseau:
L’omu chi ncsci fora di la ’mmesta
Cu scotiri li guidi e la tutela
Di la saggia natura,
Perdi la tramuntana e si smarrisci
E quantu cchiù s’è d’idda alluntanatu
Tantu cchiù spersu si ritrova...
L’illudirà pr’un tempu la citati;
Li pompi, li spettaculi, lu lussu,
Li commodi e li gran magnificenzi;
Ma poi multiplicati
Senti l’interni passioni, e chisti
Crisciri cu lu crisciri di l’anni
Di lu so cori già fatti tiranni.
Questo fondo etico divide il Meli da tutti gli altri bucolici a
partire da Mosco e Bione sino al Gessner.
E a torto il Meli è stato chiamato Teocrito siculo52, mentre
52
Il Meli scrissi gli idilli delle quattro stagioni in Cinisi; ma da quanto si rileva dai
manoscritti e dai cod. sud. egli non avea dapprima scritte le Bucoliche così come si
trovano. Pare invece che avesse solamente scritto le cantate. Venuto in Palermo, e
36
nel poeta greco-siculo è il solo sentimento limpido de la natura
che prorompe per tutte le imagini con quella schiettezza
spontanea, e quella grande naturalezza; nel nostro a questo
sentimento è sposato anche il sentimento etico. Ben vero
qualche volta la naturalezza vi scapita, non comportando in
bocca di rozzi pastori il sentir de le verità morali che son
prodotto di studio intenso e di profonda esperienza.
Pure se si pensa che il Meli scriveva le sue Bucoliche nel
tempo stesso che indefessamente studiava libri di filosofia e di
scienze, si comprende come la sua mente dovesse esser nudrita
di pensamenti maturi e gravi, cui non sapeva sottrarsi, anche al
momento di maggior entusiasmo poetico.
E se il Meli cede a Teocrito sovente per la naturalezza del
linguaggio, lo vince però sempre per la evidenza de le
descrizioni, per l’altezza del contenuto, per lo svolgimento
psicologico di alcune scene.
Il Meli sentiva il mondo pagano, ma come poteva sentirlo un
genio del secolo XVIII, commosso da le rivoluzioni intellettuali
che rinnovavano gli intelletti.
L’Idillio IX «Li Piscaturi» fu ispirato certo da la lettura del
XXI di Teocrito, che il Meli conobbe per le barbare traduzioni;
ma, fuori di pochi riscontri, il contenuto è diverso.
’Ntra un gruttuneddu in menzu à na sugghiera
Chi a l’inquietu mari facia frunti,
Dui piscaturi lu so jazziteddu
aggiuntivi alcune egloghe, fece leggere tutto al Pasqualino, il quale gli disse come
fossero in quel genere famosi gli idilli di Teocrito; e poiché il Meli ingenuamente
confessava di non averlo mai letto, il Pasqualino gliene regalò una cattiva traduzione.
Allora il Meli scrisse: Li piscaturi, Mirtillu, Teocritu, i quali se bene sentano
l’influenza del greco poeta, pur sono cosa affatto diversa e per la forma e per il
contenuto.
Vedi Biografia di G. Meli per Agostino Gallo, sta nell’Edizione de le Poesie Scelte di
G. Meli, tradotte in Italiano, Greco e Latino. Palermo 1857.
37
Si avevanu cunzatu d’arca asciutta…53
Son bene questi versi la parafrasi del testo greco54:
Ιχθύος αργευτῆρες ὁμῶς δύο κεῖντο γέροντες
στρωσάμενοι βρύον ἆυον ὐπό πλεκταῖς καλύβαισι.
che in latino suonano:
«Piscium venatores una duo cubabant senes, cum
stravissent aridarn algam sub textili tugurio...»
Come ancora il tratto:
… la fami fa l’omu industriusu
E a l’utili scuverti apri li vii55,
che è la traduzione de la protasi de l’idillio greco citato:
῾A πενία Διόφαντε, μόνα τάς τάς τέχνας ἐγείρει, αὐτά τὦ
μόθοιο διδάσκαλος...56
«Paupertas, Diophante, sola arles excitat; ipsa laboris
magistra.»
Fuori di questi riscontri nulla han più di comune l’idillio
greco e il siciliano.
In Teocrito, con grande naturalezza i pescatori sognano una
gran pesca, e tutto il dialogo si aggira su la loro povertà e su la
loro industria: in Meli questo contenuto doventa un altro; si
partono da lo stesso punto, ma per un tratto svolgono la verità
che si racchiude nei primi due versi della protasi greca, e parlan
53
Versi 1-4.
54
V. 6-7; XXI. ’AAIIEIƩ.
55
V. 68-69.
56
V. 1-2.
38
de la provvidenza de la natura che equilibra i bisogni secondo la
condizione di ognuno: indi l’amore ha il sopravvento; l’amore
che appare ne la figlia di un ricco barcaiuolo, la quale passa
cantando; e in questi ragionari suscita ai due pescatori una serie
di riflessioni su le infermità di amore: finché sorge l’alba e li
chiama al consueto lavoro.
Oh certo il Meli volea confortare con queste riflessioni la sua
povertà57; da la quale rifuggiva, nascondendosi fra le braccia de
la sua Musa.
La quale povertà stendeva le sue mani adunche sul cuore del
poeta, e lo lacerava continuamente, mentre la discordia versava
su le piaghe tutto il veleno dei dissapori domestici. Dovevano
essere per lui ben tristi quelle settimane dolorose, in cui
interrogando sè stesso non ravvisava nessuna colpa, né sentiva
di meritarsi dei castighi: e allora in quella stessa natura che
interrogava per consolarsi, cercava le cagioni, le origini del suo
affanno.
Ed in uno di questi momenti, in cui l’animo suo perdea quasi
la sua serenità, dovette scrivere il canto di Polemuni.
Esso è bene il grido di un cuore affranto dal dolore: invano
però vi cercheresti la ribellione tragica del Titano, la sfida
magnanima e impetuosa a una potenza sovrannaturale.
Polemuni interroga il destino; ei vuol sapere perché debba essere
infelice e non abbia a godere de la vita; perché la felicità debba
sfuggire a lui, che nulla ha commesso.
Egli rappresenta il dolore che è ne la vita, che nessuna
onnipotenza può togliere, giacché da la vita esso si genera. Ma
l’animo sereno del filosofo sa distaccarsene, dominandolo e
convertendolo in forze feconde; non maledice a quella fatalità
che porta in sè stesso, e ne la contemplazione de la natura tutto
dimentica58. Questo stato noi l’abbiamo ne le altre bucoliche, ne
Ma questa povertà non avviliva l’animo nobile del Poeta; egli in una bozza di
supplica o di lettera, lasciò scritte queste parole: «Fa più orrore il prepotente
dispotismo e la rapace insolenza dei subalterni, che la povertà medesima.» V. a f. 57
del cod. citato. Così il Meli sopportava con dignità la sua onesta miseria.
58 Trezza, Epicuro e l’Epicureismo. Firenze, Barbera, 1877.
57
39
le quali la vita non è dimezzata: il poeta filosofo si sente
concorde con la natura e si rinnovella in una purificazione
voluttuosa de lo spirito.
Ma nel canto di Polemuni la vita è scissa; lo scoramento
appare terribile al cervello de l’uomo; egli soffre e scruta se le
sue sofferenze gli vengano da l’alto, e pensando che non può al
fato ribellarsi, prorompe in una bestemmia pacata, ma
amarissima.
Con tutto questo, non bisogna vedere in essa una
contraddizione patente a quel mondo etico che si era formato il
Meli: Polemuni non ha la maledizione impetuosa di Byron , né il
pessimismo desolante di Leopardi; giacché sotto
l’interrogazione dolorosamente ardita, havvi una certa
rassegnazione tragica: onde parmi che il Meli abbia piuttosto
inteso combattere l’intervento di un fato, di una volontà divina
in quelle circostanze che dispongono de la nostra vita.
«Se tu prevedesti quel che di me doveva essere e non ni
facesti uno scoglio, sei tu la stessa tirannia. Se tu sei potestà di
alto intelletto, perché mi hai scelto per tuo nemico, me vil uomo
da nulla? Qual gloria ti giunge, o nume inumano, dei miei
tormenti se la forza è in tuo potere?... Tu sei una tigre che ti pasci
di lamenti; i miei dolori, le mie torture servono a darti svago. E
se vidi io ombra di bene, ei fu solo per un eccesso di tua tirannia,
affinché le mie pene si rendano ancor più sensibili…»
E a canto a queste amarissime invettive, ecco la nota de la
rassegnazione:
Su a lu munnu, e ’un sacciu comu,
Derelittu e in abbannunu,
Nè di mia si sa lu nomu,
Nè pri mia cci pensa alcunu.
Chi m’importa si lu munnu
Sia ben granni e spaziusu
Si li stati mei nun sunnu
Chi stu vausu ruinusu?
Vausu, tu si la mia stanza,
40
Tu, cimedda, mi alimenti;
Nun aju autra spiranza,
Siti vui li mei parenti…59
59
Racconta il Gallo, ne la sua Biografia di Giovanni Meli, che il soggetto di
quest’idillio fu tolto dal poeta da un suo amico gentiluomo, il quale perduti i beni per
un rovescio, ricavava gli alimenti da la pesca.
Questa notizia conferma l’opinione che il Meli abbia voluto combattere il creduto
intervento della volontà di Dio ne le disgrazie nostre; adombrando Dio sotto il pagano
simbolo del Fato (col quale in questo caso è tutt’uno) per non incorrere ne la censura.
41
V.
Le Odi e le Canzoni completano le Bucoliche. In queste tutto
è obbiettivo; il poeta traspare qua e là in quei tesori di filosofia
pratica che si scoprono di sotto ai quadri saturi di natura viva e
reale. Il sentimento lirico è qui compenetrato con l’osservazione
dei fatti: le Bucoliche potrebbero ben dirsi drami lirici, poiché
l’azione vi si svolge libera e con una tal quale andatura teatrale,
per via dei personaggi; e in essa è completamente trasfusa la vis
dramatica, così da presentarti scene di una evidenza e di una
verità che maravigliano.
Valga ad esempio l’Egloga III. Piscatoria, a cui per
movimento comico, per naturalezza io non saprei trovar altro
riscontro che ne le Siracusane, di Teocrito.
Le Odi e le Canzoni invece ci rivelano tutto intero l’intimo
del poeta. In esse non vi ha che un solo personaggio, il poeta: un
sentimento, quel suo amore calmo e sereno. E una confessione
viva, brillante, delicata de lo stato psicologico di un innamorato.
Tutte le fasi, tutti gli aspetti tutto il linguaggio de l’amore
scintilla in una sonorità agile e voluttuosa di metri.
Le ebrezze deliranti, le aspirazioni secrete dei sensi, la
mollezza de l’abbandono, la festività fescennina, tutto serpeggia
per quei ritmi, ove le imagini si adagiano con una misura che ti
rivela il gusto squisito del vero artista. Se ne le Bucoliche il Meli
è pittore massimo de la natura esteriore, nelle liriche è 1’analista
de la natura interiore.
Al ritorno da Cinisi, la fama di lui si era sparsa: egli si trovò a
un tratto tirato ne la più eletta società, in mezzo a quella
galanteria che spesso mordeva; e sebbene ei non riconoscesse
nulla di buono nei nobilii 60 pure in mezzo a quelle donne
affascinanti per bellezza di carne e di abbigliamenti, provocato
da lo scintillare di quei occhi petulanti che lo stuzzicavano,
commosso a lo spettacolo di tutta quella carne che sussultava
60
«Aggiungete che, non avendo trovato nei nobili altra qualità rilevante; se non quella
che loro ha prestato il caso, li ho rispettato per convenienza; ma mi son tenuto lontano
da essi quanto ho potuto.» Lettera al Refhuens, già citata.
42
attraverso i veli, egli rimase inebriato; e a l’amore campestre che
sorvolava serenamente nei canti buccolici, successe la garrulità
di Anacreonte che scoppiettava come un legno verde al fuoco,
entro le imagini de la sua fantasia.
Non vi fu bella donna del tempo che non ottenesse un tributo
dal poeta, che faceasi perdonare la bruttezza del viso con la
grande leggiadria de le sue odicine.
Noi non dobbiamo sollevare il velo che ricopre gli amori del
poeta: la campestre Clori e la cittadina Nice ci son li palpitanti di
vita in grazia de l’arte: elle son donne di carne, che non ti
sfuggono, come una nube rosea che si dirada al sopravvenire del
sole: ma che tormentano i sensi del poeta con tutte le feline
astuzie de le donne61.
61
Tra le sue carte, a f. 88 del Cod. 4 Qq. D 5, trovasi la bozza di una lettera amorosa,
non sappiamo a chi diretta. La riproduco, perché da essa appare quale sia il concetto
che il poeta si formava dell’amore, concetto libero e direi quasi, affatto naturalista:
«Signora, bisogna disingannarci una volta a non parlare con si poco rispetto d’una
passione che è sempre stata la più interessante in tutto il mondo; e valga il vero, ditemi
per vostra fè, perché mai la vecchiezza ci rassembra un peso inutile e quasi in odio alla
natura? La bruttezza, le rughe, la tardità, le nevi non sono le prime a disgustare chi le
mira poiché le istesse in un giovane perdono 1’orrore e la tristezza, anzi soperchiate da
quella giovanile ardenza, da quel sottilissimo e da quel non so che di fresco e nuovo
che son l’esca, i dardi e le reti di amore, son capaci di innamorare. Ma i vecchi appena
abbandonati da quel sovrano spirito (qual tragica mutazione!) precipitano in una triste
ipocondria, gravi a se stessi ed al mondo tutto. E voi, voi stessa, abbenchè giovane,
vaga e bella, se non aveste negli occhi e nell’aspetto quel che ingiustamente temete
ricevere nel cuore sareste mel senza dolce, praticel senza verde, fior senza odore. Non
è più tempo di dar fede ai pregiudizi dell’infanzia ed alle fole de’ poeti che ci
dipingono Amore fiero, indomito, lascivo, crudele al par di un’arpia o d’una meggera.
Crediamo piuttosto alle veridiche voci della natura. Ella non è un nome vano e senza
effetto; è un principio, un nume, una pura causa, una parte di Dio medesimo, che
occultata nel più recondito recesso del cuore umano, ispira, agita, e si palesa alla
ragione sotto la maschera di un istinto o sia di un sentimento vivo ed animato, che,
malgrado le forti tempeste delle ribelle passioni fa troppo, distintamente all’anima
sentire le sue voci.
Ed infatti chi ci ha preservato da tanti pericoli e ci ha ispirato la conservazione di noi
medesimi? Chi ci avverte della nobiltà della nostra anima e ci sprona a tutta possa a
procurarci quella felicità perfetta che conduce al nostro più utile vantaggio?
Se non quest’oracolo questo nume tutelare del cuore umano.
Or questo stesso principio che ci fa amar noi in noi, comanda d’amar noi in altri. Per
sovrumana metamorfosi di amore chi ama vive nell’oggetto amato e questo in lui.
43
E 1’amore scoppia per tutte le vie del sentimento; non si
ammorba in una sentimentalità nebulosa, od in una idealità che ti
lascia solo in pugno de le mosche, né si imbrodola in un
priapismo poetico che ti corrompe la serenità de 1’ode.
Qui è 1’eccellenza de l’arte del Meli; nel contemperare
l’aspirazione intensa de la carne con la delicatezza del suo
sentimento e con 1’eleganza di quella società che lo circondava;
onde ne scaturiva una poesia sana ed elegantissima.
Egli si è formato un culto de l’Amore; egli nel silenzio del
suo gran cuore d’artista gli ha innalzato un tempio immenso;
crede di aver il diritto di essere amato, perché ama, perché la
natura gli accorda questo diritto, a cui non intende rinunziare per
nessun ostacolo.
Ama la donna perché è donna, perché è bella, perché tutto in
lei respira le tepide fragranze de 1’amore, perché gli occhi, la
bocca, il petto, l’alito stesso, tutto insomma suscita nel suo cuore
questo sentimento così grande, così divino, così misterioso,
tanto universale,eppure mal compreso.
Egli non si cura per nulla di sapere se le sue donne siano
virtuose o no, se sappiano essere madri di famiglia, se siano
pudiche verginelle che sorridono alle parole audaci di un
innamorato, o ipocrite zitellone che guardan sottocchi quel di
che si mostrano scandolezzate; se siano nubili o maritate; di
nulla si cura; basta a lui che sian donne, e per ciò imagini di
Adunque dovendo amar voi in voi dovete amar voi in me per dritto di natura, di
gratitudine, di convenienza.
Mi direte, che in questo istante non esperimentate in voi le voci del sentimento così
vive che vi spingono ad amare? Sia così; ma di grazia cancellate quella stima per il
cagnolino, discacciate il passerino, lasciate di apprezzare quelle gioie, quegli arredi,
quelle galanterie, insomma rivocate quell’affetto disperso in mille oggetti e riunite le
divise forze di una potenza così nobile, impiegata stoltamente in oggetti ignobili e
materiali. Ed allora sentirete destar la natura ed esortarvi ad impiegare il ricco capitale
dei vostri affetti in un cuore come il mio, sul quale chi ve ne impiega una parte, nel
momento appresso ne avrà rese mille per quell’una.»
44
amore, letizia, felicità, vita de l’uomo62.
L’inganno del De Sanctis fu ne l’aver guardato i titoli delle
odi, titoli sciupati dal gregge d’Arcadia; ma egli non vide come
il Meli in quei medesimi soggetti, fonte di deliri poetici, sapea
levarsi tanto alto, sapea ringiovanirli con la sua squisitezza di
sentimento, con quella successione di imagini, che ti fan nuovo
tutto il meccanismo de l’ode, e innanzi a cui tu ti senti piccino e
rimani sorpreso e affascinato.
Vi ha in questo poeta tutta la spontaneità graziosa de la
poesia popolare, che ei studiava attentamente, tutta quella
felicità di linguaggio evidente, contemperata da la matura
riflessione de l’artista; da un gusto finissimo e veramente greco
e da una mollezza voluttuosa che sa de l’oriente.
E tal poesia che schiude i profumi de la zagara e dei
gelsomini fra i severi e maestosi intercolonni dei templi
greco-siculi; armonica fusione di una forma popolare e di una
successione di imagini scelte con discernimento fine,
amalgamate in seno a la ebbrezza del sentimento eccitato.
Quasi campioni de l’augusta valle
Le s’innalzano intorno alpestri monti
62
«Invitato a villeggiare dai PP. Benedettini nel loro solitario monistero di S. Martino,
e da essi trattato lautamente, dopo pochi giorni disse che voleva ritornare a Palermo. E
perché? interrogollo il p. Abate: avete a dolervi di noi? No: rispose, anzi vi son
tenutissimo; ma qui mi annoio, mancando al vostro magnifico monastero la più bella
metà del genere umano, senza di cui non so vivere!»
Gallo, Biografia.
In quel soggiorno il Meli scrisse questo bel sonetto italiano:
Fra il silenzio e l’orror sacro e romito
Di cupa valle, umilemente altero,
Sorge al Nume diletto un Monistero
Che fa a l’anime pie soave invito.
Posa in un colle fresco e colorito
Dal noce opaco e dal cipresso nero;
’U spesso l’usignuol suo caso fiero
Narra soavemente impietosito.
45
D’orrida maestà cinti le spalle.
Quivi, dietro a la Fè con desir pronti
Van rintracciando di salute il calle
La Penitenza e il Duol chine le fronti.
sta a f. 246 del Cod. 4 Qq. C- 31.
Chi fra i critici può con la sua esegesi tutte rilevare le
bellezze di quel capolavoro di lirica che è 1’ode: lu labru, e le
altre: lu pettu, lu neu, li capiddi, ecc. ecc.?
Dimmi, dimmi, apuzza nica,
Unni vai cussi matinu?
Nun cc’è cima chi arrussica
Di lu munti a nui vicinu.
Trema ancora, ancora luci
La rugiada ’ntra li prati;
Dun’accura nun ti arruci
L’ali d’oru dilicati!
Li ciuriddi durmigghiusi
’Ntra li virdi soi buttuni
Stannu ancora stritti e chiusi
Cu li testi a pinnuluni.
Ma l’aluzza s’affatica,
Ma tu voli e fai caminu!
Dimmi, dimmi, apuzza nica,
Unni vai cussi matinu?
Cerchi meli? e s’iddu è chissu
Chiudi l’ali e un ti straccari;
Ti lu ’nsignu un locu fissu,
Unni hai sempri chi sucari:
Lu conusci lu miu amuri,
Nici mia di l’occhi beddi?
46
’Ntra ddi labbra c’è un sapuri
’Na ducizza chi mai speddi.
’Ntra ddu labbru culuritu
Di lu caru amatu beni
Cc’è lu meli cchiiù squisitu...
Suca, sucalu, ca veni!...
Ma quanta distanza fra questa leggiadrissima ode tutta
naturale e viva, e il sonetto del Redi, elegante, se vuolsi, ma
freddo e insipido63. Quel che più colpisce nel nostro poeta è la
ricchezza de le imagini: l’emozione poetica in lui è così viva che
da la sua fantasia sgorgano, si succedono, si compiono con una
profusione di colore, le più mirabili, le più nuove forme. Tutto in
lui si fonde; l’agilità dei ritmi, la vivacità de le imagini, il colore
del sentimento formano un tutto organico con tal savia misura da
renderti eccellente il meccanismo de l’ode. Ma la ricca fantasia
vince qualunque altra bellezza. Nulla sfugge a l’osservazione
acuta del poeta di genio; ei ti disvela dei mondi estetici con la
magia di un prestigiatore.
Un giorno egli scopre attraverso i veli il petto de la sua Nice.
63
Ecco il sonetto del Redi:
Ape gentil, che intorno a queste erbette
Susurrando t’aggiri a sugger fiori
E quindi nelle industri auree cellette
Fabbrichi i dolci tuoi grati lavori;
Se di tempre più fine e più perfette
Brami condurgli e di più freschi odori,
Vanne ai labri e alle guance amorosette
Della mia bella e disdegnosa Clori,
Vanne, e quivi lambendo audace e scorta
Pungila in modo che le arrivi al core
L’aspra puntura per la via più corta,
Forse avverrà, che da quel gran dolore
Ella comprenda quanto a me n’apporta,
Ape vie più maligna, il crudo Amore.
47
Quelle forme stupende lo infiammano; egli prorompe:
«In cotesto petto amabile, orto di rose e di fiori, pose Amore
due mazzolini, ove con le ali spruzza i fiocchetti di neve,
intreccia le vene e scrive: qua è il paradiso. Ma una nube
importuna mi toglie il cielo, ed è appena se il velo mi concede
uno spiraglio. La Modestia, armata di uno spillo che pare una
alabarda se lo custodisce rigorosamente… Gli sguardi si
sprofondano in quel piccolo spiraglio, ed ei li pasce, e guida la
mente a le arcane bellezze... Se mai, o Zefiro amoroso, sentisti
affetto, allarga ancora il sospettoso velo, allarga: e se Falito tuo
non basta, eccoti, serviti del mio fiato!»
Un altro giorno ei, il Poeta, studiando botanica 64 rimane
colpito dal sistema sessuale di Linneo: gli par di vedere un
nuovo impero di Amore, e, colpito da la novità, innamorato di
quello stesso amore, esclama:
«Nice, sai tu perché cotesto fiore che sta sotto la tua gorgiera
fa pompa di tanto lusso di fragranza e di colore? Perché è un
letto nuziale che la natura prepara a una sposa che ha a canto
dieci sposi in fiocco e gala65… In una conca, che è nel mezzo,
sta la sposa, e ogni marito attende che ella lo inviti agli amplessi.
Tra i palpiti amorosi si distilla il miele che l’ape industre
raccoglie goccia a goccia 66 . Ma tu muti di aspetto, ma tu
arrossisci; no, non è questo il fiore che si conviene al tuo seno.
Ecco quest’altro; osserva; c’è una sola sposina che conserva per
un Zefiro la sua pura fiamma 67 . Egli parte pria de l’aurora,
errando prati e lidi, si provvede tra i fiori del polline fecondate...
e poi lo spruzza sovra la sposa che lo attende. Vedi come al suo
fiato ella si animi e si ravvivi!
Nice, apprendi quanto possa un delicato amore, e ammira,
cuor mio, quanto esteso e grande sia l’impero di questo iddio!»
Fra i suoi manoscritti vi ha un cartolare col titolo: Lezioni di Botanica — Cart 2. Sta
nel Cod. ms. 4 Qq D 6.
65 Fiore della classe «Decandria. Monoginia» Linn.
66 Secondo Chaptal El. di Chini. Vol. 4 (citato dal Meli) la secrezione del nettare
avviene ne l’epoca de la fecondazione.
67 Fiore della vigesima seconda classe «Dioccia» Linn.
64
48
V.
Ma il contenuto de le Odi e de le Canzoni non è tutto erotico:
la più gran parte di esse ha un contenuto morale che si rivela
sovente in una mordacità satirica.
Tutta l’ethologia del Meli è racchiusa ne le sue odi; egli non
trova altro scopo ne la vita che il procurarsi la felicità: ma i
mezzi sono varii, perché della felicità si è formato un tipo
multiforme; o meglio, perché si sono foggiate tante felicità
quanti i desideri umani.
Ma quale è la vera felicità? Non è la soddisfazione di tutti i
piaceri, poiché «quest’avida inquietitudine ci rende schiavi con
le sue promesse irresistibili; il fuoco passa, le facoltà si
consumano, la speranza resta infeconda nel cuore divorato da
uno sterile ardore e l’esistenza medesima non è che un peso
penoso a chi la porta inutilmente»68.
La felicità è nel conservar l’animo sereno, «la sola felicità
reale si è di vivere senza soffrire, o più esattamente ancora, esser
felici è vivere»69. Ma in che modo raggiungere questa felicità?
Ritornando allo stato primitivo di semplicità.
«Nell’ordine primitivo noi eravamo suscettibili di poche
affezioni e ciascuna era determinata al suo momento e come
scelta indipendentemente dalla nostra volontà per li bisogni
della nostra natura.»
«Nell’ordine attuale dunque fa d’uopo trovare un mezzo di
68
Brano tradotto dal Meli, E trascritto in uno di quei fogli, che ora si trovano raccolti
nel cod. 4 Qq. D. 3; è tolto da l’opera: Révéries sur la Nature primitive de l’Homme,
Paris 1782. Rev. 9.
69 «Ogni male è straniero alla pienezza della vita ed ogni sofferenza ha per principio
delle cause destruttive. Il dolore è contrario all’esistenza; chi soffre non vive
pienamente e interamente, la sua vita è minacciata e come sospesa» (Pensieri, stanno
a f. 86 e seg. del Cod 4 Qq. D. 3). «I piaceri impetuosi convengono ben male a
l’uomo... Il piacere è pericoloso; esso ci corrompe senza soddisfarci snerva le anime e
le rende inette ad ogni sforzo virtuoso... il suo lampo inutile rende più funeste le
tenebre che esso conduce.» Da le Révéries citate.
49
non ricevere nel tempo stesso che una impressione unica o
almeno moltissimo superiore a qualunque altra; ed un mezzo di
fare nelle impressioni di cui siamo suscettibili, una scelta sempre
convenevole alla nostra natura, e perciò di nostra felicità. Questi
due mezzi soli ci restano di ritornare in qualche maniera a questa
situazione primitiva… Di queste due vie felici, che sole restano
all’uomo di società, l’una è il vino, l’altra la filosofia più
profonda.
«Se gli effetti dei liquori spiritosi e fermentati non fossero
passeggieri e destruttivi, non vi sarebbe un uomo veramente
disingannato, né un uomo saggio che non li preferirebbe alla più
sublime indifferenza della filosofia. Ma la felicità non consiste
negli istanti isolati di energia, di voluttà o di obblivione. La
felicità è una successione quasi continua e durevole, come i
nostri giorni, di fortunato concorso di pace e di attività, di
armonia dolce e severa...»70.
E da queste due vie, da questi due mezzi procede tutta la
poesia di carattere etico; il Meli o ti risuscita quell’ebriosita
festosa di Anacreonte, che ne l’allegria dionisiaca del vino ti
dimentica la frode de la vita e ti scherza delicatamente; ovvero ti
spiega quella calma e serena giovialità che si specchia in una
filosofia sana e agile, concorde con la natura, perpetuo festino de
l’animo.
Li testi fumanu,
Già semu cotti,
Buttigghi e gotti
Vegnanu ccà,
Vaianu a cancaru
Sennu e giudiziu,
Oggi sia vizili
La gravità.
’Ntra la mestizia
Li guai si avanzanu,
70Pensieri,
stanno a f. 86 del Cod. citato.
50
Sulu si scanzanu
Stannu accussì;
La ciospa ’nsemmula
Lu calasciuni,
Vini abbuluni
E amici ’nsi.
Fumu è la gloria,
L’Amuri è focu,
È un scherzu, un jocu
La gioventù.
Prima chi tremula
Vicchiaia arriva,
Si sciali e viva
A cui pò cchiù.
Proi ssa ciotula,
Bedda picciotta,
Ch’iu ’ntra ’na botta
L’asciuchirò.
Comu rivugghinu
Sti bianchi scumi
Vugghia ed addumi
Lu cori tò…
E altrove:
Saggiu è cui disiu nun stenni
Fora mai di la sua sfera
E nun cura li vicenni
Di la sorti lusinghera;
Chi sa cogghiri l’istanti
Menu amari di la vita,
L’autri annega tutti quanti
51
’Ntra na malaga squisita…
«Se il fato è inflessibile, che mai sperarne?... Io oppongo alle
sue onte, scudo ben temprato, armi assai pronte, bottiglie e
bicchieri... Il piacere è ai mortali sole di gennaio... e poi che arte
o scienza non giungerà a domare l’inclemenza degli astri, sia
l’anima giuliva.»
Qui ti par di vedere Anacreonte redivivo cinto di rose e di
edera, sollevare in alto la coppa spumante, e cogli occhi
scintillanti e ridenti infonderti tutta la sua giovialità71.
Eppure il Meli non conosceva Anacreonte, o meglio lo
conobbe per le cattive traduzioni che correvano, e forse più
probabilmente per le traduzioni francesi 72 . Ma egli aveva
1’anima di quel greco; ne aveva intuito quel sistema epicureo
che prolungavagli la vita in una perpetua gioia, e lo riproduceva
con forme sue, ma ne le quali ti par di sentire echeggiare la
festività alcoolica del vecchio greco. La sapiente scelta dei ritmi,
nei quali eccelle il Meli, ti compie l’illusione di quelle imagini
pieghevoli, e ti dà al colorito una trasparenza opalina
leggiadrissima.
Ne l’ebrietà del vino però non trovi in Meli gli scomposti
Il Meli ha un’idea giusta di tale giovialità, (e per conseguenza anche di ogni altro
stato de l’animo): «Ciò che noi chiamiamo giovialità non è tanto il prodotto
comunemente come credesi della prosperità, delle ricchezze, quanto di una felice
fisica costituzione...» E qui parlava per esperienza, poiché egli dotato di sanissima
costituzione, aveva potuto osservare in sé stesso questa dipendenza de l’umore, (per
dirla con le sue parole) da le speciali organizzazioni. E ciò appare anche da qualche
brano de le Rifles. sul Meccan. della Natura.
72 Nel suo Zibaldone il Meli fra le altre cose ha due traduzioni dal greco. Ma da quel
che se ne vede esse o son copiate, o son tradotte da una lingua più facile, e più vicina a
l’italiana. D’altronde da tutti i manoscritti in cui si occupa di Anacreonte e del suo
sistema morale, mostra di non averne cognizione che per via di M. Fontenelle.
Nessuno scritto ci dice che il Meli avesse studiato Teocrito e Anacreonte nel testo
greco: anzi un’ode italiana de la Fortuna, per la struttura metrica, per 1’andamento, e
qualche volta per le parole sembrami tolta da la traduzione de l’ode Amore di
Anacreonte fatta da Saverio Mattei.
Chi ha vaghezza di leggere l’ode della Fortuna del Meli, per confrontarla con la
traduzione dal greco vegga a f. 138 del Cod. 4 Qq. C. 31.
71
52
desiderii dei sensi; egli rimane casto; si accende, ma non per
immergersi in un bagno di voluttà, da cui toglierassi col cuore
amareggiato; ei vuol dimenticare i dolori, ei vuol essere giulivo,
per saziare l’anima sua in una serena contemplazione de la
natura.
Onde è, che cessando l’emozione del vino egli si attuffa
nelle acque salutari de la sua filosofia; a cui chiama anche gli
uomini, come a un delizioso convito73.
Filosofia, che avendo uno stesso obbiettivo, ti ha quella
stessa festività.
L’istantaneità del piacere, la sua variabilità fan dubitare il
Poeta; ei ti domanda:
... mi sapristi diri
(Si puru in terra esisti realmenti)
Cos’è ed unni si posa lu piaciri?
«Ognuno creasi un tipo del piacere secondo le sue corrotte
passioni, i suoi gusti, i suoi istinti... ma quando già l’ha
conquistato, cerca
nè cchiù lu vidi quannu l’avi in manu.»
«E dunque Amore, questo piacere, che Psiche tentando di
scoprire a lume di lucerna, videsi sparire a un tratto? Ma che è
dunque questa eterna celia?»
E mosso da questo dubio, ei chiede per bocca di un savio:
«Voi, falsi felici uomini dell’ordine sociale, cui una fortuna destruttiva consuma
con i suoi funesti favori, voi privileggiati per la nostra enorme disuguaglianza, vittime
del caso seduttore del vostro nascimento, o dei frutti perfidi delle vostre colpevoli
facoltà, voi che pensate e che sapete, che possedete e comandate, voi tutti sopra dei
quali pesa e si cumula il prodotto vanamente ammirato di cento secoli di delirio e tutto
quel faticoso errore della terra sapiente; voi esenti di travaglio, di privazioni e
d’ignoranza, separati per sempre da una facile felicità, ridicole e miserabili divinità di
uman lavoro, voi non potete che nella sola filosofia rigenerare la vostra essenza e
ringiovanire la vostra vita ormai spossata...» Sta a f. 86 del Cod. 4 Qq. D. 3.
73
53
Qual’è l’omu a lu munnu cchiù felici?
Cui si cci cridi.
La felicità è dunque una illusione; ma una illusione che non
può derivare da desiderii scomposti, che turbano la calma de
l’animo, e lo tengono in continua agonia. L’illusione de la
felicità è riserbata al savio:
Saggiu è cui disiu nun stenni
Fora mai di la sua sfera,
E nun cura li vicenni
Di la sorti lusinghera...
«Saggio è colui che non si lascia vincere da l’ambizione74, e
pago di sè stesso, oppone la sua anima tranquilla a le vicende de
la fortuna. Saggio è colui che apprezza l’oro non per cupidigia,
ma perché mezzo a soddisfare ai bisogni... Quali eccessi non
persuade la scellerata fame de l’oro?
Tu li visceri a la terra
Sinu a funnu ài laceratu!
Unni accosti, sbampa guerra;
Ogni drittu è viulatu!
Turri a Danai, e forti mura
Su assai debuli pri tia:
La valanza abbucchi puru,
’Ntra li manu anchi d’Astria.
«Saggio è colui che parla poco e opera molto e bene; e che si
è educato alla scuola dell’esperienza, dello studio, delle
avversità; chi non insuperbisce di sè stesso, chi non mente, chi
74
Il Meli non ebbe mai ambizione, di sè stesso diceva: «Io per tutto ciò che riguarda
me solo sarei sì parco nei miei desideri, che mi chiamerei contento del mio stato.» A f.
57 del Cod 4 Qq. D. 4.
54
ama e si lascia amare, chi gode e lascia godere; chi non attuffa la
vita nella malinconia o nella bile; chi insomma ubbidisce ai sacri
dettami della natura e a quella conforma la sua vita.
«Saggio è infine chi più di ogni altro bene apprezza la pace, e
tutto fa per conquistarla: poiché nella pace dell’animo è la
felicità della vita, e per la pace, tu puoi gustare le gioie continue
che la vita alimentano.»
Nel Meli è tanto profondo il sentimento di questa
tranquillità, che te lo comunica con quella sua ode la Paci, la
quale con le due altre la Cicala75 e la Fortuna, ti rivelano tutto
l’animo buono e sereno del poeta filosofo; ed egli è tanto preso
da questa sua filosofia, che disprezza tutti i dicitori di Etica, tutti
i fabbricatori di astrazioni, di bolle di sapone, i quali mentre da
un lato si ingrassano tra i vizi, da l’altro ti predicano la buona
morale con frasi altisonanti e apparato di nomi e citazioni
oltramontane; «cornacchie vestite di penne di pavone, per cui il
popolo ignorante attribuisce le colpe non alla perversità
dell’animo di essi, ma alla filosofia»76.
Nella Cicala, il poeta adombra se stesso; egli in quell’insetto per gli altri
insopportabile, vede in epilogo tutti i desideri della sua vita. La cicala è il suo ideale:
non aver cura di altro che di cantare, e riposarsi in quegli ozi artistici: ecco tutto. La
poesia esprime mirabilmente questo intenso sentimento con quella soave e delicata
malinconia che si diffonde non solo per le imagini, ma anche per il metro. Quanto a
l’idea di questo componimento, e tolta dall’ode XLIII di Anacreonte, specialmente
poi le strofe; ’Ntra li Musi fusti ascritto e seg. che lo stesso Meli accenna appartenere
al poeta greco. Ma il contenuto è fattosi diverso.
76 Quannu qualcunu affattu
Nun ha sensu comuni,
Lu vulgu dici: è mattu;
O: gran filusufuni!
…
Sti dotti, sti eruditi
Non da paroli ed atti,
Conuscirli duvriti,
Da l’operi e li fatti
75
Vestinu pinni vaghi
E spissu senza macchi,
Però rubati a paghi;
E sutta su curnacchi...
55
Ben sovente questo senso di serenità; quest’aura infinita di
gioia pacata e profonda, questa vera saggezza che veste l’anima
del poeta, è come conturbata da lo spettacolo di una società
guasta e corrotta.
Ma il turbamento è passeggiero: il poeta non si lascia
sopraffare, non si incurva al giogo; ma si leva come chi si sente
superiore alle colpe del secolo; come chi si sente sicuro di sè; e
flaggella il mondo contemporaneo con mordacità ironica.
Ma egli non ha la virulenza di Giovenale, l’acredine di
Persio, poiché l’anima sua non sa odiare con tutte le forze de
l’odio, e non ha quindi la violenza di una forte passione. Non ha
1’ironia sanguinosa di Parini poiché gli manca quella austerità,
vera o falsa, del sentimento, quella rigidezza di antico stoico.
Nel Meli l’ironia non rappresenta uno stato diverso da la sua
abituale calma voluttuosa; il dolore di una vita corrotta si
trasforma in lui in una gaiezza scettica, onde il poeta sorvola con
l’agilità de lo scherzo, e col suo riso acre e scintillante colora
quei momenti dolorosi. Egli non nacque con l’anima del Titano,
ma con la gaiezza di Anacreonte e la procacità di Aristofane.
Ride, ma nel suo riso tu scopri l’ironia redentrice, e mentre ei
si trastulla, tu senti l’amarezza di chi ha una intuizione scettica
degli uomini77.
Pure non resti scoraggiato, non turbi 1’animo tuo, non trovi
la solitudine incresciosa, intorno a te, dopo che avrai lette e
pensate quelle vivaci satire: invece sorridi, e senti come se un
peso ti si togliesse da l’animo; sorridi, e tenti anche tu di uscire
fuor da quell’aere, per librarti nei campi sereni de lo spirito, che
77
Non mancò al Meli la satira civile. Egli, verisimilmente, aveva scritto una specie di
lessico epigrammatico in prosa, del quale non ci rimane che una sola pagina della
lettera L: ed ecco due epigrammi in prosa:
«Legge — Le leggi sono come le tele di ragno che non arrestano che delle mosche. E
sulla sola mediocrità che si esercita tutta la forza delle leggi; esse sono egualmente
impotenti contro i tesori del ricco che contro la miseria del povero. Il primo l’elude, il
secondo vi scappa; l’uno rompe la tela, l’altro vi passa a traverso.»
«Litigante — Che sono sfortunato, diceva un litigante; io non so come guadagnarmi il
mio giudice; egli non ha nè innamorata, nè confessore.» V, a f. 93; del Cod. 4 , Qq. D.
3.
56
ha combattuto e vinto le battaglie tenaci de la vita.
57
VI.
Il Settembrini, fra gli elogi che profonde al nostro poeta78, lo
accusa di esser rimasto lontano da quel movimento
rivoluzionario, e quasi si addolora che un ingegno così poderoso
non abbia combattuto le battaglie della libertà. Il patriota scrittor
napolitano giudicava de la importanza o meno di uno scrittore a
la stregua de l’amor patrio: ma l’artista non è lo scrittore; l’arte
non è sgabello a sentimenti estranei: ella non ha fine che sè
stessa, e se talvolta essa converte la cetra apolline in un arco di
battaglia per saettare le ingiustizie sociali79, non è già per farsi
banditrice di una qualsiasi idea; chè tutto sia patria o religione, o
scienza, o famiglia, o morale, tutto perde il suo valore effettivo
sotto l’impero de l’arte.
Questa Dea sdegnosa si sta campata sopra le inaccessibili
cime del pensiero, e di là torreggia, signora di ogni idea umana,
come uno spirito divino che sublima e converte il cervello del
genio.
Comunque sia, non si può impunemente dare al Meli accusa
di non avere inteso il grido de la libertà, di non avere rivolto il
suo pensiero a la patria.
L’ode per la caduta di Bonaparte, il sonetto contro il
Giacobinismo trassero in inganno chiunque: i versi dedicati a
Ferdinando Borbone, a Leopoldo, a Cristina, anch’essi di quella
famiglia, confermarono l’opinione che il Meli, aspirando a poeta
cesareo, avesse quasi venduta la sua lira ai tiranni del suo paese.
Meli non si giudica dai soli versi a stampa; ma dai
manoscritti inediti; e questi manoscritti ti rivelano che egli non
senza dolore talvolta scese all’adulazione80.
Storia della Letteratura Italiana. Napoli, A. Morano 1876 — Vedi al Vol. III, pag.
270.
79 Trezza, Nuovi studi critici. Verona 1881.
80 «Ma riflettendo che il dedicare ad un gran personaggio un’opera importa lo stesso
che impegnarlo ad un complimento, e sebbene io non sia in una condizione comoda ed
agiata da ricusare le altrui generosità, non ho poi tanta bassezza d’animo di accettarle
78
58
Giovanni Meli visse povero; la sua vita fu una lotta continua
con la miseria e coi dissapori di famiglia: quale sia stata appare
da la lettera81 al barone Refhuens, che qui riporto per intero: il
poeta con una semplicità e una pacata amarezza ammirabile,
narra le sue vicende in poche parole:
… «Vi resto, signore, obbligatissimo dell’importanza che vi
siete degnato accordare alle opere insieme e all’autore. Intorno
alle notizie che mi ricercate di alcuni aneddoti principali,
spettanti alla mia vita, posso soddisfarvi in due parole. Ho
rappresentato nel mio paese il personaggio incalcolabile di
Modena, o al più l’ostrica, attaccata sempre all’istesso scoglio in
cui nacque, sostenendo sul dorso l’impeto delle onde e delle
tempeste. Se mi volete riguardar come poeta, figuratevi una
cicala, che ha stordito qualche tratto di terra senza essere veduta,
né considerata.
«Volete che io mi lusinghi coll’idea di qualche postuma
considerazione? Vano e miserabile compenso! non vale al certo
la pena ch’io vada riandando nella memoria le miserie ed
amarezze di mia vita, quelle che con tanto studio ho cercato di
coprire e palliare a me stesso ed agli altri con le poetiche
illusioni e col trasportarmi alle antiche età del mondo per
togliermi da questa almeno col pensiero e colla imaginazione.
Imperocché dovete sapere che il tempo ed il paese in cui son
nato e vissuto, unitamente alla professione, che ho dovuto
esercitare per non naufragarmi intieramente nella miseria, tutti
hanno fatto sempre a calci colla mia indole, inclinazione e
maniera di pensare. Perlochè resta la cura ai secoli d’appresso,
(se mai vorranno assumersi questa briga) di decidere se
l’imperfezione fosse stata in me, o nei miei antagonisti.
«In si fatto perpetuo contrasto di avversione e di necessità
con mezzi umilianti.»
Frammento, trovasi a f. 21 del cod 4 Qq. D. 6.
81 Meglio anche che da questa lettera, appare da una specie di memoriale in cui espone
tutte le sue sciagure domestiche; sciagure che lo costrinsero a lasciare la propria casa,
e coabitare con la famiglia di un suo amico carissimo: famiglia che poscia divenne la
sua. Potrai leggere questo memoriale a f. I del cod. 4 Qq. D. 6.
59
l’energia del mio spirito sarebbesi intieramente esaurita, se la
natura provvida non avesse dotata, la mia fantasia di un teatro,
fornito sempre di scene novelle da spiegarsi e cangiarsi a piacere
della volontà per sostituirle forse ai beni reali dalla sorte negati.
Ecco la fonte, in cui ho attinto i temi delle mie galanti e giulive
poesie.
«Malgrado le mie ristrette fortune, io non ho mai invidiato
né re né principi, né, quindi, molto meno i ministri; ma non ho
ambito altra fortuna (e questa m’è stata negata) che quella del
contadino del secondo Epodo di Orazio, e di qualche benefattore
dell’umanità.
«… Ho fatto poca fortuna nella professione della medicina,
facoltà in cui non ci ho veduto mai chiaro, ed a cui sono stato
negato per natura; perché nemico del ciarlatanismo, del
corteggiamento, e dippiù per il peccato originale nel paese di
essere appreso per poeta. Aggiungete la mia estrema sensibilità
che nemmeno mi permise di leggere e di ascoltare una tragedia
in tutto il corso della mia vita. Aggiungete che, non avendo
trovato nei nobili altra qualità rilevante se non quella che loro ha
prestato il caso, li ho rispettato per convenienza, ma mi son
tenuto lontano da essi quanto ho potuto.
«La facoltà della chimica che mi è stata affidata in questa
nostra accademia mi sarebbe ita molto a genio 82 , se le
circostanze mi avessero assecondato; ma queste sono state molto
infelici; non mi si è dato né laboratorio, né macchine, né un
assegnamento per le spese degli esperimenti, né tampoco un
soldo da potervi cavare l’intiera mia sussistenza. Non ostante mi
è riuscito d’intrattenere per 19 anni colla spiega di semplici
parole sempre la scuola piena di ascoltatori.
«La disgrazia mi ha perseguitato sin nell’interno delle mura
domestiche. Un fratello, per sostenere le procure di un fra
Il Meli fu chiamato a insegnar Chimica nell’Accademia Palermitana (poi
Università) con dispaccio del Viceré principe d’Acquino, in data 27 settembre 1787;
ma egli era scontento per la mancanza di laboratorio, ed esistono varie carte nei
codici, in cui prega incessantemente il Principe di Belmonte perché fosse fornito di
macchine e di un laboratorio il gabinetto chimico. —Vedi lettera af. 33 del cod. 4 Qq.
D. 4.
82
60
cappellano e di un commendatore di Malta, per molti liti e molte
anticipazioni, giungendo a pignorare prima i suoi mobili, ed indi
i miei, e finalmente, morendo improvvisamente, mi lasciò
all’oscuro di tutto. Per colmo poi di tante disgrazie 1’unica
sorella, che mi restava, dopo tante profusioni (credute
elemosine, stante la sua buona morale) si dichiarò pazza
spacciata con gettare tutta la roba di casa dai balconi, di maniera
che io fui obbligato, per non perdere la camicia e gli abiti che
portava addosso, di cercarmi un asilo in casa di un amico; con
assegnare alla sorella un giornaliero mantenimento.
«Non ostante tante perdite, e disavventure, se ne aggiunge
un’altra dell’unico individuo superstite (dopo di me) della mia
famiglia, monaco domenicano; il quale non ha lasciato di spedir
le sue pretenzioni per morte ab intestato del comune fratello
sulla gran colonna dell’asse ereditario che si riduce in una casa,
il di cui censo assorbisce, quasi intieramente, ciò che se ne ritrae
dall’appigionamento di essa: nonostante, mercè di un parco
vivere ho tirato avanti decorosamente, senza aver contratto mai
un soldo di debito, e senza avere obbligo ad anima vivente della
mia tenue sussistenza, salvo alle mie fatiche...»83.
Eccovi l’uomo. Innamorato de l’antichità, aveva sognato la
pace tranquilla di quel contadino di Orazio, il cui Epodo aveva
parafrasato: l’esempio di abazie concesse ad abati impostori84
aveva suscitato il suo risentimento; egli cedendo al vivissimo
desiderio de la sua vita povera; cedendo agli impulsi di potenti
amici 85 si inchinò al trono e chiese; ma non con la servile
83
Il Gallo nella sua Biografia, racconta che il Meli spesso con lui si rallegrava
appunto di questo, di non aver mai contratto un debito; il che era per lui una grande
ricchezza.
84 Il prete Vella ebbe una abazia con la sua falsa traduzione di un supposto Codice
Arabo, esistente solo nell’officina de le sue imposture; altra abazia ottenne Paolo
Balsamo, economista.
85 «Il cav. Luigi Medici, si influente presso il Re, sul cominciamento del 1814 avendo
a pranzo il nostro Giovanni, gli suggerì di chiedergli la ricca abbazia di S. Pancrazio,
allora disponibile, a conseguir la quale giovarsi potea della sovrana benevolenza, e del
di lui patrocinio e favore. Al che rispose il Meli di mancargli il principal requisito
canonico, non essendo prete, e neppur fornito degli ordini minori, che avrebber potuto
bastare all’uopo. E come! disse l’altro, voi vestite da abate, e così vi fate denominare,
non avendo neppure la semplice tonsura? «Io ne ho indossato l’abito, replicò egli,
61
adulazione, né strisciando fra le mendaci espressioni. La sua
petizione al Re ha una tinta lieve di scherzo che a cortigiano non
si addice. Egli chiedeva, ma non si umiliava.
Né questa era sua colpa, ma dei tempi: la corte cacciata da
Napoli dalle armi di Championnet, si ricoverava in Sicilia, e
questo era un tale avvenimento per l’isola, già da tanto tempo
priva di accogliere i suoi sovrani, che la serrava a ogni dottrina
sovversiva a la borbonica monarchia.
Ciò nondimeno il Meli sapeva quel che valesse il suo re: e
nel brindisi di Sarudda (nel famoso ditirambo) che egli dovette
sopprimere per non incorrere ne la censura, regala al Re
Ferdinando l’epiteto di Scursuni, che succhia il sangue del
vecchio Palermo:
Eu vivu in nomu tò, vecchiu Palermu,
Pirchì eri a tempu la vera cuccagna;
Ti mantinivi cu tutta la magna,
Cu spata e pala, cu curazza ed ermu.
Ora chi si’ cchiù vicchiareddu e ’nfermu
Si pigghia ognunu la scusa pri ’ncagna.
Lu to scursuni ti spurpa e ti sagna;
Tu sequiti a pisciari, e ti stai fermu.
Tuttu si’ chinu di ’mbrogghi e raggiri,
Lu bonu accucca; lu latru xiurisci;
Lu poviru a la furca viju jiri.
perché nella mia gioventù era quello dei medici per aver accesso nei monasteri e
simpatizzar con le monache. Il pubblico generoso in parole, mi ha dato il titolo di
abate; talché ho avuto finora il fumo senza l’arrosto» «E bene: pigliate gli ordini
minori e poi si penserà a darvi un buon arrosto». Meli consacrassi poco dopo nella
parrocchia di S. Croce e indi foggiò e lesse al Medici una sua supplica in versi
siciliani... la supplica non fu dimenticata; ma trasmessa con ritardo al governo di
Sicilia, per riferire sulla dimanda, pochi giorni dopo che Meli era volalo in cielo...»
Biografia di G. Meli per A. Gallo. Palermo. Ved. Solli 1857.
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Tu sequiti lu tò; stai sodu, e pisci.
’Nsumma, Palermu, di’: si pò sapiri
Chista tua caraurria quannu finisci?
Esistono varie satire che pungono il viceré e il senato de
l’epoca per la amministrazione pessima de le cose sicule,86 e in
alcuna lettera87 ha parole amare sul conto dei ministri.
Al Meli non isfuggivano le ingiustizie sociali, e quando
gliene capitava il destro non si peritava di accennarle in modo
però da evitar le forbici inquisitoriali; e che alcuna de le nuove
idee sia penetrata ne la sua mente, tu lo vedrai anche da le favole,
quando si occupa de le istituzioni monastiche, che ebbe a vedere
da presso88; o quando si occupa de la legislazione criminale dei
tempi, mettendone in mostra la vergogna89; da uno degli idilli
invernali, quando i contadini si radunano in giudizio per
decidere quale fra gli animali debba essere ammazzato; e tutti
condannano il maiale, che si è ingrassato a costo dei sudori degli
altri, che si è pasciuto col sangue dei lavoratori90. Lo vedrai da
Chi fai, Palermu, cu stu to’ viscanti
Cantannu allegru un paru di canzuni?
E chi mi cunti, chi soni, chi canti,
Unni è la cuntintizza! A sti cugghiuni!
Megghiu fora pri tia tra peni e chianti
Sfasciariti lu pettu ad un cantuni;
Sulu, pinsannu ch’ai pri davanti
Latru un senatu e un viceré minchiuni !
86
Vedi Cod. 4 Qq. C. 37
Leggi la lettera all’arcivescovo Lopez, che trovasi a f. 14 e 44 del Carteggio.
88 Leggi la favola «Li Porci» e l’altra «Lu gattu, lu Frusteri e l’abati».
89 Vedi la favola ingegnosa «Lu Codici Marinu.»
90 … Ora è lu tempu
Ch’unu di li domestici animali
Mora pri nui; ma mi diriti: quali?
Lu voi, la vacca, l’asinu la crapa
Su stati sempri a parti tuttu l’annu
Di li nostri travagghi...
Ma lu porcu! lu porcu è statu chiddu
Chi a li travagghi d’autri ed a li nostri
È statu un oziusu spettaturi;
87
63
alcune idee che egli ti manifesta su le condizioni dei contadini di
Sicilia, nel suo lavoro su lo Stato economico de l’Isola91, nel
quale lavoro, egli, ti accenna con una divinazione a la teoria dei
piccoli fondi, accusando i latifondi come causa de la povertà del
contado e de la miseria de le produzioni.
Lo vedrai infine da la cura che egli ha di trascrivere e di
conservare qualche tratto del Machiavelli92, o da lo studio che fa
di Mario Pagano; uno di coloro, che avrebber dovuto meritarsi
l’odio del Meli, se questi fosse stato quell’uomo nemico di
libertà come crede il Settembrini93.
Anzi, abusannu di li nostri curi
Mai si è degnatu scotiri lu ciancu
Da lu fangusu lettu, a propri pedi
Aspittannu lu cibu, e cu arroganza
Nni sgrida di l’insolita tardanza.
Chistu chi nun canusci di la vita
Chi li suli vantaggi e all’autri lassa
Li vuccuni cchiù amari, comu tutti
Fussinu nati pri li soi piaciri;
Chi immersu ’ntra la vili sua pigrizia,
Stirannusi da l’unu e l’autru latu,
Di li suduri d’autri si è ingrassatu
Si, chistu mora e ingrassi a nui; lu porcu,
Lu vili, lu putruni...
Si, l’ingrassatu a costi d’autru mora!...
Idillio VIII v. 77-103
91 Troverai questo lavoro nel cod. ms. 4 Qq. D. 3 f. 1.
92 È un tratto preso dal lavoro del Machiavelli su la lingua italiana: «Semprechè io ho
potuto onorare la patria mia eziandio con mio carico e pericolo, l’ho fatto volentieri
perché l’uomo non ha maggior obbligo nella sua vita che con quella, dipendendo pria
da ella Tessere, e di poi tutto quello che di buono la fortuna e la natura ci han
conceduto...
93 A proposito di Mario Pagano, il Meli riporta alcun tratto dei discorsi politici, ove il
grande patriota napolitano parla dello scopo dei frammassoni. Non si può dire se il
Meli studiasse gli statuti de la Massoneria per fuggirla e confutarla, o per fondare
qualche Loggia. Certo si è che egli di tutti gli autori che studia riproduce quei tratti dai
quali appare l’istituzione massonica come un’opera benefica e umanitaria. Un sol
tratto del Muratori havvi che parli con leggerezza de la Massoneria, e tra le 42 opere
che il Meli cita, appena tre sono contrarie a le Logge. Intanto a f. 13 del cod. 4 Qq. D.
6 vi è una bozza di statuti per un’Accademia nazionale, e uno degli articoli
corrisponde perfettamente a uno dei brani trascritti dal Meli da le opere di Mercier, di
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Ma il Meli amava la pace, amava la tranquillità aveva in
orrore lo spargimento del sangue: avrebbe voluto che le
rivoluzioni si fossero compiute pacificamente. Inveì contro il
Bonaparte, perché costui fabbricavasi un trono lacerando i figli
di Francia, perché costui cingeasi di gloria, soffocando nel
sangue il sentimento nazionale dei popoli, perché insomma era
un predone, malgrado che fosse un genio. Inveì contro il
Giacobinismo, perché non comprendeva che gli eccessi de la
rivoluzione francese erano una reazione al malgoverno che avea
avvilita la Francia durante il dominio dei Borboni.
Unicamente per questo ei detestò gli orrori de la
Convenzione, non già per levarsi a difensore dei Borboni.
Necessità dei tempi fu l’adulazione, e tutta prodotta da quel
profondo desiderio di pace, di tranquillità, di ozio proficuo di
studi, da quel sentimento che informa le due odi: la cicala e la
paci, e la parafrasi de l’epodo di Orazio:
Beatiddu cui campa sfacinnatu
Come l’antichi, e cu li propri voi
Si cultiva lu campu ereditatu,
E passa in libertà li iorna soi
Tranquillu, senza debiti nè pisi,
Senza suggizioni e senza noi...
Ma l’anima del Poeta è libera: libera, poiché suo ideale è la
vita dei pagani, quella vita austera republicana, in cui i poeti e i
filosofi contemplatori de la natura liberamente svolgevano le
loro idee, e vivevano in quella calma che viene a lo spirito che ha
la coscienza de la sua libertà.
Voltaire ecc. ed è la proibizione di intrattenersi di religione, di politica, di governo:
articolo fondamentale de le Logge massoniche.
65
VII.
Ed eccoci ora al termine del nostro lavoro.
Non ci occupiamo de le Favole, il loro contenuto morale è
tutto compreso ne le altre poesie; solo vi è a notare, in gran parte
di esse, l’originalità de l’invenzione, e in tutte la somma
naturalezza ne lo svolgimento e nel dialogo; la somma sapienza
ne le verità morali, che rifulgono di utilità, ed evitano le
astrazioni che nulla dicono.
In questi, come negli altri componimenti la forma poetica
raggiunge un grado di perfezione, che difficilmente potrà
trovare imitatori: ma questa eccellenza procede sempre da quel
senso scientifico che ha il Meli de la natura; da quella sua
continua osservazione, scevra da preconcetti che la conturbino.
Cercheresti invano una imagine impossibile o trascendente:
paragoni, metafore, tutto quel che insomma costituisce il colore;
la vigoria, la evidenza, è compreso nei limiti de la natura, è tolto
anzi da lo spettacolo giocondo de la natura. Le stesse imagini
mitologiche per lui non sono semplici rimembranze di una fauna
già seppellita tra i fossili de la storia; né egli ne ingemma i suoi
canti per vanità o per abitudine.
Quantunque parcamente, egli non usò de le imagini
mitologiche, che come simboli de le forze de la natura. E infatti
in un articolo di critica su le «Attrazioni elettive adombrate nella
mitologia, ti esamina i miti di Venus, Zefiro, Flora, Amore; ma
la mancanza di metodo, non gli fa scorgere in quei miti
altrettante metafore del sentimento94 o del linguaggio95; ma dei
simboli, o sia prodotti di matura riflessione, e di una educazione
estetica superiore a la loro evoluzione.
Del resto la scienza del linguaggio e de le religioni son frutto
de la stagione nostra, e il Meli non poteva nemmeno sospettarne
la futura epifania nel mondo scientifico.
È però bene avvertire, che egli, non adoperando l’imagine
94
95
Vedi Trezza, La Critica Moderna. Firenze 1880, nel cap. I miti.
Max Muller, Mythology ecc.
66
mitologica pel suo valore estetico, oramai perduto, ma per il suo
valore simbolico, non turbò la realtà de la poesia, il mondo de la
naturalezza, che fa sempre vivo e nuovo il nostro poeta.
Naturalezza che riposa così nel concetto, come ne la forma,
così ne la lingua, come nel metro: tutto è concorporato in una
unità così organica, che tu non sai quale abbia prevalenza; se
l’osservazione de la natura o l’emozione poetica, se la selezione
de la forma o l’agilità armonica dei metri; e il meccanismo del
componimento poetico ti guizza da le mani, mentre pur ti mostra
l’unità de le sue parti, e te le riproduce al cervello commosso.
E per questo innanzi a tanta profusione il critico rimane
imbarazzato, e ne l’esaminare alcuna di quelle egloghe, alcuna
di quelle odicine alate, tutte profumo e leggiadria, tutte
sentimento vivo e scoppiettante, si infiamma; e non è più
l’analisi fredda e minuta che anatomizza, ma l’inno di
entusiasmo, ma l’ebbrezza estetica de 1’artista, che grida: «Ma
questo è grande; ma questo è maraviglioso!
E infatti, queste sono le maraviglie del genio!
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