E POTERI CONFLITTI ipertesto Le deportazioni dall’Italia Prigionieri dell’esercito italiano, caduti in mano ai tedeschi, attendono in fila il treno che li porterà in un campo di prigionia in Germania, fotografia del 1944. F.M. Feltri, Chiaroscuro © SEI, 2010 1 Le deportazioni dall’Italia i primi italiani che subirono le drammatiche conseguenze dell’8 settembre furono i soldati, che vennero disarmati e catturati in massa dai tedeschi, a causa dell’incapacità dei vertici militari di organizzare un’efficace resistenza, quando le forze della Wehrmacht presenti in italia erano ancora ridotte. insieme a 700 000 uomini (alcuni storici, tuttavia, propongono stime molto più elevate: il tedesco Gerhard schreiber, ad esempio, ritiene che al 1o febbraio 1944 fossero stati internati 809 000 soldati italiani), caddero in mano tedesca anche 200 fra ammiragli e generali, dell’esercito e dell’aeronautica. i prigionieri furono in genere internati dapprima in campi di transito, in cui già sperimentarono condizioni di detenzione molto dura, soprattutto a causa della carenza di viveri. in seguito, – secondo l’efficace espressione di un deportato bolognese – furono «caricati sul treno come sardelle», cioè stipati in carri bestiame, e condotti in Germania o in polonia. per indurli a salire sui vagoni, i tedeschi spesso promettevano ai soldati catturati in Grecia o in iugoslavia che i convogli li avrebbero riportati a casa, in italia. in linea di massima, ufficiali e truppa erano destinati a campi distinti; i primi, inizialmente esentati dal lavoro, finirono però in polonia, in numero di 28 000, ove rispetto al reich le condizioni climatiche erano peggiori. i dodici lager polacchi assegnati agli ufficiali italiani, inoltre, erano già stati dichiarati inagibili, a causa delle pessime condizioni igieniche, e furono comunque riaperti, per accogliere i traditori badogliani. i soldati furono distribuiti, per la maggior parte, in moltissimi campi, denominati Stammlager (Stalag), ciascuno dei quali era poi dotato di innumerevoli sottocampi. infatti, spesso, il lager era di fatto annesso alla fabbrica, alla miniera o all’impianto industriale in cui i detenuti erano obbligati a lavorare. secondo la Convenzione di Ginevra del 1929, i prigionieri di guerra non avrebbero dovuto lavorare nell’industria bellica del paese da cui erano stati catturati. per aggirare questo ostacolo, e sottrarre i deportati italiani ai controlli operati anche in Germania dalla Croce rossa internazionale, Hitler emanò una precisa direttiva speciale, che modificò la condizione giuridica degli ex soldati del regio esercito. «su ordine del Führer – scrisse il generale Keitel ai suoi subordinati il 20 IPERTESTO A Gli internati militari ipertesto settembre 1943 – i prigionieri di guerra italiani, a partire da questo momento, non devono più essere indicati come prigionieri di guerra [Kriegsgefangene], ma piuttosto come internati militari italiani [italienische Militärinternierte]. in conformità, nell’ordine di riferimento la parola prigioniero di guerra dovrà essere sostituita con la suddetta nuova indicazione». l’espressione «internato militare» non era nuova, nel diritto internazionale, ma fino ad allora era stata impiegata solo per indicare l’arresto e la detenzione di un soldato in un paese non coinvolto nella guerra, dopo uno sconfinamento casuale o intenzionale (si pensi, ad esempio, a un pilota, costretto ad atterrare in territorio neutrale dopo uno scontro a fuoco). Nel caso degli italiani, però, il significato del termine era stravolto, o meglio piegato ai fini che il terzo reich voleva raggiungere grazie allo sfruttamento della manodopera italiana. Disfatta, cattura e internamento provvisorio DOCUMENTI UNITÀ VIII Il bolognese Leonello Morsiani, nelle sue memorie, traccia un quadro molto efficace dello sfacelo dell’8 settembre e delle macerie morali e materiali che esso provocò. Dopo la cattura, i soldati italiani furono internati in campi di transito, prima di essere spediti a lavorare in Germania. La scena seguente è ambientata in Iugoslavia. L’ITALIA NELLA SECONDA GUERRA MONDIALE 2 Le strade sono letteralmente congestionate da truppe italiane arresesi e da tedeschi che si recano ad occupare le posizioni lasciate da noi… I cigli delle strade sono cosparsi di ogni sorta di materiale bellico: fucili, bombe a mano, cassette di munizioni, mortai, baionette, giberne e altro ancora… Molti dei nostri piccoli carri L sono rovesciati e immobili nelle posizioni più strane, alcuni completamente sventrati, colpiti in pieno dai cannoni dei Tigre tedeschi. A Dubrovnik un triste spettacolo si è presentato ai nostri occhi: i segni della battaglia sono ancora freschissimi e l’aria è ancora impregnata di un acre odore di polvere da sparo e di carne bruciata. Giacciono qua e là i corpi dei nostri soldati crivellati di colpi, alcuni addirittura a brandelli. Altri corpi invece sono a terra, rattrappiti, senza presentare ferite di sorta, solo i feriti e i cadaveri tedeschi sono già stati portati via. In gran numero anche le carcasse di muli e di cavalli della nostra artiglieria ippotrainata [trainata dai cavalli, n.d.r.]… Anche in città un’enorme quantità di materiale bellico per ogni dove… Intanto lunghe colonne di prigionieri di ogni arma passano giorno e notte dalla strada che fiancheggia il campo… non è possibile avvicinarli ma sembra che siano diretti in Germania. Sono malridotti e malvestiti. […] 13 settembre: ieri sera sulle sei pomeridiane reparti di fanteria tedesca (tutti soldati giovanissimi) ci hanno incolonnato e fatti scendere a Dubrovnik con tutto il nostro armamentario, cannoni compresi, per la resa definitiva in questo campo di concentramento provvisorio, già accampamento di un reparto di artiglieria ippotrainata. Il campo si trova nella zona periferica della città e a sud di essa; è spazioso e il terreno, in parte ondeggiato e in parte piano, è stato recintato alla meglio da siepi e da steccati, in legno e filo spinato. Non vi sono edifici in muratura, ma solo qualche baracca in legno ad uso magazzino: la truppa infatti era attendata, mentre i cavalli, a quanto sembra, dorminano all’aperto… 30 settembre: […] sono stato anche indisposto forse a causa dell’acqua non potabile che siamo costretti a bere. Il campo è stato organizzato e si provvede da soli alla cucina, agli alloggi, alla pulizia. Per i viveri finora si è tirato avanti con le scorte cui ci rifornimmo al Quali elementi permettono di capire momento del caos; i tedeschi non hanno mai distribuito nulla. Adesso però le abbiamo quasi l’arretratezza e la esaurite e presto, se non si provvederà, saremo alla fame. Speriamo sempre che succeda debolezza strutturale qualcosa di nuovo e finisca tutto, in modo da poter tornare a casa… dell’esercito 22 ottobre: la situazione è diventata critica per quanto riguarda il vettovagliamento, esauitaliano? rite tutte le scorte, viviamo nutrendoci per buona parte di carne di muli e cavalli morti di ineQuali erano dia o che uccidiamo durante la notte di nascosto. Riusciamo anche a fare qualche permuta i principali problemi con i civili jugoslavi: essi ci offrono farina e pane in cambio di capi di vestiario, di cui ancora dei soldati italiani, disponiamo, ma tutto ciò non potrà durare a lungo. dopo l’internamento r. ropa, Prigionieri del Terzo Reich. Storia e memoria dei militari bolognesi internati nella Germania nei campi di nazista, Clueb, bologna 2008, pp. 104, 108 transito? F.M. Feltri, Chiaroscuro © SEI, 2010 agli internati militari italiani (imi) in Germania fu offerta l’opportunità di un’immediata liberazione, se avessero accettato di collaborare con i tedeschi e con la Repubblica sociale di Mussolini. Non sappiamo con precisione quanti imi fecero la scelta di Riferimento storiografico 3 Riferimento storiografico DOCUMENTI La farfalla Il poeta romagnolo Tonino Guerra fu uno dei moltissimi internati militari in Germania che dovettero subire la fame nei campi tedeschi. Guerra ricorda che lì iniziò a comporre poesie in dialetto «per tenere compagnia a dei contadini romagnoli», cui dava conforto e speranza sentire parlare nella loro lingua materna. Il testo che presentiamo, invece, fu scritto dopo la liberazione ed esprime in pochi versi il dramma di un’intera generazione. Cuntént, ma propri cuntent a so stè una masa ad vòlti tla vòita mò piò di tòtt quant ch’i m’a liberè in Germania ch’am so mèss a guardè una farfàla senza la vòia ad magnèla Contento, ma contento davvero sono stato molte volte, nella vita ma più di tutte, quando mi hanno liberato in Germania e mi sono messo a guardare una farfalla senza la voglia di mangiarla s. pivato, Letteratura e guerra a Rimini, in a. biaNCHiNi, F. lolli (a cura di), Letteratura e Resistenza, Clueb, bologna 1997, p. 268 Che cosa significa poter «guardare una farfalla senza la voglia di mangiarla»? F.M. Feltri, Chiaroscuro © SEI, 2010 1 pag. 10 pag. 11 2 Le deportazioni dall’Italia mettersi al servizio del reich o del nuovo stato fascista; in un caso – il campo di bjala podlaska, nella polonia orientale, che ospitava circa 2500 ufficiali e un centinaio di soldati – quasi tutti scelsero di aderire alla rsi. al contrario, nel lager di luckenwalde (in Germania) visitato a scopo di propaganda da Guido tornella, direttore del settimanale “la voce della patria”, pubblicato proprio al fine di convincere i detenuti a sostenere il risorto governo mussoliniano, dei 16 000 imi presenti accolsero l’appello solo 15 soldati e un ufficiale. allo stesso modo, di fronte alla richiesta di entrare a far parte delle ss, risposero positivamente in 70 su 8000 a sandbostel, 50 su 5000 a Wietzendorf. anche se è difficile fornire cifre globali, nel complesso è legittimo affermare che l’adesione alla RSI e l’ingresso nelle SS fu un fenomeno relativamente ristretto, che coinvolse 50-65 000 internati (a seconda delle stime), cioè un 10%, al massimo, dei prigionieri. Questo rifiuto nasceva da motivazioni diverse. in larga misura, era dettato dall’avversione per i comportamenti arroganti e sprezzanti dei tedeschi, che molti soldati avevano sperimentato durante la ritirata di russia, nei balcani o, più semplicemente, dopo l’8 settembre, al momento della cattura. le conseguenze di quella scelta di campo furono molto dure. infatti, anche per i soldati italiani, la vita in lager divenne ben presto durissima, a causa delle condizioni di lavoro e, soprattutto, della scarsità delle razioni alimentari fornite dai tedeschi. una delle situazioni più difficili da sopportare fu quella in cui si trovarono coloro che furono condotti a mittelbau-Dora , un gigantesco impianto industriale sotterraneo, costruito all’interno delle montagne dello Harz, a circa 70 chilometri da buchenwald e Weimar. al sicuro dalle incursioni aeree alleate, i nazisti costruirono lì i razzi v1 e v2; il lavoro dei detenuti, però, era massacrante, soprattutto per coloro che furono costretti a scavare le gallerie sotterranee, nel cuore della montagna, con le perforatrici pneumatiche. Dei 60 000 detenuti che vi lavorarono tra il novembre 1943 e l’aprile 1945, circa un terzo morì. la stessa percentuale di morti si ebbe tra i 1300-1500 deportati italiani (politici e militari); di questi i primi 27 arrivarono a Dora subito dopo l’8 settembre, seguiti in ottobre da un altro gruppo, assai più consistente, di 579 militari. se le condizioni di vita di mittelbau-Dora erano un caso limite, la situazione era comunque gravissima in tutti i campi e si fece ancora più critica dal 28 febbraio 1944, allorché i vertici tedeschi autorizzarono le aziende che impiegavano manodopera italiana a istituire ge- IPERTESTO A ipertesto I militari italiani nei lager ipertesto ➔42 000 IMI deceduti rarchie interne e a fornire le razioni alimentari in modo proporzionale al lavoro svolto. una misura simile (per altro affine al sistema già funzionante nei lager sovietici fin dagli anni trenta) era già stata applicata in precedenza ai prigionieri sovietici; il fatto che una modalità di trattamento nata per gestire i sottouomini slavi sia stata estesa anche agli italiani è indicativa del forte declassamento che i traditori dell’8 settembre avevano subito nell’immaginario e nella gerarchia razziale nazista: e proprio tale disprezzo, del resto, a giudizio di vari storici spiega pure le diffuse e sistematiche violenze commesse dall’esercito tedesco a danno dei civili italiani. in pratica, gli internati ricevevano razioni alimentari differenziate, a seconda del loro rendimento sul lavoro. in tal modo, nel 1944-1945, le condizioni di salute dei prigionieri si aggravarono notevolmente, facendo aumentare i decessi per malattie legati a carenze alimentari. Nell’insieme, è stimato in 42 000 il numero degli internati militari italiani deceduti nei lager del terzo reich. UNITÀ VIII I deportati politici L’ITALIA NELLA SECONDA GUERRA MONDIALE 4 un secondo importante gruppo di italiani deportato in Germania fu quello dei politici; i due termini (italiani e politici), però, vanno intesi in senso lato. innanzitutto, numerosi soggetti condotti in Germania erano in realtà slavi, solo formalmente cittadini italiani, e anzi incarcerati proprio perché accusati di attività nazionalista, oltre che antifascista. i trasporti carichi di prigionieri di questo tipo partirono soprattutto da trieste, ma la distruzione di quasi tutti i documenti effettuata dalla Gestapo rende impossibile calcolare il numero dei deportati. in secondo luogo, politici non lo erano sempre. infatti, le autorità militari e la polizia tedesche usavano la deportazione come strumento di punizione per qualsiasi tipo di infrazione. in certi casi poteva trattarsi di un’opposizione attiva, motivata da precise ragioni politiche: si pensi, ad esempio, a chi aveva aderito al movimento partigiano e collaborava con la resistenza a vario titolo (come combattente, staffetta, addetto ai rifornimenti ecc.). la stessa pena, però, toccò anche a chi aveva nascosto e protetto un soldato (italiano o alleato), oppure aiutato un gruppo di ebrei a riparare in svizzera, oppure più semplicemente ascoltato Radio Londra (o La Voce dell’America) e ne aveva diffuso le notizie. in altri casi, furono deportate persone che vendevano generi alimentari al mercato nero (cioè a prezzi e in quantità superiori, rispetto a quelli fissati dalle autorità), altre che non avevano tempestivamente comunicato un cambio di residenza o non avevano i documenti in regola. il trasferimento forzato in Germania non fu mai tenuto nascosto. anche se i particolari delle condizioni di vita nei lager tedeschi erano sconosciuti (e inimmaginabili), nei loro ordini e nei loro proclami, i nazisti facevano largo uso di espressioni come deportazione e campo di concentramento, a scopo intimidatorio, cioè per spaventare la popolazione italiana e spingerla alla completa e passiva obbedienza. tra i primi italiani che furono deportati troviamo i detenuti dei penitenziari militari (circa 3000), catturati a Gaeta, a Forte boccea (roma) e peschiera (sul lago di Garda). si trattava di soldati e ufficiali condannati dalle Corti marziali per vari reati: autolesionismo, allontanamento dal proprio reparto, diserzione. per la maggior parte, furono condotti a Dachau, ove furono immatricolati come internati per misure di sicurezza e di protezione. Dapprima ricevettero il triangolo rosso dei politici, poi quello nero degli asociali. Dachau, nella graduatoria tedesca, era considerato un lager relativamente blando. infatti, vi venivano internati anche i sacerdoti e i pastori protestanti antinazisti. Nel complesso, passarono per Dachau 2720 religiosi, di una ventina di nazionalità, tra cui 31 preti cattolici (14 dei quali morirono nel lager). Nel complesso, è possibile che a Dachau siano arrivati 37 trasporti di politici italiani, per un totale di 9800 deportati. Decisamente più dure le condizioni di vita di Mauthausen, ove arrivarono 8100 prigionieri, in 21 convogli ferroviari. i superstiti furono appena 350. in effetti, nella logica tedesca, l’assegnazione di un deportato al lager di mauthausen equivaleva di fatto a una condanna a morte differita: semplicemente, invece di essere eseguita al momento dell’arresto o della sentenza emessa dal tribunale della Gestapo, era rinviata, in modo da poter sfruttare il lavoro delF.M. Feltri, Chiaroscuro © SEI, 2010 L’arrivo a Ravensbrück di una donna italiana ipertesto l’oppositore politico, per un periodo più o meno lungo, a seconda della sua capacità di resistenza fisica. le donne (800-1000) erano invece inviate al campo femminile di ravensbrück. a causa delle distruzioni di documenti operate dai nazisti nel 1945, è molto problematico fornire delle stime precise sul numero dei politici forzatamente trasferiti dall’italia in Germania. la cifra più cauta proposta dagli storici ipotizza 32 820 deportati; poiché i superstiti furono circa 3300 (10% circa), in questo caso bisognerebbe calcolare almeno 29 500 morti. anche il numero esatto dei trasporti per il reich è incerto, e oscilla tra 80 e 90 convogli, a seconda delle valutazioni (in media, uno alla settimana, nei venti mesi di occupazione nazista dell’italia). DOCUMENTI m. massariello arata, Il ponte dei corvi. Diario di una deportata a Ravensbrück, mursia, milano 1979, pp. 28-29 Chi erano le detenute contrassegnate dai triangoli viola e verdi? Che funzione svolgevano nel campo? Spiega le tre espressioni «doloroso materialmente», «psicologicamente» e «traumatizzante». F.M. Feltri, Chiaroscuro © SEI, 2010 5 Le deportazioni dall’Italia Lentamente si avvicina il nostro turno all’ufficio matricola e furtivamente veniamo avvicinate da prigioniere che insistono per avere da noi quel cibo e quegli indumenti ai quali, nonostante i loro avvertimenti, siamo tenacemente attaccate perché speriamo ancora di poter conservare. Le prigioniere cercano anche oro e gioielli che promettono di salvare, seppellendoli ai piedi di certi alberi che indicano qua e là. Alcune mie compagne credono, ma naturalmente il giorno dopo hanno la sorpresa di Pinocchio. Finalmente raggiungo l’ufficio matricola. Un bancone divide il luogo dove si agitano le prigioniere contraddistinte da triangoli viola e verdi nella loro importante funzione e le prigioniere neo-arrivate. Per prima cosa ci vengono in malo modo strappati i pacchi dei viveri, poi dobbiamo dichiarare le nostre generalità, il luogo di provenienza, specificare il nostro lavoro, dati che vengono riportati su una scheda. Dobbiamo pure consegnare tutto il denaro e i gioielli: riesco a sottrarre duemila lire nel fondo dell’astuccio degli occhiali. Segue la spoliazione. Vengono requisiti tutti gli indumenti personali che sono raccolti in sacchi di carta a simboleggiare la loro restituzione alla fine della pena. Tutto questo è doloroso materialmente e molto di più psicologicamente, ma traumatizzante veramente è la visita che segue. Sfiliamo nude in uno stanzino dove insieme alle Aufseherin [guardiane SS, n.d.r.] sono alcune prigioniere con triangolo viola. Sediamo su uno sgabello dove siamo ispezionate sulla testa, sotto le ascelle e sul pube. Non dobbiamo essere portatrici di pidocchi e di piattole! Una qualsiasi traccia, anche soltanto qualche vecchia lendine [uovo di pidocchio, n.d.r.], dà pretesto alla tosatura più completa dei capelli e di qualsiasi peluria sotto le ascelle e sul pube. Con quale soddisfazione le prigioniere con funzioni di Aufseherin tagliano i capelli ed a chi implora e supplica, con fervore diabolico sostengono che il taglio rende la capigliatura più bella e rigogliosa. Così di una bella, amabile testa ricciuta in pochi attimi ne fanno una tristemente glabra e perfettamente liscia. Da ultimo dobbiamo subire l’esplorazione della vagina per impedire l’occultamento di anelli o di altri preziosi in genere. Così stordite, umiliate, offese nella nostra intimità siamo convogliate nella grande sala della doccia dove siamo già state ammucchiate nella notte. All’ingresso ci vengono distribuiti un piccolo asciugamano ed un pezzetto di sapone. Dobbiamo aspettare la somministrazione dell’acqua. Digiune, tremanti per il freddo e l’umidità, cerchiamo un po’ di calore, addossandoci le une alle altre, vincendo il naturale ribrezzo verso corpi spesso non più giovani, afflosciati, deturpati da piaghe. È l’incontro con il mondo del Lager, l’entrata coatta in una comunità estranea alla quale bisogna aderire per sopravvivere. È la costrizione all’annullamento del nostro io, di tutto quello che può esserci in noi di più gelosamente intimo. IPERTESTO A Maria Massariello Arata è nata a Massa nel 1912, ma visse a Milano, dove fu arrestata il 4 luglio 1944, per propaganda antifascista e sostegno ai partigiani. Catturata dai militi fascisti e poi consegnata ai tedeschi, arrivò a Ravensbrück l’11 ottobre 1944. ipertesto Sterminio e deportazione razziale ➔Ebrei stranieri UNITÀ VIII ➔Lavoro obbligatorio L’ITALIA NELLA SECONDA GUERRA MONDIALE 6 insieme ai militari, il gruppo che, nell’immediato, subì maggiormente le conseguenze dell’occupazione tedesca fu quello degli ebrei. Durante i primi anni di guerra, la loro situazione si era aggravata, ma non era mai stata drammatica. il 16 maggio 1940 – mentre l’italia era ancora in situazione di non belligeranza – il ministero dell’interno predispose una prima circolare che ordinava (in caso di coinvolgimento del paese nella guerra mondiale) l’internamento di tutti i cittadini di stati stranieri. a quell’epoca, in italia si trovavano circa 3800 ebrei non italiani e per essi fu disposto che, in caso di guerra, fossero separati e trasferiti in strutture speciali, riservate a loro. poche settimane dopo che l’italia ebbe dichiarato guerra a Francia e inghilterra, il 20 giugno 1940 entrò in funzione il principale campo di concentramento per ebrei stranieri. era stato allestito in fretta, nel corso del mese di maggio, a Ferramonti di Tarsia (in provincia di Cosenza). in settembre, con l’arrivo di 302 persone deportate da bengasi, il campo raggiunse la cifra di 700 prigionieri (diversi dei quali donne e bambini). anche se, dal novembre 1941, furono condotti a Ferramonti anche prigionieri non ebrei (soprattutto iugoslavi e greci), la presenza ebraica non scese mai sotto il 75% del totale dei reclusi, che nell’agosto del 1943 toccò il proprio culmine, con 2016 prigionieri. il 14 settembre 1943, il campo venne liberato dalle avanguardie dell’esercito inglese, che salvò tutti gli internati dalla deportazione. Nei primi anni di guerra, la maggioranza degli ebrei italiani non fu internata. Nel maggio 1942, però, i soggetti di età compresa tra i 18 e i 55 anni (circa 10 000 persone) vennero precettati e adibiti al lavoro obbligatorio. l’operazione fu ampiamente propagandata dalla stampa fascista, ma si rivelò un completo fallimento sotto il profilo economico, in quanto gli individui furono in genere impiegati in lavori manuali, per i quali non avevano alcuna attitudine e competenza. Ebrei costretti a lavorare a Roma sul greto del Tevere, fotografia del giugno 1942. F.M. Feltri, Chiaroscuro © SEI, 2010 F.M. Feltri, Chiaroscuro © SEI, 2010 ipertesto ➔Rifugio precario Riferimento storiografico 3 Marc Chagall, Ebreo in preghiera, 1914-1922, (Venezia, Ca’ Pesaro, Galleria internazionale d’arte moderna). IPERTESTO A pag. 13 7 Le deportazioni dall’Italia Nell’autunno 1943, all’arrivo dei soldati tedeschi, il numero dei soggetti a rischio per ragioni razziali ammontava a circa 43 000, di cui 35 000 italiani e 8000 stranieri. la presenza di tanti soggetti non italiani era legata al fatto che l’italia di quegli anni era paradossale (l’espressione è di primo levi): pur essendo ufficialmente antisemita e alleata del terzo reich, fino all’8 settembre rifiutò di adeguarsi alla radicale linea tedesca. Così, gli ebrei stranieri poterono trovare in italia un provvisorio rifugio, mentre in Francia, in iugoslavia e in Grecia, nel 1942, moltissimi ebrei trovarono protezione nelle zone occupate dall’esercito italiano, che si rifiutava di consegnarli ai nazisti. le ragioni di questo comportamento furono molteplici: in alcuni casi ebbe un ruolo decisivo un elementare senso di umanità da parte degli ufficiali e dei soldati, mentre in altri contesti la difesa degli ebrei fu dettata dal desiderio di dimostrare, almeno in quel campo, che l’italia aveva una sua autonomia, che i funzionari tedeschi non potevano impunemente calpestare. Questo equilibrio precario saltò bruscamente l’8 settembre. tra il 21 e il 22 settembre, si verificò uno dei primi eccidi di ebrei (54 persone uccise) in varie località, sulla sponda occidentale del lago maggiore, a opera di ss trasferite dal fronte orientale. Composto da nazisti convinti, appena giunto sul nuovo teatro di operazioni il reparto agì secondo le stesse modalità che da anni erano prassi comune in urss: l’occupazione militare andava di pari passo con lo sterminio. il 14 novembre 1943, a verona, nacque il Partito fascista repubblicano. il Manifesto di Verona espose le linee programmatiche della nuova organizzazione che, nelle intenzioni di mussolini, avrebbe dovuto guidare la repubblica sociale italiana. il testo si articolava in 18 punti, il 7o dei quali recitava: «Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica». partendo da questo presupposto, i fascisti italiani aiutarono i nazisti nell’opera di deportazione degli ebrei italiani. in particolare, questori, prefetti e funzionari di polizia o degli uffici d’anagrafe misero a disposizione dei tedeschi le liste degli ebrei italiani, complete di indirizzo e stato di famiglia. Nei giorni 16-18 ottobre 1943, ebbe luogo l’arresto e il trasferimento verso auschwitz degli ebrei di Roma. Furono deportate 1023 persone, delle quali solamente 17 fecero ritorno; tra i deceduti, 839 (l’89%) furono eliminati nelle camere a gas al loro arrivo. il 21 novembre 1943, da borgo san Dalmazzo (Cuneo) furono deportati ad auschwitz almeno 328 ebrei che fino all’8 settembre avevano trovato rifugio nelle regioni della Francia occupate dagli italiani. Nel febbraio 1944, i tedeschi ordinarono alle autorità fasciste della repubblica sociale di concentrare a Fossoli (un piccolo paese vicino alla città di Carpi, in provincia di modena) tutti gli ebrei detenuti nelle carceri italiane. il primo convoglio per auschwitz (650 persone) partì il 22 febbraio; solo 23 di questi deportati (8 donne e 15 uomini, tra cui primo levi) sarebbero tornati. in tutto, da Fossoli partirono per auschwitz sei convogli ferroviari, per un totale di 2445 persone. Nel complesso, i deportati per motivi razziali dall’Italia furono circa 7500. solo 826 sopravvissero e ritornarono in italia. ai morti nei campi, vanno aggiunti altri 318 ebrei, fucilati dai tedeschi in italia. l’episodio più noto avvenne il 24 marzo 1944: dopo che in un attentato partigiano, compiuto in via rasella, a roma, erano morti 33 soldati tedeschi, per rappresaglia i nazisti uccisero 335 detenuti italiani alle Fosse ardeatine. Di questi, 75 erano ebrei. ipertesto La memoria della deportazione da Roma In occasione della realizzazione di una dettagliata ricerca sulla razzia del 16 ottobre 1943, sono state intervistate 12 persone sopravvissute a quell’evento. Alcune sono sfuggite alla retata, altre sono state deportate, ma poi si sono salvate. Le due interviste che riportiamo sono rappresentative dell’una e dell’altra esperienza. Intervista a Rina Calò Dopo l’8 settembre e prima del 16 ottobre, aveva lasciato la sua abitazione abituale per rendersi irreperibile? Abitavo in via del Progresso [oggi piazza delle Cinque Scole – n.d.r.], e non ci siamo mai mossi di lì. UNITÀ VIII Sa di altre persone, amici, conoscenti, che, dopo l’8 settembre 1943 e prima del 16 ottobre, avevano lasciato la loro abitazione abituale per rendersi irreperibili? Non so di altre persone che, dopo l’8 settembre 1943 e prima del 16 ottobre, avevano lasciato la loro abitazione abituale, a quei tempi non eravamo abituati a muoverci facilmente. L’ITALIA NELLA SECONDA GUERRA MONDIALE 8 Una sequenza tratta dal film Roma città aperta di Roberto Rossellini. La pellicola è ambientata nel 1943 a Roma, dove gli Alleati non sono ancora arrivati e i tedeschi imperversano per la città. Nell’immagine Anna Magnani, splendida protagonista del film, cerca di ribellarsi alle truppe del Reich che effettuano un rastrellamento nello stabile popolare in cui vive. Nel 1943 quali erano le notizie che giravano sulla sorte toccata agli ebrei negli altri paesi occupati dai tedeschi? Mi è capitato di incontrare persone che venivano dalla Polonia, parlavano di campi di concentramento, ma noi non ci rendevamo conto del pericolo. Non sapevamo nulla delle camere a gas: era una cosa che i nazisti sono riusciti a tenere ben nascosta. Cosa si ricorda dei giorni immediatamente precedenti al 16 ottobre? Aveva avuto sentore che stava per accadere qualcosa di grave? Prima del 16 ottobre ricordo che spesso i fascisti venivano in Piazza [l’antica Piazza Giudia fuori dal ghetto, oggi parte di via Portico d’Ottavia, n.d.r.] e ci terrorizzavano. In Piazza c’era, poi, Elena la matta, che raccontava qualcosa sul pericolo delle retate da parte dei nazisti e dei fascisti, ma nessuno le dava retta. C’era anche Celeste Di Porto che faceva la delatrice per conto dei fascisti: davvero una vergogna. Quando capitava che uscivamo, se per strada incontravamo altri ebrei, facevamo finta di non conoscerci, perché, non si sa mai, avevamo paura di essere scoperti, non dicevamo a nessuno dove abitavamo. Ci racconti dettagliatamente quello che accadde il 16 ottobre. Allora avevo circa 13 anni, ricordo che il 16 ottobre una vecchietta nostra vicina, che era andata a fare la fila per le sigarette, ci avvertì: «Stanno a prende’ tutti gli ebrei». Allora i miei genitori presero i pochi soldi che avevano, nascosti dietro a un quadro della camera da pranzo, scappammo e andammo alla Stazione Termini dove avevamo il negozio. Riuscimmo ad allontanarci subito e a evitare i drappelli dei nazisti che in quel momento prendevano gli ebrei in tutta Roma. Riuscimmo a trovare rifugio presso una clinica vicino alla Stazione Termini. Fu una giornata terribile, avevamo una gran paura, non capivamo quello che stava succedendo, sapevamo solo che dovevamo scappare, ma non sapevamo dove andare. Provai una forte sensazione di paura e smarrimento che non riuscirò mai a dimenticare. Ci racconti quello che accadde nei giorni successivi al 16 ottobre. Dopo un po’ di tempo qualcuno ci riconobbe e allora una suora, che si chiamava Pia, ci disse che dovevamo andarcene dalla clinica perché ci avevano scoperti. Ci nascondemmo presso una famiglia cattolica a piazza Gioacchino Belli, alla Confederazione Fascista dei Commercianti, proprio in bocca al lupo. Gli uffici non erano più attivi, c’era solo il portiere. Ci siamo fatti passare per sfollati, abbiamo pagato per questo nascondiglio, ci è costato molto. […] Intervista a Leone Sabatello Dopo l’8 settembre e prima del 16 ottobre, aveva lasciato la sua abitazione abituale per rendersi irreperibile? Abitavamo a via Portico d’Ottavia n. 9 e non ci siamo mai spostati. Sa di altre persone, amici, conoscenti, che, dopo l’8 settembre 1943 e prima del 16 ottobre, avevano lasciato la loro abitazione abituale per rendersi irreperibili? Non ricordo. F.M. Feltri, Chiaroscuro © SEI, 2010 Cosa si ricorda dei giorni immediatamente precedenti al 16 ottobre? Aveva avuto sentore che stava per accadere qualcosa di grave? […] Non credevamo mai che sarebbe accaduto quello che poi è avvenuto. Mi ricordo, però, che i fascisti venivano spesso in Piazza e ci mettevano paura. Una volta hanno picchiato mio fratello poiché portava una cravatta a pallini rossi e lo hanno anche derubato. Lui aveva nel portafoglio 1000 lire e il fascista, quando gli prese i soldi, lo guardò con disgusto, con disprezzo: «Guarda sto’ ebreo, c’ha 1000 lire in saccoccia». C’erano anche tanti cattolici che ci disprezzavano, tra i quali vi sono persone che tuttora hanno attività commerciali nella zona. Ci racconti dettagliatamente quello che accadde il 16 ottobre. Il 16 ottobre sono stato preso io, mia madre Celeste Tagliacozzo, mio padre Alberto Sabatello, mio zio paralitico, le mie cinque sorelle Emma, Enrica, Italia, Elena, Letizia, mia cognata, Enrica Tagliacozzo, con due bambine, Alba e Liana. Ero il più piccolo di casa, eravamo sette figli. Un caro amico di mio padre che aveva un’industria vinicola a Ciampino, fece passare mio fratello per cattolico e lo fece lavorare nella sua ditta. È stato l’unico della famiglia a non essere stato preso. Anche sua moglie e i figli sono stati catturati. Sono ritornato solo io di tutta la mia famiglia deportata e non tornerei per tutto l’oro del mondo ad Auschwitz, anche se molti miei amici ex deportati lo hanno fatto. Io ho sempre rifiutato. Prima della guerra ero un ragazzino, ero coccolato da tutta la mia famiglia, le mie sorelle mi chiamavano addirittura il padrone, esaudivano tutti i miei desideri, mi accontentavano sempre, eravamo felici, non ci mancava niente, ci facevamo bastare quello che avevamo, ed eravamo molto attaccati alla nostra religione. Il 16 ottobre pioveva, stavo dormendo, verso le 5,30 o le 6, mio padre sente dei rumori, si affaccia dalla finestra e vede una squadra di soldati e alcune famiglie che uscivano con le valigie e venivano raggruppate in quella che oggi è piazza 16 Ottobre. Anche io sono stato portato lì. I nazisti sono entrati dentro casa mia, avevano un foglio con l’elenco dei nomi. Cercavano anche mio fratello, ma lui era a Ciampino. I nazisti ci dissero che dovevamo fare un lungo viaggio e quindi dovevamo portarci dei viveri. Ci siamo vestiti e siamo scesi. Ci hanno caricati sui camion e ci hanno portati al Collegio militare, dove qualcuno ha anche provato a farci convertire. Ci racconti quello che accadde nei giorni successivi al 16 ottobre. Siamo rimasti al Collegio Militare circa 5-6 giorni [in realtà, la detenzione durò dal 16 al 18 ottobre, n.d.r.], abbiamo mangiato soltanto quello che avevamo portato, perché non ci davano nulla. Poi ci hanno portato alla stazione e ci hanno caricato sui carri bestiame, circa 40 persone a vagone. A Padova abbiamo fatto una sosta, ci avevano detto che se uno scappava, avrebbero fucilato tutta la famiglia. Sono sceso per fare i miei bisogni e quando sono tornato il treno stava partendo, ma io l’ho fatto fermare per poter risalire. Non ci hanno detto Che consapevolezza assolutamente nulla di quello che ci aspettava, non ne avevamo nessuna idea, pensavamo avevano gli ebrei sempre che ci avrebbero dato un pezzo di terreno e saremmo andati a lavorare i campi. Inromani della realtà vece, ci hanno portati tutti ad Auschwitz. Non avremmo mai pensato quello che sarebbe sucdella Shoah nel cesso, io l’ho capito quando sono rimasto solo, quando un prigioniero del campo mi disse: resto d’Europa? «Vedi quei comignoli che fumano? I tuoi cari stanno là». Noi deportati il 16 ottobre abbiamo Quale atteggiamento passato due inverni in Polonia. Mio padre era molto robusto perché lavorava con i rottami assunsero i non ma, durante il viaggio, gli era cresciuta la barba, sembrava più vecchio della sua età e, arebrei verso rivato al campo, è stato mandato subito alle camere a gas. Quanto ho sofferto. […] i perseguitati, s.H. aNtoNuCCi, C. proCaCCia, G. riGaNo, G. spizziCHiNo, Roma, 16 ottobre 1943. Anatomia di una almeno nei due casi deportazione, Guerini e associati, milano 2006, pp. 111-114, 127-129 specifici? F.M. Feltri, Chiaroscuro © SEI, 2010 ipertesto IPERTESTO A Nel 1943 quali erano le notizie che giravano sulla sorte toccata agli ebrei negli altri paesi occupati dai tedeschi? Avevamo avuto qualche notizia sui pericoli che ci circondavano, ma ci siamo messi a ridere. A volte accadeva che mia madre, la quale aveva l’hobby del ricamo e si metteva davanti al portone di casa con una seggiolina a cucire, parlava con alcune persone che passavano, in fuga dalla Polonia. Questi ci raccontavano qualcosa, ma noi non credevamo a quanto dicevano, pensando che non fosse possibile che accadessero cose del genere: «Ma figurati se ci portano in un campo di concentramento!», dicevamo. Nessuno aveva mai parlato di camere a gas. Mio padre, riguardo a quello che ci poteva aspettare, diceva: «Ci daranno un pezzo di terreno, ci faranno lavora’», non avremmo mai immaginato quello che poi io ho visto con i miei occhi. Non abbiamo pensato a procurarci documenti falsi, anche nei giorni immediatamente precedenti al 16 ottobre, perché non avevamo sentore di nulla. Io sono stato deportato a 15 anni. 9 Le deportazioni dall’Italia DOCUMENTI ipertesto Riferimenti storiografici 1 Le gallerie sotterranee di Mittelbau-Dora UNITÀ VIII Il programma missilistico nazista fu diretto dal brillante scienziato Wernher von Braun, che dopo la guerra avrebbe contribuito alla nascita del programma spaziale americano. Nell’ultimo anno di guerra, moltissimi dei razzi prodotti in Germania erano fabbricati in un grandioso complesso sotterraneo, interamente basato sul lavoro schiavo dei deportati. La montagna all’interno della quale sorgeva l’impianto si chiamava Kohnstein; il lager e l’impianto stesso, invece, ricevettero il nome di Mittelbau-Dora. Tra i 40-60 000 detenuti che vi lavorarono tra il 1943 e il 1945, 1300-1500 erano italiani, per lo più militari catturati dopo l’8 settembre. L’ITALIA NELLA SECONDA GUERRA MONDIALE 10 Un gruppo di detenuti nell’impianto di Mittelbau-Dora, che sorgeva all’interno di una montagna. A Peenemünde, un villaggio di pescatori nell’isola di Rügen, nel mare del Nord, trasformato in un centro di ricerca della Wehrmacht per la costruzione di missili, il 3 ottobre 1942 la prima A4 (Apparat 4, come gli scienziati chiamavano la V2) partì dalla rampa di lancio, raggiunse un’altezza di 60 km e volò per 295 secondi a una velocità di 1200 metri al secondo cadendo a una distanza di circa 190 km. Due mesi dopo, il 22 dicembre, Hitler, entusiasta, ne ordinò la produzione in serie. Un gruppo speciale ricevette l’ordinazione di 20 000 singole componenti del missile che dovevano poi essere assemblate su una catena di montaggio, come le automobili. Ma i centri previsti per la produzione in serie furono individuati dai bombardieri alleati e praticamente distrutti: il 22 giugno 1943 gli stabilimenti della Zeppelin-Luftschiffbau GmbH di Friedrichshafen, il 13 agosto quelli della Rax Werke di Wiener Neustadt e, nella notte tra il 17 e il 18 dello stesso mese, Peenemünde. Come aveva ordinato il Führer, dopo aver incontrato Wernher von Braun il 7 luglio e aver visionato un film sul lancio dei missili, i lavori non potevano essere interrotti, e si inaugurò una nuova fase del programma. I direttori del programma A4, prevedendo l’eventualità di un trasloco, avevano già ispezionato le costruzioni sotterranee nella collina del Kohnstein ritenendole un posto ideale per installarvi una grande fabbrica di missili. Nelle viscere della collina di anidride vi erano in quel momento due tunnel, l’A e il B, scavati in direzione nord-sud. Le due gallerie erano collegate l’una all’altra da 46 tunnel trasversali lunghi 200 m, larghi 11,50 e alti 8,50: un’opera incredibile su una superficie di oltre 100 000 metri quadrati. Questi spazi – dissero – devono essere ampliati e sistemati affinché la sezione costruzioni di Peenemünde possa trasferirsi totalmente sottoterra. Si tratta della tecnica che i tedeschi chiamano Verbunkerung, cioè bunkerizzazione, applicata anche per la costruzione del rifugio di Hitler sotto la Cancelleria di Berlino, che era talmente vasto e complicato – richiese ben tre anni di lavori – da poter ospitare 3000 persone, 80 autoveicoli, stazioni radio, cucine, centrali telefoniche, bagni, magazzini e celle frigorifere. «Sembrava un super-sottomarino ancorato al sicuro sotto la capitale», dirà Magda Goebbels, moglie del ministro della Propaganda. Himmler, nominato da Hitler ministro degli Interni, prende in mano la situazione scalzando di prepotenza il ministro degli Armamenti Albert Speer. Il 21 agosto nomina l’Obergrupenführer delle SS Pohl responsabile dell’operazione e suo vice il Brigadenführer (generale di brigata) delle SS dottor Kammler, e dà freneticamente il via ai lavori. […] Nelle vicinanze di quella collina si trova Buchenwald, che per i nazisti è una fonte inesauribile di schiavi, e da quel campo, alle 5 del mattino del 28 agosto 1943, partono in treno 107 prigionieri polacchi, guidati dall’Hauptscharführer (grado delle SS corrispondente a quello di maresciallo) Beckmann, con 40 SS e alcuni cani lupo. I prigionieri si sono alzati nella notte e, dopo l’appello, si sono schierati alle 4.30 alla porta del lager per salire su alcuni vagoni ferroviari. Il treno li scarica a Salza, in quella stazioncina quasi selvaggia situata poco prima della porta dell’inferno, si mettono in colonna e arrivano nella grande conca in cui sboccano le due gallerie. Non c’è nulla, se non prati e bosco, e il loro compito consiste nel costruire subito alcune F.M. Feltri, Chiaroscuro © SEI, 2010 2 Le condizioni di vita degli internati militari italiani (IMI) nei lager Il durissimo atteggiamento tenuto dai tedeschi nei confronti degli IMI non si attenuò in Germania, allorché i soldati catturati furono internati in appositi lager e costretti a lavorare nelle industrie tedesche. Le testimonianze dei superstiti pongono l’accento soprattutto sulla fame patita e sulle malattie che colpivano i deportati, a causa delle carenze alimentari. Nel lager di Sandbostel il 16 aprile 1944 il tenente Giovanni Guareschi scriveva su un diario destinato a divenire famoso: «Cammino su e giù… e vado svelto ma la fame mi insegue… Quante ore prima di poter masticare? Ancora cinque ore, poi avrò due patate e una scodella di rape; e lo stomaco, compreso rapidamente l’inganno, riprenderà a spasimare più dolorosamente. Sento anche la fame del dopo». Una ventina d’anni più tardi, rievocando con un amico i giorni di Sandbostel, Guareschi dirà che a quell’epoca gli tornavano spesso in mente le pagine di un libro di Carlo Castorino sulla fame sofferta dai prigionieri italiani a Mauthausen durante la Grande guerra e che lo scrittore genovese aveva significativamente intitolato La prova della fame: nel febbraio 1944 l’80 per cento dei 1 900 ufficiali internati a Czestochova soffrirono per edemi da fame e, come in altri lager polacchi, dal 30 al 40 per cento si ammalarono di tubercolosi in seguito alla denutrizione. La fame diventò la misura di tutte le cose. Nel lager di Przemysl, nel novembre 1943, un chilo di patate si pagava cento lire e una paF.M. Feltri, Chiaroscuro © SEI, 2010 ipertesto IPERTESTO A 11 Le deportazioni dall’Italia baracche di legno. Nei giorni e nei mesi che seguono altri treni scaricano nuovi schiavi (tedeschi, cecoslovacchi, belgi, francesi, iugoslavi, norvegesi, italiani, ebrei e zingari di varie nazionalità) e quel complesso di uomini diventa l’Aussenkommando Dora, il Kommando esterno Dora, alle dipendenze di Buchenwald. Gli schiavi arrivano da vari lager, hanno un’età media tra i 18 e i 35 anni e, talora, qualche conoscenza tecnica inerente il lavoro che dovranno compiere. A ottobre sono circa 4000, a dicembre 10 735, alla fine di gennaio del 1944 ben 12 500. Li mandano ad allargare, allungare, sistemare e cementare le gallerie (la A è praticamente pronta) con martelli pneumatici, pale e picconi, e persino con le mani, mentre i tecnici provocano l’esplosione di mine per far saltare la roccia, e tutta la collina trema. Lavorano tra la polvere della roccia che si sfalda e si sbriciola, in un’aria sempre più rarefatta, alla luce di lampade a carburo, nell’umidità che trasuda dalla volta, senza mai vedere la luce del giorno. Dormono nelle gallerie trasversali, a 800 metri dall’imbocco del tunnel, in castelli di 3, 4 o 5 piani di 60 cm di altezza dove non si può nemmeno stare seduti (gli italiani sono sparsi qua e là, e non raggruppati per nazionalità), non hanno ricevuto alcun equipaggiamento speciale, per togliersi la polvere di calcio che incrosta il viso usano la propria urina. L’ossigeno è insufficiente in quelle cavità, la stanchezza coglie subito. Devono soltanto scavare e scavare e riempire di roccia i vagoncini di una ferrovia che arriva fin dentro le gallerie, e scaricare a forza di muscoli le attrezzature per la fabbrica missilistica: macchinari che arrivano da Peenemünde e pesano tonnellate. […] Dal 1o ottobre 1943 al 31 marzo 1944 i cadaveri sono già circa 3000. […] In quelle gallerie lavora anche il trombettiere di batteria, 1o reggimento di artiglieria da montagna, Domenico Giaccardi, di Bene Vagienna, in provincia di Cuneo, classe 1907, matricola n. 0751. Da Buchenwald è arrivato a Dora con il primo gruppo di prigionieri, nell’ottobre 1943. Ricorda: «Mi sono subito reso conto che era un campo in via di costruzione, stavano ancora sistemando i reticolati ed io sono stato mandato subito nel tunnel (non so se era la galleria A o B) e qui ho sempre caricato pietre sui vagoni che poi venivano spinti fuori. Sei mesi circa senza vedere la luce del sole. All’inizio nel tunnel avevamo soltanto lumi a petrolio. Poi è stata messa la luce elettrica. Il tunnel era molto largo e ampio, con due binari, così i vagoni andavano e tornavano continuamente. Dormivo all’interno su letti a caSpiega l’espressione stello che avevano paglia piena di pidocchi al posto dei materassi, e venivano pigiati l’un con«bunkerizzazione». tro l’altro. Al mattino ci davano una specie di caffè caldo e la sera un po’ di brodaglia con rape, patate marce, barbabietole e chissà che. Le V1 e le V2 le vedevo, ma non ho mai par- Dal testo trapela uno degli aspetti più tecipato alla loro costruzione. Mi ricordo che la V1 era più piccola, direi lunga 12 metri, mentipici del Terzo Reich, tre la V2 era più lunga, forse un 20 metri. Di notte vedevo che le portavano fuori mimetizla cosiddetta zandole con reti verdi. Tutte le sere ne passavano 7-8 caricate sulle spalle di parecchi policrazia. Dove prigionieri (forse una ventina per missile): le mettevano su camion e poi le portavano in altri la riscontri, nel posti. Così come le vedevo io non erano terminate». processo di nascita dell’impianto r. lazzero, Gli schiavi di Hitler. I deportati italiani in Germania nella seconda guerra mondiale, di Mittelbau-Dora? mondadori, milano 1998, pp. 111-112, 120 ipertesto UNITÀ VIII L’ITALIA NELLA SECONDA GUERRA MONDIALE 12 Un prigioniero nel campo di Belsen (una cittadina in Germania tra Hannover e Brema), ridotto allo stremo per la fame, parla con un soldato inglese, dopo la liberazione. A che cosa era dovuta l’«ossessionante ricerca di giustizia nella spartizione dei viveri» nel lager? Che cosa comportò il provvedimento del 28 febbraio 1944? gnotta ne costava novecento, mentre in Italia il prezzo del pane al mercato nero oscillava attorno alle 20 lire al chilo. Per acquistare pane, sigarette, patate e grassi gli internati italiani vendettero tutto quello che possedevano, anche le fedi matrimoniali, perché l’oro era la merce di scambio più ambita dai tedeschi: un orologio d’oro veniva valutato sei-otto filoni di pane. Come razione quotidiana gli ufficiali ricevevano ogni mattina un litro di infuso caldo di tiglio – di così scarso valore nutritivo che più d’uno se ne serviva per lavarsi o farsi la barba –; a metà giornata una minestra di rape, o di barbabietole già spremute, con qualche patata; oppure crauti crudi, qualche grammo di condimento, una fetta di pane da 2-300 grammi, un cucchiaio di miele sintetico o di marmellata o di zucchero (25 grammi); un pezzetto di margarina o di ricotta o di qualche surrogato di proteine (25 grammi): «Troppo poco per vivere, troppo per morire» (G. Storti). La razione per i soldati, i graduati di truppa e i sottufficiali era simile, forse con un po’ più di patate; per gli addetti ai lavori pesanti la minestra di rape era più abbondante e, di solito, più densa. Poi c’era l’alimento principale, il pane del lager. Nero e stopposo, era fatto con farina di segala e aveva forma di cassetta come il pancarré. Ogni pagnotta, solitamente lunga una trentina di centimetri e larga dieci, pesava fra i 1500 e i 1800 grammi, pari a sette razioni individuali circa. In genere la pagnotta era di qualità scadente e vecchia: il 25 settembre 1943, a Sandbostel gli internati militari italiani ricevettero del pane ammuffito sul quale era stampigliata la data dell’11 maggio di quell’anno. La fame, compagna indivisibile del deportato, spingeva a una ossessionante ricerca di giustizia nella spartizione dei viveri, e specialmente del pane che veniva distribuito baracca per baracca, a gruppi di venti-trenta prigionieri. La spartizione del pane comportava ogni giorno complicate misurazioni e sorteggi allo scopo di eliminare qualsiasi possibilità di recriminazione: «Una forma di pane, di quel pesante e umido pane che la guerra ha fatto conoscere in tutta l’Europa, veniva divisa con bilance sensibili come quella dei farmacisti e quando l’eguaglianza nel peso e nella forma era quasi assoluta, si tirava ancora a sorte» (A. Natta). A questo punto, infatti, uno del gruppo andava in fondo alla baracca, si voltava col viso alla parete e, in risposta alla domanda: «A chi questo?», faceva il nome di uno dei compagni assegnando così, con assoluta casualità, una delle porzioni pronte. La fame divenne disumana, e mortale, per gli IMI che lavoravano nelle grandi industrie quando il 28 febbraio 1944 fu introdotta una disposizione secondo la quale il vitto dei deportati doveva essere proporzionato al loro rendimento sul lavoro: «Il Führer esige che gli internati militari italiani siano costretti, con severe misure, a un alacre lavoro. Il vettovagliamento è perciò da commisurare al lavoro compiuto… La decisione relativa alla diminuzione è di competenza del datore di lavoro». Molte industrie tedesche applicarono immediatamente la direttiva di Hitler e quindi, per stimolare i deportati-schiavi a una maggiore produttività, finirono per affamarli ancora di più, riducendo le loro già scarsissime razioni. Nello Stalag VIII-B di Tesin, nella regione di Breslavia […], dov’erano rinchiusi 8 827 militari italiani adibiti prevalentemente alle miniere, il rancio fu fissato, dal marzo 1944, sulla base del rendimento nel lavoro. Analogamente a quanto già adottato per i prigionieri di guerra russi, gli internati italiani vennero divisi in tre gruppi: i buoni lavoratori; i medi ma fisicamente deboli e quelli che non riuscivano a lavorare, definiti fannulloni. I pasti caldi si cucinavano per tutti, ma gli appartenenti al primo gruppo ricevevano due litri e mezzo di minestra; quelli del secondo due litri e gli appartenenti al terzo soltanto mezzo litro. Anche nelle miniere di Peterswald, in Alta Slesia, i tedeschi suddivisero i 530 militari italiani che vi lavoravano in tre categorie – prima, seconda, terza – corrispondendo il rancio secondo la categoria di appartenenza: «Più lavorare, più mangiare», annunciarono. Questo metodo, chiamato Leistungsernährung (alimentazione proporzionata alla produttività), varato già nel 1942, collocava nella prima categoria coloro che avevano un rendimento pari, o superiore, all’80 per cento di un operaio tedesco di uguale qualifica; nella seconda coloro il cui rendimento oscillava fra l’80 e il 60 per cento; la terza, infine, rappresentata da chi aveva un rendimento inferiore al 60 per cento; la parte di rancio tolta agli schiavi di quest’ultima categoria andava, come premio, a quelli della prima. Poiché dimezzare il vitto giornaliero, anche agli ammalati, costituiva una delle punizioni collettive più frequenti, le razioni potevano scendere a livelli minimi – e mortali – di 900 calorie al giorno contro le 1730 prescritte e le 2500-3000 necessarie per lavorare. G. mayDa, Storia della deportazione dall’Italia 1943-1945. Militari, ebrei e politici nei lager del Terzo Reich, bollati boringhieri, torino 2002, pp. 326-329 F.M. Feltri, Chiaroscuro © SEI, 2010 ipertesto Le procedure di deportazione dall’Italia Il 23 settembre 1943 il RSHA [Ufficio centrale per la sicurezza del Reich, l’organismo che coordinava le principali forze di polizia tedesche, n.d.r.], «d’accordo» col ministero degli Affari esteri tedesco, comunicò formalmente ai propri uffici periferici fuori d’Italia che gli ebrei di cittadinanza italiana erano divenuti «subito» assoggettabili alla «espulsione verso l’est», cioè alla deportazione. Il giorno seguente, la polizia di sicurezza tedesca a Roma ricevette l’ordine di iniziare i preparativi per l’arresto e la deportazione degli ebrei di quella città. Le prime azioni regolari di arresto furono effettuate sabato 9 ottobre a Trieste e sabato 16 a Roma. Alla retata nella capitale fecero seguito quelle attuate tra fine ottobre e inizio novembre in Toscana, a Bologna e nel triangolo Torino-Genova-Milano. Gli elenchi degli arrestati provenivano in vario modo dagli uffici italiani; per Roma è documentata la collaborazione amministrativa italiana; in Toscana militi fascisti parteciparono agli arresti. Tra il settembre 1943 e il gennaio 1944 i tedeschi deportarono la grande maggioranza degli ebrei che essi avevano arrestato (col convoglio del 30 gennaio 1944 deportarono anche alcuni ebrei arrestati nel frattempo dalla RSI). […] Da parte italiana, tra i corpi che contribuirono con un apporto specifico relativamente consistente all’arresto degli ebrei, vi furono quelli incaricati della sorveglianza al confine con la Svizzera. Fiero dei cinquantotto arresti eseguiti «dai primi di ottobre ad oggi» e dei «rilevanti valori» sequestrati in tali occasioni, il 12 dicembre 1943 il comando della II legione Monte Rosa della Guardia nazionale repubblicana confinaria scrisse al capo della provincia di Como: «È così che la corsa verso il confine degli ebrei, che con la fuga nell’ospitale terra elvetica – rifugio di rabbini – tentano di sottrarsi alle provvidenziali e lapidarie leggi Fasciste, è ostacolata dalle vigili pattuglie della Guardia Nazionale Repubblicana che indefessamente, su tutti i percorsi anche i più rischiosi, con qualsiasi tempo e in qualsiasi ora, con turni di servizio volontariamente prolungati vigilano per sfatare ogni attività oscura e minacciosa di questi maledetti figli di Giuda». Il capo della provincia di Vercelli chiese ai podestà, in qualità di ufficiali di pubblica sicurezza, di collaborare «pienamente con gli altri organi di polizia». A Firenze nel febbraio 1944 l’ufficio comunale di distribuzione delle tessere alimentari si rivelò una vera e propria «trappola» per gli ebrei, che venivano «rincorsi e arrestati». […] F.M. Feltri, Chiaroscuro © SEI, 2010 IPERTESTO A Secondo Michele Sarfatti, negli ultimi mesi del 1943, i tedeschi procedettero direttamente all’arresto e alla deportazione degli ebrei d’Italia. All’inizio del 1944, fascisti e nazisti si accordarono e attivarono una specie di divisione amministrativa del lavoro. Alle forze di polizia italiane spettava il compito di arrestare gli ebrei e di condurli a Fossoli; i funzionari della Gestapo, da parte loro, provvedevano al trasferimento in Germania o all’Est (Auschwitz). 13 Ebrei italiani espatriano in Svizzera per sfuggire alle persecuzioni tedesche. Fotografia del settembre 1943. Le deportazioni dall’Italia 3 ipertesto UNITÀ VIII L’ITALIA NELLA SECONDA GUERRA MONDIALE 14 Lo svolgersi dei fatti tra metà dicembre 1943 e l’inizio di febbraio 1944 consente di delineare un’ipotesi che, pur rimanendo priva di una certificazione documentaria, ha la caratteristica di essere l’unica coerente con gli avvenimenti e i documenti noti: i governi del Terzo Reich e della RSI pervennero a un accordo per la consegna ai tedeschi e la conseguente deportazione (e uccisione) degli ebrei arrestati dagli italiani. Sul piano degli avvenimenti, la situazione verificatasi può essere così descritta: gli italiani arrestavano e trasferivano a Fossoli (poi a Bolzano-Gries), i tedeschi prendevano in consegna e deportavano (svuotando il campo), gli italiani arrestavano e trasferivano a Fossoli, i tedeschi prendevano in consegna e deportavano, e così via. Si trattava di un meccanismo semplice, ma non spontaneo: occorreva un accordo preventivo e una buona sincronizzazione tra chi immetteva e chi prelevava. Sul piano dei documenti, esiste un piccolo carteggio, relativo a una vicenda locale, che presenta un interesse generale: il 23 gennaio 1944 il capo della provincia di Reggio Emilia, Enzo Savorgnan, riferì al capo della polizia Tamburini che il capo della Ordnungpolizei (Orpo) di Bologna gli aveva comunicato che «in forza degli accordi intervenuti tra il Governo Italiano e quello Tedesco, gli ebrei fermati [dalla polizia italiana] debbono essere consegnati alle autorità di Polizia Germaniche». Savorgnan proseguiva chiedendo «se debbiasi aderire alla richiesta [di consegna]», mostrando così di non aver ricevuto alcuna comunicazione da Salò sui presunti «accordi». E in effetti l’affermazione del tedesco poteva essere frutto solo del suo desiderio o della sua tracotanza. Ma il 5 febbraio Tamburini gli rispose seccamente: «Pregasi aderire richiesta Comando Germanico circa consegna ebrei». In tal modo il capo della polizia, mentre evitava di enunciare lo stesso vocabolo «accordo», ne confermava di fatto il contenuto: gli ebrei arrestati dalla RSI erano destinati al Terzo Reich. E non sembra proprio ipotizzabile che il capo della polizia potesse dare per iscritto un ordine di tale rilevanza senza il preventivo consenso del ministro dell’Interno e del capo del governo. Dodici giorni dopo, Savorgnan riferì a Tamburini che i 29 ebrei in questione erano stati «trasferiti nel campo di concentramento di Fossoli», mostrando come gli interessati assegnassero lo stesso significato a «consegna ai tedeschi» e «trasferimento a Fossoli» (e ciò quando il campo era apparentemente ancora sotto completo controllo italiano). Tutto questo può essere spiegato solo come conseguenza di un accordo tra le massime autorità fasciste italiane e naziste tedesche; un accordo raggiunto prima di quel 5 febbraio 1944 e probabilmente dopo la metà dicembre 1943, e il cui oggetto fu l’assegnazione ufficiale al campo di Fossoli della funzione di congiunzione degli operati delle polizie dei due stati. Non conosciamo né la data di questo accordo né lo svolgimento dei colloqui o delle trattative che lo prepararono, e non sappiamo se Mussolini contribuì ad elaborarlo o lo ratificò a posteriori. Ma egli compì, prima del 5 febbraio 1944, uno di questi atti e in tale modo partecipò volontariamente e consapevolmente alla Shoah. m. sarFatti, La Shoah in Italia. La persecuzione degli ebrei sotto il fascismo, einaudi, torino 2005, pp. 100-108 Che conseguenze aveva lo zelo dimostrato dai poliziotti e dai funzionari? Per quale motivo l’ufficio comunale addetto alla distribuzione delle tessere alimentari si trasformò spesso in una vera trappola, per gli ebrei? Che cosa temevano le autorità italiane, prima di ricevere dal loro governo precise disposizioni? F.M. Feltri, Chiaroscuro © SEI, 2010