Pagina 20 NOAH Il racconto biblico della creazione, con cui si apre la Torà, riandando alla parashà BERESHIT, fa derivare l’umanità da una unica coppia. E’ il principio della monogenesi, che attribuisce una eguale dignità di origine a tutte le stirpi, formatesi per genealogiche diramazioni. Teoria opposta è la poligenesi, per cui la specie umana si sarebbe formata in luoghi diversi da diversi primi progenitori. La questione è di difficile soluzione sul piano scientifico, ma il dibattito antropologico si è svolto perlopiù su base ideologica, vertendo sulla propensione all’eguaglianza o disuguaglianza originaria e costitutiva delle genti. Il conte di Gobineau, autore dell’Essai sur l’inégalité des races humaines (edito tra il 1853 e il 1856) era un diplomatico e uno scrittore, anche romanziere. Gli premeva la preservazione della nobiltà e deprecava gli incroci come causa di degenerazione, salvo a sposare una creola. Lo scozzese Henry Home, Lord Cames, vissuto nel Settecento, era un giudice e un filosofo, considerava disuguali le stirpi, e per conciliare la poligenesi con la religione cristiana formulò la credenza in successivi atti creativi di Dio in diverse parti del mondo. Vera o meno che possa essere stata nei fatti, la monogenesi in Bereshit costituisce un postulato morale e dovrebbe preservare dalla disumanizzazione. Il progetto divino era che l’umanità rispondesse, nei suoi comportamenti, a quanto di meglio la mente creatrice concepiva per essa, essendo stata formata ad immagine e somiglianza con il creatore. Ci fu la disobbedienza nel mangiare il frutto proibito, con un abbassamento alla condizione di mortali, ma eguale per tutti, salvo una conseguenza di disparità per Eva e le discendenti, ché, come disse il Boccaccio sono naturalmente le femine tutte labili. Caino aprì la via alla violenza e malvagità, pagata da tutti col diluvio, salvo il giusto e consolante Noè con i suoi cari. Il Signore dovette constatare che la malvagità sulla terra era grande, che i pensieri umani inclinavano al male, ed arrivò, addolorato, a pentirsi di aver creato l’uomo: ָארץ ֶ ָָאדם בּ ָ ָוַ י ֵַרא יהוה כִּ י ַרבָּ ת ָרעַ ת ה וְ כָ ל יֵצֶ ר מַ ְח ְשבֹת לִ בּ ֹו ַרק ַרע Pagina 21 ָארץ ֶ ָָאדם בּ ָ ָוַיִ נָּחֶ ם יהוה כִּ י עָ ָשה אֶ ת ה וַיִתעַ צֵּ ב אֶ ל לִ בּ ֹו ְ Il Signore è pentito ed addolorato, più che adirato. Non vuole identificare un singolo colpevole o un gruppo di colpevoli. Con rimedio radicale, decide di ripulire la contaminata terra con il diluvio, annegando quella umanità moralmente mal riuscita, e ci riprova daccapo, salvando l’unico degno, il consolante Noah con la moglie, i tre figli e le loro mogli, con i campioni delle specie animali, tutti imbarcati sull’arca. Noè è come un nuovo Adamo, un antenato comune dell’umanità dopo il diluvio. Le diramazioni etnologiche cominceranno dai suoi figli. Noah (Noè) compare nel capitolo 5 di Genesi, verso il termine della precedente parashà Bereshit. Nacque da Lemeh che gli pose un augurale nome di sollievo e di conforto. La radice Noah esprime infatti il senso di riposo, tranquillità, ed il padre Lemeh dice ienahmenu, adoperando la voce verbale nihem, che esprime il senso della consolazione: «Questi ci consolerà [o conforterà] nel nostro operare e nella fatica delle nostre mani dalla [sulla] terra che il Signore ha maledetto» אֲ ֶשר אֵ ְר ָרה יהוה «Zè inahmenu mimmaasenu umeizvon iadenu min haadamà asher ererà Adonai» Inahmenu, ci consolerà. La radice NHM significa sia pentirsi che consolare consolarsi confortarsi. Così si è tradotto per il sentimento provato da Lemeh nella nascita di Noah, ma, per strane connessioni psicologiche al fondo del linguaggio, esprime, appunto, in diversa forma verbale, il diverso concetto del pentirsi, un sentimento che viene attribuito al Signore Iddio nel constatare, con dolore, quanta umana malvagità si manifestava sulla terra (capitolo 6, v. 5). Di qui la decisione divina di distruggere l’umanità insieme con gli animali, contaminati dal male morale e comportamentale dell’uomo, come questo fosse una pestilenza. Anche il Signore trova però un conforto nella presenza di Noè, favilla di positività e di ripresa, da cui poter ricominciare la vicenda umana. “E Noah trovò grazia agli occhi del Signore” Pagina 22 VeNoah mazà hen beeiné Adonai «Noah era uomo giusto, integro nella sua generazione, con Dio procedeva Noah» Noah ish zaddik tamim haià bedorotav et haElohim hitehallekh Noah Noè è uno zaddik, un giusto, nella sua generazione: si è intesa questa precisazione in un senso comparativo-limitativo, come si dicesse in confronto ai suoi contemporanei, che erano tanto malvagi, mentre Abramo lo è stato compiutamente e poté procedere davanti al Signore, con spessore di iniziativa morale (Genesi 17, 1). Ma la qualifica di giusto ha un sicuro valore per Noè. Noah non era giovane, come si potrebbe pensare dalla soddisfazione paterna per la sua venuta al mondo. Si può pensare che la grazia di Dio, prevista o augurata alla nascita o lodata in retrospettiva, se la sia guadagnata a poco a poco, con l’età, mostrando le sue virtù. Alla mitica venerabile età di cinquecento anni, egli generò Shem, Ham e Yafet, il che potrebbe far pensare che la moglie (secondo la leggenda di nome Naama) abbia avuto un parto trigemino, ma l’invidiabile cifra tonda di 500 anni in cui avvenne la paternità di Noah può intendersi in senso approssimativo, di massima, con pochi anni di distanza tra i figli. In effetti, più in là, al versetto 21 del capitolo 10 di Genesi, Shem (Sem) viene detto con poche parole, ellitticamente, Ahì Iefet haggadol definizione che viene intesa in due modi possibili: o che Sem era il fratello di Iafet più grande, quindi Sem primogenito, oppure fratello di Iafet il primogenito, cioè il primogenito sarebbe stato Iafet. Sempre nel capitolo 10, che parla degli eventi accaduti dopo il diluvio, si dice che Sem è stato il padre, il capostipite, di tutti i popoli dell’ oltre, con oltre inteso rispetto al corso dell’Eufrate. Pagina 23 Avviene la diligente fabbricazione dell’ Arca (Teva), eseguita da Noè, con i figli, secondo le istruzioni e le misure dategli dal Signore, con precisione di istruzioni tecniche. L’arca resta archetipo ideale di uomini che si salvano uniti nel pericolo, serbando con le vite i loro valori; come raccolta di esseri affini, anche di opere o di libri che vengono a costituire un tesoro; l’arca custodirà la Torà e sarà portata dai suoi fedeli; il cesto di vimini, piccola arca, conterrà e salverà il bambino Mosè nelle acque del Nilo; simile ad un’arca, la balena raccoglierà il profeta Giona salvandolo dalle acque, quando i marinai, a malincuore, ve lo gettano per far cessare la tempesta, e la stessa nave, diretta a Tarshish, su cui il riluttante profeta si era imbarcato, è immaginata dal midrash come sorta di un’arca plurietnica con rappresentanti dei settanta popoli. Alberto Cavaglion, nel libro Ebrei senza saperlo, esprime il senso dell’arca nel riunire idealmente un ambiente intellettuale e spirituale di fermenti, personaggi, libri su linee di discorso e di affinità. Arride, infine, l’idea dell’arca che raccoglie tutte le edot e tutte le correnti dell’Am Israel, che abbiano il senso della ahavat Israel, amore di Israele. Noè ed i suoi affrontano, al sicuro nell’arca, ma certamente attoniti e non senza timore, l’esperienza, tutto intorno a loro, del diluvio universale, con l’intera sommersione di quella terra emersa, che in Bereshit era stata provvidenzialmente divisa dalle acque. Il diluvio comincia sette giorni dopo la loro sistemazione nell’arca, precisamente il giorno diciassettesimo del secondo mese del secentesimo anno di vita di Noah, il che significa che neppure i suoi figli erano giovani, perché, essendo stati generati dal padre cinque volte centenario, avevano già un secolo di vita nella mitica dimensione con cui è rappresentata quell’età primordiale. Il diluvio dura quaranta giorni e la terra resta ricoperta dalle acque, che scemano a poco a poco, fino all’inizio dell’anno seicento uno della vita di Noè. Quindi la famiglia è rimasta nell’arca per più di dieci mesi, dopo aver mandato in esplorazione della terra asciutta il corvo e la colomba. La memoria del diluvio era a vivaci tinte in civiltà vicine all’ebraica. L’eroe babilonese Utnapishtim, nell’epopea di Gilgamesh, cui il dio Ea fa costruire, per sua salvezza, l’arca, è un omologo, con dovute differenze, del biblico Noah. Memorie del diluvio si sono riscontrate anche in civiltà più lontane. Deve essere avvenuto un immane disastro naturale, probabilmente riconducibile allo scioglimento dei ghiacciai o somigliante al recente Tsunami, ma la fantasia e la devozione religiosa di diversi popoli lo hanno Pagina 24 considerato come evento mosso, per collera, da divinità. L’acqua reca la purificazione. Si innalza con paurosi flutti, coprendo la terra, mentre la nave balza e si tiene sulle grandi onde, ricordate nel salmo 29, che cantiamo ogni venerdì sera: Adonai lamabul yashav Il Signore siede al di sopra del diluvio Ci si è chiesti cosa facesse la gente circostante nell’assistere ai grandi preparativi del bastimento di Noè e se lui li avvisasse del rischio di perire perseverando nelle colpe oppure tenesse riservato il privilegio concesso a lui e ai suoi dal Signore. Secondo una leggenda, Noè da centoventi anni ammoniva quanti più poteva a pentirsi e non fu ascoltato. Quando gli astanti videro partire il naviglio sotto la pioggia scrosciante presero paura e invocarono di essere presi a bordo, ma Noè ricordò loro i suoi moniti e disse che ormai giungeva la gran punizione divina: si veda Louis Ginzberg, Le leggende degli ebrei, I vol. (ediz. Adelphi), pp. 152 ss. La leggenda è sviluppata, alla sura 71, nel Corano, che fa di Noè un inviato di Allah, eloquente ma non ascoltato e perfino insidiato, predicatore di ravvedimento. Torna il sereno. Le fonti dell’abisso e le cateratte del cielo si chiudono. Noè manda la colomba ad esplorare la ricomparsa delle piante. Ne ha la prova. La famiglia di Noè scende a terra. La normale vita umana ed animale ricomincia. Si staglia nell’aria nuvolosa l’arcobaleno (Qeshet), che è il segno del rinnovato patto: «L’arcobaleno sarà nelle nuvole ed Io lo vedrò per ricordare il patto perpetuo esistente fra Dio e tutti gli esseri viventi, fra tutte le creature esistenti sulla terra». Il mondo è stato purificato, ma nessuna purificazione, nessuna rinascita, nessuna rivoluzione, ha effetti definitivi nei tempi lunghi. Certe costanti della natura umana si Pagina 25 riaffacciano e rischiano di riprendere a poco a poco il sopravvento, se non vi è molta vigilanza e pronta reazione di quanti sentono il bene ed operano per il bene. Dio stesso, nella sua alta sapienza, se ne convince e decide di non ripetere la drastica soluzione del diluvio o simili catastrofi. Il Signore ripensa, riflette, si direbbe matura (salvo, poi, a pensare qualcosa di simile contro il ribelle popolo ebraico, e ne sarà distolto dal senno di Mosè): «Non maledirò più la terra a causa dell’uomo, poiché il pensiero dell’animo dell’uomo tende al male fin dalla fanciullezza, né più colpirò tutti i viventi come ho fatto». E’ una lezione di divino realismo, che presagisce certi toni del Qohelet (Ecclesiaste). Nel nuovo adattato assetto che si viene a consolidare compare la svolta dal vegetarianismo all’alimentazione anche carnea, con uccisione a scopo alimentare degli animali, che pure il Signore ha benedetto e con cui ha stretto il patto, nel contesto della terra, ma è un patto che contempla, con il primato umano, l’ alimentazione carnea a spese degli animali. Questa è cominciata, verosimilmente, fin dalle origini e lo stadio vegetariano prima del diluvio è forse idealizzato. L’ antropologia biblica si delinea con i figli di Noè, progenitori di tre grandi stirpi, note nella tradizionale suddivisione antropologica, in uno spazio tra Asia anteriore, Africa ed Europa: da Sem deriva la stirpe semitica, da Cam la camitica soprattutto in Africa, Yafet da cui la stirpe giapetica in Europa ma anche in Media e Persia. L’ambito era comprensibilmente approssimativo e limitato, non essendovi comprese tante stirpi di più lontana ubicazione, con cui non si era venuti a contatto. La ripartizione etnologica va anche vista alla luce della linguistica, che segna le differenze tra popolazioni simili o uguali per caratteri fisici. Il vecchio Noè, per quanto giusto, da coltivatore di vigne, cede all’attrattiva del vino, si ubriaca e si denuda. Ubriachezza di Noè di Giovanni Bellini, il Giambellino, 1429 o 1430 - 1510 Pagina 26 Cam non volge altrove lo sguardo dalla pietosa scena, guarda, sorpreso e curioso, la nudità paterna e ne parla, indiscreto, ai fratelli, che coprono rapidamente il padre e camminano a ritroso per non guardarlo oltre. Noè, rinsavito, maledice Cam e condanna la sua discendenza ad un destino di subordinazione e servitù. E’ qui che compare nella Bibbia il concetto della schiavitù con il termine ebraico polisemico radice עֶ בֶ ד עֲבו ָֹדה עבד che abbraccia i significati di lavoro, di servizio dal più umile alle funzioni qualificate di ministero, di dipendenza sia sofferente, pesante, alienante, sia invece fedele, rispettosa, educante, convinta nel riconoscimento di una superiorità; quindi di culto alla sovranità divina che trascende la condizione umana, o viceversa culto deviante a vani sostituti stranieri della divinità (avodà zarà). Qui il temine significa subordinazione del fratello ai fratelli per la maledizione, pronunciata dal padre, a seguito della caduta sua, paterna in una condotta disdicente, che non gli ha fatto onore. Davvero, dunque, Noè era giusto solo relativamente, in confronto ai contemporanei, ma resta pur sempre l’onorato patriarca della tradizione biblica. Il figlio Cam ha sbagliato e, come dice Giuseppe Gioacchino Belli, per le regole d’una volta, «er padre ha in mano li raggioni de tutti li parenti, e er fijjo dipenne sempre, e ssi cce ruga ha torto». Ma, per una matura comprensione dell’episodio biblico, va penetrato il senso eziologico della dannazione di Cam, funzionale alla provvidenziale conquista ebraica della terra promessa, che era la terra di Canaan. Canaan è il figlio di Cam, chiamato in causa insieme col padre per avere svergognato il nonno Noè. Canaan è l’ eponimo di quel paese e di quella gente, dove nella prossima parashà giunge il nostro padre Abramo, migrante da Ur dei Caldei, ricevendo dall’Eterno la promessa di quel lido, ove è giunto: «Il territorio dei canaanei si estendeva da Sidone verso Gherar fino a Gaza, verso Sodoma, Gomorra, Admà e Zevim fino a Lashà». Nel paese vivranno Isacco e Giacobbe, che emigrerà, con tutti i figli, per raggiungere il prediletto Giuseppe in Egitto. All’Egitto erano attratti altri abitanti di Canaan, che facevano lo stesso percorso. I figli di Israele ci si troveranno dapprima bene, ma poi Pagina 27 patiranno, sulla propria pelle, la schiavitù, e vi si sottrarranno con il cammino inverso dell’esodo, guidati da Mosè. Cresciuti di numero, non saranno più una grande famiglia, ma un popolo, anelante alla terra, che Dio aveva promesso ad Abramo. Il paese era popolato dai canaanei e i figli di Israele, sotto il comando del prode Giosuè lo conquisteranno. La guerra coi canaanei sarà aspra come tutte le guerre, e la fama dei mitici loro progenitori, Cam e Canaan ne risente fin da ora: nel Midrash Rabbà si parla addirittura di sconcezze commesse da Canaan dentro l’arca. Ci sarà guerra con i canaanei e sottomissione dei canaanei, anzi la Torà ci dice che andavano tutti eliminati o almeno cacciati, e meglio allora si comprende la maledizione di Canaan: «Maledetto Canaan, sia servo dei servi dei suoi fratelli» ָארוּר כְּ נָעַ ן עֶ בֶ ד עֲבָ ִדים יִ ְהיֶה לְ אֶ חָ יו Ma non ci saranno soltanto guerra e sottomissione. Si condividerà in parte il paese a zone alterne, ci saranno rapporti economici, dalla loro letteratura passerà parecchia influenza nella letteratura ebraica e quindi nella stessa Bibbia, come ha insegnato Umberto Cassuto. Sovente ebrei saranno attratti, con sdegno della Torà, dai loro riti e costumi. Molti canaanei, soggiogati, vivranno umilmente entro la società ebraica, e a poco a poco si ebraizzeranno. Temibili conquistatori, per gli ebrei come per i canaanei, saranno i filistei, e poi ne verranno tanti altri, fino ai romani e agli arabi. La maggior parte degli ebrei se ne andrà, sognando il ritorno. Col ritorno sionista nella terra promessa, la passione archeologica di Israele oggi li riscopre, con loro nomi antichi fioriscono nuovi abitati. Nella sorgente letteratura israeliana vi è stato finanche un circolo che si è dato il nome di Canaanei, a marcare il nuovo radicamento nel prisco paese originario, dopo la bimillenaria parentesi diasporica. Da Cam a Canaan, eponimo della terra promessa, e da Canan a Cam, eponimo di terre e genti africane. Il testo biblico, al versetto 18 e al versetto 22 del capitolo 9, precisa due volte che Cam, il fratello dalla curiosità perversa, è padre di Canaan, cioè progenitore di quelle genti che i figli di Israele hanno combattuto e sconfitto sotto il comando di Giosuè. Invece, al tempo della tratta degli schiavi neri dall’Africa, l’attenzione di chi vi aveva interesse, o di quanti comunque non se ne preoccupavano, si volse su Cam, adducendo di trovare nella Bibbia la giustificazione: perché l’Africa è territorio camita, nella descrizione al capitolo 10 di Genesi, in questa parashà. Risalta, in particolare, Kush, uno Pagina 28 dei fratelli di Canaan, antenato degli abitatori di terre africane, a sud dell’Egitto, tanto che in ebraico kushi ha il significato di negro, uomo di pelle scura. La genealogia di questo denso capitolo ci fa fare però dei salti geografici e caratteriali, in un quadro di mobilità: Kush genera l’ammiratissimo Nimrod, che è il primo eroe sulla terra, insuperabile cacciatore al cospetto del Signore, fondatore di un regno che ebbe l’inizio in Babilonia, quindi in Asia, e che ci porta in piena area semitica, tanto che ne riparleremo parlando di Abramo: «Kush generò Nimrod. Questi cominciò ad essere un eroe (uomo di valore) sulla terra. Fu formidabile cacciatore davanti al Signore, sicché è invalso dire che qualcuno è come Nimrod, impareggiabile cacciatore davanti al Signore. Il suo regno cominciò in Babilonia, in Erekh, in Accad, in Kalne e nel paese di Shinar» כוּש ָילַד אֶ ת נ ְִמרֹד ָארץ ֶ ָהוּא הֵ חֵ ל לִ ְהיוֹת גִּ בֹּר בּ הוּא הָ יָה גִ בֹּר צַ יִד לִ פְ נֵי יְ הוֹה ַָאמר כְּ נ ְִמרֹד גִּ בּוֹר צַ יִד לִ פְ נֵי יְ ה ָ ֹוה ַ על כֵּן י וַתּ ִהי ֵר ִשית מַ ְמלַכְ ת ֹו בָּ בֶ ל ְ וְ אֶ ֶרך וְ אַ כַּ ד וְ כַ לְ נֵה ְבּאֶ ֶרץ ִשנְעָ ר Accad è òa regione originaria di Abramo. Dai personaggi e dai paesi andiamo alle lingue e alle loro connessioni: l’accadico è lingua semitica del gruppo nord-orientale. Tra gli studiosi che ne hanno trattato segnalo Giovanni Semerano con il suo libro, in due volumi, Le origini della cultura europea. Rivelazioni della linguistica storica (Firenze, Olschki, 1984). Del gruppo semitico occidentale fanno parte le lingue canaanee e l’ebraico, che è una lingua di Canaan, indicata come tale dal profeta Isaia, al capitolo 19, versetto 18. Fratelli di Canaan e di Kush, sempre nella genealogia di questa parashà, al capitolo decimo, sono Mizraim e Put. Mizraim è l’eponimo dell’Egitto, con cui il popolo ebraico ha avuto molto a che fare. Put, meno noto, compare nei profeti Geremia ed Ezechiele. La sua localizzazione, come eponimo, pare essere in Libia. Pagina 29 IAFET NELLE TENDE DI SEM Il padre Noè, maledicendo Cam, impartisce una benedizione agli altri due figli, asservendo a loro Cam e i suoi discendenti. Con speciale auspicio, Noè chiede al Signore di fare estendere, o prosperare, Iafet, in arguta corrispondenza etimologica al concetto di espansione insito nel suo nome (Jaft Jefet), e di farlo dimorare nelle tende di Sem: ֹלהים לְ יֶפֶ ת וְ יִ ְשכֹּן בְּ ָאהָ לי שֶ ם ִ ֱיַפְ ת א L’omaggio a Iafet, di contro alla condanna di Cam, può esser visto da un esperto di politica internazionale come una delle convergenze tra potenze nella competizione con un’altra, paventata da entrambe in quella fase. C’è chi vi ha visto un momento di distensione o di intesa tra ebrei e filistei, contro i canaanei (Francesco Rossi De Gasperis, Prendi il libro e mangia. I. Dalla creazione alla terra promessa, Edizioni dehoniane). Joseph Herman (1872- 1946), gran rabbino del British Commonwealth, in un brano citato da Dante Lattes, ha scritto: «Jefeth, progenitore dei popoli indoeuropei o ariani, riceve la benedizione di prosperità mondiale e di esteso dominio. Egli avrebbe dovuto abitare nelle tende di Sem, cioè dovevano sussistere amichevoli relazioni fra le razze semitiche e quelle giapetiche. E’ la prima delle previsioni universalistiche che la Scrittura fa riguardo al giorno in cui cesserà l’inimicizia fra le nazioni ed esse saranno unite nel riconoscimento del Dio d’Israele. La parola Jefeth può significare pure bellezza. I rabbini concepivano la bellezza come una categoria della purità. L’augurio fatto a Jefeth era che la bellezza della Grecia dimorasse nelle tende di Sem». L’atmosfera storica per un tale omaggio può essere stata il tempo di Alessandro Magno, con il racconto leggendario ma significativo della sua visita in Gerusalemme. Fu l’inizio di un’epoca che, malgrado rischi e scontri, avvicinò la civiltà di Israele e l’ellenica, se si pensa, in particolare, alla traduzione in greco della Bibbia, con enormi conseguenze. Noi, ebrei europei, siamo, per tutta la nostra formazione culturale, per le nostre cittadinanze e per i nostri compositi valori, siamo molto sensibili ed impegnati nel nutriente scambio di soggiorni sotto le tende di Sem e di Jafet, senza dimenticare Cam Pagina 30 e le altre genti del mondo che si son fatte avanti, perché ci sono anche le loro tende, per plurime visitazioni, in tensioni di pace, come presagito dai nostri profeti. ** Segue il racconto della Torre di Babele e della diramazione delle lingue, miticamente interessante per la storia della glottologia. Il grande linguista Graziadio Isaia Ascoli (1829 – 1907) ben vide il nesso originario tra le lingue dei popoli usciti da una comune area antropica comprendente l’India, l’Asia anteriore e le genti da oriente sparsesi in Europa, con diramazioni di viaggi e di spostamenti, che hanno condotto alle differenziazioni linguistiche dal ceppo originario comune. La parashà nomina i discendenti dei tre figli di Noè. Da Sem, per lunga fila di discendenti, si giunge a Ever, da cui probabilmente deriva il nome da noi portato di ivrim, gli ebrei. Ever genera Peleg, Peleg genera Reù, Reù genera Serug, Serug genera Nahor, Nahor genera Terah, Terah genera Abramo, Nahor junior e Haran, Haran genera Lot, nipote e compagno di strada di Avraham Avinu, scelto dal Signore per fondare il nostro retaggio e la nostra civiltà. Figli di Jafet o Jefet furono Javan, Gomer, Magog, Madai, Tuval, Meshek e Tiras. Sono gli eponimi di terre e popoli. Javan è la Grecia, Madai è la Media, Tiras è la Tracia, Gomer la Frigia e la Cimmeria, ma ha un’assonanza con Germania, Tuval la Bitinia. Magog, paese del Nord, è unito nella fama a Gog, che potrebbe essere Gige re della Lidia, Ezechiele parla dell’attacco che verrà di lì alla terra di Israele dopo il ritorno dei suoi figli dall’esilio, con vittoriosa conclusione, sicché sarà l’ultima battaglia, e il Signore si santificherà in Gerusalemme, manifestando la sua gloria tra le nazioni. Di tale estremo combattimento, negli ultimi giorni, parla, nel Nuovo Testamento, l’Apocalisse. A Gog e Magog si pensò, sulla fine dell’Impero romano, quando irruppe l’invasione dei goti. Nella letteratura moderna il tema è ambientato da Martin Buber, con ispirazione hassidica, al tempo delle guerre napoleoniche. Ashkenaz, figlio di Gomer, ha dato il nome, per il riferimento geografico in Europa centrale ed orientale, a tutta una parte del mondo ebraico. Pagina 31 ** Il patto stabilito da Dio con Noè precede universalmente il patto con Abramo. Sono come due cerchi concentrici nel disegno divino: un patto universale con l’umanità, auspicando che si comporti bene, ed un patto speciale con il popolo di Israele, che deve ulteriormente meritare. Il pensiero ebraico ha elaborato, riguardo al patto e alle caratteristiche dei Noachidi, tutta una teoria di grande significato, denominata comunemente Noachismo. L’elaborazione della teoria è nella Mishnà, nel Talmud, in altri scritti della tradizione, in Maimonide, nel pensiero ebraico successivo, fino ai nostri giorni. Il sentimento del bene e la moralità sono attitudini di base, ma il pensiero ebraico ha fissato alcune norme essenziali di comportamento, con i precetti noachidi, numerati in sette punti, ciascuno dei quali dà luogo ad articolate trattazioni: Tribunali: istituire un sistema giuridico e giudiziario Benedizione del Nome di Dio, inteso almeno nel senso di non bestemmiarlo Culto estraneo, astenersi dall’idolatria Versamento di sangue, non uccidere Scoprimento delle nudità, incesto, adulterio con donna sposata Non depredare, non rubare Membra di vivo, divieto cibarsi di membra staccate da animale vivo Pagina 32 Mi soffermo sul particolare precetto noachide del non cibarsi di membra di animali vivi, che può apparire strano o atipico. Ci deve essere stata, nel formularlo, cognizione di usi, probabilmente collegati a determinati culti, di amputazione di membra di animali ingerendone la carne forse cruda, o di sbranamento di animali. Segnalo un’opera dell’ antropologo e psicologo junghiano Robert Eisler (1882 – 1949), ebreo viennese, uscita di recente in edizione italiana, intitolata Uomo lupo. Saggio sul sadismo, il masochismo e la licantropia (ed. Medusa), che rivisita l’antico culto orgiastico dionisiaco, e connesso mito classico delle menadi, le quali, invasate, giungevano a sbranare animali vivi, e menziona una confraternita marocchina Isawaja , i cui adepti, in stato di mistica eccitazione, sarebbero analogamente giunti a fare a pezzi a morsi animali vivi. Eisler esplora queste zone crudelmente abnormi degli impulsi umani nel quadro concettuale di una teoria per cui parte dell’umanità, almeno in certi stati mentali, non cerca tanto l’utile o il piacere quanto le sensazioni forti e terribili. I nazisti, nel corso della shoah, hanno fatto sbranare nostri simili e fratelli da cani feroci appositamente aizzati. Lo hanno raccontato dei testimoni, anche un sopravvissuto ai Lager ebreo italiano, che perse così la sorellina. Vi sono tuttora turisti in paesi esotici che comprano animali, appositamente venduti, per vederli sbranare dalle tigri. Mentre viene proibito, per giusta norma noachide di mutilare l’animale, per mangiarne una parte, è stato ammessa, con svolta nella Bibbia, l’alimentazione carnea, con uccisione degli animali. Infatti, all’inizio del capitolo 9, quando Dio benedice Noè e i familiari usciti dall’arca, la benedizione è subito seguita dalla nuova messa a disposizione degli animali a scopo alimentare, soltanto con la limitazione di non cibarsi del sangue, perché nel sangue ha sede la vita. Si anticipa con ciò il precetto mosaico, che è già precetto noachide: «Ogni essere che è vivo [il testo ebraico è più complesso: kol remesh asher hu hai, [esprime la mobilità, caratteristica degli esseri viventi] vi servirà di cibo, unitamente alle verdure, io vi do tutto. Ma non mangerete carne nella vitalità del suo sangue»; e, sulla base proibitiva del sangue, dal rapporto con gli animali il Signore passa alla proibizione e condanna dell’omicidio. Se dell’animale si versa il sangue per non cibarsene, del proprio simile umano non si deve versare il sangue in alcun modo, «perché Dio fece l’uomo ad immagine propria»: Pagina 33 Dio chiederà conto del sangue umano versato ed implicitamente al versetto 6 del capitolo 9 ammonisce che chi versa il sangue dell’uomo subirà il versamento del suo sangue per mano dell’uomo. Ciò implica l’ammissione della pena capitale o della vendetta familiare o tribale a carico dell’omicida, con le limitazioni che poi seguiranno nel codice mosaico, in particolare a tutela di omicidi preterintenzionali, con riparo nelle città di rifugio. Ci è voluto molto cammino di civiltà per giungere, in parti progredite del mondo, a superare la pena di morte. La Toscana leopoldina ha un primato. I precetti noachidi, che l’elaborazione successiva ha ricavato dalla premessa biblica, appaiono pochi e semplici, ma ognuno di essi costituisce soltanto una obbligazione di principio, che dà luogo a problemi di interpretazione, nell’applicazione, più o meno estensiva, a comportamenti ascrivibili sotto le rispettive categorie generali, cominciando dal divieto di idolatria. La categoria Dinim implica un ordinamento giuridico ed un sistema di leggi, che presuppone, a sua volta, un consorzio civile e una costituzione politica. Maimonide chiede ai noachidi non solo di osservare i precetti stabiliti per essi, ma di rendersi conto che sono ispirati da Dio per il patto stretto con Noè. Ciò comporta l’avere un’idea della divinità e pone un problema di compatibilità tra l’idea della divinità che questi soggetti hanno, con il relativo culto che le prestano, ed il Dio unico del monoteismo. In altre parole ci si chiede cosa si debba intendere per idolatria, con riferimento alle religioni esistenti nel mondo. Riconoscendo all’Islam il carattere monoteistico, il pensiero ebraico, con Maimonide ed altri autori, si è interrogato sul Cristianesimo, con diverse analisi e considerazioni, nel cui merito non sto qui ad entrare, data la complessità teologica del problema. Alla luce di questo discorso, il Noachismo, che nasce prima dell’Ebraismo (perché Noè è venuto prima di Abramo), ma che è teorizzato in retrospettiva, non è propriamente una religione a sé, ma un atteggiamento religioso Pagina 34 compatibile con l’appartenenza a religioni sorte anche dopo dell’Ebraismo, purché, nel riconoscimento del Dio supremo, si abbia rispetto della Torà data ad Israele e si sia giusti verso Israele, come del resto ci si attende che il giusto si regoli verso tutti con giustizia. E si è posto, fin dall’antichità, il caso di noachidi particolarmente attratti da Israele, fino a volere adempiere ad una parte delle mizvot osservate dagli ebrei. Il pensiero ebraico sui Bené Noah si è incontrato con le dottrine del diritto naturale e della religione naturale. Il giurista e politico inglese John Selden (1584-1654), teorico del diritto naturale e promotore della Petition of rights, stimò la dottrina noachide e pubblicò nel 1640 il libro De iure naturali et gentium iuxta disciplinam Hebraeorum. Il rabbino e teologo Elia Benamozegh (1823-1900) si è occupato largamente del Noachismo e dei problemi connessi, giungendo a teorizzare una diffusione ebraica del Noachismo, come religione naturale universale, desiderabile per i non ebrei. Uno stimolo in tal senso veniva a Benamozegh dalla preoccupazione per la crisi del sentimento religioso nell’età del positivismo e della secolarizzazione. Non proponeva un proselitismo ebraico, perché gli ebrei dovevano restare nel ruolo speciale di popolo sacerdotale, ma una sorta di proselitismo noachide mosso da una iniziativa ebraica. Penso che agisse in Benamozegh, agli albori dell’emancipazione, la lunga introiezione ebraica di rinuncia al proselitismo, in realtà bloccato e proibito dall’ Islam e dal Cristianesimo, le due religioni trionfanti, con la conseguenza di serrare l’Ebraismo in una dimensione minoritaria su base etnica e di eroderlo via via mediante conversioni lungo l’andare dei tempi. Benamozegh ben conobbe e spiegò la portata dell’antico proselitismo ebraico, al pari del contemporaneo rabbino Marco Mortara. Seguace di Benamozegh ed apostolo del Noachismo è stato Aimé Pallière, di nascita cristiana e vicino all’Ebraismo (1875-1949), , autore dell’opera Le Sanctuaire inconnu (edito in italiano da Marietti a cura di Marco Morselli). Pallière ha ordinato e curato, postuma, la pubblicazione dell’opera di Benamozegh Israele e l’umanità, che tratta il noachismo e la sua riproposta (Marietti, 1990). A Pisa si è professato noachide il professor Carlo Giuseppe Lapusata, che ho conosciuto da vicino, autore del libro L’ebreo non ebreo. Israele incirconciso (edizioni TEP, 1996). Negli atti del convegno che si tenne a Livorno nel centenario della morte di Benamozegh, la professoressa Catherine Poujol tenne la relazione intitolata Quelle actualité pour le Noachisme? Sectes, fondamentalisme, Pagina 35 antisemitisme: in Per Elia Benamozegh, cura di Alessandro Guetta, Milano, Thalassa de Paz, 2001. ** BREVEMENTE SULLA HAFTARA’ La haftarà è tratta dai capitoli 54 e 55 del libro del profeta Isaia, dove viene ricordato il diluvio come metafora di una terribile punizione divina degli uomini, con riferimento a travagli rieducativi inflitti ad Israele ed all’amorevole perdono, per cui non si ripeteranno. Il Signore non nasconderà più la sua faccia di fronte alle sofferenze del popolo cui ha stretto il patto: «Sarà per me come le acque di Noè. Come ho giurato che le acque di Noè non passeranno più sulla terra, così ho giurato che non mi sdegnerò più contro di te né ti minaccerò». Da notare l’uso ellittico della locuzione acque di Noè, sottintendo le acque che hanno sommerso la terra al tempo di Noè. Tra le molteplici promesse, suggestioni, e gli auspici di questa porzione di Isaia, soffermiamoci sul versetto 13 del capitolo 54, di augurio e di sprone per la continuità morale, culturale e spirituale delle nuove generazioni, nei nostri figli e nipoti: «e tutti i tuoi figli saranno discepoli del Signore e abbondanza di shalom per i tuoi figli». Shabbat Shalom, Bruno Di Porto