La cultura per uscire dal declino

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“CONVERSAZIONI PEDAGOGICHE”
Educazione e dintorni
di Enrico Longo
puntata n. 22
La cultura per uscire dal declino
Una tematica notevole, senza dubbio, difficile e problematica. Che toccherò in qualche punto e
alla quale cercherò di dare risposte, senza nessuna pretesa di soddisfare appieno la questione o
di essere al riparo da errori, nelle diagnosi o nelle proposte.
Cultura e Declino: due termini certamente lontani, all’apparenza inconciliabili, ma che
nell’economia della questione in oggetto appaiono fortemente legati. Nel senso che sembra un
deficit culturale ad aver provocato il declino mentre nulla, al contempo, più che il ricorso alla
cultura appare il rimedio migliore per guidare il cammino nella direzione inversa. La cultura da
considerare nel suo significato più pieno, naturalmente, che non la fa sinonimo di conoscenzaerudizione. Che non la circoscrive al patrimonio, all’oggetto, all’insieme dei beni culturali, ma
che fondamentalmente si identifica con il sentire, il pensiero, i modelli di comportamento, la
storia, le tradizioni, le credenze, i valori. Che sono opera del lavoro e dell’ingegno degli uomini,
in una generosa azione di costruzione collettiva. Che ha periodi di slancio e di stasi e a volte di
regressione. Quasi sempre legata, quest’ultima, al venir meno del generoso impegno collettivo,
allo spezzarsi di quel sentimento di condivisione e di solidarietà, che è importante fondamento
della spinta creativa dei periodi felici.
La storia di ogni nazione, o di parti di essa, è costellata di momenti positivi e di altri difficili, di
momenti di esplosione e di stanca, di crisi e di rinascite. E a volte, appunto, di declino.
Ecco, si tratta di capire se il periodo che stiamo vivendo, in Italia e nel Salento, sia da
considerare soltanto un momento di difficoltà, una crisi superabile nel breve periodo o un
qualcosa di più grave e profondo e sforzarsi di individuare delle possibili direzioni di marcia e di
strategie che possano risultare utili a invertire la rotta.
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Far leva sulla cultura, certamente, ma come procedere? Basta investire sui beni culturali per
risolvere il problema? Aumentare le risorse? Unificare Ministero dell’Economia e Beni
Culturali, come suggerisce Sgarbi? Tutte cose certamente giuste e utili a farci scoprire la
scelleratezza delle politiche nazionali e locali, ma non bastevoli a risolvere il problema.
In effetti spendiamo poco per la cultura e quel poco lo utilizziamo male. L’Istituto Statistico
Europeo ci dice che siamo ultimi in Europa nella spesa per la Cultura: spendiamo l’1,1% contro
una media UE del 2,2%, pur avendo il maggior numero di Patrimoni dell’Umanità riconosciuti
dall’Unesco, ben 49, secondo i dato del 2013. La Grecia, che segue a ruota con 17 patrimoni
Unesco, spende l’1,2%.
Spendiamo poco pure per l’istruzione: siamo penultimi nell’UE con l’8,7% contro una media
del 10.9. Non sappiamo neppure quante opere d’arte abbiamo, se non abbiamo mai completato
un inventario del nostro patrimonio di beni culturali. Ma c’è di più: non abbiamo cura delle
nostre risorse. A Pompei i crolli si succedono con crescente frequenza e l’UNESCO
ultimamente ci ha dato l’ultimatum: sei mesi di tempo e poi cancellerà Pompei dai Beni
dell’Umanità. La Città di Salerno decide di aprire un centro commerciale di ottomila metri
quadri su un sito archeologico soprannominato “La nuova Pompei”. C’è insomma una generale
indifferenza per i Beni culturali a livello di governo centrale, di amministrazioni locali e,
naturalmente, della gran parte dei cittadini.
Se andiamo a monte di tali condizioni risulta evidente come non ci siamo quasi mai dati serie
politiche per la cultura e in tante situazioni mostriamo gravi carenze organizzative.
A tal proposito risulta spontaneo chiedersi:
- da dove discende tale indifferenza? Dalle famiglie, dalla società, dalla scuola?
- quale posto occupano l’Arte e la Cultura nei curricula scolastici?
- le scuole utilizzano la percentuale di curricolo per lo studio della cultura locale? O si ritiene
che tale studio tolga spazio e tempo alle nozioni importanti?
Difficile pensare di invertire il corso degli eventi puntando sui soli investimenti finanziari,
perché i problemi che ci ritroviamo davanti non sono soltanto di natura economica, ma
investono un certo modo di pensare difficile da sradicare.
Sono tante le manifestazioni che ci colpiscono negativamente, se osserviamo tante realtà del
nostro paese, non tutte riconducibili a effetti della crisi economica. E tutte insieme sono causa,
prima che effetto, del declino che ci tocca rilevare. E declino è più di crisi. Questa, infatti, è,
come detto, un fatto temporaneo, generalmente regressivo. Il declino, invece, fa pensare a una
condizione più difficile, a un processo, a volte sfuggente, di decadenza. Difficile da fermare. E
allora chiediamoci: l’Italia è in declino? Il Salento è in declino? E quali ne sarebbero i sintomi?
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Il declino di un popolo è perdita di fiducia in sé e negli altri; è lo spegnersi dello slancio vitale,
dell’energia creativa, della forza d’agire, di porsi traguardi ambiziosi, di prospettarsi il futuro, di
nutrire speranze, di alimentare sogni, d’immaginare utopie…Il declino è rassegnazione,
fatalismo, rinuncia. Ebbene, la nostra società a un esame onesto e obiettivo non ci appare del
tutto immune da tali insidiosi sintomi.
E’ una società vecchia - che non dà spazio ai giovani - che non ha il giusto interesse per la
conoscenza, la ricerca, l’innovazione - che costringe le intelligenze migliori ad andar via - che
non favorisce la mobilità sociale - che è nepotistica e non meritocratica - pericolosamente
esposta al privilegio e alla chiusura in caste - ingiusta e discriminatoria se concentra nel 10% di
persone metà della ricchezza nazionale - che non riesce a tutelare tutti i suoi cittadini,
assicurando lavoro e assistenza - che ha smarrito i fondamentali valori, che sono alla base di una
società libera, democratica, centrata sul rispetto della persona.
Non c’è futuro e non c’è rinnovamento senza l’assunzione di una tensione axiologica che sia
costante guida nella vita economica, sociale e politica. Quella che noi chiamiamo crisi è più di
una difficile congiuntura economica; si presenta invece, sempre più chiaramente, come la grigia
immagine di un paese in declino. Su almeno tre piani: su quello economico (un numero
crescente di persone viene sbattuto oltre la soglia di povertà); sociale (aumentano il disagio e
l’esclusione); psicologico-motivazionale (crescono la rinuncia e l’autoesclusione).
Ebbene, se la crisi economica è stato il motivo scatenante di questa triste condizione, risulta
sempre più chiaro come essa rappresenti solo un aspetto di un più globale e profondo
scadimento, culturale ed etico, e dello svuotamento progressivo di fondamentali diritti di
cittadinanza, cui non sembra inopportuno fare qualche accenno.
Non è difficile rilevare, infatti, nella società di oggi la riduzione degli spazi di partecipazione,
fenomeni crescenti di esclusione sociale, gravi ingiustizie e disuguaglianze, l’esistenza di
privilegi e discriminazioni, l’iniqua distribuzione della ricchezza, il costituirsi di lobby e caste di
privilegiati, l’esistenza di una classe politica sempre più casta e lontana dai cittadini.
Il quadro che ne viene fuori non può non far pensare a una preoccupante crisi della democrazia.
La democrazia è, infatti, ricerca costante dell’inclusione sociale, è partecipazione e impegno
comune. E’ quella forma di organizzazione dove non c’è contrasto tra interesse individuale e
collettivo; dove il perseguimento del bene di tutti è garanzia del rispetto del bene di ciascuno.
Dove lo sviluppo della persona è un investimento utile per lo sviluppo dell’intera società.
Ebbene, si deve purtroppo constatare che il nostro Paese, programmaticamente democratico, non
lo è in tante situazioni di fatto. L’art. 1 della Costituzione recita: “L'Italia è una Repubblica
democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo…”. Nella realtà, invece, la
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sovranità è disseminata in tanti arbitrari centri di potere. Non è garantito e non si fa il possibile
per garantire il lavoro, che è il motivo fondamentale per esaltare la dignità della persona, il
rispetto di sé, la voglia di fare, che sono motivo di inclusione e sentimento di appartenenza.
Come è possibile conciliare il dettato costituzionale con le situazioni che seguono:
-
persone che si sentono escluse e che vivono ai margini della società;
-
disoccupati senza alcuna prospettiva d’ingresso o reingresso nel mondo del lavoro;
-
giovani che si autoescludono dallo studio, dall’acquisizione di qualunque qualifica
professionale, dalla ricerca di un lavoro, dallo stesso consesso socio-culturale cui non
sentono di appartenere;
-
laureati e giovani ricercatori che si vedono costretti a cercar fortuna altrove, facendo, non di
rado, le fortune del paese che li ospita.
E’ in questi dati la manifestazione del declino, nello svuotamento del ruolo del cittadino e del
suo peso politico e sociale. Non si può non chiedersi: cosa dobbiamo fare per venirne fuori? su
cosa possiamo o dobbiamo contare?
E la risposta che risulta sempre più convincente è che la leva del cambiamento vada ricercata,
appunto, nella cultura. Più che la cultura-oggetto, la cultura-patrimonio è la cultura delle persone
che può rappresentare la chiave di svolta. La cultura come coscienza delle difficoltà, degli errori,
delle ingiustizie, delle distorsioni della vita democratica. Come consapevolezza di una
condizione inaccettabile e presa di coscienza di un compito divenuto ormai improcrastinabile.
Quanto più è profonda e variegata questa condizione di declino, tanto più si comprende che la
volontà di affrontarla debba guardare a strategie e processi radicali di cambiamento. Un cambio
di passo s’impone, forte e deciso, una rivoluzione culturale che trovi ragione e fondamento nei
bisogni della gente e che muova attraverso il suo significativo protagonismo. Perché soltanto la
spinta popolare convinta può indurre, con tutta la forza della necessità, il radicale cambiamento
della situazione, che invoca due convergenti strategie: l’approccio “ecosistemico” sul modello
del Bronfenbrenner perché la problematica venga affrontata da tutti i possibili angoli visuali, e il
generale coinvolgimento “alla Franck Capra”, perché soltanto dal convinto e sinergico impegno
di tutti si può riuscire a realizzare qualcosa di profondo e duraturo.
Il popolo protagonista significa il recupero del sentimento di appartenenza, della fiducia,
dell’idea di possibilità, di potere e di dover fare, la capacità di condivisione del compito per gli
obiettivi da perseguire nella comune responsabilità dell’impegno.
Per uscire dal declino vanno interiorizzate e condivise alcune idee fondamentali della vita
democratica: l’idea di Territorio; di Bene Comune, di Solidarietà, di Sviluppo, di Progetto.
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E veniamo al punto. A chi compete il compito-dovere di promuovere tale processo di
coscientizzazione? Su cosa si deve contare? E la risposta appare ovvia: sicuramente sulle
principali istituzioni socio-formative, non prima però di averne preteso una veste profondamente
rinnovata.
Si punterà sulla scuola: che recuperi valenza pedagogica e chiarezza degli obiettivi. Che sappia
superare tecnicismi e semplificazioni, logiche ragionieristiche, il riformismo permanente. Che
guardi alla promozione delle risorse della persona, che si prodighi per ridurre gli svantaggi, la
dispersione scolastica, che garantisca il diritto allo studio e l’uguaglianza delle opportunità
formative.
Sull’Università: che rinunci a porsi come nicchia aristocratica e luogo di baronìa e nepotismo,
che si sforzi di fornire cultura e spirito scientifico, orientamento e capacità di ricerca.
Sulla ricerca e l’innovazione: da incentivare, incoraggiare, promuovere. Perché fondamento
dello sviluppo e della crescita.
A ben vedere si deve contare sui settori maggiormente penalizzati dai governi degli ultimi anni.
Ecco perché s’impone la considerazione di un altro settore, sicuramente altrettanto importante e,
secondo tanti aspetti, strategico e basilare: la politica.
Anche questa, e soprattutto questa, da rinnovare, a tutti i livelli, partendo dalle periferie, dalle
municipalità, in un processo di risanamento e moralizzazione che parta dal basso. Un politico
nuovo s’impone per una diversa idea della politica. Una necessità nella difficile realtà di oggi,
dove sempre più di frequente entrano a far parte della classe dirigente persone assolutamente
inadeguate, mentre sembrano smarriti i fondamentali caratteri del politico come servitore dello
stato, della politica come struttura sociale finalizzata al perseguimento del bene comune.
Urgente appare una buona formazione umana e culturale e l’esposizione verso le significative
storie di personaggi che hanno fatto del senso del dovere e del servizio alla collettività le ragioni
fondamentali
dell’esistenza.
E’
un’urgenza
profondamente
avvertita;
la
condizione
imprescindibile per cercare di uscire da un’emergenza che sembra non voglia mai finire.
Essenziale, in questo compito, appare la funzione degli intellettuali.
E’ chiaro che un intellettuale chiuso nelle sue fantasticherie serve poco alla società e alla
politica. Questo tipo di intellettuale ha un’idea privatistica e sterile della cultura, sicuramente
non utile per la società e non produttiva di risultati concreti per il miglioramento della vita di
tutti. Io penso ad altro tipo di intellettuale. Penso a Don Milani che ha una diversa idea della
cultura. “La cultura serve solo per darla”, dichiara nella celebre “Lettera a una professoressa”, a
significare che ciascuno di noi non può perseguire soltanto il successo personale, lasciando agli
altri le briciole di una teorica considerazione.” Penso a Pasolini, a Labriola che hanno un’idea
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oblativa della cultura: non patrimonio soggettivo-egoistico, ma come occasione per contribuire
al benessere generale. Oggi queste idee le trovo nei programmi e nelle iniziative di alcune nobili
associazioni. A queste, dunque, tocca agire per la diffusione dello spirito di rinnovamento, per il
recupero dei valori, per stimolare l’urgenza dell’invocato processo di coscientizzazione, che è,
in ultima analisi, la riappropriazione, da parte del cittadino, di un diritto sancito dalla
Costituzione. Alle associazioni va assegnata la funzione vicariante nei confronti dei partiti
politici, inefficienti e inutili, nell’auspicio che prima o poi vogliano e sappiano recuperare ruolo
e funzione che la Costituzione gli attribuisce. Il rinnovamento dei partiti e dell’intera politica
assume importanza determinante per la rinascita del paese. Ma il problema, a questo punto, è chi
potrà realmente cambiare i partiti e la politica, dovendo escludere la possibilità di una diffusa
autoredenzione. E la risposta è una sola: la gente, i cittadini. Attraverso il più democratico
strumento, il voto. Saremo noi, dovremo essere noi a provocare il cambiamento dei partiti, a
pretendere partiti diversi, nello spirito della Costituzione, e una nuova classe politica. Fin
quando rimarremo semplici spettatori della lotta politica e ne accetteremo contenuti, metodi e
personaggi avremo poche speranze di vedere cambiare le cose.
Alla domanda se il Salento sia in declino non è facile rispondere. Sappiamo tutti però che per
troppo tempo abbiamo sofferto di quella malattia diffusa che è la dimenticanza delle proprie
tradizioni, della storia, della cultura, dei beni culturali.
Continuiamo a sopportare ogni possibile oltraggio al nostro territorio. Ci siamo abbandonati a
una cementificazione selvaggia, abbiamo finto di non vedere lo scempio di estese superfici di
terreno fertile occupato da pale eoliche e pannelli fotovoltaici. Siamo costantemente sotto la
minaccia di gasdotti, centrali a biogas, sonde, trivelle. Ci siamo fatti dire dagli altri che la nostra
terra è bella per il suo mare, per il sole, per la natura. Abbiamo accettato un modello di sviluppo
incompatibile con le nostre risorse. Non abbiamo saputo coltivare il sogno di un progetto
Salento. Tutto questo fino a quando non siamo stati costretti a constatare come il bel Salento,
quello “del sole – del mare – del vento” sembrava sul punto di perdere i suoi connotati di terra
salubre e felice. In altra parte della Puglia e nella vicina Basilicata il ritardo è risultato fatale.
Negli ultimi tempi forse qualcosa ha iniziato a muoversi, la difesa del territorio e l’idea dello
sviluppo sembrano finalmente diffondersi. E in questa idea di territorio si vanno sempre più
chiaramente manifestando i motivi legati alla cultura.
Da tempo vado sostenendo la tesi che dobbiamo puntare sulla cultura per assicurarci un futuro di
sviluppo. Il tema ritorna in tante “postille”, partendo da Galatone e allargandosi via via alla
provincia, alla regione, al paese. La strategia “La Città del Galateo”, fondamentalmente l’idea di
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uno sviluppo legato alla“promozione-valorizzazione” delle risorse del territorio, è estensibile
sicuramente oltre i confini della nostra cittadina.
Ma tale strategia richiede, come suo fondamento, una diffusa base di consenso nella popolazione
che faccia sentire tutta la necessaria pressione per una classe dirigente profondamente rinnovata,
capace di portare avanti un progetto che veda, appunto, protagonista la gente: nelle decisioni,
nelle scelte e negli indirizzi.
Qualcosa si muove, dunque, alcune municipalità salentine vanno nella direzione giusta, ma
siamo soltanto all’inizio. Soltanto quando potremo contare su una nuova classe dirigente e su
una più generale coscientizzazione, potremo concretamente sperare nel “Progetto Salento”, per
il quale intelligenti e giuste mi sembrano le indicazioni di personaggi come lo scrittore
Veneziani, il politico salentino Blasi, il sociologo Cassano, che coltivano l’idea che accomuna
tutti i veri meridionalisti, ossia che si deve guardare al Sud con gli occhi del Sud, non inseguire
modelli e obiettivi eterogenei al nostro modo di essere. Peggio ancora, attendere che le soluzioni
piovano dall’alto o dal mondo della speculazione finanziaria.
Su quali basi, dunque, dovrà muoversi il progetto? Direi, senza alcuna esitazione, dalle
straordinarie ricchezze naturali, storiche, artistiche, culturali. Da valorizzare e difendere.
Sì dunque al turismo, destagionalizzato e plurimo; sì all’agricoltura, all’enogastronomia,
all’artigianato, al commercio. No, deciso e fermo, a tutto quanto possa attentare al territorio:
centrali a biogas, invasione di pale eoliche e pannelli fotovoltaici, trivelle, cementificazione.
Il Salento, e il Sud, vanno difesi anche contro l’indifferenza dei governi nazionali, ma non è la
regione Salento la soluzione. E non è neppure la nascita, o rinascita, di nuovi partiti finalizzati,
come sempre accade, alle fortune di soggetti bramosi di emergere. Non è all’uomo della
Provvidenza che si deve guardare, al Veltro di dantesca memoria che ci tiri magicamente fuori
dai guai, ma nel crescere tra la gente della consapevolezza del comune problema e della volontà
di agire, tutti insieme, nella solidale responsabilità.
E forse, come dicevo, qualcosa comincia a muoversi. Va prendendo piede questa coscienza della
necessità dell’impegno comune. L’idea di Salento comincia a diffondersi. Nascono una dopo
l’altra le associazioni culturali, ambientaliste, di difesa del territorio dagli attacchi degli
speculatori internazionali.
Bene, è qui la soluzione: appoggiare questo processo, far crescere i movimenti, andare verso un
coordinamento tra essi. Provocare la rivoluzione della politica, imporre l’esigenza che muova
dai bisogni, dalle esigenze, dai problemi reali della gente. Provocare la trasformazione dei partiti
politici perché non siano luoghi avulsi e indifferenti, occupati a progettare il nulla e impegnati
soltanto a ricevere input dall’alto, a nutrirsi di slogan, di frasi fatte, di contrapposizione cieca.
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Che siano, invece, centri di osservazione, di analisi dei problemi, di confronto onesto e critico,
di progettazione. Come oggi accade per tante buone associazioni. La politica deve essere
impegno disinteressato e di servizio. E queste ultime considerazioni non possono che richiamare
alla più volte sollecitata questione della “formazione alla politica”, che è problema decisamente
educativo. Che richiama ai compiti formativi della società e della scuola. E, appunto, alla
funzione della cultura.
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