Malattia e scrittura - Università degli Studi di Verona

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Malattia e scrittura
Saperi medici, malattie e cure nelle letterature iberiche
a cura di Silvia Monti
© Paola Bellomi
Cierre Grafica
Questo volume si pubblica con il patrocinio dell’Università degli Studi
di Verona e grazie al sostegno della Fondazione Cassa di Risparmio di
Verona Vicenza Belluno e Ancona nell’ambito del progetto di ricerca
«Salute, malattia e luoghi di cura nella tradizione letteraria».
© Paola Bellomi
Malattia e scrittura
Saperi medici, malattie e cure
nelle letterature iberiche
a cura di
Silvia Monti
Cierre Grafica
© Paola Bellomi
Stampato in Italia - Printed in Italy
Cierre Grafica - Caselle di Sommacampagna (Verona) - www.cierrenet.it
© Paola Bellomi
Indice
Introduzione
7
I. Scrittura e medicina. Medici scrittori
Marialuisa Frassine
La malattia d’amore ne La Celestina tra medicina e letteratura 25
Silvia Monti
Malattie, medicine e medici dalla Celestina
alla Lozana Andaluza
65
Maria Grazia Profeti
Malattie e medici nel teatro dei secoli d’oro
108
Felice Gambin
Il gesuita e il medico: le annotazioni alla traduzione italiana
dell’Examen de ingenios para las ciencias
di Juan Huarte de San Juan
147
Andrea Zinato
Medicina e diaspora sefardita: Jacob Uziel, medico e poeta,
nella Venezia del Seicento
185
© Paola Bellomi
6
malattia e scrittura
II. Letteratura come malattia. Letteratura come cura
Walter Pantaleo
La polisemia della cecità in Antonio Buero Vallejo
225
Paola Bellomi
El gran ceremonial di Fernando Arrabal:
il teatro come luogo di perversione e di cura
259
Andrea Masotti
La malattia e il male senza uscita in «Literatura + enfermedad =
enfermedad» di Roberto Bolaño
291
Ivan Caburlon
La letteratura come malattia e cura in Enrique Vila-Matas
327
Carlos Palacios Blanco
Julio Ramón Ribeyro: una vida entre volutas de humo
347
María Cecilia Graña
Enfermedad y muerte en el poema largo:
Algo sobre la muerte del mayor Sabines de Jaime Sabines
391
Indice dei nomi
419
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Paola Bellomi
El gran ceremonial di Fernando Arrabal:
il teatro come luogo di perversione e di cura
Arrabal est jeune,
il est fragile physiquement et nerveusement...
Samuel Beckett
Il teatro di Fernando Arrabal (Melilla, 1932) offre numerosi
spunti di riflessione sul rapporto malattia-letteratura. Molti dei
personaggi che si presentano sulla scena di opere come Pic-nic,
El triciclo, El laberinto, Fando y Lis, Guernica, Ceremonia por un
negro asesinado, El Arquitecto y el Emperador de Asiria soffrono
patologie fisiche e psicologiche più o meno conclamate, che si
manifestano in derive comportamentali «malate», in particolare, le deviazioni sessuali di tipo sadomasochistico.
I protagonisti dei drammi arrabaliani si presentano come
individui adulti che agiscono e si esprimono molto spesso con
un atteggiamento ed un linguaggio infantili. All’infantilismo,
uniscono però dei comportamenti violenti tipici dell’individuo
adulto alienato (schizofrenico e psicotico), caratteristiche queste
che hanno inserito il teatro di Arrabal nel solco del teatro della
crudeltà. Le scene di castrazione, smembramento, menomazione
(sensoriale, motoria e intellettiva), tortura (fisica e psicologica)
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paola bellomi
si ripetono con frequenza in questo teatro che unisce la dimensione sacra dei sacrifici pagani ai rituali cattolici svuotati della
loro profondità mistica. I personaggi arrabaliani possono allora
essere interpretati come una metafora della situazione culturale
e politica della Spagna franchista, dove gli adulti-bambini che si
muovono in scena rappresentano il popolo iberico in un contesto chiuso come quello della dittatura, che preferisce aver a che
fare con individui sentimentalmente e psicologicamente immaturi. Ma la follia è anche la scintilla della creatività, la rottura di
un ordine inaccettabile perché autoritario. Il comportamento
deviato, nel teatro di Fernando Arrabal, assume un valore positivo nel momento in cui si pone come strumento di libertà. La
malattia diventa, così, cura.
Fernando Arrabal ha fatto della sua opera uno strumento
d’indagine personale e, insieme, collettiva. I traumi infantili che
segnano la biografia di questo autore trovano espressione e, forse, una cura sul palcoscenico.1 Come molti personaggi sadiani,
anche le figure a cui Arrabal dà vita e parola si potrebbero de-
1
Arrabal viene cresciuto, insieme al fratello e alla sorella, dalla madre, Carmen Terán, in seguito alla scomparsa del padre, un ufficiale dell’esercito repubblicano che, al termine della Guerra civile spagnola, era stato catturato e condannato
a morte, pena poi commutata in ergastolo da scontare in un ospedale per malati
mentali; da qui l’uomo fuggirà (o verrà fatto sparire) a piedi, in pigiama, verso la
campagna castigliana coperta di neve. Di lui Arrabal perderà per sempre le tracce,
nonostante i molti tentativi fatti per rintracciarlo o per avere notizie certe sulla sua
morte. Dal momento dell’incarcerazione, Arrabal sviluppa una sua mitologia personale in cui il padre diviene una figura venerata e amata profondamente, mentre
la madre coprirà il duplice ruolo di figura idolatrata e odiata. L’educazione cattolica e gli atteggiamenti sadici e masochisti di una zia che abitava con la famiglia
aggiungeranno quegli ingredienti che si ritrovano, filtrati dalla finzione letteraria,
nelle strutture cerimoniali tipiche della produzione artistica di questo autore. Per
una biografia dettagliata di Arrabal, cfr. F. Torres Monreal, Apuntes para la vida
de Fernando Arrabal, in F. Arrabal, Teatro completo, a cura di F. Torres Monreal,
Madrid, Espasa, 1997, 2 voll., vol. 2, pp. 2105-2160.
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finire come dei «prigionieri del desiderio»,2 ossia delle vittime
delle proprie pulsioni emotive, sempre eccessive, spesso origine
di perversioni crudeli e insensate, che in alcuni casi trovano pace
solo nella loro concreta realizzazione, terminando con l’estremo
sacrificio, la morte. Gli impulsi sessuali, sia che vengano repressi sia che vengano liberati, costituiscono un punto di equilibrio
su cui si bilanciano i comportamenti dei personaggi; il sesso è,
nelle opere di Arrabal, una costante che evoca allo stesso tempo
immagini di un sentimento amoroso generoso e spontaneo e di
una passione sadica e masochista, intrisa di violenza gratuita e
assurda. Ciò è particolarmente evidente nella produzione teatrale
che va dal 1952, anno della stesura di Pic-Nic, il primo dramma
che ricorda le sperimentazioni del teatro dell’assurdo, al 1964, in
cui Arrabal porta a termine El arquitecto y el emperador de Asiria,
opera-simbolo dell’estetica panica che, nel 1962, l’autore spagnolo aveva contribuito ad elaborare, insieme all’argentino Alejandro
Jodorowsky e al franco-polacco Roland Topor.3 Il teatro panico
cerca di contribuire alla liberazione dell’essere umano, liberarlo
dalle sue ossessioni, che spesso sono il risultato di imposizioni
esterne a sé. Lo spettacolo ideato da Arrabal risponde alla formula teatrale teorizzata da Jodorowky, in cui la rappresentazione
viene intesa come un atto di «psicomagia», al termine del quale lo
spettatore-adepto non può che uscire profondamente rinnovato.
L’uomo panico, o l’«ex attore» come lo definisce l’artista cileno,
no actúa en una representación y ha eliminado totalmente el personaje.
En lo efímero, este hombre pánico intenta alcanzar a la persona que está
siendo. [...] El pánico piensa que en la vida cotidiana todos los augustos caminan disfrazados interpretando un personaje y que la misión del
teatro es hacer que el hombre deje de interpretar un personaje frente a
2
Cfr. L. Moreau Arrabal, El Marqués de Sade: ¿clásico del siglo XX?, in «Primer Acto», 92, 1968, pp. 46-49: 49.
3
Cfr. F. Arrabal, Théâtre panique. L’Architecte et l’Empereur d’Assyrie, Paris,
Bourgois, 1967.
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otros personajes, que acabe eliminándolo para acercarse poco a poco a
la persona. Es el camino inverso de las antiguas escuelas teatrales; en vez
de ir de la persona al personaje – como creían hacerlo dichas escuelas –
el pánico intenta llegar desde el personaje que es (por la educación antipánica implantada por los augustos) a la persona que lleva encerrada
dentro de sí mismo. Este otro que despierta en la euforia pánica no es
un fantoche hecho de definiciones y de mentiras, sino un ser con limitaciones menores. La euforia de lo efímero conduce a la totalidad, a la
liberación de las fuerzas superiores, al estado de gracia. En resumen: el
hombre pánico no se esconde detrás de sus personajes, sino que intenta
encontrar su modo de expresión real. En vez de ser un exhibicionista
mentiroso, es un poeta en estado de transe. (Entendemos por poeta no
al escritor de sobremesa, sino al atleta creador). [...] Promoví en los
espectadores-actores la práctica de un acto teatral radical que consistía
en interpretar su propio drama, en explorar su propio enigma íntimo.
Fue para mí el comienzo de un teatro sagrado y casi terapéutico.4
Agli stessi anni delle teorizzazioni paniche, e più precisamente al 1963, risale El gran ceremonial,5 un’opera che mette in
4
A. Jodorwsky, Psicomagia: una terapia pánica, Barcelona, Seix Barral, 1995,
disponibile alla pagina http://rie.cl/psicomagia/2_el_acto_teatral.php?p=2. Data
consultazione 01/2012.
5
El gran ceremonial si inserisce nella stagione panica della produzione artistica di Fernando Arrabal. Dal punto di vista tematico, l’opera viene preceduta
dal dramma Los dos verdugos (1956) e dai romanzi Baal Babilonia (1958) e La
piedra de la locura (1961), dove l’asse fondamentale ruota attorno allo scontro tra
la figura della Madre e quella del Figlio. Francisco Torres Monreal segnala inoltre
che, nel dattiloscritto della prima stesura, il titolo del dramma era Les enfances de
Fando, con un chiaro riferimento al precedente Fando y Lis (1955-1956). Il finale
de El gran ceremonial si allaccia infatti all’inizio di Fando y Lis, dove troviamo i
due innamorati in viaggio alla ricerca di Tar/Art. Rispetto alla prima stesura, anche i nomi dei personaggi vengono modificati: Fando diventa Cavanosa, Lis-Lys,
El Amigo viene identificato invece come El Amante; inoltre molte parti di dialogo
subiscono dei tagli, rendendo le battute più snelle e incisive, mentre vengono
ampliati gli interventi di tipo surrealista. Cfr. F. Torres Monreal, Introducción, in
F. Arrabal, Teatro pánico, Madrid, Cátedra, 1986, pp. 9-84: 61. Per la redazione
dell’edizione critica de El gran ceremonial, Torres Monreal si è basato sulla seconda versione dattiloscritta in spagnolo, inserendo in nota le varianti della prima
versione spagnola e del testo in francese. Cfr. F. Arrabal, El gran ceremonial, in
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scena il dramma di Cavanosa, un personaggio «malato» in senso etimologico – male hab˘tus – inteso come colui che si trova
in una situazione di infermità fisica e psicologica resa evidente
dalla propria condotta.6 Cavanosa è un perverso, ossessionato dal sesso, con un profondo senso di inadeguatezza e pieno
di frustrazioni: ogni notte cerca di colmare l’atavica mancanza d’amore di cui soffre, adescando nel parco giovani donne
che, impietosite per le deformità dell’uomo e sedotte dai suoi
modi stravaganti, accettano di seguirlo nel suo appartamento,
dove vengono sottoposte a violenze verbali e fisiche, in tentativi
sempre frustrati di godimento sessuale che conducono all’inevitabile uccisione delle vittime. Attorno a Cavanosa si realizza la
cerimonia che dà il titolo all’opera e che può essere analizzata a
tre livelli: teatrale, mitico e psichico.
1. La dimensione teatrale
Il dramma, composto da un prologo e due atti, si apre con
Cavanosa seduto su una panchina in un parco, di notte, che invoca la madre.7 Si sente il suono delle sirene della polizia. La luId., Teatro pánico, cit., pp. 85-180. L’opera venne messa in scena per la prima
volta nel marzo del 1966 a Parigi presso il Théâtre des Mathurinus da Georges
Vitaly. Cfr. A. Chesneau, Décors et décorum. Enquête sur les objets dans le théâtre
d’Arrabal, Québec, Naaman, 1984, pp. 68-77.
Le citazioni da El gran ceremonial sono tratte dall’edizione del teatro completo
di Arrabal curata da Torres Monreal e vengono segnate all’interno del testo tra
parentesi tonde. Cfr. F. Arrabal, El gran ceremonial, in Id., Teatro completo, cit.,
vol. 1, pp. 573-649.
6
Il Dizionario etimologico della lingua italiana, a cura di M. Cortelazzo e P.
Zolli, Bologna (Zanichelli, 1999), indica come più accreditata la derivazione del sostantivo «malato» dal latino «male hab˘ tus», nel senso di «che è in cattivo stato».
7
Francisco Torres Monreal (Introducción, in F. Arrabal, Teatro pánico, cit.,
pp. 57-58) schematizza il dramma come segue:
Prólogo:
Cuadro I (parque, primeras horas de la noche): Cavanosa – Sil.
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ce aumenta ed entra Sil, che prende posto accanto a Cavanosa.
Il primo quadro del prologo si chiude con l’uscita di scena della
donna, che riappare all’apertura del secondo quadro, nella stessa situazione iniziale: sono trascorse due ore (come si apprende
dalla didascalia), Cavanosa è ancora seduto sulla panchina e Sil
gli si avvicina. L’azione si interrompe con l’uscita di scena di
Sil e dell’Amante, mentre Cavanosa, nel buio completo, invoca
nuovamente la madre. Si odono le sirene della polizia. Il terzo e
ultimo quadro del prologo vede il ritorno di Sil, trascorsa un’ora
dalla sua partenza, che si inginocchia ai piedi di Cavanosa. Il sipario si chiude con il dialogo dei due personaggi che pianificano
il successivo incontro, mentre in sottofondo rimangono costanti
le sirene. Il prologo ci introduce in uno spazio aperto orizzontale, il parco, delimitato non da una recinzione reale, bensì dal
suono delle sirene che, ciclicamente, «illuminano» la scena, come i fari notturni nel cortile di un carcere. Il recinto sonoro
viene usato da Arrabal come si trattasse di un muro che ridimensiona l’estensione del parco ad un luogo più circoscritto.
Il primo atto introduce lo spettatore in una nuova situazione:
sono trascorsi alcuni minuti (come detto nella didascalia) e le
luci si accendono sull’abitazione apparentemente vuota di Cavanosa, in cui sono visibili alcune bambole nude e a grandezza
Cuadro II (parque, 2 horas más tarde): Cavanosa – Sil – Amante (este último a
mitad del cuadro).
Cuadro III (parque, una hora más tarde): Cavanosa – Sil.
Acto primero:
Habitación de Cavanosa [...].
Cuadro único: A: Cavanosa – La Madre.
B: Cavanosa – Sil.
Acto segundo:
Cuadro I-A (habitación de Cavanosa, unos minutos más tarde): Cavanosa – El
Amante – Sil – Voz de la Madre.
Cuadro I-B: Los anteriores más la Madre.
Cuadro II (a la noche siguiente, de nuevo en el parque): Cavanosa – Lys.
Cuadro III (en el parque, una hora más tarde): Cavanosa – Lys (más tarde, en
réplica final, la Madre).
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naturale e un letto. L’abitazione è accessibile da due porte e si
apre all’esterno con un balcone. L’azione riprende con l’ingresso di Cavanosa, il quale, accendendo le luci, scopre l’inaspettata
quanto sgradita presenza della Madre nella stanza. L’atto si sviluppa interamente e senza interruzioni tra le quattro mura della
camera, in cui si assiste allo scambio di battute tra Cavanosa, la
Madre e, in un secondo momento, Sil. Il sipario cala nel climax
dell’azione, mentre Cavanosa sta soffocando con le proprie mani Sil, che, come estrema prova d’amore, ha volontariamente
accettato di essere uccisa da lui. In questo atto, Arrabal porta
lo spettatore dentro l’antro del mostro, in uno spazio chiuso e
domestico, in una posizione perpendicolare rispetto alla superficie orizzontale del parco; la verticalizzazione acutizza il senso
di vertigine per chi assiste, così come il disagio viene aumentato
dal restringimento claustrofobico che provoca il passaggio da
un ambiente esterno, idealmente senza limiti, ad un ambiente
interno, ingabbiato dalle pareti. Arrabal intensifica inoltre l’effetto portando lo spettatore da uno spazio vuoto come lo era
l’ambientazione nel parco, metonimizzata dalla panchina, ad
uno spazio pieno, sovraccarico di oggetti: oltre al letto, nella
camera sono collocate «varias muñecas desnudas de tamaño natural» (596), un comodino, un copriletto, una frusta, due piccoli
feretri, una bambola giocattolo senza testa, un coltello a serramanico, una poltrona, una lampada, uno specchio, un pettine,
una cassettiera, una collana, un collare chiodato, un fazzoletto,
una parrucca, degli orecchini, una corda, una canna, una corona di spine, abiti maschili e femminili, un armadio, una lunga
catena, una carrozzina, un cadavere di donna, delle manette.
Oggetti comuni, quindi, come il letto o la cassettiera, ma anche
oggetti simbolici, come la corona di spine, ed oggetti della perversione, come la frusta e le manette.
Il secondo atto è articolato, come il prologo, in tre quadri.
In questo caso, però, l’azione si sviluppa dapprima nello spazio
chiuso della stanza di Cavanosa e, nel secondo e terzo movimen© Paola Bellomi
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paola bellomi
to, di nuovo nello spazio semi-aperto del parco. La complessità
presente nel primo atto raggiunge il grado massimo nel primo
quadro del secondo atto, dove lo spazio viene ulteriormente riempito non solo di altri oggetti (una sedia, un cuscino, un berretto, delle carte da gioco, ecc.), ma anche di persone. Nella
stanza da letto si riuniscono Cavanosa, la Madre, Sil e l’Amante
e il luogo diviene un terreno di scontro tra mondi molto distanti
tra loro: alla fine l’ordine, rappresentato dall’Amante, viene gettato fuori del recinto sacro della casa di Cavanosa e della Madre,
dove invece Sil rimane come vittima sacrificale. Qui potrebbe
chiudersi definitivamente il sipario, ma la cerimonia di Arrabal
non si esaurisce nell’esecuzione della condanna. Ed infatti il secondo e terzo quadro del secondo atto riportano lo spettatore
ad assistere alla stessa situazione del prologo: la notte seguente,
ritroviamo Cavanosa seduto sulla panchina nel parco, in attesa
della prossima vittima che, puntualmente, arriva; si tratta di Lys,
un’altra giovane donna che, come Sil,8 si innamora di Cavanosa
ma, contrariamente a lei, riesce a far breccia nel cuore dell’uomo, rompendo così la sequela rituale e nello stesso tempo il legame tra Cavanosa e la Madre. Nonostante ciò, il suono delle
sirene della polizia, che si udiva anche nel primo atto, ricorda
allo spettatore che lo spazio non è sgombro, il personaggio può
tentare la fuga, ma, come un sorvegliato speciale, viene costantemente monitorato e la speranza di riuscita è flebile.
2. La dimensione mitica
El gran ceremonial è un dramma che appartiene al periodo
delle sperimentazioni paniche caratterizzate dai grandi rituali,
La somiglianza tra le due donne e il loro destino sembra essere suggerito fin
dai loro nomi, che costituiscono un palindromo quasi perfetto: Sil-Lys. Ciononostante, la sottile differenza grafica tra «i»/«y» si rivelerà in seguito essenziale.
8
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dove il cerimoniale si concretizza nelle azioni ripetute, nei gesti reiterati, che non fanno progredire né l’azione né la vita del
personaggio, ma hanno la funzione di tenerlo incatenato alle sue
ossessioni che, giunte all’esasperazione, sfociano in comportamenti violenti e crudeli.9 I referenti a cui Arrabal guarda sono
molteplici:10 i modelli rituali sono quelli legati alla sfera del sacro, della religione, ma anche alla dimensione sociale, alla quotidianità dell’individuo che replica, giorno dopo giorno, azioni,
gesti, parole (tra i molti esempi possibili, mi limito a ricordare
l’estenuante quanto insensato allenamento atletico a cui si sottopone la coppia di poliziotti formata da Lasca e Tiosido in El
cementerio de automóviles). Lo scopo della messa in scena di
questi rituali è duplice: da una parte, Arrabal vuole sottolineare
la meccanicità e la schizofrenia a cui la cristallizzazione delle
nostre abitudini può portare; dall’altra parte, la reiterazione di
gesti e azioni simbolici produce un maggior grado di adesione
al modello (basti pensare ai riti religiosi, anche a quelli cattolici)
ed, inoltre, costituisce il punto di accesso per aprire la via al
sacro, come succede nel riferimento alla «danza roteante» dei
Dervisci, di cui Arrabal si appropria nelle scene finali del suo
film Iré como un caballo loco.
In El gran ceremonial lo spazio teatrale si fonde con lo spazio
Arrabal definisce con queste parole la sua concezione di cerimonia: «La
tragédie et le guignol, la poésie et la vulgarité, la comédie et le mélodrame,
l’amour et l’érotisme, le happening et la théorie des ensembles, le mauvais goût
et le raffinement esthétique, le sacrilège et le sacré, la mise à mort et l’exaltation
de la vie, le sordide et le sublime s’insèrent tout naturellement dans cette fête,
cette cérémonie “panique”». F. Arrabal, Le théâtre comme cérémonie «panique»,
in Id., Théâtre panique. L’Architecte et l’Empereur d’Assyrie, cit., pp. 7-9: 8. Sulla
cerimonia arrabaliana, cfr. Á. Berenguer, L’exil et la cérémonie. Le primer théâtre
d’Arrabal, Paris, Union générale d’Editions, 1977; F. Torres Monreal (a cura
di), El teatro y lo sagrado: de M. Ghelderode a F. Arrabal, Murcia, Universidad de
Murcia, 2000.
10
Cfr. F. Torres Monreal, Introducción, in F. Arrabal, Teatro completo, cit.,
vol. 1, pp. 47-53.
9
© Paola Bellomi
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rituale e non poteva essere altrimenti, visto che fin dal titolo la
cerimonia appare come l’asse centrale del dramma. La dimensione sacra, mitica, viene suggerita a chi legge sin dal nome del
protagonista: Cavanosa.11 Oltre ad essere in modo evidente
l’anagramma di Casanova, il nome può avere anche un’interpretazione anagogica, come ha suggerito Fernando Cantalapiedra.
Secondo la sua ipotesi, infatti, la polisemia del nome potrebbe
rimandare sia alla tradizione cristiana che a quella classica. «Cava», infatti, rimanderebbe alla «cueva», al sepolcro di Gesù e alla
caverna di Platone; «nosa» corrisponderebbe invece al pronome
personale «nos» che ricorre nel Padre Nostro e, contemporaneamente, farebbe riferimento al concetto filosofico del «nous»,
la ragione, umana e divina. Nomen omen: la stanza di Cavanosa
è essa stessa una metafora della caverna o del sepolcro, luogo
di prigionia e di morte, immerso nell’oscurità che solo la tenue
luce artificiale della lampada può tentare di fendere, ma ad intermittenza; è sufficiente, infatti, azionare un interruttore per far
cadere tutto di nuovo nel buio. Anche il «paradiso terrestre» che
il parco potrebbe rappresentare non viene mai rischiarato dalla
luce, nemmeno quella lunare; è un hortus conclusus ma, contrariamente al giardino del Cantico dei cantici, gli incontri che lì
avvengono sono destinati a generare unioni mortifere.
L’universo binario che Arrabal rappresenta in scena è in
continuo e altalenante equilibrio tra gli opposti: spazio aperto/
spazio chiuso, luce/oscurità, amore/morte. La cerimonia che
Cavanosa mette in piedi a metà del primo atto (quindi nel centro del dramma) si basa anch’essa su quest’alternanza: Sil viene
spogliata, oggetto dopo oggetto, della sua identità femminile e
11
Lo spettatore di El gran ceremonial non ascolta mai il nome dei personaggi
visto che nei dialoghi essi non appaiono; solo il lettore del testo scritto può avere
accesso alle informazioni aggiuntive che l’interpretazione dei nomi può suggerire.
Cfr. F. Cantalapiedra Erostarbe, En una noche obscura o «El gran ceremonial»,
in Id., El teatro español de 1960 a 1975: estudio socio-económico, Kassel, Reichenberger, pp. 117- 159: 121-122.
© Paola Bellomi
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rivestita di una nuova essenza, questa volta maschile; la metamorfosi avviene a più livelli, poiché non si tratta solo di un mutamento di genere, ma anche di referente simbolico: Cavanosa
trasforma Sil da Vergine Maria a Cristo, le raccoglie i capelli e
le fa indossare una parrucca maschile – «Sil parece un hombre»
(615) si legge nella didascalia – poi una tunica con una corda
alla cintura, un bastone, una corona di spine ed, infine, dei sandali. La trasformazione è completa. Alla celebrazione del rituale
corrisponde, significativamente, un mutamento del linguaggio:
la cerimonia si esprime in un codice linguistico diverso dalla
quotidianità poiché il mistero è racchiuso nella parola e può
essere enunciato ed inteso solo dagli iniziati. Arrabal sceglie il
registro poetico-surrealista per far parlare Cavanosa, l’officiante, durante lo svolgersi della liturgia, in forte contrasto con il
linguaggio violento ed offensivo che caratterizza il personaggio;
se, infatti, Cavanosa ha abituato lo spettatore a frasi piene di
rabbia e di violenza, nello svolgimento della cerimonia le sue
parole sono ricche di metafore oniriche, in cui è evidente l’eco
del linguaggio poetico-surrealista:
Siéntese aquí, que la vea, que sienta el mediodía perfecto, la noche
ciega, la luz sin espinas. [...]
Construiré copas de telas de arañas para su pubis y lirios de hierro
para sus labios entreabiertos. [...]
Déjeme que la coloque como quiera, que conserve el planeta distante
y el ojo de pez que asoma tras la timidez de las manos. [...]
Es usted la imagen de la dicha que dialoga con la hermosura de la
montaña (614).
Una inmensa mariposa aspira a su boca, a su flor tranquila. [...]
Déjeme ver su lengua cómo surge de la espuma y del calambre, y que
provoque mi calambre y mi espuma. [...]
Lengua murmullo, lengua espada, lengua primavera, lengua de cielo
raso dispuesta al abandono y a la violación (615).
La posizione che questo tipo di linguaggio occupa nel dramma non è solo simbolica, ma anche fisica: collocato al centro del
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paola bellomi
dramma, il registro poetico-onirico si appropria di uno spazio
che era appartenuto fino a quel momento al linguaggio convenzionale che, nell’estetica arrabaliana, è il mezzo attraverso il
quale gli organi di repressione esprimono il loro potere e applicano la loro strategia di controllo.
Il «grande cerimoniale» che Cavanosa riproduce notte dopo
notte, vittima dopo vittima, è il corteggiamento amoroso, che
prende il via nel parco e si conclude, sempre uguale, nella caverna del mostro. La liturgia fallisce in ogni occasione, costringendo Cavanosa a riprodurla quotidianamente, perché è il rituale
ad essere sbagliato: Cavanosa vorrebbe innamorarsi per liberarsi dell’ingombrante figura della Madre, amata e odiata allo
stesso tempo,12 ma nessuna donna riesce a fungere da talismano
contro la divinità perché anziché affrontarla, riuscendo così a
infrangere il tabù, si piega al suo volere. La Madre è insieme Cibele e Kali, colei che dona la vita e colei che esige sacrifici umani. Viene vinta, al termine del dramma, da Lys, che non è solo la
«donna giusta», ma è l’altra metà della mela platonica, il doppio
di Cavanosa. Le opposizioni tra Sil e Lys non si esauriscono ovviamente nella complementarità del nome, ma si rivelano ancor
più nel linguaggio che le due donne usano: mentre la prima, nel
desiderio di farsi accettare, non abbandona la logica della convenzione verbale, adattandola all’uso violento che Cavanosa e la
Madre fanno del linguaggio, Lys rivela il suo essere diversa dalle
altre e, ancor più importante, il suo essere uguale a Cavanosa
nel registro poetico-surrealista di alcune sue battute:
¡Qué bonito es hablar con un hombre! Me gusta mucho. La esperanza circula como los siglos en las torres (642).
Sulla figura della Madre nei drammi di Arrabal la bibliografia è abbondante; mi permetto di rimandare a: P. Bellomi, Mitificación y desacralización. La
figura de la madre en Los dos verdugos de Fernando Arrabal, in «ALEC. Anales de
Literatura Española Contemporánea», 32.2, 2007, pp. 123-146 e alla bibliografia
ivi citata.
12
© Paola Bellomi
el gran ceremonial di fernando arrabal
271
Titila dentro de mí un mar de espigas y tiemblan los prodigios. Una
muchedumbre de cisnes minúsculos me roza los poros (643).13
Lys porta a compimento il cerimoniale perché non aspetta
di ricevere la benedizione dall’officiante, come aveva fatto Sil
accettando di essere spogliata e poi modellata ad immagine e
somiglianza della volontà della Madre.14 Lys è una sacerdotessa,
al pari di Cavanosa, condivide con lui il «Nous» e questa coincidenza spirituale permette di dar vita al «Nos», come sottolinea il soggetto plurale che Cavanosa usa al termine del dramma
parlando dei loro progetti futuri: «Sí, vamos a recorrer países y
más países, siempre cambiando de ciudad. Seremos los forasteros y la línea. El azul frenético sacudirá nuestro silencio y nos
pondrá estrellas y piedrecitas por nuestros ojos cerrados» (647).
I due celebranti portano a termine la funzione abbandonando,
insieme, la caverna: in scena rimane, solitario, l’idolo, che ha
perso la sua autorità e sacralità; il cordone ombelicale con la
Madre è stato finalmente tagliato. Questo non significa però che
gli eroi arrabaliani abbiano vinto il sistema che ha prodotto la
loro alienazione, come ci ricordano le sirene della polizia che
si odono mentre il sipario scende. Lo spazio chiuso della realtà
in cui si muovono i personaggi non concede una speranza di
liberazione immediata; ciononostante, il viaggio invocato dalle
parole di Cavanosa e intrapreso dalla coppia lascia pensare che
Anche Sil, nel prologo, ricorre al linguaggio poetico-surrealista, ma vi rinuncia per adattarsi al linguaggio repressivo di Cavanosa e della Madre; proprio
per questo Sil fallisce il suo tentativo: non è accettando il sistema che si ottiene la
libertà che Cavanosa va cercando.
14
È Lys a chiedere di indossare le catene, esprimendo così un desiderio suo,
non di Cavanosa:
Lys: ¿Me deja ponerme la cadena?
Cavanosa: Es para la muñeca.
Lys: Sólo un momento, por ver qué pasa.
Cavanosa: Bueno [...].
Lys: ¡Qué bien queda! (648).
13
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una possibilità di salvezza ci sia. E ciò viene suggerito dall’esclusione in scena delle figure umane al calare del sipario: lo spazio
vuoto è riempito solo dal suono delle sirene, mentre l’uomo è in
cammino, alla ricerca del suo destino e della libertà.
3. La dimensione psicologica. La rappresentazione
della perversione e il teatro come cura
In tutta la sua produzione teatrale, Arrabal ricorre alla dimensione mitica per tradurre in scena una dimensione soggettiva che ha reso la sua opera così coerente ed originale. È lo stesso
autore che, raccogliendo la proposta del critico Alain Schifres,
definisce El gran ceremonial come una «pièce psychologique».15
I temi ricorrenti che appaiono nella prima fase creativa li ritroviamo, declinati in maniere diverse, anche nelle sue opere
più recenti:16 uno su tutti, l’amore intriso di sadomasochismo,
tenero e allo stesso tempo violento, puro e profondamente immorale.
Cavanosa è un individuo malato, che, in assenza della figura paterna, cerca gratificazione e il riconoscimento di sé nella Madre. Come spesso accade nella sua opera, Arrabal parte
dalla sua storia personale per costruire un alterego che, una
volta dotato di vita, oltrepassa le somiglianze con il creatore e
acquisisce un’identità propria. Ne El gran ceremonial i punti
15
In un’intervista con Arrabal, Alain Schifres commenta: «Il reste que vostre
personnage [Cavanosa] a des raisons très précises, très cliniques de souffrir: il a
telle difformité, tels rapports avec sa mère, il a eu telle enfance, etc., en un mot,
il est expliqué. C’est du théâtre plus psychologique que “poétique”»; Arrabal gli
risponde esclamando: «Alors je suis très fier. Quel malheur si je n’avais jamais
écrit une “pièce psychologique”!». A. Schifres, Entretiens avec Arrabal, Paris,
Pierre Belfond, 1969, p. 128.
16
Per una rassegna dei temi più ricorrenti nell’opera di Arrabal, cfr. F. Torres
Monreal, Apuntes para la vida de Fernando Arrabal, in F. Arrabal, Teatro completo, cit., vol. 2, pp. 2103-2160.
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273
di coincidenza tra autore e personaggio sono molti: entrambi sono personalità ipersensibili, che hanno perso il padre e
sono stati cresciuti dalla madre, amata ed odiata con la stessa
intensità, entrambi hanno sofferto per le deformazioni fisiche
del loro corpo (reali, nel caso di Cavanosa, presunte nel caso
di Arrabal, che per lungo tempo è stato ossessionato dall’idea
di avere una testa sproporzionata).17 Ma se i punti di contatto
tra biografia e opera sono numerosi e manifesti, altrettanto vale
per le distanze. Arrabal riversa le sofferenze e le paure di cui è
popolato il suo universo psichico sul palco, dotando Cavanosa
dei più biechi attributi: Arrabal, come un novello Dr. Jeckyll,
lascia a Mr. Hyde il carico dell’abiezione. Cavanosa è il ritratto
dell’uomo panico che Arrabal aveva illustrato nel manifesto del
movimento fondato nel 1962 da lui, Topor e Jodorowsky, in cui
si legge:
Fantasmas del hombre pánico:
- Paranoia (y no esquizofrenia)
- Megalomanía y modestia
- Desesperanza, pero no angustia
- Enfermedades y deformaciones
- Celos, fetichismo, necrofilia, etc.
- Susceptibilidad
Sono le parole stesse di Arrabal a confermare le somiglianze tra la sua biografia e il protagonista de El gran ceremonial quando afferma: «Je l’adorais [ma
mère]. J’étais d’une jalousie féroce. Parfois au jardin public, nous nous asseyions
par terre et les hommes contemplaient ses jambes. Alors je les cachais avec mon
pull-over. [...] Je me plaçais toujours entre ma mère et les hommes, j’étais disposé
à me battre pour elle contre n’importe qui. Au moment de la rupture [avec ma
mère] dont je vous parlais, j’ai commencé à croire à la démocratie». Nonostante
la rottura con la madre e una certa disponibilità economica, Arrabal non se ne va
di casa, giustificando la sua incapacità a lasciare il nido familiare come un gesto
dovuto alla memoria di suo padre: «Je pense que, si je ne suis pas parti de chez
moi, ce fut par refus de soumission, en hommage à mon père, je n’ai pas voulu
fuir. De même, j’essaye de combattre mes obsessions». Schifres, Entretiens avec
Arrabal, cit., pp. 21-22.
17
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- Mitología (todo lo que se ama)
- Mitomanía18
Cavanosa è un personaggio parafilico ossessivo-compulsivo:
come si trattasse di un Casanova deviato, ogni notte va al parco
per attrarre e catturare la propria vittima, che, una volta condotta nel luogo della tortura, verrà sottoposta a violenze verbali
e fisiche; allo stesso tempo, il personaggio si lascia umiliare e
ridurre all’impotenza (fisica e simbolica) dalla figura materna.
Cavanosa prova piacere nel suo duplice ruolo, di torturatore
e di torturato, cerca l’umiliazione, perché questa gli permette
di giustificare le pulsioni crudeli e violente che prova verso la
Madre, ma che scarica sulle altre donne o sui manichini, che
altro non sono se non dei simulacri.19 Le didascalie sottolineano
i continui ed ingiustificati cambiamenti d’umore: il prologo si
apre con Cavanosa «triste», che passa nelle battute successive
da una «timidez excesiva, casi caricaturesca» a «violento» (575),
per poi affermare: «(Sin ninguna emoción) Soy un asesino. Acabo de matar a mi madre» (576). Gli esempi potrebbero continuare, tutti simili, fino al termine del dramma.
Cavanosa è un «anormale», come afferma lo stesso Arrabal, è
un perverso, è l’individuo i cui eccessi causano l’emarginazione
dalla società, una società che è, a sua volta, malata, irrigidita
da convenzioni vuote e alienanti, che tendono ad omologare
l’individuo per tenerlo sotto la propria ala protettiva o per me-
F. Arrabal, El hombre pánico, in Id., El cementerio de automóviles, Ciugrena, Los dos verdugos, Madrid, Taurus, 1965, pp. 27-37: 36.
19
I manichini di Arrabal ricordano la definizione di «automa» di Deleuze e
Guattari quando scrivono: «Niente bocca. Niente lingua. Niente denti. Niente
laringe. Niente esofago. Niente stomaco. Niente ventre. Niente ano. Gli automi
si arrestano e lasciano venir su la massa inorganizzata che articolavano. Il corpo
pieno senza organi è l’improduttivo, lo sterile, l’ingenerato, l’inconsumabile». G.
Deleuze, F. Guattari, L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, Torino, Einaudi,
1975, pp. 9-10.
18
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glio controllarlo.20 Cavanosa è un fuori casta, un ricercato, per
i (presunti?) delitti commessi ma, forse, la colpa reale che gli
viene imputata e per cui deve essere perseguitato e punito è il
desiderio di libertà che il suo comportamento trasgressivo denuncia.
Volendo tentare di dare un’interpretazione più ampia alla
caratterizzazione che Arrabal fa di questo personaggio, si potrebbe stabilire un parallelismo tra la tubercolosi, malattia di cui
ha sofferto l’autore e che l’ha profondamente segnato, e le perversioni sessuali di Cavanosa.21 Rifacendomi alle osservazioni di
Susan Sontag nel suo testo ormai classico Malattia come metafora, ricordo che la tubercolosi ha catalizzato, per molto tempo, le
ansie e le paure della società occidentale, tanto da diventare un
motivo non solo letterario, ma anche esistenziale: basti pensare
ai letterati romantici come Keats, fisicamente emaciati e sofferenti come i protagonisti delle loro poesie. Scrive Sontag:
Si credeva un tempo – e si continua a credere – che la tbc produca periodi di euforia, di grande appetito, di desiderio sessuale esacerbato.
[...] La tbc veniva ritenuta un afrodisiaco, che conferisse straordinari
poteri di seduzione. [...] Ma è tipico della tbc che molti dei suoi sintomi siano ingannevoli.22
Afferma Arrabal: «[Cavanosa] s’exprime comme tout le monde et, brusquement, il parle d’une manière anormale. Mais cette manière “anormale” évoque la manière “normale” de parler des gens, des autres, c’est-a-dire justement les
êtres normaux qui en son ni “différents”, ni obsédés. Cavanosa est un personnage
dostoïevskien. C’est-a-dire qu’il joue le jeu des gens normaux, mais sans jamais se
mettre dans leur peau, en “gardant ses distances” ironiquement et douloureusement». Schifres, Entretiens avec Arrabal, cit., p. 125.
21
Arrabal, in numerose interviste, parla dell’esperienza nel sanatorio, che riproduce anche nel suo film ¡Viva la muerte! (Francia/Tunisia, 1971, 87’), dove il
regista-autore inserisce una sequenza in cui Fando, il piccolo protagonista malato
di tbc, viene sottoposto ad un intervento chirurgico, con l’asportazione di parte
dei tessuti polmonari.
22
S. Sontag, Malattia come metafora, Torino, Einaudi, 1992, pp. 13-14.
20
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L’analisi di Sontag trova riscontro anche nelle parole usate da
Arrabal per descrivere il suo stato durante la malattia; lo scrittore, infatti, offre una visione piuttosto romantica della sofferenza, nella quale la malattia è associata per analogia al peccato e
al castigo e la guarigione corrisponde al sacrificio estremo della
morte volontaria:
Par exemple, vers 17 ans, j’ai traversé une époque de grande dépression. C’était au moment de toutes les ruptures, de tous les drames
intimes [...]. J’ai décidé de me tuer. Je ne savais pas alors que j’étais tuberculeux, car, en Espagne, on ne pratiquait pas la tomographie. Mais
j’avais des difficultés avec mes poumons et j’ai pensé qu’il suffisait de
beaucoup pécher une journée entière pour que ce fût un suicide. J’ai
tout prévu, j’ai beaucoup péché toute une journée, presque jusqu’au
sang. Ensuite, j’ai été me confesser de tous ces péchés et j’ai cru que
j’allais mourir le soir même.23
Ricordando il suo ricovero in ospedale a Bouffémont, durato
un anno e mezzo, Arrabal associa quel periodo ad un momento
positivo, dove era accudito ed era lasciato libero di creare:
J’ai été opéré. On est très bien en sana, on peut lire, écrire. On ne se
sent pas malade et les gens meurent le sourire aux lèvres. Ce séjour m’a
été très utile. [...] Si un jour je n’ai plus de quoi manger, je redeviendrai tuberculeux, j’irai dans un sana. Je serai bien. [...] J’ai fini Fando
et Lis, j’ai écrit Le labyrinthe, Les deux bourreaux, et d’autres textes
encore. [...] J’avais entassé une pile d’un mètre de manuscrits.24
La tubercolosi per Arrabal coincide quindi con un momento
di grandissima produttività artistica e forse non è un caso che le
tre opere nominate siano ricche di scene violente ed eccessive,
un riflesso dello stato di febbrile eccitazione causata dalla malat-
23
24
Schifres, Entretiens avec Arrabal, cit., p. 28.
Ibid., p. 37.
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277
tia in cui si trovava l’autore. Scrive Sontag: «Con la tbc una persona viene “consumata”, bruciata. [...] La tbc è una malattia del
tempo: accelera la vita, le dà risalto, la spiritualizza».25 Arrabal
riversa la pulsione creatrice che lo esorta incessantemente a scrivere nella carica trasgressiva della sua opera, dove l’esaltazione
della vita e dell’amore deve convivere con la sacralizzazione della violenza e della morte. L’autore rielabora la sofferenza causata dalla malattia dando vita a personaggi dalla natura ambigua,
«malati di passione».26 Sontag nota ancora che i tubercolotici
vengono curati, oltre che con il «cambiamento d’aria», anche
con la «terapia del sesso», ossia ai malati vengono prescritti
frequenti rapporti sessuali a fini terapeutici, poiché si credeva
che la malattia fosse causata da un sentimento appassionato irrefrenabile che provocava gli attacchi.27 Inoltre i tubercolotici
sono persone dotate di un’eccessiva passionalità che consuma le
forze fino a ridurre i malati ad una deficienza di vitalità che Sontag associa all’impotenza fisica28 e, in seconda battuta, all’isolamento a cui la comunità costringe l’individuo sofferente.29 Il
ritratto del tubercolotico tratteggiato dalla studiosa statunitense
si adatta non tanto alla figura di Arrabal, quanto a quella del suo
alterego drammatico.
Nel grande cerimoniale dell’amore, il novello Cavanosa-Casanova conquista con facilità le sue amanti, nonostante il caratSontag, Malattia come metafora, cit., p. 14.
Scrive Sontag: «La più impressionante somiglianza tra i miti del cancro e
quelli della tbc è che entrambe le malattie sono, o erano, viste come malattie della
passione. Nella tbc la febbre era un segno di incendio interiore: il tubercolotico
è una persona “consumata” dall’ardore, quello stesso ardore che porta alla dissoluzione del corpo. L’uso di metafore tratte dalla tbc per descrivere l’amore [...]
anticipa di molto il movimento romantico. A partire dai romantici, l’immagine
venne invece capovolta e si cominciò a vedere nella tbc una variante della malattia
d’amore». Ibid., p. 21.
27
Cfr. ibid., p. 22.
28
Ibid., p. 31.
29
Ibid., p. 37.
25
26
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278
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tere irascibile e scontroso e l’aspetto fisico deforme (Cavanosa
è gobbo e zoppo), anzi è proprio questa sua alterità che crea
il legame amoroso. Nel caso di Sil, dopo essere stata insultata
gratuitamente e in ripetute occasioni, si rivolge a Cavanosa con
queste parole: «¡Qué contenta estoy! Me temía que se hubiera
marchado. (Silencio). ¿Está enfadado? La culpa es mía. Le he
traído estas flores» (582). La donna non solo torna felicemente dal suo aguzzino, ma si addossa la colpa di azioni che non
ha commesso, anzi, di cui è stata vittima, ed inoltre, per ottenere il perdono del suo amato, sente il bisogno di offrirgli un
dono simbolico (i fiori). Nonostante Sil riconosca l’anormalità
di Cavanosa – alla domanda: «¿Soy un monstruo o un hombre
normal?», Sil risponde: «No es normal. [...] Usted es deforme»
(594) – non può fare a meno di apprezzare la sua diversità –
«Creo que usted es un ser único» (584) – e, incalzata dall’uomo,
conferma la sua ammirazione ricorrendo al linguaggio poeticosurrealista:
Cavanosa: Precise: ¿soy un monstruo... o si prefiere un enfermo, un
deforme o no?
Sil: Sí, lo es.
Cavanosa: No me refiero a monstruosidades espirituales sino físicas,
«visibles». (Silencio). Responda.
Sil: Sí, lo es. [...]
Cavanosa: ¿Qué es lo que más le atrae de mí: mi aspecto físico o mis
«cualidades espirituales»? [...]
Sil: El conjunto de ambas cosas.
Cavanosa: La llevo a mi casa.
Sil: ¡Qué feliz soy! Espero el bulto de armonía que palpite en mi boca
y el peso del corazón en mi tiniebla (594).
Dinamiche molto simili si ripropongono negli incontri con
Lys; nonostante le venga chiesto di compiere un omicidio, non
può far a meno di rimanere accanto a Cavanosa, «a sus pies,
como un perro» (645); non solo: la donna sente il bisogno di
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279
offrire un dono (una frusta) al suo aguzzino, cercando così di
espiare una colpa inesistente e di meritare il perdono del carnefice, sacrificando se stessa:
Lys: No, he ido a buscar un regalo para usted. (De debajo de la falda se
saca un látigo). Este látigo es para usted. Tenga, se lo regalo.
Cavanosa: ¿Para qué?
Lys: Para que me azote. [...] He sido mala, me lo merezco (645-646).
Così come la tubercolosi era stata ritenuta un afrodisiaco che
dava al malato straordinari poteri di seduzione, anche le manifeste deformità fisiche del sadiano Casanova di Arrabal lo rendono, agli occhi di Lys, un uomo attraente e irresistibile:
Cavanosa: Dicen que no soy como los demás, que soy grotesco y
monstruoso.
Lys: ¿Por eso de que quiere matar a su madre?
Cavanosa: No, por mi aspecto físico.
Lys: Pero si es usted muy simpático. Y muy guapo. Más guapo que mi
madre y más guapo que yo, desde luego (643).
Sil e Lys dimostrano, nel loro attaccamento per Cavanosa, di
subire il fascino ambiguo della promessa di un amore intriso di
dolore che l’uomo offre loro; Cavanosa esercita un potere ammaliatore sulle sue vittime, che riesce ad attirare dentro la sua
ragnatela, dove vengono immobilizzate e avvolte nel bozzolosudario. La mente perversa dell’uomo riduce le menti sensibili
delle vittime al suo volere, senza troppe difficoltà e senza incontrare grosse resistenze, forse perché le stesse donne hanno a loro volta una componente masochista, che fa sì che riconoscano
Cavanosa non come una minaccia, ma come un essere divino.
Ma Lys e Sil non sono le uniche a soffrire le conseguenze della
perversione di Cavanosa. È egli stesso vittima della sua malattia,
che gli causa un incontenibile desiderio sessuale tanto da costringerlo a cercare nei manichini dei surrogati della donna ide© Paola Bellomi
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paola bellomi
ale, su cui sfogare le proprie pulsioni.30 Come fa notare il personaggio della Madre, il disturbo del figlio subisce un progressivo
peggioramento; infatti, Cavanosa non riesce più a contenere il
suo desiderio sfogandosi sui semplici simulacri di plastica; come
un vero omicida seriale, la sua perversione non può che evolvere, alla ricerca di nuovi stimoli che riescano a soddisfare una
frenesia crescente e inappagabile, che necessita del possesso di
corpi in carne ed ossa:31
La Madre: Todo comenzó, no lo dudes, con las muñecas. Nunca debí
habértelo consentido. Al principio eran muñecas normales, y, luego,
cada vez te hacían falta mayores, hasta que sólo aceptabas las que
tenían el tamaño de una mujer. Sólo ésas (597).
L’impotenza del malato di tubercolosi si traduce in Cavanosa
nelle ridotte dimensioni dei suoi attributi maschili, come ammette egli stesso – «Quiero confesarle una cosa: mi sexo es muy
pequeño» (579) – sottolineando così la frustrazione continua
che patisce il personaggio nel vedere il proprio desiderio frenato dalla mancanza di virilità; ma l’impotenza di Cavanosa non è
solo di tipo sessuale, è anche metaforica: l’incapacità di agire, di
portare a termine il suo progetto di liberazione lo induce a neutralizzare anche gli altri, immobilizzando le donne che cattura
fino a ridurle a dei corpi inerti, senza vita. Finché Cavanosa non
30
Nella didascalia che apre il primo atto si legge: «Habitación de Cavanosa.
Varias muñecas desnudas de tamaño natural. Una cama. [...] Entra Cavanosa, se
dirige a una de las muñecas, la besa apasionadamente mientras la acaricia. Va a la
cama y echa un edredón para esconder algo que no se distingue dada la oscuridad»
(596). Si scoprirà poi che Cavanosa sta nascondendo il cadavere di una donna, la
vittima precedente a Sil.
31
Come nota a margine, si potrebbe aggiungere che i manichini sono una
metafora moderna della mercificazione di cui il corpo umano è stato oggetto nella
società consumistica, dove il sesso viene esposto in vetrina, sulle copertine delle
riviste, sui cartelloni pubblicitari, «trasformato in discorso», usando le parole di
Michel Foucault, anestetizzando così la sua carica trasgressiva. Cfr. B.-H. Levy,
Foucault: no al sexo rey, in «Triunfo», 752, 1977, pp. 46-51.
© Paola Bellomi
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281
ucciderà simbolicamente la Madre, non potrà mutare il corso
degli eventi, rimanendo schiavo nello spazio chiuso in cui la genitrice l’ha imprigionato. Cavanosa conquista la libertà quando
abbandona la caverna, sconfiggendo la paura che l’ombra terrorifica della Madre incute, e inizia con Lys il viaggio alla ricerca
del proprio destino. È il «cambiamento d’aria» più che la «terapia del sesso» a funzionare con Cavanosa, che solo mutando lo
spazio vitale può nutrire una speranza di guarigione.32
Cavanosa è un «prigioniero del desiderio» e il desiderio, scrivevano Deleuze e Guattari, è «sconvolgente» perché
è «nella sua essenza rivoluzionario, [...] è rivoluzione da sé e
involontariamente».33 Ed è per questo che viene represso dalle
strutture (mentali, politiche, culturali, economiche, ecc.), per
poter essere ridotto sotto controllo. Come correttamente faceva
notare Michel Foucault in un’intervista, non sono solo le strutture di potere che strumentalizzano il «discorso autentico» che
riguarda le relazioni sociali. Anche i movimenti di liberazione,
che hanno fatto del sesso la loro bandiera progressista, hanno in
realtà usato le stesse tecniche repressive dei conformisti poiché
hanno basato il loro discorso non su un’alternativa, bensì sulla
classica opposizione «noi/loro», «buoni/cattivi», come se la realtà fosse riducibile ad uno sterile dualismo e non contemplasse invece uno spettro di scelte molto più ampio.34 È necessario
«fallire le parole», utilizzando un’espressione di Artaud,35 ossia
far traballare il senso comune del discorso affinché questo torni
Arrabal fa intraprendere a Cavanosa la stessa via dell’esilio da lui imboccata
nel 1954 poiché questa rappresenta l’unica speranza di libertà: «Il a fallu choisir:
ou rester en Espagne en dissimulant des croyances contre les quelles s’exerçait
une atroce répression, ou préferer l’héroïsme du martyr ou enfin l’exil». Schifres,
Entretiens avec Arrabal, cit., p. 58.
33
Deleuze, Guattari, L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, cit., p. 129.
34
Cfr. Levy, Foucault: no al sexo rey, cit.
35
L’espressione usata da Artaud è: «J’ai raté mes mots». Cfr. C. Pasi, La comunicazione crudele. Da Baudelaire a Beckett, Torino, Bollati Boringhieri, 1998, p. 121.
32
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282
paola bellomi
alla sua essenza. Il primo passo verso il recupero dell’autenticità
è il riconoscimento delle costruzioni culturali che diventano, anche attraverso il linguaggio, delle costrizioni per l’individuo. E il
messaggio di El gran ceremonial va proprio in questa direzione.
La famiglia è tradizionalmente l’agente delegato alla rimozione,
è lo strumento più efficace per governare l’individuo e «tendendogli lo specchio deformante dell’incesto [...] si riempie il desiderio di vergogna, di stupore, lo si pone in una situazione senza
via d’uscita».36 Il conflitto edipico che affiora costantemente in
Arrabal si ritrova anche in quest’opera, dove il desiderio più
grande è costituito dall’amore, detonatore di una carica di cambiamento e liberazione molto più potente delle strutture ideologiche repressive,37 che cercano di arginarne gli effetti usando
proprio la famiglia come organismo di controllo. La Madre,
simbolo dell’ordine costituito, è presente tanto nel nucleo domestico di Cavanosa come in quello di Lys, ed in entrambi i casi
si tratta di una figura materna oppressiva e violenta:
Lys: Pues sabe, me he escapado de mi casa hace un rato. [...] Si mi
madre se entera, la que va a armar. Me tiene siempre encerrada en
mi cuarto por las noches, para que no me escape ata su pierna a mi
tobillo con esta cuerda. [...] Dice que me voy a ir con hombres. Por
eso nunca me deja salir. Por la mañana, cuando se despierta, como
tiene miedo de que me haya escapado por la noche, me huele entre
las piernas (641).
La Madre di Cavanosa non si limita a controllare i movimenti del figlio fuori e dentro la casa, ma cerca di tenerlo morbosamente legato a sé:
La Madre: [...] ¿Qué buscas? ¿Qué quieres encontrar? Sólo conmigo
Ibid., p. 133.
Dice la Madre a Cavanosa: «La pasión siempre te ha llevado a hacer los
actos más irriflexivos» (602).
36
37
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el gran ceremonial di fernando arrabal
283
podrás ser feliz. Vuelve a mí como si nada hubiera ocurrido. [...] ¿Has
perdido la virginidad? [...] No lo olvides, hijo mío, todo eso lo puedes
evitar. Ya te he enseñado yo cómo. Y aquí estoy siempre dispuesta...
Cavanosa: (Interrupiéndola). Tus manos, mamá... [...]
La Madre: ¿Ya no te basto? (598).
L’incesto, quindi, come la più efficace arma di controllo perché lega il desiderio al senso di colpa.38 Le pulsioni sadomasochiste di Cavanosa trovano una giustificazione nell’estetica
di Arrabal e non una condanna poiché, come ha spiegato l’autore, «nous [les espagnoles] avons été élevés dans la douleur.
[...] Nous étions nourris de sado-masochisme».39 L’associazione
desiderio-dolore è inevitabile per Arrabal, che infatti ammette:
Le monde de l’amour, de la passion ardente invente à tout instant son
infini. J’ai éprouvé l’intensité de l’amour à travers la souffrance, j’ai
senti que si l’on voulait – peut-être moi-même – montrer son amour, il
fallait y parvenir en se détournant tout à fait de la mort. Il fallait de la
vie, donc une certaine violence.40
Sul piano drammatico, Arrabal traduce la libido in quello che
Raquel García-Pascual chiama «desbordamiento emocional»,41
ossia la perdita del controllo dei propri sentimenti, la cui carica
incontenibile finisce per destabilizzare il soggetto e, come effetto secondario, anche le persone con cui l’individuo interagisce.
In El gran ceremonial, il desiderio viene declinato in delirio, inteso come
38
Afferma ancora Arrabal: «Toute autosatisfaction se transformait en un combat entre le supplice du “péché” et l’exaltation des sens. [...] La sexualité était bien
sûr totalement réprimée en Espagne». Schifres, Entretiens avec Arrabal, cit., p. 25.
39
Ibid., pp. 29-30.
40
Ibid., p. 24.
41
R. García-Pascual, Codificación semiótica del canon y el desvío: el género en
el teatro de Miguel Romero Esteo, in «Bulletin of Hispanic Studies», 86.5, 2009,
pp. 641-657.
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284
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il modo in cui le cose sono vissute e sono interpretate, un modo che
non consente cambiamenti e non ammette modificazioni e correzioni,
[in cui] non è possibile mutare il proprio punto di vista sulle persone
e sulle situazioni: si è irrigiditi e immersi in un solo modo che è quello
dell’autoriferimento e non è possibile nessuna svolta copernicana nella valutazione delle cose.42
Cavanosa è affetto da un delirio di tipo passionale, attribuisce un peso sproporzionato al rapporto affettivo con la Madre, tanto da sviluppare un atteggiamento masochista nei suoi
confronti, mentre agisce con sadismo sui feticci da lui creati
(le bambole e le donne adescate nel parco). Cavanosa teme di
sentirsi respinto a causa delle sue deformità fisiche, come gli
succedeva da piccolo;43 fino all’incontro con Lys, solo la Madre
può garantirgli quell’«accettabilità assoluta» che il personaggio
va cercando e, per non perdere la fonte della sua felicità, cerca
in tutti i modi di non deluderla.44 Gli attacchi verbali rivolti da
Cavanosa alle altre donne servono per riaffermare la superiorità
della Madre rispetto a qualsiasi altra persona che dimostri attenzione e affetto nei suoi confronti: l’equazione donna = prostituE. Borgna, B. Callieri, Delirio, in «Enciclopedia Treccani.it», http://www.
treccani.it/enciclopedia/delirio_%28Universo_del_Corpo%29/, data consultazione 11/2011.
43
La Madre dice a Cavanosa: «Hijo mío, ¿te acuerdas lo muy felices que
éramos antes? Tú eras un niño dócil y yo te llevaba al parque por la noche cuando los demás niños se habían marchado, y así no te insultaban» (597). Poco più
avanti, con crudeltà, torna a ricordare al figlio le sofferenze che le sue deformità
gli hanno causato: «Sobre todo fue un error llevarte al colegio. Y no porque tus
compañeros te insultaran, que al fin y al cabo era inevitable dada tu configuración
física» (598).
44
Scrive Carlo Pasi a proposito del rapporto tra Antonin Artaud e Jacques
Rivière, direttore della «Nouvelle Revue Française»: «Il sentirsi respinto va al di
là del fatto di essere pubblicato o meno [...]. L’“accettabilità assoluta” per Artaud
riguarda infatti il riconoscimento della peculiarità della propria persona in ciò che
ha di più profondo, per cui la rivendicazione ad un’esistenza letteraria significa il
poter manifestarsi nella sua verità davanti all’altro». Pasi, La comunicazione crudele. Da Baudelaire a Beckett, cit., pp. 91-92.
42
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el gran ceremonial di fernando arrabal
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ta – Cavanosa si rivolge spesso a Sil chiamandola «puta» – permette di continuare a considerare la genitrice come la divinità
infallibile. Il piacere di umiliare le figure femminili diverse dalla
Madre costituisce lo stadio che precede la fantasia più estrema:
la loro uccisione. Cavanosa, prima di rendersi conto che è la
Madre l’ostacolo da rimuovere, cerca la liberazione nella morte
dei suoi surrogati:
Sil: ¿Le gustaría insultarme?
Cavanosa: Sí.
Sil: Entonces, insúlteme, insúlteme. [...] Se ríe de mí. ¿Me quiere humillar? [...] ¿Le gustaría que muriera?
Cavanosa: Me gustaría matarla.
Sil: ¿Y me besaría antes de matarme? [...]
Cavanosa: No, ni antes ni después; mi boca nunca tocará su boca, ni
mi cuerpo su cuerpo (585).
Una cerimonia sacrificale che la stessa Sil spiega all’Amante
in questi termini: «Todas las noches mata a la mujer que seduce
en una apoteosis de amor» (627). L’Amante, che nell’economia
del dramma rappresenta una figura dell’ordine, non può che
condannare gli atteggiamenti sadici e violenti di Cavanosa, qualificandoli come le azioni di un pazzo ed è con questo appellativo ripetuto che si rivolge a lui: «Está loco, loco, loco» (624),
«Pobre loco» (626), «Es un loco» (627); a quest’ultima affermazione dell’Amante, Sil risponde: «Es libre» (627), svelando così
il significato che Arrabal attribuisce al comportamento trasgressivo e deviato di Cavanosa. Il delirio che questo personaggio
manifesta trova la sua cura non nella scomparsa dei sintomi, ma
nella condivisione degli stessi con altri individui, ossia con Lys,
la sua parte opposta e complementare: Lys è colei che fabbrica
le bambole che Cavanosa nasconde in camera, è colei che confeziona le fruste che Cavanosa utilizza con le sue vittime. Anche
Lys è schiava di una madre-padrona, che la tiene chiusa in casa,
legata per evitare che scappi, non ha un padre e, come Cavano© Paola Bellomi
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paola bellomi
sa, vuole abbandonare il nido materno. Ed è proprio lei a far
fare a Cavanosa la «svolta copernicana» di cui parlano Borgna e
Callieri, ossia a guarirlo dal suo delirio:
Lys: He pensado que podría irme definitivamente de mi casa y venirme a vivir con usted [...].
Cavanosa: Hace tiempo que lo tengo planeado, pero nunca me decido [...] Como ya no la veré más puedo confesarle algo: me gusta estar
con usted.
Lys: Y a mí con usted.
Cavanosa: Por eso es mejor que no vayamos juntos. [...] Porque luego
querría matarla. [...] ¡La mataría «de amor»!
Lys: Entonces sería muy bonito.
Cavanosa: Usted no es como las demás (646-648).
Analizzando i romanzi sadiani, Angela Carter nota che «la
morte è sempre un castigo violento inflitto da un altro, oppure
dalla Natura stessa. La morte, in Sade, è sempre l’improvvisa,
violenta metamorfosi di ciò che è vivo in ciò che è inerte. [...] La
reciprocità delle sensazioni non è possibile perché condividere
significa essere derubati».45 Questo è valido per Cavanosa fino
al suo incontro con Lys: nel momento in cui la ragazza riesce a
inserirsi tra la Madre ed il figlio, rompe gli equilibri della coppia
e libera, psicologicamente e fisicamente, Cavanosa dalle catene.
A questo punto, Cavanosa può accettare di condividere le proprie emozioni con un altro essere umano.46 Le immagini statiche
che caratterizzano quasi tutto il dramma (i manichini, l’edificio, la circolarità delle azioni) traducono la paralisi psicologica
in cui il personaggio si trova nel momento in cui conosce Lys.
A. Carter, La donna sadiana, Milano, Feltrinelli, 1986, pp. 126-127.
Scrive Torres Monreal: «A Cavanosa sólo podrá liberarlo quien establezca
con él un predicado de sinceridad en el contexto de una relación vital de identificación. Debe ser éste un personaje que enlace con Cavanosa, no de modo racional
sino a partir de lo concreto vivido» (corsivo dell’autore). Torres Monreal, Introducción, in F. Arrabal, Teatro pánico, cit., p. 59.
45
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L’innamoramento permette la liberazione e viene tradotto con
le immagini di movimento: Lys occupa nella carrozzina il posto
che apparteneva prima ai manichini o alle vittime di Cavanosa;
la carrozzina stessa, che fungeva simbolicamente da bara, diventa ora un mezzo di trasporto con cui intraprendere insieme
il viaggio; l’appartamento viene abbandonato per dirigersi verso uno spazio aperto, da esplorare; la ripetitività dei gesti, che
costituiva uno dei sintomi della malattia di Cavanosa, viene così
definitivamente interrotta. La guarigione è iniziata.
Cavanosa è un personaggio le cui deformità fisiche riflettono
le perversioni dell’anima. Le inclinazioni sadomasochiste che
manifesta lo identificano come un personaggio affetto da una
malattia mentale. In che misura è l’animo – corrotto e malvagio – ad influenzare la condotta dell’individuo e in che misura
è invece la malattia ad influire sulla personalità? Cavanosa è un
personaggio sadico perché è la sua anima depravata a guidarlo? O è la sua una malattia mentale e quindi le sue azioni non
possono essere condannate come se fossero commesse da un
individuo «normale»? Arrabal ci mette di fronte ad una serie
di preconcetti sociali e culturali, secondo i quali il deforme o
il malato sono da allontanare, da isolare, e l’alterità è percepita
dalla comunità come un elemento di disturbo e di pericolo da
neutralizzare. Le sovrastrutture che limitano l’individuo sono
sia mentali che sociali: la figura della Madre rappresenta le paure, le difficoltà, i traumi che ogni persona patisce a livello individuale, nella sfera privata; la figura dell’Amante è il simbolo
dell’ordine sociale e della convenzione, che garantiscono la stabilità e l’inalterabilità del sistema; egli agisce seguendo la logica
razionale, condannando pubblicamente il «pazzo», il malato di
mente, che deve essere lasciato solo, rinchiuso e relegato nella
sua stanza, distante dalla comunità, dove non possa interagire
con gli altri e dove la sua vista e la sua condotta non provochino
scandalo e disordine sociale. La strategia del controllo si eserci© Paola Bellomi
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paola bellomi
ta sia attraverso le figure di vigilanza che attraverso l’alterazione
delle figure di pensiero. Lo scontro verbale e fisico tra Cavanosa
e la Madre o tra Cavanosa e l’Amante dimostra che la violenza
non si esprime solo negli eccessi del protagonista, ma anzi «si
tratta di dimostrare che il ragionamento è esso stesso violenza,
che è dalla parte dei violenti, con tutto il suo rigore, con tutta
la sua serenità, con tutta la sua calma».47 Il linguaggio poeticosurrealista che usano Cavanosa, Sil e Lys assume un’importanza
fondamentale perché rompe la logica del ragionamento convenzionale, offre una visione altra, onirica della realtà, incomprensibile a coloro che difendono il sistema. Ciò che alle orecchie
degli «integrati» sembra insensato, frutto di un pensiero folle,
è invece ricco di significato: la poesia come costruzione di un
mondo alternativo, la parola come spazio di libertà e di verità.
Il pubblico entra in comunicazione con gli elementi di trasgressione e di rottura presenti nell’opera, e così facendo partecipa a
quello che è contemporaneamente una funzione teatrale e una
cerimonia di liberazione.
Scriveva il regista e drammaturgo Alberto Miralles:
El Arte de interpretar consiste en el genio necesario para transformarse y el talento para exhibir esa transformación. Transformarse es ser
otro, pero esa esquizofrenia controlada carece de interés público si no
se exhibe. Exhibir la transformación es hacerla llegar a un público.48
Al termine della rappresentazione, Cavanosa esce di scena
iniziando il percorso che, si intuisce, lo porterà alla guarigione; lo
spettatore, uscendo dal teatro, porta con sé la carica sovversiva,
47
La citazione è tratta dalle riflessioni che Deleuze fa sul legame che unisce
violenza, sessualità e linguaggio nelle opere di Sade e Masoch, parole che ben si
adattano anche all’estetica di un autore come Arrabal. Cfr. G. Deleuze, Il freddo
e il crudele, Milano, SE, 1996, p. 20.
48
A. Miralles, Prólogo, in Id. (a cura di), 23 monólogos para ejercicios, Madrid, Julia García Verdugo, 1984, pp. 7-15: 8-9.
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289
catartica e taumaturgica della cerimonia poiché, come ha scritto
Jodorwsky a proposito delle rappresentazioni «pánicas»,
más allá del lado desmedido, incluso escandaloso de tales experiencias, ellas tienen un valor iniciático. Te obligan a pasar muy concretamente, aunque sea por un instante, más allá de la atracción y de
la repulsión de los condicionamientos culturales, de los criterios de
belleza y de fealdad.49
49
Jodorwsky, Psicomagia: una terapia pánica, cit., http://rie.cl/psicomagia/2_
el_acto_teatral.php?p=5. Data consultazione 01/2012.
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Finito di stampare
nel mese di novembre 2012
da Cierre grafica
Caselle di Sommacampagna (Verona)
www.cierrenet.it
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Scrittura e malattia costituiscono un binomio costante e fecondo e il progetto di ricerca che ha dato origine a questo volume ce l’ha ricordato una
volta di più. Nel caso della sofferenza dovuta a una condizione di infermità,
la scrittura permette di oggettivare, di prendere le distanze da ciò che si è
instaurato dentro di noi in forma di male fisico o di disagio psichico. Ma
la scrittura sulla malattia può raccontarci anche la sofferenza dell’altro; si
estende e si dirama in varie direzioni fino a comprendere i luoghi fisici della
malattia, i luoghi di cura o le cure stesse e gli operatori della malattia. Diventa scrittura scientifica che isola la malattia dal suo contesto – la persona
ammalata – per trattarla in modo asettico, analizzarla, scomporla. Ed ecco
allora che la letteratura si sforza di ricostruire il legame tra la malattia e la
persona che ne soffre, di ridare un significato alla malattia come esperienza
umana.
La riflessione sul linguaggio della malattia e della medicina è il filo rosso
che lega i saggi di questa silloge, dedicata alla relazione tra malattie, cure
e scrittura nelle letterature di area ispanofona. Gli interventi coprono un
arco temporale e geografico molto esteso: i primi cinque si collocano in un
periodo che va dalla fine del Quattrocento al Seicento, gli altri sei danno
conto di alcuni aspetti del rapporto tra malattia e scrittura nella letteratura
della seconda metà del Novecento e dei primi anni di questo secolo.
© Paola Bellomi
35,00
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