1 _t Çtáv|àt wxÄ ctÜtw|zÅt wxÄ fÉzzxààÉD La Filosofia moderna, è chiamata normalmente Filosofia del Soggetto. La motivazione, una delle motivazioni principali che vanno a costituirne la formazione può essere rintracciata nella riforma protestante. E' la riforma protestante una delle motivazioni d'avvio della nascita del soggetto. Essa radicalizza infatti una istanza già presente nel cristianesimo: l'istanza dell'interiorità. Tale aspetto è sottolineato da Hegel: tra modernità e cristianesimo2 c'è continuità e coerentizzazione. interiorità egli gioca la propria salvezza. Ricordiamo a questo proposito Agostino, per cui la verità 1 Prof. Lucio Cortella, 1991, Venezia, Corso di Filosofia moderna: parte generale. 2 Il cristianesimo, la cui denominazione rivela il legame fondamentale con la figura di Gesù Cristo, è un fenomeno religioso complesso. Nacque nel solco della tradizione culturale e religiosa del giudaismo, a sua volta già influenzata dalla cultura greca nell'epoca dei regni ellenistici. Una volta diffusosi nel bacino del Mediterraneo, anche il cristianesimo assorbì elementi importanti della cultura greca, a partire dalla lingua, per poter avviare un dialogo con interlocutori non giudei; nel tempo ha dimostrato capacità di adattamento a diverse situazioni e contesti storici nel proporre il proprio messaggio di salvezza.Il termine cristianesimo compare nelle fonti per la prima volta con Ignazio di Antiochia, all'inizio del 2° secolo. Invece il termine 'cristiani' era entrato in uso già intorno agli anni Quaranta del 1° secolo, come si legge negli Atti degli Apostoli, per identificare persone che proponevano un messaggio di carattere religioso riconducibile a Gesù di Nazareth detto il Cristo. Di conseguenza, il cristianesimo si presenta come una religione fondata da un personaggio storico, nel senso che il riferimento di fede, diretto o indiretto, a quel personaggio è l'elemento che accomuna le prime notizie sui cristiani. Da due millenni Gesù il Cristo è oggetto di fede. Relativamente presto si è pensato che nella sua figura ci fosse una componente divina. Il Credo, nella sua formulazione niceno-costantinopolitana (cioè sottoscritta dai partecipanti al Concilio di Nicea del 325 e ripresa e adattata nel Concilio di Costantinopoli del 381) che è tuttora la base dottrinale comune per tutte le confessioni cristiane, così afferma: "generato dal Padre prima di tutti i secoli, Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero, della stessa sostanza del Padre". In queste parole è contenuto il distillato delle molteplici domande e della riflessione su Cristo e su Dio che hanno animato i primi secoli del cristianesimo. Accanto a questi aspetti dottrinali, il Credo ricorda anche alcuni particolari della vicenda storica di Gesù: "è stato crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato e ha patito ed è stato seppellito ed è risorto il terzo giorno secondo le Scritture". Quindi i dati fondamentali di una vita ‒ le coordinate cronologiche e la morte di Gesù ‒ sono inglobati nel Credo, anche se fino all'età dell'Illuminismo non fu mai avviata una riflessione sulla sua personalità storica, dal momento che l'unico canone di verità (all'interno naturalmente del mondo cristiano) era fornito dalla Chiesa per la quale la fede in Cristo come Dio e salvatore è un dogma. Con l'Illuminismo, che mise in primo piano le esigenze della ragione, cominciò a porsi il problema del Gesù storico. Il problema circa le origini cristiane si identifica dunque con il problema del momento in cui si può parlare del cristianesimo come di una religione differente dal giudaismo. Più in generale, dietro questo problema se ne nasconde un altro: la definizione di cristianesimo. È un dato di fatto che il cristianesimo rappresenti all'inizio solo una delle tante correnti interne al giudaismo. Lo stesso titolo di Cristo, che venne subito attribuito a Gesù e che divenne parte del suo nome, proviene dalla tradizione giudaica (Bibbia). I discepoli credettero nella resurrezione di Gesù dalla morte, ma interpretarono in modi diversi la sua persona e la sua funzione sia riguardo al suo rapporto con la Torah (la dottrina contenuta nel Comment [WU1]: Il termine Soggetto esprime due significati fondamentali: 1° ciò di cui si parla o a cui si attribuiscono qualità o determinazioni (Platone, Aristotele : “Il Soggetto è ciò di cui si può dire ogni cosa, ma cha a sua volta non può essere detto di nulla”- Met. VII,3,1028 b). In questo senso il Soggetto è l’oggetto reale a cui ineriscono le determinazioni predicabili. Apuleio, nel II sec. d.c., chiama subjectiva o subdita la parte del discorso che gli antichi chiamavano nome e declarativa la parte che gli antichi chiamavano verbo. Tale significato resta immutato lungo la tradizione: anche per Tommaso il subjectum o suppositum esprime la sostanza a cui ineriscono le determinazioni. Anche quando con il termine Soggettto si intende l’anima , il significato resta fondamentalmente immutato: Locke chiama il Soggetto substratum o sostegno (Saggio, II; 23); Leibniz conserva anche’esso il significato tradizionale.Cfr. Dizionario di Filosofia UTET. 2° in questa accezione il Soggetto viene inteso come Io o coscienza o capacità di iniziativa in generale. In Kant il Soggetto è l’Io penso: la coscienza o autocoscienza che determina ogni attività conoscitiva. Più precisamente, l’Io è Soggetto, in quanto ad esso ineriscono i suoi pensieri come suoi predicati , (1° significato) ma l’Io è Soggetto anche in quanto determina l’unione del soggetto e del predicato nei giudizi ossia in quanto attività sintetica e giudicante, spontaneità conoscitiva, coscienza o autocoscienza o appercezione: in questo consisite il nuovo significato del Soggetto. Comment [WU2]: S. Agostino raccoglie l’eredità del neoplatonismo e la trasmette al mondo cristiano, col riconoscimento dell’interiorità spirituale come via d’accesso privilegiata alla realtà propria dell’anima. Questa via d’accesso è l’esperienza interiore, la riflessione sulla propria interiorità, la “confessione” come riconoscimento della propria realtà intima: in una parola ciò che nel linguaggio moderno si chiama coscienza. Cfr. Dizionario UTET di Filosofia. 2 Pentateuco che, dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme compiuta dai Romani nel 70 d.C., divenne l'unico punto di riferimento religioso per gli Ebrei) sia riguardo al suo rapporto con la missione di Israele, popolo eletto. Paolo di Tarso Molte quindi, all'inizio, furono le forme del cristianesimo. Fra le varie forme, quella di Paolo ebbe il maggior successo fra i pagani, perché non li obbligava ad assumere le osservanze dei Giudei (come le prescrizioni alimentari, o la circoncisione). Anche Paolo intendeva rifondare la religione di Israele piuttosto che stabilirne una nuova, ma di fatto la sua impostazione affrettò il distacco del cristianesimo dal giudaismo. Ma accanto al cristianesimo di Paolo sussistevano altre versioni, e a lungo continuarono a esserci cristiani (detti giudeo-cristiani) che osservavano le prescrizioni giudaiche e si consideravano parte del popolo eletto. L'autocoscienza dei cristiani, come pure il loro distacco dai Giudei, furono quindi diversi nei vari gruppi. Il requisito minimo per definire il cristianesimo (facendo riferimento sia al periodo delle origini sia ai secoli successivi) è la fede in Gesù Cristo inviato da Dio come personaggio salvifico, inteso in senso esclusivo da Paolo o come personaggio principale, accanto alla dottrina della Torah, dai giudeo-cristiani. Rapporti fra cristianesimo e autorità politica Personalmente Gesù afferma nei Vangeli la distinzione fra la sfera di Dio e quella di competenza delle autorità politiche (con la celebre affermazione: "Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio"). Ma il cristianesimo, nella sua concreta vicenda storica, è stato soggetto a una dinamica di integrazione e di confronto con la società e le istituzioni politiche all'interno delle quali si è inserito. Tale problematica di confronto è iscritta nelle stesse origini cristiane, a causa della condanna a morte subita da Gesù per opera dei Romani. Nel 2° secolo il cristianesimo appariva alle autorità dell'Impero Romano come una religione nuova, ormai diversa dal giudaismo. Diffusasi innanzitutto nelle città del bacino del Mediterraneo ‒ mentre fino al 3° secolo inoltrato restò quasi sconosciuta nelle campagne ‒ lungo le vie del commercio, non godeva dei privilegi della religione giudaica, tollerata invece e protetta in quanto religione di un popolo solo (religione etnica). I cristiani furono invece considerati seguaci di una 'religione non lecita', e a volte subirono persecuzioni. Fino a metà del 3° secolo i cristiani, tranne qualche caso di ostilità popolare con eccidi, erano perlopiù processati solo in caso di denuncia non anonima e nominativa; ma dalla metà del 3° secolo, essendo ormai una minoranza numerosa in Oriente, furono soggetti a persecuzioni per editto o generali, la più sanguinosa delle quali fu l'ultima, quella di Diocleziano. Il cristianesimo era visto come una minaccia all'unità e universalità dell'Impero Romano, in quanto non ne accettava quei culti ufficiali che erano invece considerati un fattore di coesione sociale e politica, e proponeva a sua volta un messaggio altrettanto universale dell'ideologia imperiale. La svolta dell'imperatore Costantino: un nuovo rapporto tra religione e politica Questa situazione si rovesciò bruscamente e completamente con l'imperatore Costantino: egli intraprese la strada, proseguita dai successori (con l'eccezione di Giuliano detto l'Apostata), che portò il cristianesimo a diventare il fondamento religioso dell'Impero Romano e l'imperatore a essere di fatto e di diritto il capo della Chiesa. In Oriente, durante tutto l'Impero bizantino ‒ che conservò una sostanziale continuità istituzionale fino alla caduta di Costantinopoli del 1453 ‒ si mantennero le condizioni perc hé l'imperatore continuasse ad avere la funzione di guida delle chiese (Giustiniano, nel 6° secolo, fu insieme teologo e imperatore), mentre in Occidente la progressiva perdita di contatto con l'impero a seguito della formazione dei regni romano-barbarici nel 5° e 6° secolo pose le premesse perché il vescovo di Roma diventasse il capo effettivo della cristianità. L'unione e il mutuo sostegno fra autorità statale e Chiesa cristiana è tuttora un valore per la Chiesa ortodossa. 3 In Occidente, il rapporto fra politica e religione fu più dialettico e tormentato per il ruolo papale di cui si è detto, e ancor più lo è diventato a seguito della Riforma e dell'affermazione dell'autonomia di valori e istituzioni secolari con l'Illuminismo (secolarizzazione). Nelle chiese orientali la situazione è differenziata: a volte i cristiani sono minoranza riconosciuta, a volte tollerata. In generale, uno dei grandi problemi della coscienza cristiana di tutti i secoli è il rapporto con il mondo, di cui l'autorità statale è l'espressione più forte: i cristiani oscillano fra un atteggiamento di libertà interiore rispetto al mondo esterno e la volontà di influenzare le scelte politiche in nome di valori considerati irrinunciabili. La formazione dell'identità cristiana Il 2° secolo fu cruciale nella storia del cristianesimo. Innanzitutto si decise la partita dei rapporti con l'eredità giudaica, che vennero mantenuti stretti attraverso la Bibbia dei Settanta, in opposizione a quei movimenti (marcionismo, gnosticismo) che volevano separarsi da questa eredità. Alla Bibbia ebraica però venne affiancato sia il corpo del Nuovo Testamento, costituito alla fine del 2° secolo in canone, sia un metodo esegetico in base al quale i fatti della storia ebraica venivano reinterpretati come prefigurazioni dei fatti di Cristo e della Chiesa: in sostanza era la fede in Cristo che forniva la chiave per assimilare la Bibbia giudaica. La persistenza dell'eredità giudaica comportò il dogma dell'unicità di Dio, creatore della realtà umana. Risultava quindi inaccettabile per il cristianesimo ogni svalutazione troppo forte del mondo (ascetismo) e il dualismo, cioè l'idea che il mondo fosse stato creato da un altro dio, inferiore o cattivo, come affermavano gnostici e manichei e, nel Medioevo, i movimenti dualisti come i catari. Ma il dogma dell'unicità di Dio comportò anche che dal 2° secolo divenne centrale il dibattito su Cristo, o meglio sulla compatibilità della sua componente divina, riconosciuta ormai dalla maggioranza dei cristiani, con l'unico Dio. I dibattiti e i conflitti che si svilupparono intorno a questo problema avevano un carattere differenziato, perché il cristianesimo dei primi secoli era formato da tante comunità autonome, unite solo da un sentimento di unità spirituale, ognuna governata in un primo tempo da un collegio di presbiteri (anziani) e successivamente da un vescovo. Concili ed eresie Dopo la svolta impressa da Costantino, le dispute e i dibattiti divennero generali e si cercò la soluzione con concili ecumenici. Una delle peculiarità del cristianesimo fu lo straordinario sviluppo dell'insieme di dottrine riguardanti Dio (teologia) che dovevano rafforzare il fondamento della retta fede, o ortodossia, contro le deviazioni o gli errori. Questa peculiarità nacque proprio dalla riflessione sulla persona di Cristo (cristologia) e proseguì in una serie di tappe e di definizioni, di cui si devono ricordare almeno il già menzionato Credo niceno-costantinopolitano del 381, in base al quale il Dio cristiano è uno in tre persone (Padre, Figlio e Spirito santo) e quello di Calcedonia del 451, molto contestato e fonte di divisioni secolari, per cui Gesù Cristo è una sola persona in due nature complete, umana e divina. L'idea che la retta fede sia iscritta nella rivelazione originaria portata da Cristo e che le eresie siano deviazioni dalla verità stabilita fu dunque convinzione precoce dei cristiani, ma non corrisponde a quello che sappiamo dello sviluppo storico, nel quale la riflessione ‒ a partire dall'intuizione di fede ‒ si sviluppò lentamente attraverso il confronto di diverse posizioni, alcune delle quali risultavano minoritarie e venivano emarginate. Perciò quella fra eresia e ortodossia è una delle dinamiche che percorre la storia del cristianesimo e ne costituisce uno dei tratti caratteristici. Ne possiamo individuare altre. Nel 2° secolo, in conseguenza della progressiva stabilizzazione dell'organizzazione gerarchica con a capo la figura del vescovo (epìscopos "sorvegliante"), si instaurò una più o meno aperta conflittualità con movimenti carismatici e profetici (come il montanismo) che pure erano stati fortemente presenti agli inizi del cristianesimo. La tensione fra movimento e istituzione ha poi continuato a manifestarsi ogni qual volta il rafforzarsi dell'istituzione è apparso ad alcuni gruppi di cristiani come un tradimento o un allontanamento dagli ideali del Vangelo. 4 "habitat in interiore homine". Ora, sebbene sia vero che il principio dell'interiorità sia rintracciabile anche nel mondo greco, nel Cristianesimo è infinitamente innovativo3. In effetti è vero che nei Greci troviamo il richiamo all'interiorità espresso da Socrate, ma l'appello all'interiorità greco non è quello di Agostino: Socrate parlava di interiorità in quanto si rivolgeva ai sofisti che pretendevano di sganciare il linguaggio dalla verità. Socrate quindi vede nell'atto del guardare alla propria interiorità, la possibilità di vedere, attraverso il linguaggio, la verità. Il richiamo di Socrate è insomma un richiamo ala razionalità attraverso il linguaggio. Ora, dopo l'avvento del Cristianesimo, nell'uomo Agostino trova Dio. Il Dio cristiano si manifesta proprio nell'interiorità dell'uomo . Questa sottolineatura del cristianesimo viene radicalizzata dalla Riforma protestante: essa, di contro alla religione cattolica, pone l'accento sulla radicalità della fede. E' insomma la fede interiore Dal Medioevo all'età della Riforma:Queste tensioni si ripresentarono nel 12° secolo in Occidente, quando il monachesimo tradizionale non sembrò più in grado di soddisfare le esigenze di vita evangelica: di conseguenza comparvero una serie di movimenti che predicavano vita evangelica e povertà, i quali, accusati di eresia (come fu il caso dei catari e dei valdesi), furono successivamente fatti oggetto di una politica di recupero (specificamente per una parte dei valdesi) o, se questa falliva, di sterminio (nel caso dei catari). Dalla stessa esigenza di vita evangelica nacquero anche il movimento promosso da Francesco d'Assisi agli inizi del 13° secolo e gli altri nuovi ordini mendicanti. Anche la riforma iniziata da Martin Lutero recava in sé, fra le sue componenti, quella della riscoperta del Vangelo, contro la politica religiosa papale del tempo. Innovazione e tradizione nel cristianesimo:La tensione fra innovazione e tradizione è in parte connessa con quanto abbiamo già detto. Il cristianesimo nacque come nova religio ("nuova religione"), sul tronco di una religione antichissima (il giudaismo) e come tale rispettata dai Romani. Una parte dei primi difensori della fede cristiana cercò di presentare il cristianesimo come una religione solo in apparenza nuova, perché in realtà si riallacciava alla prima rivelazione data da Dio e che sarebbe stata tradita dai Giudei. Un'altra parte dei difensori avrebbe puntato proprio sulla novità del cristianesimo per accreditare l'idea che mai come in esso Dio si era rivelato pienamente. In generale, nel corso dei secoli nei vari ambiti (ecclesiastico, teologico, sociale) prevalse l'idea che il nuovo è deviazione dalla perfezione originaria e che quindi il 'vero' nuovo deve essere proposto come un ritorno all'antico: per esempio, le nuove proposte di vita comunitaria nel 12° e 13° secolo si rifacevano alla Ecclesiae primitivae forma, "forma della Chiesa primitiva". Ma, al di là del credito dato a ciò che è antico, il costante fermento di nuove proposte ed esperienze, sorretto dalla convinzione che lo spirito di Dio continua a operare nella storia degli uomini, di fatto ha reso il cristianesimo una religione dinamica e aperta all'innovazione. Lo stesso termine 'tradizione' sembrerebbe avere solo una funzione di freno e di stabilizzazione: in pratica però la tradizione si affianca come un altro elemento di autorità accanto al testo scritto della Bibbia e può, a volte, determinare una dinamica di progresso, perché di fatto la tradizione si modifica storicamente. Treccani on line 3 Ibidem. Comment [WU3]: “Non uscire da te, ritorna in te stesso, nell’interno dell’uomo abita la verità” S. Agostino, De vera rel. , §39 Comment [WU4]: Fede è la credenza o meglio fiducia nella Parola rivelata da Dio. S. Paolo ha riassunto le caratteristiche fondamentali della fede religiosa nelle celebri parole: “fede è sostanza delle cose sperate e argomento delle non parventi”. Tommaso, a questo proposito, afferma: “”In quanto si parla di argomento, si distingue la fede dall’opinione, dal sospetto e dal dubbio, nelle quali manca la ferma adesione dell’intelletto al suo oggetto. In quanto si parla di cose non parventi, si distingue la fede dalla scienza e dall’intelletto, nei quali qualcosa diventa apparente. In quanto si dice “sostanza delle cose sperate” si distingue la virtù della fede dalla fede, ossia dalla credenza in generale, la quale non è diretta alla beatitudine sperata. “S. Th.,II,2, q. 4,a.1. 5 che fa dell'uomo un essere degno di considerazione. Non tanto o solo le opere di culto. Questo richiamo alla interiorità rappresenta un ulteriore passaggio verso la scoperta della soggettività. Possiamo affermare quindi che quanto era presente nella storia del cristianesimo, non era stato tematizzato ancora adeguatamente. Pensiamo alla filosofia medioevale: essa si riferisce ancora ad aspetti mitologici\filosofici della filosofia greca senza andare sino in fondo all'interiorità. La filosofia cartesiana manifesta proprio questo passaggio: certo Cartesio risente della filosofia di Ockam , del suo scetticismo, che Cartesio spinge sino al dubbio più radicale su ogni cosa.4 In effetti, Ockam, il suo richiamo, è al criterio dell'evidenza. Una evidenza che sia indiscutibile. Contro le pseudoevidenze della filosofia scolastica. Per altro verso, Cartesio si riferisce a quanto dicevamo prima: all'interiorità tematizzata dal Cristianesimo e radicalizzata dalla riforma protestante5. Vediamo: Ockam si scaglia contro tutta la tradizione precedente sul fondamento del principio dell'evidenza: è evidente solo ciò che è presente qui, dinnanzi a me. In effetti, Ockam parte dalla constatazione che ogni atto conoscitivo raggiunge la sua piena validità solo quando perviene al massimo grado di evidenza. Inoltre una conoscenza è evidente quando raggiunge pienamente il suo oggetto. Solo una siffatta conoscenza, la cui evidenza dipende dalla presenza della realtà corrispondente, può dirsi garantita nella sua portata reale. Per O. una conoscenza evidente è una conoscenza intuitiva. E tale conoscenza prevede sempre l'assenso di una cosa concreta constatata. L'esistenza allora non può essere dedotta da un generico concetto ma solo intuita in modo diretto. Ora, questa istanza dell'evidenza si presenta anche in Cartesio: tramite l'evidenza, visto che è difficile stabilire cosa sia veramente evidente, Cartesio mette in discussione tutto. Più determinatamente, Cartesio mette in discussione che i sensi riescano a riprodurre fedelmente la realtà. Quale prova ho che i sensi riproducano fedelmente la realtà? L'adozione di un criterio rigoroso di verità, intesa come evidenza, comporta allora un inevitabile esito scettico6. Per altri versi, la definizione di Ockham di rappresentazione – repraesentatio – représentation – Vorstellung - è utile a comprendere l’utilizzo che di questo termine7 farà la filosofia moderna: 1) “Ciò con cui si conosce qualcosa ed in questo senso la conoscenza è rappresentativa e rappresentare significa esser ciò con cui si conosce qualcosa” ossia l’Idea di qualcosa; 2) “Il conscere qualcosa, conosciuta la quale si conosce un’altra cosa” ossia l’immagine di qualcosa; 3) “Il causare la conoscenza al modo con cui l’oggetto causa la conoscenza” ossia l’oggetto stesso in quanto si fa conoscere8. Il termine quindi, in senso psicologico più ristretto, si riferisce all’immagine memorativa e fantastica distinta dalla percezione e dal concetto astratto. In un senso gnoseologico, viceversa tutto ciò di cui un soggetto è cosciente, ossia ogni contenuto di coscienza od oggetto9 di coscienza. Per Cartesio l’Idea è rappresentazione: un contenuto interno alla coscienza che deve corrispondere all’oggetto 4 5 6 7 8 9 Ibidem. Ibidem. Ibidem. Il Testo filosofico, Cioffi, Rusconi, 2003. Ibidem. Ibidem. Comment [WU5]: Con Evidenza, si intende in genere il presentarsi o manifestarsi di un qualsiasi oggetto come tale. Da questo punto di vista l’Evidenza non è un fatto soggettivo ma oggettivo: non è legata cioè alla charezza e distinzione delle idee , bensì al presentarsi dell’oggetto (quale che sia). Cartesio, diversamente, dà luogo ad un concetto soggettivo di evidenza: ...di non accettare mai alcuna cosa per vera a meno che non la si riconsca evidentemente per tale; cioè di evitare diligentemente la precipitazione e la prevenzione; e di non comprendere nei propri giudizi se non ciò che si presenta così chiarametene distintamnte al proprio spirito, da non avre altra occasione di metterlo in dubbio”. (Dis. II). Ecco che allora l’evidenza è ridotta alla chiarezza ed alla distinzione. In una battuta: dal dominio dell’oggetto a dominio dell’Idea. Cfr. Diz.rio UTET, Cit Comment [WU6]: Cartesio parlava dell’evidens intuitus, come rapporto immediato con qualsiasi oggetto. Egli affermava: “L’intuito della mente si estende sia alle cose, che alla conoscenza delle loro reciproche connessioni necessarie, sia infine a tutto ciò che l’intelletto sperimenta con precisione in se stesso o nell’immaginazione”. L’intuito è quindi considerato da Cartesio come una apprensione immediata di un oggetto mentale. 6 rappresentato. Per Kant, superando l’aspetto psicologico del termine, il termine “Vorstelleug” è sinonimo di ogni atto o contenuto della coscienza, il genere di tutti gli atti conoscitivi, distinta in : • • • percezione : rappresentazione con coscienza; sensazione; cognizione: intuizione, concetto, idea. In effetti Kant, nella Critica della Ragion Pura, non potendo più fondarsi per la propria teoria sulla contemplazione dell’Essere puro garantito da Dio, come nelle metafisiche classiche, ritiene che l’essere che si rivela alla coscienza è fenomeno ossia ha senso solo in relazione alle forme della coscienza che lo rendono pensabile. La coscienza diventa quindi oggetto di indagine privilegiato nella misura in cui essa rivela il senso dei fenomeni: una immagine che si presenta alla coscienza o meglio una rappresentazione . Shopenhauer afferma poi : “esser oggetto per il soggetto ed essere una nostra rappresentazione è la stessa cosa. Tutte le nostre rappresentazioni sono oggetti del soggetto e tutti gli oggetti del soggetto sono nostre rappresentazioni”10 VtÜàxá|É Renè Decartes, nasce il 31 Marzo del 1596 (e muore l’11 Febbraio del 1650) in un villaggio della Francia. Si dedica allo studio della matematica e della fisica: nel 1619 ha la prima intuizione del suo metodoche esprime nel trattato “Regole per dirigere l’ingegno”. Nel 1628 si trasferisce in Olanda : qui compone il Mondo, nel quale sostiene l’ipotesi copernicana. Opera che decide di non pubblicare avendo saputo della condanna di Galilei nel 1633 (culmine dello scontro la vecchia e la nuova visione del mondo). Nel 1637 pubblica allora i tre saggi Diottrica, Meteore, Geometria. Scrive anche una prefazione : Il Discorso sul Metodo. Discorso che si prefigura come un manifesto della ragione: un razionalismo classico secondo cui il sapere deve affidarsi alle evidenze della ragione e non ai sensi. Per Cartesio, la mente coglie intuitivamente alcune idee: l’idea di estensione e materia. Negli anni successivi pubblica Le meditazioni metafisiche (1641). L’opera contiene le obiezioni rivoltegli dai maggiori filosofi del tempo e le relative risposte. Al lato opposto di questa teoria della conoscenza cartesiana, troviamo l’Empirismo che fonda il sapere della conoscenza sull’esperienza sensibile Cartesio è ritenuto a buon diritto il fondatore della Filosofia Moderna: si passa così, con questo autore, ad un nuovo modo di organizzare la Filosofia. Del resto, l’epoca in cui nasce Cartesio si presta a tale operazione: nasce infatti nell’epoca delle grandi rivoluzioni scientifiche (Keplero,Torricelli, Galilei). In effetti la scienza è il suo fondamentale riferimento: all’epoca di Cartesio la filosofia era ancora legata alla tradizione della Scolastica. Nel Cinquecento, in particolare, la Scolastica era complessivamente un corpus di saperi molto sofisticato in linea con la tradizione 10 Ibidem. Comment [WU7]: La scienza moderna prevede l’elaborazione di una ipotesi, come spiegazione possibile di un fenomeno, che deve essere dimostrata mediante una serie di operazioni pratiche: la realizzazione dell’isolamento del fenomeno osservato mediante un esperimento. Si tratta di osservare se, il fenomeno prodotto nell’esperimento, si comporta nello stesso modo affermato nell’ipotesi. Comment [WU8]: Glilei riteneva il sapere matematico qualitativamente uguale al sapere di Dio. Cartesio, in misura differente, ritiene che Dio potrebbe essere quella verità onnipotente che ci inganna anche su questo: che ci saino verità indubitabili e necessarie. 7 aristotelica e con la Religione. Tale sapere urta però con la nuova dimensione scientifica: Keplero fa delle previsioni attendibili sull’orbita dei pianeti, aspetto non previsto e trattato da Aristotele. Galilei, per altro verso, presenta delle analisi che mostrano come Aristotele fosse in errore. In buona sostanza, il sapere aristotelico della tradizione, unitamente alla Rivelazione, erano fortemente messi in discussione da Cartesio che tendeva a dubitare, metodicamente, di tutto quanto non fosse dimostrabile. Vediamo: Cartesio aveva una idea della natura del cosmo abbastanza inconsistente (tematica dei vortici); piuttosto è interessante la tematica della causa efficiente e finale. La causa efficiente riguarda, ad esempio nel movimento: A che tocca B e lo fa muovere. La causa finale riguarda, ad esempio, lo scopo di una mia azione che mi guida durante l’intero svolgersi dell’azione. Ecco Cartesio, in riferimento al suo interesse per la scienza, afferma la necessità di interessarsi solo alla causa efficiente, non alla causa finale (contrariamente a Leibniz). Il criterio dell’evidenza Così Cartesio annuncia la regola dell'evidenza: “....non accogliere mai nulla per vero che non conoscessi esser tale con evidenza, di evitare cioè accuratamente la precipitazione e la prevenzione; e di non comprendere nei miei giudizi nulla di più di quello che si presentava così chiaramente e distintamente alla mia intelligenza da escludere ogni possibilità di dubbio.” Parlare di idee chiare e distinte e parlare di evidenza è allora la stessa cosa. Ora, in questo incipit cartesiano, si costruisce anche l'impostazione soggettiva della filosofia di Cartesio in quanto io posso dubitare di tutto ma non del mio pensiero. Ed in effetti se io dubitassi anche del mio pensiero dubiterei anche della condizione che mi consente di dubitare, metterei in discussione la condizione del mio poter dubitare. Ma è il pensiero a non poter esso messo in discussione. E tale aspetto della conclusione cartesiana esprime proprio la modernità: la scoperta del soggetto11. E tale modernità, ossia la scoperta del soggetto, si contrappone anche al pensiero medioevale: Agostino, ad esempio, concede, diversamente da Cartesio, che esistano delle verità oggettive al di fuori del pensiero soggettivo. Diversamente, Cartesio ritiene di non avere nessuno strumento per procedere al di là del pensiero. Quanto affermato da Cartesio conduce però anche ad un altro risultato: se il pensiero è un principio primo, ossia un fondamento che nega qualsiasi tentativo che lo neghi, che rende evidente che ogni tentativo di negare il pensiero lo presuppone, allora non è possibile uscire12 dal pensiero, proprio perché il pensiero è presupposto di ogni cosa. In effetti, la proposizione Cogito ergo sum come la 11 Prof. L. Cortella, Cit.. 12 Ibidem. Comment [WU9]: Aspetto importante nella tematica cartesiana riguarda il tema delle idee chiare e distinte: tutto ciò che non è chiaro deve essere considerato falso. Ma quali sono tali idee? Quali aspetti del reale ci sono chiari? Per altro verso noi abbiamo idee chiare e distinte di cose assolutamente false: la percezione del Sole che gira intorno alla terra è chiara e distinta ma falsa. Leibniz peraltro afferma che Cartesio sbaglia a identificare chiarezza e distinzione (impostazione matematica) come se fossero la stessa cosa: chiaro va inteso come chiaro alla mente per Cartesio, distinto va inteso come distinguibile appunto dalle altre idee. Eppure le idee chiare, per Leibniz, possono anche non essere distinte: l’esempio dei colori può essere utile a far apprezzare una idea chiara di un colore senza che sia perfettamente distinta da altri colori simili. Oppure un apprezzamento estetico quale “mi piace questo quadro” non conduce anche ad una idea distinta (non so perchè mi piace). 8 dobbiamo intendere? In un primo senso, dobbiamo intenderla come il raggiungimento di un principio primo, e questo l'abbiamo già detto. Ma in un altro senso, la verità intesa come come una realtà concreta, oggettiva, esistente per sé, che il pensiero degli antichi raggiungeva pienamente, beh questo mondo concreto, il mondo della sostanza per intendersi, che sta lì, non è più inteso in questo modo. Cartesio pone allora un pensiero inaudito, che forse nemmeno lui coglie in tutta la sua portata. Cartesio, di contro ad una verità sostanziale, pone una verità trascendentale: quella del pensiero. In effetti il pensiero non ha nulla di sostanziale, è una condizione di possibilità, anzi questa condizione di possibilità non è una cosa. Cartesio stesso non sembra rendersene conto, tanto è vero che per Lui il pensiero è sostanza pensante: res cogitans. VÉz|àÉ xÜzÉ áâÅ Vediamo: per gli antichi il mondo della soggettività era appunto il mondo della variabilità, della non fissazione, della messa in discussione, dell'eterno fluire delle rappresentazioni, un mondo non veritativo, mentre la verità era raggiunta solo quando si trovava qualcosa di veramente oggettivo. In effetti, per gli antichi, l'essere è qualcosa di oggettivo. Ancora pensiamo a quando qualcosa è vero per gli antichi: esso è tale se sta lì. Diversamente, con Cartesio, la forma è sostanzialmente nuova ed inaudita: una verità assolutamente non sostanziale anche se Cartesio, come abbiamo detto, parla del Cogito come una sostanza, una res cogitans appunto. Eppure questo è il problema di tutta la filosofia moderna13: da un lato una istanza non sostanziale, non oggettiva, che mette in discussione tutta la tradizione precedente, appunto quella della sostanza. Dall'altro lato il pensare questa istanza del Soggetto ancora all'interno della sostanza: res cogitans. Sino a Cartesio, il massimamente vero, il massimamente oggettivo è Dio: è l'essere per eccellenza, il massimamente evidente. Con Cartesio siamo all'opposto: il massimamente vero è il soggettivo. Nello specifico, questo è il senso del Cogito, non dubito affatto delle mie rappresentazioni, non dubito di vedere il tavolo, l'anfora, una parete, dubito piuttosto che queste rappresentazioni corrispondano a qualcosa di oggettivo, ad una realtà identica ad essa. E questa difficoltà a stabilire una corrispondenza delle mie rappresentazioni con la realtà oggettiva è una conseguenza dell'impossibilità ad uscire dal pensiero. Insomma le mie rappresentazioni, le mie Idee dice Cartesio, sono contenuti del pensiero, sono tutte le rappresentazioni che io ho, ivi comprese le rappresentazioni del mio mondo interno. Ora, l'unica possibilità che io avrei di uscire dal soggetto è riferirsi ad un terzo punto di vista esterno che però ripropone il problema: come uscire questa volta dalle sue rappresentazioni? Ora, lo strumento che Cartesio utilizza per dimostrare l'esistenza del mondo esterno è la dimostrazione dell'esistenza di Dio. Ebbene, questa dimostrazione è coerente con l'impianto teoretico di Cartesio: la dimostrazione dell'esistenza di Dio non avviene infatti attraverso una trascendenza del soggetto, ma avviene attraverso una analisi delle medesime rappresentazioni del soggetto. Vediamo: Cartesio analizza le diverse idee del soggetto ed analizza l'idea di Dio, tale idea è per Cartesio idea della perfezione. Per Cartesio allora diventa necessario dimostrare l'idea di questa perfezione.14 13 Ibidem. 14 Ibidem. Comment [WU10]: Il pensiero, ossia la certezza, appare indubitabile proprio nell’atto in cui si dubita della “verità” del suo contenuto, cioè si dubita che la realtà corrisponda a tale contenuto (...) il contenuto del pensiero, il cogitatum, ossia l’essere oggettivo e quindi l’insieme delle mie rappresentazioni, è dubitabile in quanto posto in relazione alla realtà vera – essere formale per Cartesio. Ma se considerato per sè, allora è indubitabile. Non solo: è reale in se stesso: è l’essere che è originariamente affermato (...) è la realtà in sè del pensiero. Cfr. Severino, Cit, pag. 48 Comment [WU11]: Il “sum” che compare esprime l’indubitabilità dell’esistenza dell’essere oggettivo . Il “sum” compare declinato alla prima persona in quanto il “tutto che è”, è cositutito dall’insieme delle mie rappresentazioni. Sì che : affermando che l’insieme delle mie rappresentazioni è, si afferma che Io sono (sum). E. Severino, La filosofia moderna, Cit. pagg. 47 e sgg. Comment [WU12]: Il significato dell’opposizione di certezza e verità si determina ulteriormente: poichè ciò che conosciamo immediatamente sono le nostre rappresentazioni , si presenta un problema che non poteva ancora essere sollevato nell’ambito della concezione realistica del rapporto tra pensiero e realtà. Infatti, se ciò che conosciamo immediatamente sono le nostre rappresentazioni, non possiamo allora essere immediatamente sicuri che esse rappresentino la realtà vera e propria: non possiamo essere sicuri che la realtà esterna ed indipendente dala nostra mente sia così come noi ce la rappresentiamo. E. Severino, La filosofia moderna, Cit. pagg. 46 e sgg. Comment [WU13]: Cartesio chiama : “esistenza formale” l’esistenza di ciò che esisite indipendentemente dalla mente – l’essere che è formalmente tale - , all’esterno della mente; chiama “esistere oggettivo” l’esistenza dell’objectum mentis, il contenuto della mente. 9 Per prima cosa Cartesio, non potendo attingere al mondo reale come i suoi predecessori visto che il mondo è ancora da dimostrare, ma solo al mondo soggettivo delle rappresentazioni, afferma che l'idea di un essere perfetto non può essere causata da un'altra idea imperfetta. Non può essere qualcosa all'interno del cogito che è causa di un'idea di un essere perfetto, perchè tale idea sarebbe imperfetta se interna al cogito. Come secondo argomento Cartesio si chiede quale sia la causa del cogito: qual è la causa del pensare stesso. E conclude anche qui che una causa del cogito, in quanto finito, non può essere il cogito. Qual è dunque il risultato, il guadagno di Cartesio? Per prima cosa Cartesio guadagna la verità di un principio che è un principio primo: un principio, il pensiero, che mostra e non di-mostra la verità della sua ineludibilità, ossia nega chiunque intende negarlo in quanto colui che nega il Cogito Lo deve necessariamente presupporre. Abbiamo già detto che tale guadagno non consente di uscire dal pensiero. Non è quindi possibile guadagnare un punto di vista esterno al pensiero. Il pensiero non ha niente di esterno: il pensiero è. Il pensiero quindi non è una struttura che ora è, ora non è. Ancora, secondo Cartesio, tale aspetto del pensiero Lo porta a pensare che il Cogito sia una res, una cosa che sta: res cogitans. Una cosa o una sostanza pensata. Il Cogito, o meglio la struttura del Cogito, si articola in Idee ossia in rappresentazioni : il mio corpo è un'idea, l'albero è un'idea. Notiamo la trasformazione del concetto di Idea rispetto a Platone: per Platone l'Idea è il massimamemte oggettivo, ciò che esiste in maniera evidente ed oggettivamente ossia la struttura profonda della realtà è l'Idea. Solo in secondo luogo l'Idea è anche rappresentazione: o meglio io posseggo questa rappresentazione proprio in quanto esiste una Idea oggettiva, se non esistesse l'Idea oggettiva non avrei nessuna rappresentazione. Per Cartesio quindi l'idea è qualcosa di molto simile al senso comune,15 mentre il pensiero è un contenitore di rappresentazioni. Ed in questo “contenitore”, esistono vari tipi di idee: non ultima quella di perfezione. Ora, il problema di Cartesio è quello di mostrare come posso passare dall'Idea della perfezione alla esistenza della perfezione. Ebbene, tutti e tre gli argomenti cartesiani devono necessariamente partire dal mondo soggettivo: il primo, facendo ricorso al concetto di causa, ritiene che la causa di una idea della perfezione non possa essere un'idea, perchè ogni idea non ha le caratteristiche della perfezione. Per cui è Dio, come essere perfetto, a essere causa dell'idea della perfezione. Insomma io, in quanto finito, imperfetto, non posso essere causa di un'idea perfetta. Né il cogito in quanto pensare, può essere causa del pensare: ossia la causa del pensare non può essere interna al pensare, un pensare che ha l'idea della perfezione non può essere causato da un cogito imperfetto, finito. Ora, la debolezza di tutti questi ragionamenti sta nel fatto che viene introdotta surrettiziamente l'idea di causa. In effetti Cartesio non fa un uso rappresentativo del concetto di causa: non dimostra l'idea di causa, la applica alle rappresentazioni come causate da un altro elemento causante. Risulta necessario allora prendere in esame il terzo argomento: Cartesio parte dall'idea della perfezione, diversamente da Anselmo però. In effetti Anselmo parte dal concetto di un ente di cui non si possa pensare nulla di maggiore: quindi un concetto, quello di Anselmo, che non si fonda sulla perfezione di un ente somme bensì sul concetto di un ente di cui non posso pensare nulla di maggiore. E ' un concetto relativo quindi alla grandezza, non alla perfezione come in Cartesio. In effetti, afferma Anselmo: “ciò di cui non si può pensare nulla di maggiore non può essere nel solo intelletto, giacchè se fosse nel solo intelletto si potrebbe pensare che fosse anche in realtà e cioè che sarebbe qualcosa di 15 Ibidem. Comment [WU14]: Cartesio dimostra che Dio esiste - dimostrazione ontologica – sulla base di un assioma : l’esistenza è una perfezione. Per cui se Dio ha tutte le perfezioni esiste necessariamente. Secondo Leibniz, tale argomento può essere valido se però prima abbiamo pensato alla possibilità che un tale essere possa esistere.Una volta dimostrato che l’essere perfetto può esistere allora si può dimostrare che esso è necessario. 10 maggiore”. Tutto l'impianto del ragionamento anselmiano si fonda quindi sulla comparazione di due concetti che hanno rispettivamente due oggetti: il secondo oggetto esiste suo malgrado. L'argomento di Anselmo, ha una struttura particolare: il primo concetto è infatti contraddittorio in quanto dice\afferma che sarebbe possibile pensare qualcosa di maggiore, nella realtà appunto , anche se non è possibile pensare qualcosa di maggiore. Insomma, non posso pensare nulla di maggiore epperò esisterebbe un ente nella realtà che è appunto maggiore. In questo senso allora, come è stato dimostrato da molti studi, nel ragionamento di Anselmo troviamo forti assonanze con l'argomento di Cartesio in quanto non è una dimostrazione bensì una confutazione della negazione dell'esistenza di Dio. Vediamo meglio: in buona sostanza Anselmo basa tutta la sua dimostrazione sul fatto che sia più grande l'oggetto che esiste anche nella realtà e non solo nell'intelletto rispetto al solo ente presente nell'intelletto. Si tratta di una comparazione tra due entità di grandezza diversa. Una quantità in cui Dio è noto ed è una quantità. Detto in altri termini la realtà e quantitativamente maggiore. Ancora, in Anselmo non si trova il concetto che Dio è tutte le cose: Dio è presente come superiore: come trascendente. Anche perchè Anselmo si muove ancora nell'ottica platonica per cui non avrebbe mai potuto concludere in chiave non trascendente. In Cartesio invece si abbandona questo concetto di grandezza, di ampiezza dell'uno rispetto all'altro e si passa al concetto di perfezione, secondo cui l'idea di perfezione non può condurmi a qualcosa di inesistente e quindi di imperfetto. Dunque alla fine, esiste necessariamente. Esiste allora una sostanza che esiste di per sé. E questa sostanza dimostrata, metodologicamente, a partire dal Cogito, è ciò che alla fine fonda il Cogito. In effetti, il cogito, per Cartesio, è qualcosa di finito, di imperfetto mentre Dio è perfezione, è sostanzialmente perfezione. Dio è allora il vero fondamento del cogito16: in definitiva il vero argomento a sostegno della indubitabilità del cogito è l'esistenza di Dio. Dio è il vero fondamento del Cogito. Vediamo meglio: per certi versi, sino a che C. non dimostra l'esistenza di Dio, anche il criterio dell'evidenza è assunto come ipotesi. Noi potremmo sempre dubitare che ciò che appare evidente non sia tale. La stessa esistenza del cogito potrebbe, in ultima istanza, essere dubitata. Come dire che Cartesio ritiene il principio del soggetto non abbastanza forte da non poter essere negato; come dire che Cartesio non ritiene che il Cogito possa fondarsi da sé ma abbia bisogno di qualcosa al di là di sé per essere fondato: questo qualcosa è Dio. Siamo di fronte ad una circolarità del percorso cartesiano perchè è chiaro che non posso dimostrare l'esistenza di Dio se non presuppongo l'evidenza degli avvenimenti: l'evidenza dell'Io penso, del Cogito insomma, dell'idea di perfezione che è in me, etc. Se io mettessi in discussione questa evidenza non arriverei a Dio. Se io mettessi in discussione tutto il tragitto che conduce alla dimostrazione dell'esistenza di Dio non arriverei a Dio. E tuttavia Cartesio ritiene che solo nel momento in cui io pervengo alla dimostrazione di Dio tutto il percorso si conferma. Questa è la struttura circolare di Cartesio. Questa è insomma l'insufficiente valorizzazione del principio del Soggetto: una insufficienza di fondarsi da sé, una insufficiente assolutezza. In buona sostanza Cartesio ritiene che, sulla base della scoperta dell'esistenza dimostrata di Dio, posso traghettare dalle rappresentazioni alla realtà oggettiva del mondo reale. Sicchè, poiché Dio esiste , esiste anche la realtà fuori di me. E questa realtà per Cartesio è fondamentalmente estensione: noi ci rappresentiamo un mondo di cose, e di queste cose possiamo mettere in discussione molti aspetti, il fatto che un corpo sia colorato, che sia penetrabile o meno, che sia più o meno pesante, la sua resistenza agli urti. Eppure non possiamo mettere in discussione che un corpo sia esteso: una qualità essenziale del corpo. Questa qualità è pienamente intelligibile al pensiero, mentre i sensi creano un mondo 16 Ibidem. 11 colorato, pieno di suoni, di sapori. L'unica qualità pienamente intelligibile al pensiero è invece l'estensione in quanto non testimoniata dai sensi. Detto in altri termini il mondo esterno come pensato dal pensiero è estensione ossia un mondo misurabile, geometrico: res extensa. E questo mondo esterno sostanziale è un mondo indipendente ossia la res extensa può esistere anche senza la res cogitans. Ancora, solo l'estensione esiste indipendentemente dalla sua rappresentatività17. Per converso, se non esistesse il cogito, il mondo non sarebbe colorato, pesante, resistente, non esisterebbe un mondo così percepito. Afferma Cartesio nei Principia Philosophie: c'e una stessa materia in tutto l'universo e noi la conosciamo per questo solo, che essa è estesa; poiché tutte le proprietà che percepiamo distintamente in essa si riportano a questa: che essa può essere mossa e divisa secondo le sue parti e può ricevere tutte le diverse disposizioni che noi osserviamo potersi verficare per mezzo del movimento delle sue parti”. Quanto affermato è di portata rivoluzionaria: già messo in luce da Galileo. Cartesio riprende questo argomento perché sa che da esso dipende la possibilità di avviare un discorso scientifico rigoroso e nuovo. Possiamo dire che per Cartesio il confronto dei sensi, tramite i sensi, può esser fonte di stimoli ma non il luogo della scienza. Questo appartiene al mondo delle Idee: chiare e distinte. A questo punto, Cartesio si trova davanti ad una realtà divisa in due regni ed irriducibili: la res cogitans e la res extensa. Nessuna realtà intermedia. La forza di questa teorizzazione è devastante: nei confronti delle teorie animiste secondo cui tutto è pervaso di spirito e di vita, e con cui vengono spiegate le connessioni tra fenomeni nonché la loro natura più riposta. Solo la meccanica può dunque spiegate il mondo esterno contro qualsiasi occultismo. Ed il mondo esterno è esteso, profondo, e misurabile in lunghezza e larghezza. Insomma, l'universo cartesiano è costituito da pochi elementi: materia e movimento18 o meglio movimento ed estensione. Se vogliamo, in forma più completa: spazio geometrico e movimento. Ora, tale aspetto della res extensa presenta delle indubbie difficoltà: dicevamo che il mondo sensibile fuori di noi non può avere compattezza, resilienza, colore. Ma se il mondo sensibile non può avere queste caratteristiche è anche assolutamente invalicabile: il mondo che pensa Cartesio è dunque un mondo senza identità, senza colore, senza resistenza. Insomma il mondo esterno di Cartesio è irrapresentabile: posso disegnare un cubo su questa parete, posso distinguere lo sfondo di questo cubo dal cubo stesso eppure il mondo esterno di Cartesio non ha colore. Per altri versi il mondo esterno che tocco è , per me, compatto. Eppure ciò non significa che il mondo esterno sia compatto, è solo esteso. Alla fine è irrapresentabile per noi, ed anche invalicabile. Per altri versi, le due sostanze cartesiane sono molto distanti: l'una presenta caratteristiche assolutamente diverse dall'altra. Ora, come comunicano queste due realtà? Eppure io faccio sempre esperienza di una interazione tra queste due realtà. Desidero, agisco, sento, etc. come posso risolvere il problema della comunicabilità tra le due sostanze? Come posso uscire dal problema di Cartesio che pone la realtà estesa come non materiale? Come qualcosa che non presenta quello che noi intendiamo con materia ossia rappresentabile, compatta, dura, colorata? Perché ciò che noi intendiamo con materia per Cartesio non esprime la verità. Cartesio pensa alla realtà estesa come pensabile, non come 17 Ibidem. 18 Ibidem. 12 rappresentabile: il pensiero ci consente di pensare appunto l'estensione, non altro. In buona sostanza allora Cartesio non esce dal Cogito: non esce dal pensiero. Cartesio esce dal pensiero tramite la fede o meglio la convinzione che solamente qualcosa di sostanziale possa dare consistenza alla realtà: il pensiero è sostanza. Cartesio resta dunque vincolato al paradigma ontologico. Ed il problema di Cartesio, l'irrisolta composizione tra soggetto ed estensione. Spinoza risolverà il problema radicalizzando il concetto di sostanza; Locke viceversa annulla le istanza metafisiche ponendo il problema dell'esistenza delle idee innate . Joye intellectuelle Comment [WU15]: La joye è tanto più pura quanto coinvolge l’anima e non il corpo. Je suis maitre de moi, comme de l’univers. Je le suis, je veux l’étre. Comment [WU16]: Se la felicità un attimo immenso la vita sarebbe allora forse triste? Forse felice si può definire solo una vita. Cfr. Natoli, La Felicità, Feltrinelli, pag. 250. Corneille Menis (μῆνις [-ιος,ἡ] sostantivo femminile, ira, ira tenace, rancore ), “è la prima parola della lingua indoeuropea”. 19 Essa designa l’Ira di Achille. Il sacro furore che deriva dall’aver subito un’ingiustizia. Questo furore, quest’Ira porta all’esercizio, immediato o meno, di comportamenti atti a levare l’ingiustizia e a ristabilire un altro equilibrio sulla base di azioni più o meno violente. Si pone allora il problema del controllo eventuale dell’Ira, di come essa sia legata al senso di rivalsa, di come Achille, nonostante rivolga a se stesso pensieri ragionevoli, non riesca a tenere a freno l’impulso leonino di vendetta20 contro i Troiani ed Ettore in ultima istanza, di cui strazia il cadavere. Il problema è allora quello del tenere a freno la menis - l’Ira, il thymos (θυμός [-οῦ, ὁ] sostantivomaschile: 1forzavitale, vita, 2: animo,cuore, 3: istinto, inclinazione, desiderio, appetito, voglia coraggio, animo,arditezza; 4: collera,sdegno,passione,impetuosità, 5: sentimento, maniera di sentire o di pensare, 6: pensiero, riflessione, deliberazionein senso lato), ossia l’empito traboccante della psyche21. Si genera così un nuovo senso dell’eroe, quello di Odisseo, che sente latrare dentro di sè il kradie (καρδία [-ας, ἡ] sostantivo femminile 1anatomiacuore 2anatomia bocca dello stomaco 3 [figurato] animo, spirito, intelligenza), il cuore, e ciònondimeno si impone l’autocontrollo: “Pazienza cuore mio”. La vendeta arriverà ma solo calcolata e fredda. Si tratta quindi di riflettere su - l’Ira, di dilatarne i tempi dell’agire. O meglio di pensare ad un agire efficace. In misura ancora maggiore, con l’avvicendarsi della Polis, si diluiscono i valori tradizionali legati legati all’etica aristrocatica ed eroica. Si affaccia piuttosto un nuovo senso della giustizia, legato ad una legge comune. Ora, la prima collocazione storica del Thymos si trova in Platone: la Psyche vine divisa in due parti – razionale ed arazionale a sua volta articolata in concupiscibile ed irascibile. In breve, si tratta di incanalare i desideri verso il fine indicato dalla razionalità, rafforzando così il dominio dell’anima da parte della ragione. Più nello specifico, Per Platone, le parti arazionali dell’animo diventano irrazionali quando i desideri si 19 A’ propos de menis, in Bulletin de la Societè de Linguistique de Paris, 1977,pp. 187. Remo Bodei, Geometria delle passioni, Paura, speranza, felicità, Feltrinelli. Pagg. 270 e sgg 21 Remo Bodei, Geometria delle passioni, Paura, speranza, felicità, Feltrinelli. Pagg. 271 e sgg 20 Comment [WU17]: Figlio di Laerte e Anticlea, Odisseo (lo Zoppo), chiamato Ulisse dai latini, fu il protagonista dell'Odissea omerica. Così battezzato dal nonno, in seguito alla ferita riportata durante una battuta di caccia, il re di Itaca, vantava, da parte materna, una divina discendenza da Ermes. Le leggendarie sue gesta, tramandateci dall'Iliade, attestano la sua partecipazione alla spedizione greca contro i Troiani, in cui si distinse per valore e astuzia: gli fu attribuita infatti, l'invenzione del Cavallo di legno con il quale i Greci conclusero l'assedio, espugnando definitivamente la mitica città di Troia. Immemorabili restano inoltre la contesa con Aiace Telamonio per le armi di Achille, nonché il decennale viaggio di ritorno dell'eroe, argomento di uno dei più famosi classici della letteratura greca, l'Odissea. Far gli episodi più significativi di questa monumentale opera, ricordiamo l'incredibile incontro con il ciclope Polifemo, o il soggiorno presso la maga Circe. La lotta contro le Sirene, o la fuga dai Lotofagi e, non da meno dai Cimmeri, da Scilla e Cariddi o da Calipso, fin quando, riguadagnata la natia Itaca,Ulisse, supportato dal figlio Telemaco, sterminò i pretendenti (Proci) della fedele moglie Penelope. Un'altra leggenda, volle che Ulisse, una volta uccisi i Proci, avesse delegato il potere a Telemaco, per ritirarsi a vita privata nelle selve dell'isola, nel tentativo di sfuggire ad una profezia, secondo la quale sarebbe morto per mano del figlio. Ma al Fato non si sfugge, indi per cui la profezia si avverò ugualmente e Ulisse perì sotto i colpi, non di Telemaco, ma di Telegono, figlio illegittimo avuto da Circe. 13 sclerotizzanoe si strutturano nel tempo in conglomerati difficili da disaggregare22, assumendo i tratti stabili del carattere coalizzati contro la ragione. L’arma più efficace contro tale rischio è l’autocontrollo, enkràteia, (ἐγκράτεια [-ας, ἡ] sostantivo femminile 1 temperanza, astinenza in o da 2 pazienza, tolleranza, fortezza d'animo)che implica un rafforzamento della volontà – boulè . Egli non si affida semplicemnte alla soddisfazione indiretta del sogno, in cui ogni mortale appaga allucinatoriamente desideri a volte terribili, piuttosto si adopera per agire azioni indegne prive di senso razionale ed etico23. Al comando del Logos le passioni generose si ammanisiscono come un cane alla voce del padrone. Comment [WU18]: L’abitudine non è cosa da poco. Platone Comment [WU19]: βουλή [-ῆς, ἡ] sostantivo femminile 1 volontà, decisione, sentenza 2 consiglio, parere 3 consulta, deliberazione 4 adunanza allo scopo di deliberare, consiglio 5 (in Atene) il consiglio dei 500, e talvolta l'Areopago 6 (in Tebe e altrove) i pubblici ufficiali 7 (in Roma)il senato Platone. Resp. IV, 440 D Nel proseguio del cammino del senso etico nella Polis greca, Aristotele fa sostanzialmente propria, sebbene con importanti differenze, la lezione platonica del Logos. E vivere secondo ragione, per i greci significa più determinatamente vivere secondo costanza ed integrità. Virtuoso è colui, per Aristotele, che vive con costanza ed integrità d’animo. Ed il suo animo è in amicizia con se stesso.24 Si tratta della fedeltà a se stessi, della constantia o firmitas, vero cardine dell’anticihità classica25, diversamente dal malvagio che è incostante e non fedele a se stesso. Ancora di più egli non ha, non presenta philautìa o amor proprio. Con lo stoicismo26 antico , il baricentro dell’etica si sposta: il duro conflitto tra passione e ragione risolto da Aristotele nella virtù del giusto mezzo, nel valore assoluto del metro della ragione. Si tratta della Temperantia, della temperanza delle passioni, della loro misura, nell’ottica platonicoaristotelica. Diversamente, nello stoicismo, si tratta di dominare e vigilare continuamente le passioni ed i desideri. Ciò implica un rigoroso controllo della volontà e dell’intelligenza sull’agire. Se dovessimo utilizzare una metafora: la psyche platonica è analoga alla polis, quella stoica è analoga all’akro-polis. Ancora, bisogna estirpare a fondo gli errori che sono alla radice delle passioni., non potarli semplicemente.(Cicerone, Tusc, IV, 41) 22 Ibidem. 23 Ibidem. 24 Ibidem. 25 Ibidem. 26 La dottrina etica pone al suo centro un concetto di virtù intesa come esercizio di ragione, e di vizio come passione, cioè come incapacità di pensare e ragionare. L’uomo virtuoso è colui che vive in modo razionale, comprendendo la ragione del tutto, e quindi anche secondo natura, essendo la natura espressione della ragione universale che pervade e governa il mondo. L’impegno del saggio sta quindi nell’adeguarsi al corso fatale e necessario delle cose, persuaso dell’intrinseca razionalità degli eventi, realizzando una sorta di indifferenza (adiaforia) verso i singoli aspetti della realtà. Quando gli sia impedito di seguire questi principi di comportamento, egli saprà scegliere di uscire dalla vita (suicidio) piuttosto che vivere in modo irrazionale. La libertà si realizza così nel saper pensare, adeguandosi a ciò che accade e instaurando un rapporto di simpatia con gli altri uomini e col tutto. Treccani. Comment [WU20]: constantĭa [constantiă], constantiae sostantivo femminile I declinazione 1 costanza, fermezza, sicurezza 2 stabilità, immutabilità, invariabilità, resistenza, regolarità 3 coerenza, concordia, conformità, accordo 4 coraggio, forza d'animo, tenacia Comment [WU21]: firmĭtās [firmĭtās], firmitatis sostantivo femminile III declinazione 1 solidità, robustezza, saldezza, stabilità, consistenza, resistenza 2 robustezza, forza, vigore fisico 3 (in senso figurato) fermezza morale, costanza, stabilità, perseveranza 4 diritto verità, autenticità, validità Comment [WU22]: tempěrantĭa [temperantiă], temperantiae sostantivo femminile I declinazione temperanza, moderazione, misura, sobrietà, equilibrio Temperanza Virtù morale che consiste nel regolare con saggezza ed equilibrio il soddisfacimento dei bisogni e appetiti naturali. Cicerone rende con temperantia il termine greco σωϕροσύνη, con cui Aristotele designa la virtù consistente nella moderazione degli impulsi e appetiti. Nella teologia cattolica la t. è una delle virtù cardinali; essa modera le tendenze e gli appetiti sensuali. 14 Il saggio stoico è dunque emblema di un monumento vivente, di impertubabile autocontrollo, bilanciando la debolezza del corpo con la forza della ragione. Ed in effetti, alla domanda di Seneca: “quid praecipuum in rebus humanis est?”. La risposta non puo che essere: “Dominare se stessi invece di essere schiavi delle proprie passioni.” Ciò significa acquisre una bona mens, una disposizione virtuosa dell’animo che mira alla tranquillità ed alla coerenza, impedendo al metus ed al terror di impradonirsi dell’animo umano. Una cura di sè quindi, che anche attraverso la meditatio mortis, prepara l’uomo in vita, alla morte. (senza per questo cadere nella libido moriendi). Ancora, si tratta di eseguire veri e propri esercizi che ci allontanino dai turbamenti e dalle passioni . Le passioni in Cartesio Tradizionalmente, la morale cartesiana è stata associata alla morale stoica: in realtà essa ne diverge sia per il quadro generale di rifiuto di ogni rigorismo (stoicismo) che per l’indicazione alla tematica della gioia (Cartesio). In effetti il progetto cartesiano è certamente un progetto di diventare signori della natura e di sè ma che differisce dall’austero progetto dellla cura di sè degli stoici. Di più, Cartesio parla anche di attività e fare cose buone che dipendono da noi: tali attività sono fonte di piacere e gioia che a volte sorgono proprio dalle stesse passioni. In prima battuta, possiamo affermare quindi che Cartesio persegue, come del resto anche Spinoza, la libertà della volontà: “non c’è anima tanto debole che non possa, quando ben diretta, acquistare un potere assoluto sulle passioni.”27In particolare, Cartesio, ritiene auspicabile giungere al governo delle passioni mediante tre regole: - servirsi del proprio spirito per sapere come agire nella vita; fermo e costante proposito di far tutto ciò che la ragione consiglierà senza lasciarsi distogliere dalle proprie passioni; assicurarsi che i beni che non si possiedono siano fuori dalla propria portata.28 In ordine all’ultimo punto, contro ogni morale della rinuncia, Cartesio ritiene che spesso si desideri troppo poco e non troppo. Non una macerazione interiore (Stoici), nè una morale della rinuncia (morale religiosa e tecniche devozionali) quindi, piuttosto la conoscenza del’impiego della propria volontà e dei propri mezzi per assicurarsi un bene maggiore (in questo Cartesio si avvicnia a Spinoza) In misura coerente, Cartesio si pronuncia anche sul senso e sul peso delle passioni nell’animo umano: ed il governo delle passioni avviene non con l’opposizione della ragione alle passioni, ma con il potenziamento di queste in ordine ai fini dettati dalla ragione, anche perchè le azioni riescono meglio se compiute con animo lieto.29 Vediamo: secondo Cartesio esisitono due tipi di eccessi: 27 28 29 il primo che cambia la natura della cosa ossia della passione; Ibidem. Ibidem. Ibidem. Comment [WU23]: ... la natura delle passioni diventa ambigua: sino a che punto è lecito parlare di passion de l’àme e non del copo o di entrambi, visto che si danno segni esteriori di emozioni , dotate di un certo automatismo: quali i moti degli occhi, del volto, i mutamenti di colore, i tremiti, il languore, gli svenimenti, il riso? Cfr. Bodei cit. pag. 306. Diversamente, nel materialista Hobbes, 15 - il secondo che ne aumenta solo l’entità e non ne cambi la natura per cui una determnata passione ne risulta migliorata. Ad esempio l’ardimento, se non governato dalla ragione può giungere alla temerarietà; ma se non cade in questo eccesso, l’ardimento riuscirà ad essere senza paura. Ciò che si vuol dire è che in Decartes, la forza delle passioni si deve accompagnare ad un rafforzamento dell’Io o della ragione. Un rafforzamento che non fa capo ad un Io tirannico e monolitico, bensì al rafforzamento della volontà: in effetti, per chi sa dosarle, le passioni sono il sale della vita30. “Esaminandolole, le ho trovate quasi tutte buone, e tanto utili alla vita che la nostra anima non avrebbe motivo di restare unita al corpo se non potesse provarle.”31 Di più, il governo delle passioni non si raggiunge se non con l’esercizio e l’addestramento: l’allontanamento dalle passioni eccessive e dalla eccessiva intimità col proprio corpo. Il risultato quindi, la maìtrise delle passioni, non sarà conseguito per sola buona sorte: i saggi l’acquistano infatti senza fortuna ma con esercizio. Egli quindi concede un ruolo importante alla volontà ed alla libertà della ragione di intervenire sulle passioni per ben indirizzarle nella vita. Si tratta allora per Cartesio, affidando all’uomo la responsabilità dell’agire, di regolare ed intervenire sulle passioni per abituarsi, con dovere e destrezza, all’esercizio della ragione nella regolamentazione delle passioni per elevarsi a Dio. Epperò questa tensione verso l’Assoluto non è solo pietà – pietas - degli antichi verso la divinità, ossia di giustizia verso gli Dei, si tratta in Cartesio di uniformarsi, di accettare la potenza divina e di riconoscerLa nella sua grandezza con la propria volontà. Ora, in questa serena accettazione del potere divino, la maìtrise de soi, aumenta e non diminuisce. Ed aumenta perchè l’amore di Dio, grazie alla conoscenza di Dio, via via maggiore, che l’uomo tenta di aumentare indefinitamente, è gioia intellettuale. Ed in effetti l’amore di Dio, nella nostra umile vita, è la cosa più utile. Utile che non è visto come in Platone, come cosa mercificata e condannabile se riferita al rapporto tra Dio e l’uomo, semplicemetne perchè in Cartesio utilità e gratitudine coincidono: potenziare se stessi nella gioia è adeguarsi alla volontà di Dio32. Ciò che Cartesio vuole dirci allora è che risulta necessario abbandonare quella inveterata abitudine contratta sin da piccoli di amare se stessi come un Tutto: piuttosto amarsi come nel Tutto. Con le affermazioni di Cartesio appena citate, non si vuole però intendere che Egli rinunci all’esercizio della volontà menzionato sopra, al contrario la presuppongono; nè Cartesio si riferisce ad una ipotetica fuga dal mondo. 30 31 32 Ibidem. Ibidem Ibidem. Comment [WU24]: Avendo separato l’anima dal corpo Decartes è costretto a considerare la volontà uno strumento estraneo al corpo, atto comunque a modificare le passioni e a colonizzare la zona di confine tra corpo ed anima. Cfr. Bodei cit. pag. 304 e sgg. In misura diversa, negli Stoici ed in Epittetto: “Guerra intestina nell’uomo tra la ragione e le passioni. Se avesse soltanto la ragione senza le passioni (...) Se avesse soltananto le passioni senza la ragione (...)M poichè ha le une e le altre, non può stare senza guerra, non potendo aver pace, con l’una se non è in guerra con le altre; e così è sempre in conflitto con sè medesimo.” Comment [WU25]: Per cercare un significato ultimo della realtà, una pienezza di senso, che la certezza cartesiana non può offrirgli, Pascal deve ricorrere alla religione. 16 Le sei passioni Cartesio enumera sei passioni: 1. meraviglia: auroralmente legata alla conoscenza (Aristotele), contro la condanna agostiniana e hedeggeriana dell’epoca contemporanea; Cartesio ne individua la spinta propulsiva per l’intera economia dell’anima; Hobbes è vicino a Cartesio in questa analisi, nella m isura in cui la meraviglia si colora del piacere della novità e dell’attesa: la curiosità è diletto. In questo senso, anche per Cartesio la curiosità perde il senso negativo della tristezza legata all’incertezza del futuro: la scoperta dettata dalla meraviglia per il non conosciuto è esente da paura. Si badi inoltre che, in Cartesio, il sapere è alla fine stutturato in certezze evidenti, esenti da dubbi. 2. odio; 3. desiderio; 4. tristezza; 5. Gioia: passione fondamentale per Cartesio così come per Spinoza. Si tratta per Cartesio, di insistere sulle proprie forze per riuscire, ove possibile, a rendere le cose della vita più gradevoli e quindi di superare il metus, la paura, non tanto perchè legata come in Seneca e Tacito all’ambito politico, bensì all’ordine della salute coporea33. 33 Per quanto afferisce l’amore: la filosfia moderna, a partire da Cartesio, introduce na nuova accezione del termine. L’amore è infatti considerato una passione, una affezione dell’anima individuale o meglio della coscienza. Sia esso una sensazione determinata da fenomeni empirici, (Illuminismo) o da un movente metafisico ( la volontà di Schopenhauer), l’amore rappresenta un fenomeno esclusivamente umano, legato alla struttura fisiologica o psicologica del soggetto. L’amore si allontana quindi dalla concezione cosmologica tipica del mondo antico, nonchè dal legame con Dio caratteristico della concezione cristiana - caritas cristiana. Cfr. Cioffi, cit. pag. 490. Comment [WU26]: “ve ne sono molte senza nome”. Cartesio, Passioni dell’anima. In un ipotetico confronto con Hobbes: nel monismo materialistico del filosofo inglese, le passioni sono tutte passioni del corpo, attribuibili ad alterazioni originate nel cervello da immagini trasmesse poi al cuore.In maniera opposta a Descartes, esse sono assolutamente incontrollabili, in qunato coincidono con la volontà stessa. (...) la loro energia (delle passioni) deriva da piccoli movimenti dello sforzo interno (conatus) che conducono ad ogni istante alla deliberazione presa sotto il segno della necessità, ossia al più netto ripudio del libero arbitrio. In misura diversa, in Hobbes, il conflitto non avviene tra passioni e ragione, ma ma tra mezzi adeguati o meno all’autoconservazione. Dall’altro lato, il conflitto accade tra Legge di un autorità esterna (il Leviatano) e esigenze individuali). Cfr. Bodei. Cit. pag. 309. In una battuta: il “così voglio, così comando” del sovrano di Hobbes, occupa il posto , almeno in parte, della volontà in Cartesio. 17 La gioia rappresenta più il risultato di un addestramento costante delle passioni che non una loro intrinseca elaborazione secondo il modello spinoziano del comprendere. Passioni dell’anima, art. 50. Infine in Cartesio, sono l’amore per la vita, la carità e l’armonia, ad indicare la via della vita morale: la sfida della morte si traduce allora nell’amore della vita34. Va però sottolineato come in Cartesio la gioia - joye – non coinvolga anima e corpo allo stesso livello: la gioia è tanto più pura quanto meno coinvolge il corpo ed i suoi condizionamenti (in Spinoza la laetitia è più intimamente legata al corpo), tanto che lo stesso Cartesio indica una serie di esercizi spirituali per allentare la comunione col corpo. Si tratta di operare con prémeditation e industrie al fine di allentare la morsa dell’abitudine e quindi separare l’anima dal corpo. In tal guisa, non susssitono per la maggior parte degli uomini molte fluttuazioni d’animo provocate dalle passioni: piuttosto i più posseggono precisi giudizi in base ai quali si orientano35. E se anche alcuni giudizi sono falsi, o fondati su passioni da cui la volontà si è lasciata sedurre, è sufficiente rettificare tali giudizi con l’usilio della ragione al fine di dirigere le passioni verso il vero perchè “la funzione di tutte le passioni consiste solo nel disporre l’anima a voler ciò che la natura ci indica come utile36 ed a 34 Ibidem. Ibidem pag. 270. 36Utilitàs.f.[dallat.utilĭta-atis]. a. Qualità, condizione, proprietà di ciò che è utile, che può essere cioè usato con vantaggio o che reca vantaggio, beneficio, aiuto (materiale o morale): l’u. del denaro, di un bene; u. di uno strumento, di un apparecchio, di un accessorio; la grande u. dell’esperienza, del sapere, degli studî; e specificando la persona, la cosa, il fine per cui qualche cosa è utile: il tuo consiglio è per me di grande u.; è evidente l’u. che avrebbe per l’azienda un centro elettronico di calcolo; in diritto, espropriazione per pubblica u., v. espropriazione. Anche, effetto utile, e più genericam. vantaggio, profitto: quale u. viene a noi dalle nuove disposizioni?; hai avuto qualche u. dalla sua presenza? Spec. usata la locuz. agg. di ... utilità (sempre specificata da un agg.): una scoperta di grande, di poca u., assai o poco utile; e col verbo essere come predicato: puoi andartene, qui non mi sei di nessuna utilità. b. In economia, la soddisfazione che un soggetto ricava dal consumo di una data quantità di un bene o servizio da lui ritenuto idoneo ad appagare un determinato bisogno, presente o futuro; in partic., u. totale, la soddisfazione globale che un individuo ricava dal consumo di una certa quantità di un bene o servizio; u. marginale, l’incremento dell’utilità totale ricavato dal consumo di un’unità (o dose) aggiuntiva di un bene o servizio; legge dell’u. marginale, la legge, formulata nella seconda metà dell’Ottocento, per la quale l’utilità marginale ricavata dal consumo di un bene o servizio va decrescendo al crescere delle dosi consumate. 2. ant. Utile, guadagno; interesse del denaro prestato; emolumento in genere. Monte delle u. era detto in Venezia il fondo comune in cui varî pubblici ufficiali erano tenuti a versare i loro proventi straordinarî e che serviva poi per retribuire equamente i funzionarî stessi. 35 Comment [WU27]: Va però sottolineato come in Cartesio l’amore per la vita e la laetitia fosse sempre indissolubilmente legato alla tristitia: cosa che Spinoza separa: per Spinoza infatti Laetitia e Tristitia sono separate. Il riso, quando non eccessivo, è di per sè buono. Comment [WU28]: Occorre una tecnica applicativa ed un impegno (una “industria”) tesa a ricombinare in modo diverso passioni ed abitudini). Gli spiriti vitali e le passioni da essi incitate tendono infatti a fissarsi, opportunisticamente, sui primi oggetti od eventi che incontrano a caso. Le abitudini poi saldano questi legami accidentali, dimodochè l’esistenza degli uomini è spesso dominata non tanto dalle passioni quanto da simili vincoli, che si trasformano in criteri della volontà. Cfr. Bodei, cit. pag. 270. 18 perseverare in questa volontà”.37 Cartesio ha anche fiducia che qualsiasi persona potrebbe acquistare un assoluto dominio sulle sue passioni solo se si dedicasse, con pazienza e metodo, ad educarle. Spinoza e Cartesio Un contributo fondamentale all’indagine filosofica sul tema della passioni è quindi nell’età moderna da Cartesio e da Spinoza. dato Nel trattato Le passioni dell’anima (1649) Cartesio afferma l’insopprimibilità delle passioni, distinguendo tra quelle che per loro natura sono intrinsecamente buone, e il loro cattivo uso ed eccesso, che soli costituiscono l’inconveniente morale contro il quale mettere in atto i ‘rimedi’ della virtù. Le passioni, al pari delle azioni (atti di volontà) appartengono all’anima come res cogitans, rientrando quindi nell’esercizio delle libertà e della razionalità. Cartesio classifica le passioni tra le percezioni, in quanto, a differenza degli atti volitivi, sono subite; al contrario delle idee, inoltre, non rappresentano oggetti esterni, e diversamente da altri modi di sentire, come la fame o la sete, non ineriscono al corpo ma all’anima; esse sono affezioni dell’Io, ma non sono causate dall’Io, bensì dagli spiriti animali del corpo. L’anima non è quindi padrona delle proprie passioni, che non possono essere eccitate o soppresse da un semplice atto di volontà, ma può assicurarsi un dominio indiretto su di esse mediante la costruzione di un habitus comportamentale ispirato alla razionalità. La forza e la debolezza d’animo consistono rispettivamente nella capacità di opporre alle passioni, come già descritto sopra,. «giudizi saldi e precisi circa la conoscenza del bene e del male», o viceversa nel lasciarsi trascinare da opposte passioni, sino a rendere l’anima «schiava e infelice». Ogni anima, se ben indirizzata, può acquistare così un dominio assoluto sulle passioni. In misura ancora maggiore e per questo diversa, il saggio spinoziano non arriva ad anestetizzare le passioni o alla completa atarassia: attraverso la constantia38, la conoscenza non autopunitiva, arriva alla beatitudine : “Egli (il saggio) è difficilmente perturbabile nel suo animo, ma essendo consapevole di sè, di Dio e delle cose (...) possiede sempre la tranquillità d’animo”.39 Per altri versi, ma sempre nella medesima direzione, Spinoza si dipinge come avverso alla malinconia: il saggio si concede la laetitia40. In effetti, Spinoza non chiede di mortificare le proprie 37 38 Ibidem. Ibidem. 39 Ibidem. 40 Letìzia s. f. [dal lat. laetitia, der. di laetus «lieto»]. – Sentimento di gioia intima e serena: provare viva l., una soave, un’indicibile l.; avere l’animo pieno di l.; dare, arrecare l.; essere, vivere in l.; servire il Signore in l., alternando il lavoro a una sana allegria (ricordo dell’espressione biblica «Servite Domino in laetitia», salmo 99, 2, a cui s’ispirò s. Filippo Neri nel dettare la regola agli oratoriani). In partic., la beatitudine celeste: non fora giustizia Per ben letizia, e per male aver lutto (Dante). Comment [WU29]: Atarassia: Termine già usato da Democrito, ma che venne particolarmente in uso nella terminologia delle scuole postaristoteliche, epicurea, stoica e scettica, per designare lo stato di serenità indifferente del saggio, che contempla il mondo senza più subirne la pressione affettiva. Il termine equivale ad apatia e adiaforia, più propriamente cinicostoici. Adiaforia: Generale disposizione di spirito di chi, bastando a sé stesso, e non chiedendo nulla alla natura e agli uomini, non ha alcun motivo per giudicare gli eventi del mondo buoni o cattivi, desiderabili o indesiderabili, e mantiene in ogni caso immutata la propria serenità e autosufficienza d’animo. È l’ideale etico del cinismo e dello stoicismo, e coincide per gran parte, nel suo contenuto, con l’apatia e atarassia epicuree. Apatia In filosofia, secondo la dottrina degli stoici e degli epicurei, stato di perfezione contemplativa dello spirito, in cui nulla si aborre e nulla si desidera. Coincide sostanzialmente con l’adiaforia e l’atarassia ed è l’ideale del saggio e l’attributo per eccellenza del divino, quale è concepito dagli epicurei. costanza s. f. [dal lat. constantia]. – Qualità d’esser costante, perseveranza, fermezza: avere c. nel bene, nei propositi, negli affetti, nello studio; persona di scarsa c.; dov’è la forza antica? Dove l’armi e il valore e la c.? (Leopardi); meno com., forza d’animo: sopportare con c. il dolore, le avversità. 19 passioni, nè in nome dello Stato nè in nome di Dio. Egli piuttosto chiede di perseguire la propria utilitas (vedi nota 34), una tendenza lungimirante e non miope di sè, che si potenzia nella gioia e non nella tristezza . una felicità possibile all’interno dei confini della necessità che caratterizza il suo sistema filosofico. Si tratta quindi non di negare le passioni e la loro potenza. Tale atteggiamento umile consente alla ragione di esaltarne la forza - nei confronti delle passioni - di comprenderne il senso ed il fine, l’orgine e la portata, così da mutarne la potenziale distruttività in una maggiore letizia e gioia. Spes et metus affectus non possent esse per se boni Spinoza Spinoza ha infatti compreso che l’opporsi della ragione alle passioni genera conflitti irrisolti. Solo due sono quindi le vie per risolvere il problema del rapporto passione\ragione: - L’affidarsi ad una potenza esterna ed interna che funga da mediatrice tra l’interiorità del soggetto e Dio ossia l’universalità di Dio: “più intimo di quanto sia io stesso” Agostino ; Incrementare la potenza delle passioni in vista di un aumento della gioia: Spinoza. L’esagerazione delle passioni All’interno di ogni passione è possbile esperire, provare, sentire, una ulteriorità che ha indotto molti filosofi, (Cartesio, Stoici) a considerare questo aspetto di esagerazione come un aspetto principale delle passioni. Se dovessimo fare un esempio: la paura di un determinato evento, il buio ad esempio41, condensa ed esprime la nostra angoscia per problemi irrisolti; l’Ira esprime spesso frustrazioni irrisolte; la Tristezza esprime spesso, in occasione di un evento triste, il colore di un mondo triste giudicato tutto triste; Per altro verso nell’amore il mondo, l’intero mondo, si colora di promesse e felicità. Tristìzia (ant. trestìzia) s. f. [dal lat. tristitia, der. di tristis «triste, tristo»]. – Forma ant. per tristezza, come stato psichico: Non credo ch’a veder maggior tristizia Fosse in Egina il popol tutto infermo (Dante); lungo sarebbe a mostrare qual fosse e quanto il dolore e la tristizia e ’l pianto della sua donna (Boccaccio). L’obiettivo filosofico più importante , dal punto di vista politico in Spinoza, è la critica al senso della paura in Hobbes 2. letter. L’essere tristo; malvagità, cattiveria: il che nasceva dalla tristizia di quegli principi, non dalla natura trista degli uomini (Machiavelli); l’impazienza, l’orgoglio umano, han perduto o sviato dal retto sentiero molte più anime che non la deliberata tristizia (Mazzini). Con sign. concreto, ant., atto malvagio: egli parla né più meno come se ... per la lunghezza del tempo avesse le sue tristizie e disonestà dimenticate (Boccaccio). 41 Ibidem. Comment [WU30]: Si pensi anche che Spinoza , nei confronti della Paura e della speranza,ritiene che esse siano legate all’incertezza del futuro e persino agli atti del passato. Paura e speranza quindi non sono connesse al presente.Spinoza non si oppone ad esse in quanto distraggono, come pensavano gli Stoici, bensì perchè bloccano più semplicemnte il propiro conatus, la propria vis existendi, verso un maggio grado di perfezione. Cfr. Bodei cit. pag. 27. 20 In questo senso la passione tende a diventare ab-soluta, ossia sciolta da qualsiasi elemento iniziale, per trasferire il proprio impeto ad altri contesti e situazioni a volte distanti dalla situazione iniziale in cui una determinata emozione\passione si origina.42 La passione sembra allora funzionare come una sineddoche, come una pars pro toto,a differenza della ragione che analizza, distingue, descrive la causa prossima di quella data emozione, evitando così di fare di ogni erba un fascio, come tenderebbe a fare la passsione. Ora, se questa è una analisi corretta, dovremmo essere in grado di capire come conciliare questi due elementi antitetici. Una possibilità di sintesi, qualsiasi cosa significhi tale termine, è offerto dall’Etica di Spinoza. Ancora, là dove la ragione era assunta come specificazione essenziale, il proprium dell'uomo (animal rationale), le passioni (in stretta connessione con gli impulsi tipicamente ferini, di qui la loro frequente rappresentazione con simbologie animali) finivano per essere il ‘perturbante’, ciò che obnubila e svia la cristallina chiarezza del razionale e il suo orientamento al bene; perciò erano da evitare, sottomettere, estirpare. Ma di qui anche l'impossibilità di quelle ‘ricette di felicità’ proposte da queste filosofie che finivano per “scrivere quasi sempre impraticabili satire in luogo di un'etica” (ivi). Spinoza rompe decisamente con questo schema antagonistico e ‘immunitario’. 42 Ibidem. Comment [WU31]: •• Figura retorica che consiste nel conferire a una parola un significato più o meno esteso di quello che normalmente le è proprio, per esempio nominando la parte per indicare il tutto (tetto per casa) e viceversa (America per USA); oppure, scambiando il sing. con il pl. (il cane è un animale fedele) o la specie con il genere e viceversa (pane per cibo, mortali per uomini) •• sec. XIV 21 Le passioni43 in Spinoza 44 conatus , è lo sforzo perseverare nella sua esistenza: In Spinoza, il 45 o tensione di ogni cosa a Proposizione 6: ogni cosa, per quanto è in essa, si sforza di perseverare nel suo essere; Proposizione 7: lo sforzo per cui ogni cosa si sforza di perseverare nel suo essere non è altro che l’essenza attuale della cosa; Proposizione 9: questo sforzo, se lo si riferisce alla sola mente si chiama volontà, se invece lo si riferisce alla mente ed al corpo si chiama appettito, che dunque non è che la stessa essenza dell’uomo; dalla natura della quale seguono necessariamente le cose che servono alla sua conservazione; e quindi l’uomo è determinato a fare. Inoltre fra l’appetito e la cupidità46, non c’è nessuna differenza, se non che la cupidità viene riferita per lo più agli uomini, in quanto consapevoli del 43 Passione: Termine filosofico, corrispondente al gr. πάϑος, che in generale designa lo stato di «sofferenza» o «passività» (da πάσχειν, «subire, soffrire»), e in partic. si riferisce all’esperienza spirituale nella quale l’animo si sente dominato e soggiogato dalla tendenza affettiva, pratica. Fonte Treccani. Nel pensiero moderno, i due maggiori teorici delle passioni sono Cartesio e B. Spinoza: il primo avvia lo studio delle passioni nell’ambito di una nuova concezione del mondo fisico, e nella cura delle p. (compito della medicina e della morale) vede il fine e il frutto ultimo della filosofia; il secondo sente più decisamente il valore universale dell’affectus, distinguendolo in actio e passio, a seconda che l’esperienza affettiva presenti carattere di attività o di passività: actio per eccellenza è quella che risponde all’idea dell’unica natura delle cose, l’amor Dei intellectualis. Nel pensiero posteriore, il problema del rapporto di p. e virtù diventa quello del carattere rigoristico o antirigoristico della morale .In Spinoza è criticato : Platone: divisione tra anima razionale da un lato ed anima concupiscibile dall’altro ( con conseguente condanna della classe sociale corrispondente); Aristotele: educazione e persuasione degli affetti come premessa di una vita buona; Neostoicismo : severa condotta di fermezza d’animo in epoche difficili; Pascal: affidamento a Dio per combattere la torbidità delle passioni; Cristianesimo: drammatizzazione nel teatro interiore della coscienza dei conflitti dovuti alle passioni (aspetto gesuitico) Difficilmente tale modalità interiore produrrà una liberazione dal morso delle passioni. 44 Il conatus, se riferito alla mente, è volontà. Se riferito insieme a mente e corpo è appetito. Esso, il conatus, esprime l’essenza dell’uomo . 45 Il desiderio, nel suo continuo variare di intensità ed orientamento, è costitutivo dell’uomo e lo spinge verso il futuro. Tristezza e gioia sono passioni atraverso le quali l’esistente passa da una minore ad una maggiore potenza di esistere. 46 Pleonexia - πλεονεξία [-ας, ἡ]sostantivo femminile: 1 abbondanza, superfluo 2 guadagno, vantaggio, interesse 3 miglior condizione, superiorità, ingrandimento, prevalenza, preminenza 4 desiderio d'arricchirsi, avidità, cupidigia 5 arroganza, soverchieria 6 frode Comment [WU32]: Ciò che costituisce l’uomo (la sua essenza, E, III, pp. 7-9) è il conatus, lo sforzo, la pulsione, la tensione a conservarsi e a incrementare il proprio essere; in quanto viene riferito ‘simultaneamente’ [unitariamente] alla mente e al corpo si chiama ‘appetito’; e l'appetito ‘con la coscienza di sé’ è il desiderio (cupiditas). Comment [WU33]: In Spinoza tre sono le passioni fondamentali: 1) cŭpĭdĭtās[cŭpĭdĭtās], cupiditatis sostantivo femminile III declinazione 1 cupidigia, avidità 2 brama, voglia 3 bramosia, desiderio (specialmente di denaro) 4 passione amorosa 5 ambizione, vanità, brama di potere 6 partigianeria, parzialità, passione di parte 7 oggetto del desiderio di qualcuno; 2) Tristĭtĭa[tristitiă], tristitiae sostantivo femminile I declinazione 1 tristezza, malinconia, mestizia, angoscia 2 (di cose) tristezza, squallore, asprezza, gravità 3 (del carattere) severità, austerità, rigidità, durezza 4 malumore, stizza, sdegno 5 (del clima) rigore, durezza; 3) Laetĭtĭa[laetitiă], laetitiae sostantivo femminile I declinazione 1 letizia, gioia, allegria 2 motivo di gioia 3 (della terra o di piante) fecondità, fertilità, rigogliosità 4 grazia, bellezza 5 (di del discorso o di stile) ornamento, grazia. Per la definizione di appetito: appětītŭs [appetitŭs], appetitūs sostantivo maschile IV declinazione 1 propensione, inclinazione 2 (+ genitivo) brama 3 assalto. Conatus: cōnātŭs[conatŭs], conatūs sostantivo maschile IV declinazione 1 sforzo, tentativo 2 impresa 3 impulso, propensione, inclinazione 22 loro appetito. E si può pertanto così definire: la cupidità è l’appetito con la consapevolezza di esso. Noi quindi non vogliamo, appetiamo, desideriamo una cosa, perchè la riteniamo buona, ma, al contrario, giudichiamo una cosa buona perchè la vogliamo, tendiamo ad essa, l’appetiamo e la desideriamo. In buona sostanza i Valori sono determinati dal conatus: i valori, anche se tendono a presentarsi come principi sono il risultato delle azioni riuscite, tenuti validi perchè favorevoli all’esistenza. Se è così, la razionalità, in Spinoza, deve cercare di rendere le idee della nostra mente adeguate (tramite una riflessione razionale) in virtù del fatto che spesso esse sono inadeguate a causa delle passioni. In questo senso , il conflitto generato dalle passioni può essere risolto tramite la metaformosi delle idee inadeguate in idee adeguate. Ora, in Spinoza, la conoscenza è mentis potentia, metamorfosi delle idee inadeguate in idee adeguate, produzione di gioia, in quanto solleva ognuno dall’oppressione di un potere incomprensibile. Ma che vuol dire conoscere in Spinoza? Scientia intuitiva: si sa perchè si ama, si ama perchè si sa. Conoscere in Spinoza non è tanto capire quanto comprendere: non è avere semplicemte coscienza della necessità (aspetto del sistema spinoziano) bensì incrementare la propria forza, dilatare il proprio Io nel nos della comunità o nella compagine dell’universo47. Nemmeno vuol dire conoscere astrattamente senza modificare gli affetti: essi non sono intellettualizzati, sublimati, ma semplicemente privati della loro opacità. Attraverso una serie di operazioni che li ordina e li concatena seconda una logica diversa da quella dell’immaginazione. 47 Ibidem Comment [WU34]: Spinoza fa notare come in ebraico, jadah, significa tanto scientia che amor. Per altro verso la speranza (spēs [spes], spei - sostantivo femminile V declinazione: 1 speranza 2 aspettativa, attesa 3 prospettiva di cose future 4 Spes, la dea Speranza) non è necessariamente legata , come in Cicerone e Tommaso, ad un bene futuro. In Spnoza infatti, la speranza (ἐλπίς [-ίδος, ἡ] sostantivo femminile 1 aspettazione 2 speranza 3 timore, sollecitudine) similmente alla paura (metus e spes sono da Spinoza condannate come unite inscindibilmente), deve essere superata nella gioa . La speranza, supposto rimedio alla paura deve essere superata, grazie alla conoscenza, nella gioia dell’estensione dell’animo: 23 In primis, essi sono separati dal pensiero della loro causa esterna; poi stabilizzati – rispetto alla maggior parte degli affetti che fluttuano nell’animo – per poi riferirli alle cose che conosciamo chiaramente. Si tratta di passare dall’ordo imaginationis all’ordo rationis per poi passare all’ordo amor intellectualis ( secondo cio ogni cosa è compresa nella sua specificità all’interno dell’ordine della natura). Ciò a cui mira Spinoza quindi, va inteso probabilmente nella direzione di una trasformazione della cupiditas verso un affetto: la forza cieca diventa allora consapevole di sè, energia da sviluppare e non da reprimere. L'Etica vuole offrire insomma un'adeguata comprensione dell'essere uomo all'interno di un mondo rigorosamente necessitato nel quale Egli non occupa una posizione privilegiata o ne è un riassuntore (critica alla concezione dell'uomo microcosmo). Solo così è possibile offrire una praticabile farmacologia filosofica, volta a indicare un’ardua ma raggiungibile felicità. Essa si propone come infine come vitae meditatio e la meditazione si trasforma costantemente in prassi. Ma in quale modo Spinoza ritiene di poter “conoscere” la natura delle passioni? E possibile affermare che il filosofo olandese, similmente a Freud – apparato psichico tripartito in ES, IO, Super IO in cui l’Es è sede di impulsi primordiali quali la libido - ritiene che tanto più comprendiamo gli affetti tanto più essi sono modificati da tale attività di ri-flessione su gli affetti. Vediamo: la ratio di cui parla Spinoza, non è il calcolo utilitaristico di cui parlerà Locke, non è l’utilitas come mero aspetto egoistico e soggettivo del singolo. Nè va inteso come diritto all’autoconservazione del singolo. Piuttosto: le passioni tristi rendono schiavi. Schiavitù è, infatti, “l’impotenza dell’uomo a moderare o a reprimere gli affetti” e l'impotenza è maggiore quanto più la conoscenza è oscura e confusa. Compito della filosofia, che diventa prassi, è quello di liberare l'uomo da tale servitù e ciò è possibile aumentando la potenza della mente. Più le passioni sono adeguatamente comprese (nella loro genesi e nella loro struttura) meno le si patisce. Più la mente attinge al secondo e terzo genere di conoscenza più scopre che “a tutte quelle azioni a cui siamo determinati da una passione, possiamo essere determinati, senza la passione, dalla ragione” (E, IV, 59). Ora, vivere secondo ragione esprime la massima potenza di essere e di agire dell'uomo e, dunque, è causa di gioia autentica. Questo processo di affrancamento dalla servitù della tristezza è processo in corso di gioiosa e consapevole liberazione.48 48 Fonte Treccani. Comment [WU35]: Concepire ciò che fa parte della natura come ‘difetto’ è il segno di una conoscenza ancora oscura e confusa, inadeguata (di cui sono figlie anche molte passioni, in particolare quelle tristi): il ‘primo genere di conoscenza’, la mutilata cognitio (E, IV, 2), l'immaginazione opinante. Perciò la terapia della vita inizia con la comprensione filosoficamente adeguata della stessa e si struttura come innalzamento, transitio, della nostra conoscenza dal primo al secondo e al terzo genere (dall'immaginazione opinante, al raziocinio dimostrante, all'intuizione intellettuale delle cose sub specie aeternitatis). 24 Il saggio Secondo Ovidio: “Video meliora, proboque, deteriore sequor” (Vedo il meglio e l’approvo ma seguo il peggio). Secondo Spinoza, nella vita dimidiata49 dei più, non si tratta di rivolgersi ad astratte Leggi giuridiche , ma di accrescere la potenza di esistere: ed è la passione stessa, il patire, che offre la possibilità di accrescere la potenza dell’esistere e la conoscenza del tutto. Di più ancora, attraverso la Tristitia è possibile ascendere alla Laetitia. Ricordiamo infatti che in Spinoza una passione può essere vinta solo da un’altra passione più forte. In questo senso in Spinoza anche la Ratio può essere considerata una passione: la passione più forte. Una passione che culmina in una vis existendi, espressione massima del conatus. In una battuta: tristezza e gioia sono passioni attraverso le quali la mente passa da un minor ad un maggior grado di autoconservazione. Tale grado di conservazione e persistenza nel proprio essere, per un tempo indefinito è espresso in Spinoza dal Conatus. Ora, se il Conatus è riferito alla mente esso è Volonta; se invece è riferito alla mente ed al corpo è Appetito: la vera essenza dell’uomo. Non c’è poi differenza tra appetito e desiderio: il desiderio è appetito con coscienza di se stesso. , Quindi, in conclusione, sebbene parziale, Spinoza a diferenza di Descartes, considera le passioni come forma di conoscenza. Egli cancella anche la divisione tra anima e corpo di Cartesio: in questa divisione Spinoza vede semplimente un aspetto parallelo. L’aspetto per cui un incremento “mentale” corrisponde anche ad un incremento corporeo: espressione della medesima sostanza in Modi differenti. Ancora, Spinoza non considera il primato della volontà come in Cartesio: semplicemte non esiste una Volontà ma singole volizioni particolari. E comunque, anche volendo considerare una Volontà generale, essa non ha certo maggiore estensione dell’intelletto come in Cartesio. Piuttosto la Volontà è per Spinoza il Conatus, riferito solo alla mente. 49 Lett. dimezzato; mancante di una metà, di una parte consistente. Etimologia: dal lat. dimidiātu(m), deriv. di dimidĭus ‘mezzo’. Comment [WU36]: Il saggio stoico scolpisce se stesso attraverso un imperturbabile autocontrollo. Egli con la forza della ragione deve bilanciare le debolezze del corpo. In Cicerone: - Desiderium: tendere ribelle verso qualcuno\qualcosa; -Paura: inclinazione contraria alla ragione, ed attesa di male opinato; Ora, in Cicerone, saggio è colui che riesce a dominare le passioni, sebben non nel senso della apatia, piuttosto egli non vuole concedere valore morale ai turbamenti del giudizio ed ai comportamenti indotti dalle passioni. In questo senso Cicerone rifiuta la netta separazione tra ragione e passione, se non altro per poter affronatre la lotta non con qualcosa di totalmente estraneo. Meglio sarebbe dire che la passione è ragione degenerata che con esercizio e fermezza d’anima bisogna controllare e gestire. Comment [WU37]: Nei confronti dell’immaginazione, che rappresenta un grado più basso della conoscenza, la ratio offre la possibilità secondo Spinoza di evitare, ad esempio di concepire\immaginarsi una mosca infinita. 25 Amore ed affetto50 In Spinoza la passione51 trasformata in affetto, rade al suolo52l’hegemonikon degli Stoici. Si tratta per Spinoza di non rendere in schiavitù una parte di sè (le passioni) . 50 51 affètto1 agg. [dal lat. affectus, part. pass. di afficĕre «impressionare»]. – Fonte Treccani Platone postula un contrasto radicale tra ragione e passione. Egli colloca infatti le passioni nell’anima concupiscibile (posta nel ventre) e in quella irascibile (situata nel fegato), affidando all’anima razionale, che ha sede nella testa, il compito di disciplinare e guidare le azioni umane. In Aristotele, la passione è una «perturbazione delle parti inferiori dell’anima connessa agli organi corporei» (De anima, I, 403 a e segg.) e come tale capace di estendersi anche al corpo. Come giusta medietà tra le opposte tendenze estreme (la quale quindi non esclude il loro contenuto passionale, ma lo misura e regola), Aristotele definisce la virtù etica. La teoria filosofica delle passioni si definisce con maggiore precisione con lo stoicismo, che, sviluppando gli analoghi motivi del cinismo, considera tutto il mondo affettivo come una sorta di legame, per cui l’animo subisce la schiavitù delle cose: il problema morale si presenta quindi come problema della vittoria sulle p., e della conseguente restaurazione dell’impassibilità autarchica o «apatia». Treccani on line. Dai moralisti a Freud. L’idea che la passione sia la forza che una intensa emozione esercita sull’animo, indirizzando completamente il comportamento dell’uomo, senza possibilità di sottrarsi al suo potere trascinante, si afferma in partic. con i moralisti dei secc. 17° e 18°. Presente in Pascal, essa si mostra nel graffiante cinismo sotteso alle Massime (1665) di La Rochefoucauld, in cui la resistenza alle passioni. viene presentata come obiettivo irraggiungibile (a meno di non aver a che fare con una passione veramente debole), e la durata delle passioni, come quella della nostra vita, viene sottratta al dominio dell’uomo. A Kant si deve uno dei primi, chiari tentativi di operare una distinzione tra emozione e passione. Nello scritto Antropologia pragmatica (1798) l’emozione è infatti riportata a esperienze di piacere e dispiacere che impediscono al soggetto di riflettere e, in tal senso, rientra nella sfera del sentimento; la passione, viceversa, è da ascrivere alla facoltà di desiderare, in quanto rinvia alle inclinazioni o ai desideri sensibili naturali, nella misura in cui una singola inclinazione acquista forza sufficiente a esercitare un dominio totale e profondo su tutta la personalità dell’individuo. Kant rigetta ogni esaltazione della passione per il pericolo che essa rappresenta per la scelta razionale e per la libertà morale dell’uomo. L’idea che la passione non sia un’emozione, ma il dominio assoluto di uno stato affettivo sulla personalità nella sua totalità viene ripreso dalla filosofia romantica, che però capovolge il giudizio negativo espresso da Kant. Così per Hegel nella p. «l’intera soggettività dell’individuo» viene limitata a un’unica determinazione del volere, «quale che sia il contenuto di questa determinazione», per cui la passione . deve essere considerata come «la totalità dello spirito pratico in quanto si pone in una delle molte determinazioni limitate che sono fra loro in contrasto». La passione però non è né buona né cattiva: «la sua forma esprime solo che un soggetto ha posto in un unico contenuto tutto l’interesse vivente del suo spirito, dell’ingegno, del carattere, del godimento». Contrapponendosi esplicitamente alla condanna kantiana, Hegel giunge ad affermare: «Niente di grande è stato compiuto né può essere compiuto, senza passione. È soltanto una moralità morta, e troppo spesso ipocrita, quella che inveisce contro la forma della p. in quanto tale» (Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, 1817, parr. 473-74). Comment [WU38]: Spinoza, afferma il valore universale dell’affectus (la p. in generale, come tendenza di ogni essere a perseverare nel suo stato), in quanto nella sua concezione ogni vita cosciente è sempre cupiditas, «desiderio», e insieme laetitia o tristitia, a seconda che essa avverta la propria esperienza come favorevole o sfavorevole per il suo vivere e agire. Il desiderio è costitutivo dell’uomo, che viene costantemente spinto da esso verso il futuro. Tristezza e gioia sono invece p. per le quali la mente trascorre, rispettivamente, a una minore o maggiore «potenza di esistere Comment [WU39]: Comprendere l'umano in tutte le sue articolazioni significa riconoscere che le passioni, anche quelle tristi o turpi, appartengono alla natura dell'uomo, unità inscindibile di mente e corpo, e non macchina in cui alberga uno spettro che non si sa bene come si inserisca (vedi la critica che muove a Cartesio e alla ghiandola pineale come raccordo; Etica, V, Pref.). 26 XfÑ|ÇÉét La radicalizzazione del concetto di sostanza è perseguito da Spinoza partendo, per così dire, dal mondo delle rappresentazioni della sostanza e degli altri oggetti metafisici. Definendo la sostanza, non si tratta per Spinoza di esporre un semplice concetto, ma di affermarne contemporaneamente l’esistenza. Spinoza si rifà qui all’argomento ontologico secondo cui Dio è: id quo maius cogitari nequit Anselmo – oppure è l’ ens summe perfectum – Cartesio. L’idea di Dio ossia dell’Ente sommamente perfetto, secondo Cartesio, è infatti l’idea di una essenza che implica necessariamente l’esistenza, visto che , se così non fosse, l’Ente non sarebbe perfetto, cosa impensabile per definizione. Ma Spinoza radicalizza l’istanza di Cartesio che fonda il suo ragionamento sul cogito come principium certum et inconcussum. Il cogito è infatti dipendente e limitato, mentre Spinoza cerca qualcosa che valga come fondamento e principio di tutto il reale e di tutto il nostro sapere: la sostanza. Ed il contenuto immediato del pensiero è esattamente Dio 53. Il superamento del dubbio cartesiano è allora costituito dall’indubitabilità di un pensiero che sin dall’inizio è riempito da Dio54 e cioè vede la necessità di Dio. Spinoza quindi, come Leibniz, tiene fermo il principio cartesiano che la realtà esterna non è il contenuto immediato di quest’ultimo, ritenendo che il rapporto tra il pensiero e la realtà esterna è un caso particolare di una legge universale: pensiero ed estensione sono infatti due degli infiniti attributi della Sostanza che appunto la esprimono.55 In effetti la sostanza è intesa da Aristotele come ciò che esprime l’indipendenza ontologica dell’ente. Ancora, la sostanza è concepita in virtù di se stessa e non in virtù di una verità precedente. Essa è infinita ed è causa sui in quanto la sua essenza implica la sua esistenza. Vediamo: Spinoza afferma che l’idea vera deve convenire con il suo ideato: (assioma 6) la conoscenza dell’oggetto è di per sè garanzia di verità. E tra tutte le idee che possono fungere da punto di partenza metolodologio, logico ed ontologico al ragionamento, l’idea di sostanza come quella Negli sviluppi successivi del pensiero la riflessione sul tema delle passioni diventerà in misura crescente dominio della psicologia, sviluppatasi come disciplina autonoma. Un’originale riformulazione e rielaborazione della problematica filosofica relativa al conflitto tra ragione e passione e al carattere radicalmente diviso della natura umana si trova tuttavia nella teoria psicoanalitica di Freud , che propone una concezione dualistica e antagonistica delle p. fondamentali da cui è mosso l’uomo, reinterpretate in termini di «pulsioni». 52 53 54 55 Ibidem. Marzorati, vol. IV, pag.129. E. Severino, Storia della filosofia mode rna,pag. 97. Ibidem. Comment [WU40]: Perfectus; Secondo Aristotele tre erano i significati : 1°) ciò che non manca di alcuna sua parte o al di là di cui non può trovarsi alcuna parte che gli appartenga; (ossia è completo – aspetto metafisico) 2°) ciò che possiede, nella sua specie, una eccellenza che non può essere superata; (ossia ciò che è eccellente relativamente alla propria specie); 3°) ciò che ha raggiunto il suo fine, posto che si tratti di un fine buono (ossia ciò che è reale o attuale – aspetto metafisico)). Comment [WU41]: Nella costruzione del suo edificio concettuale, Cartesio ammette esplicitamente che non esisita altra realtà all’infuori dell ‘Io, del pensiero. Si tratta quindi di dover dimostrare che al di là delle idee – essere oggettivo – esiste la realtà formale, la realtà in se stessa – mondo corporeo e Dio. Causa delle Idee. Comment [WU42]: Hobbes afferma che l’esistenza della sostanza è provata dal ragionamento, sebbene noi non abbiamo idea alcuna delle sostanze. Come dire che per Hobbes le sostanze non sono sensibilmente percepibili. Ancora, gli scolastici dicevano che la sostanza è percepibile per accidens, non per sè 27 dell’Essere perfettissimo è l’unica a dare questa garanzia. Come dire che l’idea di sostanza implica necessariamente la sua esistenza come infinita ed eterna. Spinoza intende la sostanza quindi come una,con una sola essenza, che obbedisce ad una sola legge: quella della necessità razionale. Se la sostanza è una essa allora fonde in sè : • • • il concetto di sostanza estesa; (Cartesio aveva ridotto ad un rigido meccanicismo il mondo della natura, ma ne aveva escluso l’uomo in quanto sostanza pensante e libera) quello di sostanza spirituale; quello di sostanza divina. (Cartesio riconosce che la sostanza spirituale riferita a Dio presuppone che tale sostanza non abbia bisogno di null’altro per esistere) Ora, la sostanza, se si riferisce anche a Dio, alla sostanza spirituale, è infinita. In effetti l’inifinità, la primalità ontologica e metafisica, la sua unità assoluta in tanto si dicono della sostanza in quanto si dicono di Dio.56 In sintesi, nel concetto dell’unica sostanza si fondono quelli della cartesiana res extensa e res cogitans, e quello della sostanza divina. Ancora, in Spinoza il termine “sostanza” ha il suo più autentico significato solo in relazione a Dio. Essa è l’unità assoluta, in senso neoplatonico, dalla quale soltanto può scaturire il molteplice delle cose corporee e pensanti. 57 Spinoza quindi, annulla il rincipio della soggettività e pone nella sostanza assoluta, nella sostanza in senso evidente, il fondamento del tutto ed anche il fondamento del sapere in quanto il sapere filosofico è coinvolto e dedotto dal principio della sostanza. Ora, sulla radicalizzazione in senso monistico della sostanza da parte di Spinoza, ha una forte incidenza la tradizione cristiana: il pensiero del cristianesimo di Tommaso, in base al quale Dio è il principio dell’Essere di tutte le cose. Se il fondamento dell’essere di tutte le cose è in Dio, ciò significa che allora che le cose non possono esisitere al di fuori di Lui, che l’essere delle cose “finite” (modi) non sta nelle sostanze finite, ma sta in Dio. Ciò però non porta il ragionamento a pensare che le cose finite siano fuori da Dio bensì che le sostanze finite non sono altro che manifestazioni finite di Dio. “Modo” per Spinoza sta dunque ad 56 Ibidem. Cartesio chiama le realtà per lui ultime substantia cogitans e substantia extensa, e il monismo spinoziano unifica quelle due realtà proprio approfondendo il principio medievale dell'assoluta autonomia logica ed ontologica della sostanza (da lui definita come quod per se est et per se concipitur), che non potendo riferirsi ad altro dev'essere infinita e unica. Ma contro questo assoluto valore ontologico del concetto di sostanza si leva l'empirismo: il Locke, con la sua critica associazionistica, mostra come ciò che si dice sostanza non sia altro che un complesso convenzionale di percezioni distinte, e chiarendo la soggettività delle qualità secondarie ne riduce il contenuto oggettivo alla semplicità matematica delle primarie; e la gnoseologia del Berkeley giunge a risolvere pienamente la substantia extensa nelle percezioni delle substantiae cogitantes, costituenti per ciò esse sole l'universo. D'altronde, dissolta da Hume anche la sostanza spirituale, la critica kantiana, intenta a restaurare la possibilità della conoscenza del reale contro lo scetticismo humiano, restituisce alla sostanza il valore di categoria instaurante l'unità dei fenomeni. Ma naturalmente, così intesa, la sostanza non è più aspetto oggettivo della realtà, ma funzione soggettiva del conoscere: e tale resta nei sistemi dialettici degl'idealisti postkantiani, che variamente la inseriscono nelle loro deduzioni delle categorie. Cfr. Treccani on line. 57 Comment [WU43]: Per Spinoza, l’essenza infinita ed eterna della sostanza si esprime in una infinità di attributi. Attributo è ciò che il pensiero, pensando la Sostanza, percepisce come costituente l’essenza della Sostanza. L’identità dell’Essenza assoluta si esprime nell’infinita divesità degli attributi: pensiero ed estensione sono attributi di Dio. Ora, i singoli pensieri, sono modi dell’attributo del pensiero ossia affezioni, proprietà, della Sostanza. In misura analoga, i corpi sono affezioni della sostanza in quanto estensione. 28 indicare ciò che dipende da altro, il cui concetto non può essere compreso senza riferimento ad altro. Questo “altro” è appunto la sostanza. In questo senso Spinoza afferma la totale identità di mondo e Dio: il mondo non può essere pensato come al di fuori di Dio, coincide con Dio, sebbene ciò significhi che Dio non può essere indipendente dal mondo: la totale identità dei due momenti è espressa da Spinoza con due concetti che indicano, in realtàlo stesso concetto: natura naturans e natura naturae. Due aspetti attraverso i quali Spinoza cerca di far vedere il lato mondano di Dio ed il lato divino del mondo. Possiamo comunque osservare che in entrambi ritorna il concetto di “natura”: da un lato “naturans”, dall’altro “naturae”, ma sono entrambe natura. Ora, in entrambi i concetti Spinoza vuol salvare un elemento di Dio: il fatto che Dio sia causa del mondo. Spinoza non intende mettere in discusione questo aspetto che gli proviene dalla tradizione e che egli sfrutta sino in fondo: propriamente il fatto che Dio sia causa del mondo non è inteso come una causa che si differenza dal suo oggetto, in quanto verrebbe riproposto il dualismo Dio\mondo. Anzi, afferma Spinoza, se noi intendiamo il concetto di causa in modo radicale, affermiamo che l’effetto non può stare al di là della causa: se l’effetto fosse realmente al di là della causa non sarebbe più l’effetto. Avrebbe causa in altro. In una battuta: la causa deve’essere immanente l’effetto. Spinoza, quando distingue i concetti di natura naturans e natura naturae, delinea una distinzione solo dal punto di vista del finito, perchè in realtà e due cose sono esattamente lo stesso. Ecco che allora non è possibile intendere la causazione del mondo come una creazione: con un creato libero dalla sua causa. Piuttosto, il legame immanente tra causa ed effetto, è alla base della negazione della libertà: data una causa ne consegue necessariamente tutta la serie dei suoi effetti. La “causa”che pensa Spinoza resta ancora Dio: una volta data la sostanza divina ne consegue necessariamente tutta la serie dei suoi effetti: la totalità dei modi, ossia le manifestazioni della sostanza, non sono liberi di manifestarsi ma sono necessariamente conseguenza di ciò che implicitamente è annesso al concetto di causa, per cui il mondo è un ordine necessario. Tuttavia, proprio in questo ordine necessario, Spinoza pensa anche all’assoluta libertà: la sostanza è questa necessità, questa causa che non esclude nulla al di fuori di sè, che non dipende da altro che da stessa, e quindi non condizionata da altro, per cui non ha nessun limite alla sua libertà. Spinoza ribalta quindi contro la metafisica tradizionale l’obiezione che quest’ultima gli muove: il dualismo, l’esistenza di qualcosa al di fuori di Dio che limita Dio può essere pensata soltanto laddove il dualismo è superato. Spinoza allora, pensa che in Dio (un tema ripreso da Hegel dove Dio, necessità e libertà coincidono) libertà e necessità coincidono: libertà derivata dal fatto che Dio non dipende da nient’altro che dalla propria natura, un natura necessaria. Al tempo stesso però, è una natura che non fa nulla al di fuor di sè. La concezione di natura di Spinoza, le sue deteminazioni di libertà e necessità, all’interno del paradigma moderno, rappresentano una forma radicale di ritorno all’ontologia antica, sebbene questo punto di vista non soggettivistico sia molto lontano dalla “natura” della tradizione antica: la “Phisis” aristotelica, il finalismo che la pervade, la teologia arsitotelica, la gerarchia dei fini e dei beni che sussitono in Aristotele, sono concetti assai distanti dalla filosofia di Spinoza. Piuttosto la concezione di natura spinoziana, la sua comprensione del natura della totalità del mondo, è erede del meccanicismo moderno, del meccanicismo cartesiano e del mondo ridotto a estensione . Comment [WU44]: Lo Stoicismo, il neoplatonismo, nell’età moderna Giordano Bruno, hanno una visione afferente l’unità di Dio e mondo riproposta da Spinoza.Lo stesso Giordano Bruno è considerato un anticipatore di Spinoza. Cfr. Severino, cit. pag. 98. 29 _Év~x “Nisi est in intellectu quod prius fuerit in sensu”. Questo detto di Aristotele, poi ripreso da San Tommaso, può essere considerato il manifesto dell’empirismo di cui J. Locke è considerato il fondatore. Ogni conoscenza deriva dal mondo interno ed esterno. Locke combatte quindi ogni forma di innatismo e ritiene che ogni nostra idea deve essere commisurata con l’esperienza. Locke combatte quindi il platonismo, le idee assolute insomma: tutte le idee derivano quindi dall’esperienza o dalla combinazione di idee semplici sottoposte a controllo razionale. Locke radicalizza quindi l’istanza soggettivistica di Cartesio: una radicalizzazione in senso non metafisico o meglio a-metafisico. In particolare, Locke assume come inaggirabile il punto di vista cartesiano ossia il fatto che non possimo dubitare di pensare sebbene egli non intenda più il pensiero come sostanza, piuttosto come una totalità di Idee. Certo non possiamo dubitare di pensare, di essere dei soggetti, semmai possiamo dubitare di avere delle rappresentazioni: la stessa identità dell’Io, ossia il fatto che noi siamo un Io identico, non è una conoscenza immediata per Locke ma una conoscenza che noi possiamo ottenere solo partendo dalle nostre rappresentazioni. A partire dalle rappresentazioni secondo Locke, possiamo risalire ad un elelemento comune a tutte le rappresentazioni, a qualcosa di identico: l’Io. Per altro verso Locke, rispetto a Cartesio, fa presente come ogni idea derivi necessariamente dalle sensazioni: Locke rifiuta qualsiasi idea innata, rifacendoci in questo ad Okkam ed al suo criterio della “evidenza”. Per Okkam infatti l’intuizione ha come oggetto qualcosa di immediatamente evidente, immediatamente presente ai miei sensi, individuale e come tale derivato solo dai miei sensi. Anche le idee che non sono individuali sono comunque riconducibili ad idee individuale, a partire dalle quali esse si sono prodotte: idee semplici ed idee complesse (là dove il valore di verità dell’idea complessa non è lo stesso dell’idea semplice). Dunque per Locke solo l’idea che rimanda immediatamente ad un oggetto ossia che presenta un oggetto quale esso si manifesta immediatamente alla sensazione è una idea semplice: il fondamento dell’oggettività delle idee sta nel fatto che essi sono dati immediatamente nelle sensazioni. Le idee complesse sono ciò che noi costruiamo a partire dalle idee semplici: tutte le complesse costruzioni del soggetto, sono costruzioni più o meno arbitrarie, al contrario delle idee semplici. _ËxáÑxÜ|xÇét Nella modernità, diventa essenziale determinare quanto, nell’atto conoscitivo derivi da una componente ricettivo-sensibile e quanto derivi da un pura attività di pensiero. Nel primo caso si tratta dell’orientamento empirisitico, nel secondo dell’orientamento razionalista. In riferimento all’Empirismo, Locke ritiene che ogni idea si origini o abbia origine dall’esperienza, esperienza che si articola in due componenti: 1) sensazione; 2) riflessione (riferita agli atti mentali). Comment [WU45]: A partire da Cartesio, la filosofia moderna ritiene che la realtà, in quanto pensata, non è la realtà che esiste in se stessa indipendentemente dal pensiero. In quanto realtà pensata, l’universo che circonda è contenuto di pensiero, idea, secondo Cartesio, percezione secondo Hume. Severino, cit. pag. 153 Comment [WU46]: La realtà esterna agisce causalmente, attraverso l’esperienza, sulla mente dell’uomo. 30 In particolare Locke ritiene che le Idee innate non esisitono e che la coscienza va intesa, alla sua origine, come una tabula rasa.Ora, se le Idee innate non esisitono, quali sono allora i fondamenti ed i contenuti della conoscenza? Locke risponde che i contenuti, ogni specie di contenuto mentale è un ‘Idea (qualunque cosa sia oggetto dell’intelletto quando un uomo pensa). Nelle Idee ricadono quindi i dati della sensazione, i concetti astratti, i generi sensibili ed intelligibili. L’autocoscienza del possesso di tali contenuti è l’unica prova dell’effettiva esistenza di queste Idee. Ora, le vie (modi di formazione) attraverso le quali si prodocono tali idee, anche le più complesse sono in ultima analisi: 1) la sensazione: gli oggetti esterni, nel contatto coi sensi, procurano all’intelletto idee che prima non possedeva 2) la riflessione: l’intelletto rivolge l’attenzione alle anche alle proprie operazioni, da cui ricava le idee delle proprie azioni: per questa via si formano le idee di volere , ragionare, decidere, pensare, dubitare, credere, etc. \wxx áxÅÑÄ| x vÉÅÑÄxááx L’esprienza consente la formazione di due tipi di idee: Semplici: mente totalmente passiva per cui essa è in contatto con qualcosa che non ha prodotto, consentendo così il riconoscimento dell’esistenza di un mondo esterno (realismo di Locke) 1) prodotte dalla sensazione (uno\più sensi); 3) dalla riflessione come il volere; 4) dal concorso di sensazione e riflessione (piacere e dolore). Complesse: ricavate da quelle semplici mediante una attività di elaborazione della mente. Ora Locke, per determinare quali idee sono copie di qualcosa di reale e quali invece non lo sono, ricorre alla distinzione tra qualità primaie e secondarie: 1) solidità, estensione, moto, quiete, numero e figura sono qualità primarie dei corpi: le idee di tali qualità, derivano direttamente dalle cose e sono copie fedeli dei modelli. 3) Odori, colori, suoni, e così via sono invecec caratteri dipendenti da quelli primari: sono qualità secondarie e sono l’effetto delle sensazioni prodtte in noi dalle qualità primarie. Esse scaturiscono quindi dall’incontro tra il soggetto e l’oggetto e non corrispondono a proprietà reali degli oggetti. Le idee complesse, diversamente, sono effetto di operazioni intellettuali. (combinazione, comparazione, separazione, connessione di idee semplici). Esse ricevono il loro materiale dalle idee semplici, effetto di sensazione e riflessione. Sono quindi anch’esse un prodotto della sensazione e riflessione: 31 1) Combinazione: l’idea dello spazio è una costruzione di idee che ci provengono dai sensi (vista, tatto); (lontananaza da Cartesio che ritenenva lo spazio l’unica realtà al di fuori di lui; l’estensione è il realmente esistente); l’idea del tempo è anch’essa una combinazione proveniente da sensi diversi: la manifestazione di una successione di idee che riguardano un oggetto è il fondamento per cui noi riteniamo che un oggetto esista nel tempo. Anche l’idea di sostanza è complessa: arriviamo all’idea di sostanza attraverso la composizione degli attributi della sostanza (di un oggetto presente di fronte a me dico che è ruvido, presente, colorato,etc.). In realtà, secondo L., io non ho mai l’idea di sostanza. Non ho mai l’idea semplice di sostanza, ho solo idee semplici degli attributi della sostanza. Alla fine per L. l’idea di sostanza si risolve nelle rappresentazioni di cui il soggetto è in possesso per costruirne l’idea complessa; 2) Comparazione: il confronto di idee semplici. L’idea di Causa è riferita alle idee semplici di causa e di effetto: solo comparando ciò che è prima e provoca quacosa dopo ottengono l’idea di Causa; anche l’idea di identità è frutto di una comparazione tra diverse idee semplici per cui possiamo parlare alla fine di una identità. Abbiamo diverse rappresentazioni che compariamo tra loro per pervenire a qualcosa di unico che chiamiamo identità. L’identità dell’Io non è quindi nulla di semplice bensì complesso; 3) Astrazione: l’astrazione dalle idee semplici ci dà l’idea complessa di universale ad esempio. L’idea di Uomo ad esempio, è ottenuta atraverso l’astrazione dalle rappresentazioni presenti nell’individuo, atraverso la loro somiglianza. Locke alla fine disolve la metafisica, qualsiasi sostanzialità metafisica, sia la sostanzialità degli Universali che la sostanzialità dell’Io e della Sostanza. Tuttavia Locke ammette che, per autointuizione, noi possiamo arrivare ad intuire l’Io, così come possiamo arrivare a dimostrare Dio, sebbene non per la presenza di una idea innata ma attraverso l’idea di causa. In qualche modo quindi, sebbene per strade diverse, la metafisica cartesiana è confermata. Per altro verso, anche l’idea del mondo esterno è dimostrata da Locke, sebbene in modo diverso da Cartesio: l’idea di spazio è complessa, ed arbitraria, e costruita sulla base di idee sempici provenienti dai sensi. Locke dimostra quindi l’esisitenza del mondo esterno per strade diverse rispetto a Cartesio ma non arriva veramente a dissolverne l’impianto metafisico. _t vÉÇÉávxÇét 32 In seguito all’origine empirica delle idee, Locke afferma che la conoscenza in senso proprio, quella chiara ed evidente, consiste nel percepire l’accordo o il disaccordo, con la mente, la connessione o il contrasto tra alcune delle nostre idee.Ora, la percezione è la principale facoltà dell’intelletto secondo cui si colgono i rapporti tra le Idee: essa unifica una molteplicità di sensazioni, riferendole ad un oggetto differente dal soggetto percipiente. Forme di discordanza tra le idee sono: 1) identità\diversità; 2) relazione; 3) consistenza; 4) connessione necessaria; 5) esistenza reale. Diversa è la percezione dell’accordo tra Idee: secondo diversi gradi di evidenza. Prima via: La percezione di tipo immediato è l’intuizione: la concordanza tra idee accade senza nessuna mediazione di altre idee. Tale conoscenza non ha bisogno di prova alcuna: tale è il caso della nostra esistenza .58 Seconda via: conoscenza accade in forma indiretta, mediante dimostrazione: una percezione mediata dell’accordo tra le idee. É il caso della dimostrazione dell’esistenza di Dio, a partire dall’esistenza delle creature. Terza via: la sensazione rappresenta la terza via della conoscenza, capace di garantire l’esistenza della realtà esterna. Anche se priva dell’immediatezza delle vie precedenti, mediante: 1) 2) 3) 4) Passività dell’intelletto; Involontarietà della sensazione; Concordanza dei vari sensi; Distinzione tra sensazione e ricordo. Tali aspetti, come ricordato “supra”, testimoniano che le Idee devono derivare da qualcosa di esterno. I limiti della conoscenza, hanno a che fare con la tipologia dei contenuti del conoscere: ognuno può condividere o meno opinioni o credenze di tipo religioso o politico, mentre è corretto che presti fede a ciò che gli deriva dalla conoscenza certa ed evidente. Vi sono qundi dei limiti al conoscere che derivano dal mancato accordo tra le Idee: mancata intuizione; mancanza di idee mediatrici tra le idee; sensi che non possono spingersi oltre il sentito. 58 Cfr. Geymonat, cit. pagg. 369 e sgg. 33 Nello specifico, se le idee semplici danno sempre conto delle cose nella loro realtà, le idee semplici delle qualità secondarie invece, non danno garanzia di fedeltà rappresentativa. Diversamente, le idee complesse, in quanto archetipi che l’intelletto costruisce in proprio, , e non copia della realtà esterna, non pretendono essere conformi a qualcosa di reale: il matematico costruisce figure geometriche che potrebbero non riscontrarsi nella realtà. Anche le idee complesse di sostanza, poichè pretendono riferirsi a qualcosa di esterno, possono non rivelarsi conformi alla cosa esterna. Tale posizione non implica tanto la negazione dell’esistenza delle sostanze materiali, spirituali, ma semplicemente l’inconoscibilità di ciò che travalica le idee sensibili e pare essere il loro sostegno. `ÉÜtÄx x ÑxwtzÉz|t |Ç _Év~x Secondo Locke l’uomo è libero e dunque non può agire in modo predeterminato ma mosso dall’esigenza di autoconservarsi e dalla ricerca della felicità. I suoi comportamenti sono però frutto dell’educazione ricevuta per cui il singolo è in grado di fondarsi su un ‘etica razionale prevalendo sulle mere esigenze eudemonistiche e conservative. Ora, in relazione all’aspetto etico ascritto, l’uomo, per Locke, non essendo previsto alcunchè di innato, deve potenziare le proprie capacità grazie all’esercizio ed all’azione educativa. Una rigida disciplina fisica e spirituale, che si opponga ai desideri immediati, lo studio del bambino e delle sue esigenze, attraverso la persuasione razionale, il rispetto per il bambino, cui deve essere attribuita massima libertà, gioco, e divertimento, possono consentire di formare il futuro uomo. Uomo quindi tollerante e libero all’interno di uno stato governato dalla legge . in contrapposizione a tale considerazione dell’uomo, Hobbes, ritiene invece evidente, immediato, lo stato di natura dell’uomo come governato dalle passioni: condizione questa precedente alla convivenza all’interno dello Stato. La tendenza naturale, secondo Hobbese, è governata dall’istinto di autoconservazione a spese degli altri. Nel Leviatano in particolare, Hobbes si riferisce alle cosiddette società primitive, in condizione di pre-stato. Tali considerazioni hanno la funzione di persuadere il lettore che le considerazioni sullo stato di natura non sono una mera invenzione. Stato di natura si badi, sostanzialmente immutabile, in linea con le analisi di Macchiavelli, che tende a perdurare secondo il concetto di “bellum omnium contra omnes”, innescato dal diritto di ognuno a tutto quanto sia ritenuto utili alla propria soprvvivenza. Ancora, secondo Hobbes, è possibile ricavare lo stato di natura dall’ipotesi di dissoluzione politica dello Stato, una sorta di annihilatio civitatis per cui è posibile fare astrazione dal’insieme dei rappoti giuridici che sono propri della società civile. Il risultato di tale operazione mentle non è una determinata situazione storica, piuttosto, la determinazione di uno stato potenzialmente distruttivo dell’umanità. Lo stato di natura è infatti prospettato come una situazione di piena libertà, al di fuori di ogni protezione e condizionamento istituzionali, in cui si esplica senza freni la ricerca dell’utile. E’ il regno del “bonus sibi”, del diritto di natura, lo ius naturale, a cui fa rimando la potenziale aggressività\guerra di tutti contro tutti. Si impone quindi la necessità di una legge naturale (dettame delle retta ragione- frutto di un calcolo delle possibilità di autoconservazione) che consenta ad ognuno di poter vivere nella pace. La ricerca delle migliori condizioni per tutti affinchè possano vivere nella pace. Ricerca che però non è coercitiva: la legge naturale vincola l’individuo nella coscienza, ossia in 34 foro interno, non costituendo un obbligo vinvolante in assoluto. Nel diritto di natura non è quindi possibile mantenere la pace ed assicurare la conservazione della vita. Solo traducendo l’esigenza di pace nella costitutzione di un corpo politico è possibile tale traguardo: il contratto è lo strumento, per Hobbes, con cui ogni individuo si obbliga (mediante un accordo), nei confronti di tutti, a sottomettere la propria volontà a quella di un unico ed identico individuo o consiglio, così che la volontà di costui esprima la volontà di tutti. Lo Stato risulta essere quindi una necessità, sebbene nato per decisione, come atto di volontà. Stato che si identifica in un Sovrano, detentore del potere che esprime la volontà di tutti. Ora, il Sovrano, detentore del potere comune, esercita un diritto naturale (cui egli non rinuciato poichè non è un contraene del patto), reso efficace dalla rinuncia di gli altri al proprio. In particolare il Sovrano esrecita un potere coercitivo nei confronti dei singoli, esercizio esclusivo ed irresistibile. Potremmo dire che il potere della spada e quelo legislativo sono quindi inscindibili. _ËtÇ|Åt Nel 1964 Locke pubblica una seconda edizione del saggio sull’intelletto umano in cui l’autore distrugge la concezione dell’anima: l’anima non può quindi essere considerata un nocciolo d’oliva (Rilke) – sostanza di un essere razionale Boezio). In effetti, la sostanza per L. non è nient’altro che una collezione di idee semplici. Dire che l’anima è una sostanza a cui non fa capo nulla euivale a dire che nulla sorregge qualcosa come l’anima o l’essere un qualcosa. Piuttosto l’identità personale è affidata al tempo: un flusso temporale senza consistenza il cui filo si può interrompere. In particolare, la mia identità non dipende dal corpo bensì dalla coscienza che non si trova in un sostrato inafferrabile ma attraverso il presente si collega al passato ed al futuro. L’identità esprime questa nostra capacità di sentirsi presenti a noi stessi, un qualcosa di intuitivo . La nostra coscienza è allora qualcosa di intermittente e sfuggente, le nostre idee sfuggono, sono caduche, e quindi la nostra coscienza è frutto di lavoro di rinnovamento delle loro idee, sebbene non tutti riescano a rinnovare l’impianto ideativo della coscienza. Xwâvté|ÉÇx x àÉÄÄxÜtÇét Il senso del valore dell’educazione lockiana non è un richiamo al valore dell’educazione nobiliare, alla ristrettezza del cerchio formativo, bensì al continuo processo di autoformazione a cui l’uomo libero può e deve dar corso. Ed è questo corso della vita, questo progresso che dà il senso della propria umanità, mai fissata in uno stato. Cresce attraverso il lavoro su di sè, il sapere ed il controllo. Una costruzione dell’animo umano slegato dalla dimensione sostanzialistica ed ipostatica, soggetto ad interruzioni e dimenticanze, che abbisogna di lavoro e sapere pe elevarsi alla propria autonomia. Locke è anche il precurore del pensiero liberale: l’individuo è a cenro della vita politica. Un centro su cui lo stato, diversamente da Hobbes, non esercita alcun particolare controllo. Un soggetto quindi non assogettato al controllo dello stato, non un suddito. Un singolo potremmo dire che secondo i valori della tolleranza può permanere all’interno di una società che riconosce il valore dell’individualità. 35 [âÅx La logica humiana inizia con una accuratissima59analisi dell’origine delle nostre idee, che egli riconduce, insieme alle impressioni, sotto il nome comune di percezioni: “Io chiamo percezione tutto ciò che può essere presente al nostro spirito, sia che usiamo i sensi, siamo animati da passioni ; esercitiamo il nostro pensiero e la riflessione.” Percezioni quindi come: sensazioni(sensazione dolorosa di un corpo caldo a contatto con la mia pelle) e passioni in quanto impressioni immediatamente presenti ai nostri sensi; idee in quanto mediatamente (ricordo di quel dolore) presenti quali ricordi di quelle sensazioni e passioni. Impressioni ed idee sono della stessa natura, solo differiscono per “forza”(debole\forte). In questo senso Hume delinea già il suo radicale empirismo: nessuna impressione cade al di fuori dell’ambito60 dell’esperienza.61 Peraltro nessuna idea ha altra origine se non da quelle esperienze. Le impressioni sono classificate da Hume sia rispetto alla loro articolazione interna, che alla loro origine. Nello specifico: 1) articolazione interna: complesse (Idea di ippogrifo) \semplici ossia più o meno scomponibili in impressioni elementari (cavallo e uomo); 2) origine: sensazione\ riflessione; le prime corrispondono alla prima esperienza di qualcosa, ossia derivano dai sensi, mentre le seconde sono derivate dalle idee che le impressioni di sensazione hanno generato . In ordine poi al significato di “Idea” esso in Hume è mutuato da Cartesio come sinonimo di rappresentazione; idee ed impressioni vanno poi a formare le percezioni dell’esperienza. Si badi poi che Hume non classifica tutti i contenuti mentali con il termine “Idea”, ma solo quelli derivati da impressioni, in forma diretta o meno. Vediamo: “le idee semplici sono considerate da Hume copie delle impressioni e da ciò deriverebbe la loro incapacità die eguagliare quest’ultime in vivacità62”. Le idee semplici 59 L. Geymonat, Garzanti, Vol. III, pag. 129 e sgg. 60 Ibidem. 61 Ibidem, pag. 396 e sgg. 62 Ibidem. Comment [WU47]: Il termine “impressione” indica letteralmente ciò che si “preme dentro”, qualcosa che lascia un segno. In Hume, l’impressione è una percezione empirica caratterizzata da forza e vivacità – il primo apparire di una percezione – che si fissa nella mente. Tali impressioni possono essere richiamate, nel qual caso danno luogo ad idee, perdendo la primitiva vivacità. Comment [WU48]: “Le impressioni sono la causa delle idee e non viceversa” Comment [WU49]: Con “esperienza” in genere ci riferiamo all’esperienza sensibile dell’atto conoscitivo o anche la percezione diretta degli stati interni.In Hume, essa indica : La fonte di tutti i contenuti mentali, le percezioni, suddivise in impressioni ed idee; L’unica realtà certa, poichè le nostre facoltà non consentono il alcun modo di oltrepassare i limiti delle percezioni che sono la sola cosa di cui essere sicuri. 36 derivano sempre da impressioni semplici: le idee derivano quindi logicamente e temporalmene dalle impressioni. Diversamente, per le idee complesse, alcune non hanno un corripondente nelle impressioni : alcune idee complesse, quella ad esempio di una città ideale, non ha una corrispettiva impressione. In questo senso Hume indaga quale sia il processo che porta una impressione a trasformarsi in Idea: 1) la memoria conserva la primitiva vivacità dell’impressione; 2) l’immaginazione, diversamente, opera una libera trasposizione della sequenza delle impressioni o delle idee. \wxx áxÅÑÄ|v| xw \wxx vÉÅÑÄxááx Ora, secondo Hume, le Idee complesse che si vengono a creare seguendo i criteri esposti da Hume, sono suddivise in Idee di : 1) modo: connessioni deboli di causalità e contiguità tra idee semplici non riferite ad oggetti per sè sussistenti ma dipendente da una sostanza di cui è determinazione; 2) relazione : l’idea si forma grazie al confronto o al richiamo di un’altra idea; in particolare l’idea di relazione si forma grazie alla: somiglianza, contrarietà, grado di qualità, proporzione di quantità o di numero, identità, posizione spazio\temporale, causalità tra idee semplici; 3) sostanza: strette connessioni di causalità e contiguità tra idee semplici in riferimento ad una presunta sussistenza degli oggetti corrispondenti. Tali Idee complesse63 si originano grazie a fattori di : somiglianza : di natura estetica, un quadro che raffigura una persona; contiguità spazio temporale: un quartire di una città ci porta a pensare alla città; causalità: il figlio che ricorda il padre, un oggetto che ne muove un altro, etc.. 63 Le idee, per quanto siano «composte ed elevate» si risolvono in idee «così semplici da essere copia di una precedente sensazione o sentimento», anche l’idea di Dio in quanto «Essere infinitamente intelligente, sapiente e buono» (sez. 2). Hume individua tre principi di connessione fra le idee («principles of connection»), le cosiddette leggi di associazione: somiglianza («resemblance»); contiguità nel tempo o nello spazio («contiguity in time or place»); causa o effetto («cause or effect» sez. 3 Comment [WU50]: In genere il termie “immaginazione” indica la capacità di costruire immagini ossia la facoltà di costruire\rappresentare cose non presenti alla sensazione. In Hume indica una delle due facoltà responsabili della associazione di Idee. Essa opera mediante alcune regole: somiglianza, contiguità, causalità) Comment [WU51]: “Anche nelle fantasticherie più sfrenate e vagabonde, anzi negli stessi sogni, troveremo se riflettiamo che l’immaginazione non corre del tutto a caso, ma che viene sempre mantenuta una connessione fra le diverse idee, che si succedono l’una all’altra” Hume 37 \wxx âÇ|äxÜátÄ| Hume tratta anche il tema della formazione delle cosiddette Idee generali: in relazione alla formazione delle di ordine generale, Hume afferma che “tutte le idee generali, non son altro che idee particolari congiunte ad una certa parola, che dà loro un significato più esteso e occorrendo, fa sì che ne richiamino altre individuali simili a loro”. Le idee generali, per Hume, sono solo delle copie delle impressioni sensibili da cui traggono origine empirica. In effetti le impressioni sono sempre particolari per cui anche le idee devono essere sempre particolari. Se è così, i meccanismi o le modalità che consentono la formazione delle Idee generali sono senz’altro, per Hume l’immaginazione e l’abitudine. Grazie a questi aspetti di origine psicologica e non logica, è possibile astrarre e generalizzare, dando così un unico nome ad oggetti simili, grazie alla loro somiglianza. Si genera così, in seguito, l’abitudine a considerare quegli oggetti come una classe\insieme di cui è sempre possibile fare un esempio tipo: un’unica casa per tutte quelle possibili, un unico uomo per tutti gli uomini possibili. Tale operazione è però indebita per Hume, visto che l’Intelletto non è sicuramente in grado di considerare e comprendere tutti i diversi oggetti di un sigolo insieme. Si pensi, ad esempio, all’idea di sostanza, derivata dalla osservazione di una serie di proprietà costantemente congiunte riferite idealmente, mediante associazione, ad un unico sostrato: la sostanza. La mente dunque, ritiene di poter attribuire questa serie di proprietà osservate con contiguità ad un unico sostrato, a cui quelle proprietà idealmente appartengono. Eppure per Hume non è possibile trascendere l’esperienza, poichè quest’ultima fornisce solo idee del particolare, mentre le operazioni di astrazione, che consentono il formarsi l’idea di sostanza sono inverificabili64. Analoghe considerazioni vanno fatte per la sostanza spirituale - l’Io – che non è altro che un fascio o una differente collezione di percezioni differenti, sussegentesi con rapidità. Mediante l’associazione, la mente confonde la semplice successione delle singole percezioni, contigue e relazionate causalmente, con la loro inerenza ad un medesimo oggetto: una sostanza che permane identica al mutare di esse ossial l’Io.65 Responsabile di questa confusione tra relazione ed identità è soprattutto la memoria, che conferisce al ricordo una presenza a percezioni simili del passato, creando una illusione di contiguità. 64 L. Geymonat, Cit. pagg 399 e sgg. 65 Ibidem. 38 _:|wxt w| vtâát Nelle sezioni 4-7 del trattato humiano sull'Intelletto, l’analisi gnoseologica si incentra sulla relazione causa ed effetto. Come già espresso precedentemente, l'idea di causa ha le sue basi nell’esperienza e non: • • nell’identificazione dell’essenza delle cose ; nell'identificazione della mente. Essa può essere spiegata, relativamente all’esperienza umana, descrivendo le leggi che ne regolano il funzionamento. Diversamente da quanto avviene nella logica o nella matematica, ove le conclusioni sono tratte a prescindere dall’esperienza, l’applicazione della relazione fra causa ed effetto viene impiegata in merito all’esperienza come capacità di previsione (di determinati effetti a partire da determinate cause) in modo «istintivo», ossia mediante un’«abitudine» che porta ad aderire a una tesi senza avere soppesato razionalmente i pro e i contro, in base a processi mentali associativi. In tale prospettiva la radice del nesso causale, su cui si incardinano le spiegazioni razionali della scienza, è identificata nell’abitudine (habit) e nell’istinto, e assume la forma della «consuetudine»66 (custom; «la consuetudine è la grande guida della vita umana»). In effetti Hume si interroga sul senso delle conseguenze esperite nel rapporto con le cose: il cibo sfama, il fuoco brucia. Ora, che un evento B segua ad un determinato evento A è necessario? Non vi è infatti alcuna contraddizione a supporre che il corso della natura abbia a cambiare e che un evento simile a quello sperimentato possa essere seguito da un evento differente67. Il pricipio di causalità è dunque una congettura: la sue è una evidenza psicologica e non logica: l’abitudine alla percezione delle serie di eventi sperimentati è il fondamento psicologico del principio di causalità. La consuetudine regola l’esperienza anche in ambito morale – sullo sfondo dell’alternativa fra libertà e necessità – rispetto alle aspettative circa il comportamento dei propri simili, e costituisce il fondamento dell’indagine sull’etica e sulla politica (sez. 8). Hume estende l’analisi alla possibilità di proiettare l’evidenza nel passato e nel futuro, e alla necessità di ovviare ai pericoli che sorgono, sul piano della conoscenza, dalla superstizione, dal fanatismo e dall’entusiasmo, mediante la spiegazione empirica della relazione fra causa ed effetto (sez. 9). 66 67 Treccani on line. Severino, cit. pag. 233 e sgg. 39 ^tÇà L’empirismo si può ritenere come una forma di coerentizzazione dell’assunto di fondo della modernità: l’intrapassabilità del soggetto intesa come intrapassabilità della rappresentazione. Hume, in particolare, coerentizza tale assunto colpendo non solo la presunta oggettività del mondo reale ridotto a rappresentazione, ma colpendo anche la stessa nozione di soggetto ridotto anch’esso a mera rappresentazione. Ma cos’è in buona sostanza la rappresentazione? O meglio qual è la sua origine? Non è possibile trovare nella rappresentazione stessa la risposta. E comunque anche questa risposta sarebbe sempre una nuova rappresentazione. Si tratta insomma di dare una risposta alla domanda su come la rappresentazione possa incontrare veramente le cose: Cartesio risponde elaborando la tematica razionalistica di Dio, (ma anche Spinoza); Locke ed Hume diversamente (Empirismo) si affidano alla costitutiva incertezza della conoscenza empirica sino a pervenire a posizioni scettiche. Ora, come mai gli esiti del Razionalismo non sono univoci? Come mai gli esiti di un modello quale quello matematico\razionalista non sono univoci? Dovremmo avere un metodo, secondo i razionalisti, (si pensi al problema del metodo in Cartesio ed alla tematica spinoziana more geometrico) per cui da verità semplici dovremmo pervenire ad un unica risposta: Cartesio parla di due sostanze: l’estensione governata dal meccanicismo, mentre il pensiero è goveranto dal libero arbitrio. Poi Cartesio parla anche di una realtà spirituale, ma come comunicano queste sostanze? Spinoza parla di una unica sostanza, che funziona in termini meccanicistici; Lebniz parla di infinite sostanze quali le Monadi, con una concezione finalistica dell’uninverso: questo è il migliore dei mondi possibili. Per altro verso, gli stessi empiristi si resero conto che, ad esempio, la nozione di sostanza e di causa erano problematiche, e non fondate sull’esperienza. Ora, la domanda che Kant si pone a questo punto del suo cammino filosofico, sulla base dei risultati raggiunti dal Razionalismo e dall’Empirismo è la seguente: VÉát ÑÉááÉ vÉÇÉávxÜx? O meglio, è possibile una metafisica che proceda allo stesso modo delle scienze empiriche, nella misura in cui esse approdano a nuove conoscenze? Per altro verso68, le scienze empiriche fanno uso di nozioni che non derivano dall’esperienza (sostanza, causa). L’analisi degli empirisi portava infatti a questa conclusione condivisa da Kant. Quand’anche però, dovessimo farne uso, ammesso sia lecito, siamo sicuri che esse ci autorizzino a 68 Presentazione di Gianni Serino della riflessione kantiana. Comment [WU52]: In essa, la metafisica, si deve innumerevoli volte rifar la via, poichè si trova che quella già seguita non conduce alla meta.E quanto all’accordo dei suoi cultori nelle loro affermazioni, essa è così lontana dall’averlo raggiunto che è piuttosto un campo di lotta: il quale par proprio un campo destinato ad esercitare le forze antagoniste, in cui memmeno un campione ha mai potuto impadronisri della più piccola parte di terreno e fondare sulla sua vitttoria un durevole possesso. Non v’è dunque alcun dubbio, che il suo procedimento sia stato sinora come un proceder a tentoni e quel che è peggio tra semplici concetti. Critica della Ragion Pura, Prefazione 40 parlare di Dio, dell’Anima?69 E se dovessimo scoprire di non poter andare oltre l’ambito dell’esperienza, che senso hanno le nostre domande? Ancora: alcuni argomenti filosofici, in riferimento ad aspetti che vanno oltre l’esperienza, sembrano essere condivisibili e convincenti (prova ontologica; argomento cosmologico). Qual è il loro reale valore? La risposta di Kant è la formulazione di una Critica della Ragion Pura: ragione pura ossia indipendente dall’esperienza. _t vÉÇÉávxÇét In prima battuta, possiamo dire che con Kant, la filosofia moderna compie una svolta radicale: le cose in se stesse, esterne ed indipendenti dalla conoscenza umana non possono essere conosciute. Nel senso che qualsasi cosa di cui si parli, cade sempre nell’ambito del conoscere e del soggetto, della rappresentazione, per cui non puo mai essere conosciuto come veramente è. In effetti, Kant ritiene che sia un dogmatismo pensare che le cose in se stesse possano esser conosciute come realmente sono: come è possibile insomma uscire dal conoscere mediante il conoscere? In altre parole Kant ci avvisa dei limiti insiti nella ragione, in questo consiste il suo criticismo. Contemporaneamente, proprio questa insuperabilità consente a Kant di affermare la centralità del soggetto nel processo conoscitivo, facendo sfumare la contrapposizione tra soggetto ed oggetto tipica della gnoseologia moderna: il soggetto è piuttosto responsabile delle forme assunte dagli oggetti del conoscere. Per altri versi, in quanto ogni soggetto è razionale, è affetto da razionalità, allora tutti i soggetti condividono la medesima struttura conoscitiva: il conoscere è quindi universale e necessario. Si tratta allora di indagare come, in quale modo la conoscenza accada, si strutturi: tale indagine è trascendentale in quanto individua il fondamento del conoscere. È la fine della parabola del soggetto: la tendenza della filosofia moderna ad essere una filosofia del soggetto si compie con Kant che ne afferma l’insuperabilità, sebbene la finitezza. 69 Ibidem. Comment [WU53]: Cartesio direbbe dall’ordine delle Idee o essere oggettivo all’ordine dell’essere formale. Comment [WU54]: La rivoluzione scientifica in atto nel seciento e settecento porta ad una considerazione nuova: la sensazione che quanto era stato detto nel passato doveva essere sostituito con un sapere nuovo. Tale sapere porta anche a mettere a tema il problema dell’errore, ossia del pensare a come sino ad allora si sia potuto essere in errore su quanto affermato, sulla interpretazione del mondo fisico, una critica radicale della tradizione. Quale può essere la garanzia del superamento dell’errore? Da un lato : una risposta possibile di tipo scettico conduce ad affermare che i sensi e la ragione ci ingannano; dall’altro, una risposta possibile, ritiene che noi possiamo cadere in errore in quanto non usiamo correttamente le nostre facoltà conoscitive: facoltà che devono essere utilizzate correttamente mediante un metodo che ci obbliga ad indagare quale sia la fonte\origine della nostra conoscenza. Il Razionalismo e L’Empirismo cercano di fornire una risposta a questo tipo di problema. Ora, se pensiamo a Galileo, il fondatore del metodo scientifico della scienza moderna, Egli affermava, ad esempio, di dover proceder per sensate esperienze e necessarie dimostrazioni.Il Razionalismo(Cartesio, Spinoza) assolutizzava il tema delle necessarie dimostrazioni (modello di scienza da applicare al sapre filosofico: matematico metodo deduttivo a partire da verità evidenti – come la geometria euclidea. Una evidenza era costituto dal tema delle idee innate), mentre l’Empirismo (Locke, Berkeley, Hume) assolutizzava l’altro: le sensate esperienze ( modello da applicare al sapere filosofico: scienze sperimentali – metodo induttivo a partire dai dati dell’esperienza: non esisitono idee innate) 41 VÜ|à|vt wxÄÄt Ütz|ÉÇ ÑâÜt 1) Dottrina trascendentale degli elementi70: 1a Estetica trascendentale71 1bLogica trascendentale72:1b1Analitica trasce.le73 1b2Dialettica trasce.le74 2 Dottrina trascendentale del metodo75 70 71 72 73 Parte più ampia dell’opera: condizioni a priori relative al funzionamento delle varie facoltà conoscitive. Analizza le condizioni a priori dell’operare della sensibilità: intuizioni pure di Spazio e tempo. Analizza le condizioni a priori dell’azione dell’intelletto (categorie). Uso legittimo delle forme a priori dell’intelletto. 74 Presenta le illusioni derivanti dall’uso illegittimo delle categorie e la funzione delle idee della ragion pura. Il termine dialettica assunse un significato negativo in Aristotele, che, analizzando le varie forme dell’argomentazione nella sua «analitica», riservò alla «dialettica» la considerazione delle forme argomentative imperfette, perché prive di rigorosa necessità; e analoga svalutazione tornò a manifestarsi in I. Kant, che dopo aver studiato nell’«analitica trascendentale» il retto uso delle categorie nell’esperienza, considerò nella «dialettica trascendentale» gli errori e le antinomie a cui l’intelletto andava incontro quando pretendeva di valicare i limiti dell’esperienza possibile. Gli idealisti postkantiani tornarono invece a dare valore massimo alla d., in cui videro la forma fondamentale non solo del pensiero ma anche della realtà. J.G. Fichte fece corrispondere il processo dialettico, articolato nei tre momenti della tesi, dell’antitesi e della sintesi, allo sviluppo teleologico dell’Io che, essendo un atto, deve limitarsi distinguendosi dal non-Io, e poi superare via via le contraddizioni che incontra, determinando esso stesso il non-Io, in modo pratico. F. Schelling affermò l’importanza della d. per il superamento dell’antinomia tra l’assoluto e le forme finite. G. Hegel, introducendo nell’assoluto il divenire, portò a perfezione la d., quale schema dell’essere, che dispiega, per mezzo della negatività, le sue determinazioni e poi raccoglie in sé tale sviluppo. 75 Cosidera l’applicazione dei vari elementi della conoscenza descritti nella prima parte e propone un piano di incremento del sapere tenendo conto dei confini che la conoscenza non può oltrepassare. Comment [WU55]: il termine estetica deriva dal greco àisthesis, col significato di sensazione, sentimento. In Kant, nella Critica della ragion Pura, l’Estetica costituisce la prima parte dell’indagine sulla conoscenza: l’operare della sensibilità, realizzata mediante la sintesi di elementi a posteriori - i dati sensibili – mediante le intuizioni pure di spazio e tempo . La seconda accezione compare nella critica del giudizio: fa riferimento al sentimento, quel giudizio riflettente che espriem un sentimento di piacere o dispiacere nei confronti fi un oggetto, attribuendogli la “bellezza”. Comment [WU56]: “ ’intelletto” è un termine di origine medioevale, utilizzato nella scolastica per tradurre il greco nous in opposizione a dianoia – ragione. Secondo Platone l’intelletto designa la capacità di conocenza pura e non ipotetica, di carattere intuitivo, che consente l’accesso alle idee. Nel XVII secolo, con Locke, la distinzione intelletto \ragione sfuma, per designare generalmente la facoltà di conoscere. Kant invece torna, a differenziarne l’uso: ragione e sensibilità sono aspetti differenti dall’intelletto. L’intelletto è attivo ossia pensa, a differenza della sensibilità che riceve i dati; La conoscenza intellettuale è di tipo mediato e concettuale: in questo senso l’intelletto è dotato di forme a priori, i concetti o categorie, di per sè vuote, che abbisognano dell’apporto della sensibilità; le forme operano una sintesi dei dati esperienziali. La conoscenza intuitiva è quindi preclusa all’uomo in quanto solo con la sintesi intellettuale si ha conoscenza; La ragione differisce dall’intelletto: l’intelletto si occupa, la ragione aspira a conoscere la totalità della realtà in sè.La ragione dunque ha pretese superiori allo intelletto anche se solo quest’ultimo conduce alla conoscena scientifica. Cfr. Geymonat, cit. pag. 628 42 YxÇÉÅxÇÉ x ÇÉâÅxÇÉ Fenomeno è per Kant il contenuto del conoscere o per meglio dire il fenomeno è rappresentazione. In altri termini nella misura in cui fenomeno è tale esso appare, si manifesta. Se è così allora esso deve necessariamente rimandare a qualcosa che in esso appare.76 Ma il qualcosa cui rimanda il fenomeno non è il contenuto del fenomeno, ma ciò che sta al di fuori del fenomeno. Semmai il contenuto del fenomeno è rappresentazione. 77 Il fenomeno è dunque apparenza, rappresentazione, e rimanda inevitabilmente all’esistenza della cosa in sè: anche se la cosa in sè non può essere conosciuta, semmai pensata in modo negativo come appunto qualcosa di in-conoscibile. Eppure le cose in se stesse modificano lo spirito o meglio la facoltà dello spirito che Kant chiama sensibilità: il risultato di questa modificazione costituisce l’insieme delle rappresentazioni sensibili ossia delle sensazioni. Ma di nuovo le rappresentazioni non corrispondono alle cose in sè.78 In altre parole, le cose in sè possono apparire all’interno di noi stessi solo come fenomeni. Le cose in sè esercitano insomma un’azione sul soggetto che, in quanto sensibilità, riceve dalla cose in sè il cosiddetto molteplice empirico. In sintesi, la cosa in sè, in anche se indipendente dalla sensibilità, è immediatamente rappresentata nella sensibilità come fenomeno. 76 77 78 Severino, cit. pag. 157. Ibidem. Ibidem. Comment [WU57]: La filosofia moderna, sino a Kant compreso, continua a tener fermo il principio che la realtà vera e propria esiste esternamente ed indipendentemente dal pensiero, ma a cominciare da Cartesio mette in rileivo che il contenuto del pensero, ossia tutto ciò che il pensiero pensa, e quindi l’intera realtà che ci sta davanti,è appunto un pensato, cioè Idea, rappresentazione umana, l’essere oggettivo di Cartesio, il fenomeno di Kant. Il contenuto del pensiero non è quindi la realtà vera e propria che esisite esternamente ed indipendentemente dal pensiero. (...) Kant come Cartesio ed Aristotele, ritiene dunque che esternamente alla coscienza esitano le cose in sè. Anche il fenomenismo kantiano è dunque un realismo. La Res,la cosa, è indipendenterispetto al conoscere anche se la realtà esterna di cartesio non è quella di Locke, di Leibniz, Kant. Severino, Cit. pag.203 e sgg. Comment [WU58]: fenomeno - realtà che appare nella coscienza - significa ciò che appare nel nostro modo di rappresentare, a cui deve corrispondere qualcos’altro che da ultimo non può essere a sua volta fenomeno bensè cosa in sè, del tutto indipendente dalla soggettività umana. Comment [WU59]: D’altro lato, è possibile affermare anche la tesi opposta: se la cosa in sè non è conosciuta dal pensiero è però possibile affermare che la cosa in sè è pensata ed aperta al conoscere: se la cosa in sè è concepita allora essa non è in sè. Una affermazione contraddittoria sembra. Ancora, la relazione tra cosa in sè e pensiero non è una relazione tra cose diverse ma tra cosa e pensiero: e solo nel pensiero le cose appaiono come tali. 43 In effetti, la filosofia moderna ha in comune con la tradizione filosofica anche il principio della “recettività” o passività del soggetto rispetto alla realtà esterna. Realtà attiva sull’apparato percettivo del singolo. Apparato inteso da Cartesio come sensibilità o meglio per Cartesio la sensazione è idea, effetto di una causa esterna, la causa agente di Aristotele, che rimanda\rivela la causa: l’effetto rivela la causa. 79 Eppure l’effetto non è la causa (ossia nell’effetto non è presente la natura della causa, la sua pensabilità) per cui la sensazione occulta anche la natura della causa. Cartesio ritiene che sia possibile gaudagnare questa causa agente mediante il ragionamento : Razionalismo cartesiano . Come dire che la costruzione del sapere certo, inconcusso, va ricercata in principi non attinti dall’esperienza. Principi a priori ed innati – idea innata di Dio; principio ex nihilo nihil– che consenta di guadagnare la realtà. Un ponte che consenta di ri-guadagnare quella realtà occultata dall’esperienza sensibile: dalle nostre rappresentazioni alla realtà. fxÇá|u|Ä|àõ x |Çàâ|é|ÉÇx In Kant, secondo il concetto di sensibilità kantiano, l’oggetto è intuito: “senza sensibilità non ci sarebbe dato nessun oggetto, senza intelletto nessun oggetto sarebbe pensato”. Il rapporto tra conoscere ed oggetto del conoscere che è dato, offerto al soggetto, è l’intuizione: tale rapporto è di natura immediata. Dice Kant: nella sensibilità gli oggetti mi sono dati. La sensibilità peraltro, il materiale sensibile, riceve un ordine, una forma dallo spirito secondo Kant: la sensazione è quindi aperta alle cose in sè mentre lo spirito è la stessa struttura del soggetto conoscente che in-forma il materiale sensibile. La forma, in altre parole, non è sensibilità bensì un a priori presente strutturalmente nello spirito. Tali forme, restano, permangono, a prescindere dalla 79 Ibidem. Comment [WU60]: Facciamo un ragionamento: supponiamo di percepire una palla di biliardo A, in movimento verso una palla B. Se ci vienen fatta la richiesta : Stabilire quale effetto si produrrà quando A toccherà B; Rispondere a questa domanda senza basarsi sulle osservazioni fatte in passato a proposito di situazioni analoghe. Noi possiamo solo rispondere, inventando una possibile risposta, sia cha A toccherà B, sia che non toccherà B. A priori insomma non possiamo affermare nulla di preciso, mentre solo a posteriori possiamo dare una risposta precisa. Quindi la relazione di causa\effetto, per Hume questo, è interamente fondate sull’esperienza. La realazione però di cui stiamo parlando non è di tipo logio ma psicologico e quindi non dimostrabile nè necessaria.E’fondata infatti sull’abitudine pregressa dell’esperienza e non c’è nulla in A, come causa, che ci possa dire cosa accadrà a B. 44 sensibilità e da ogni aspetto empirico dell’esperienza: proseguendo in questo ordine di ragionamenti, ciò che resta alla fine di ogni esperienza sensibile e che caratterizza tutte le esperienze, è l’aspetto spaziale e temporale di ogni esperienza. Ogni esperienza si struttura secondo il prima e il dopo, il lontano e il vicino, il distante. Ma tali dimensioni, lungi dal portarci alla conoscenza delle cose e degli oggetti, lungi dal portarci ad entrare nelle cose che restano in sè (diversamente da Cartesio), al di là del conoscere, ci portano nello spirito del soggetto: spazio e tempo sono infatti forme a priori dello spirito. Eppure si dirà, gli oggetti sono rappresentati fuori di noi, dimensione spaziale: ma di nuovo ciò che è rappresentato come fuori\dentro, durevole\transitorio, senso interno\esterno è tale nella misura in cui cade internamente alla costituzione dello spirito. Come dire che ogni volta che distinguo tra dentro e fuori, vicino e lontano è già all’opera la condizione di possibilità di questa dintinzione: spazio e tenpo alla fine sono intuizioni pure ossia non sono concetti pensabili ma intuibili. Ora, cosa intende Kant con “intuizione”? E’ opportuno sottolineare come per Kant l’intuizione abbia una funzione discriminante. Si tratta di comprendere come per Kant la distinzione tra un fenomeno e un altro sia possibile per l’intuizione della loro differenza, riferendoli ad un qui ed ora, appunto spazio\tempo. Senza il qui ed ora la conoscenza non è tale. Ancora, posso pensare uno spazio vuoto ma non, per Kant, un oggetto che non sia nello spazio così come posso pensare ad un tempo vuoto ma non ad un oggetto che non sia nel tempo. Di più, esiste un unico spazio e non più spazi o più tempi. Non pensiamo mai a molti spazi\tempi, in realtà parliamo di una partizione di un unico spazio: non sono oggetti. In misura ancora maggiore spazio e tempo sono intuiti come infiniti mentre in generale i concetti non sono infiniti (certo può raccogliere sotto di sè infiniti oggetti). Spazio e tempo sono quindi pre-condizioni della sensibilità. fÑté|É x àxÅÑÉ Due rette, secondo Kant, non possono chiudere uno spazio80. Ciò significa per Kant che tale affermazione è intuita, anche una sola volta, in modo universale e necessario: “Come dunque può essere nello spirito una intuizione pura che preceda agli oggetti stessi e nella quale il concetto di questi possa essere determinato a priori? Evidentemente solo ad un patto, che essa abbia una sua sede solo nel soggetto, come sua disposizione formale ad essere modificato dagli oggetti e a conseguire per tal modo una loro una immediata rappresentazione, cioè l’intuizione, dunque soltanto in quanto forma del senso esterno in generale”. Critica della ragion pura, estetica trascenedentale, §3. In questo senso, lo spazio come forma a priori, ed in quanto a priori, consente la fondazione della geometria nella misura in cui tale intuizione condiziona inevitabilmente qualsiasi percezione sensibile di oggetti Nello spazio. Il tempo, similmente, consente la fondazione della meccanica pura: modo rettilieo uniforme, 80 Presentazione di Gianni Serino sulla riflessione kantiana. 45 accellerato, etc.. Anche l’aritmetica si fonda sul tempo (Prolegomeni). Il numero si basa infatti sul tempo: una qualsiasi quantità, cinque cigni, ancora non li associo ad un numero. Per pensare la quantità devo contare. Ora, per contare abbisogno del tempo: prima l’uno e così via. Certo il concetto di numero non si fonda solo sul tempo. (La critica della Ragion Pura non menziona esattamente il fondamento del numero). Z|âw|é| á|Çàxà|v| x tÇtÄ|à|v| Scrive Kant: “ogni nostra conoscenza comincia con l’esperienza, ma sebbene ogni nostra conoscenza comincia con l’esperienza, non perciò essa deriva tutta dall’esperienza. Infatti potrebbe essere benissimo che la nostra stessa conoscenza empirica fosse un composto di ciò che riceviamo dalle impressioni e di ciò che la nostra facoltà di conoscere vi aggiunge da sè”. Ma cosa ci deriva dall’esperienza? Come distinguiamo quali derivano dall’esperienzae quali no? Ora, secondo Kant alcune conoscenze sono a posteriori, empiriche, altre sono a priori:le seconde, quelle a priori sono universali e necessarie; viceversa quelle empiriche particolari e contingenti. In logica per necessario è cio che non può essere altrimenti: l’esperienza in genere ci dice che una cosa è così ma potrebbe essere anche altrimenti. Ma se invece affermo che una determinata cosa è necessaria allora la sola esperienza non mi basta: un aproposizione necessaria è quindi a priori. Una proposizione matematica, ad esempio, è una proposizione necessaria, non potrebbe essere altrimenti. Del resto l’esperienza può fondare tale proposizione? Possiamo rispondere che noi possiamo solo misurare qui ed ora, la somma degli angoli di un triangolo pari a 180°, ma l’esperienza non è in grado di fondare una proposizione necessaria. Il primo criterio proposto da Kant, la necessità, si rifà ad una modalità a priori. Per altro verso, l’esperienza non può mai consentire l’affermarsi di una proposizione universale: una semplice osservazione, o più osservazioni uguali, non posson mai portare ad affermare l’universalità di una affermazione. In conclusione, l’induzione ossia una osservazione ripetuta come uguale, non può mai portarci ad un giudizio (S è P) universale ma solo probabile. Una proposizione universale non può mai basarsi sull’esperienza, a priori e necessaria. Vediamo, Kant distingue tra due tipi di giudizi: analitici e sintetici: “Tutti i corpi sono estesi”, “Il Triangolo ha tre lati” sono esempi di giudizi analitici. Essi servono a spiegare meglio un determinato concetto che peraltro non estende le nostre conoscenze. L’altro gruppo di giudizi è quello di giudizio sintetico in cui il concetto espresso dal predicato non è intermente contenuto nel soggetto del giudizio per cui aumenta la nostra conoscenza. “Tutti i corpi sono pesanti” è un esempio di giudizio sintetico in cui la pesantezza aggiunge qualcosa al concetto di corpo. Sintesi tra due concetti distinti. 46 Ma i giudizi analitici sono a priori o posteriori? Nei giudizi analitici, il predicato è già “contenuto” nel soggetto per cui essi sono a priori, mentre i giudizi sintetici, basati sull’esperienza, sono a posteriori. Questa distinzione è però esaustiva? Leibniz distingueva tra verità di ragione e di fatto: distinzione analoga a quella kantiana, così come Hume distingue i giudizi che esprimono relazione tra idee con quelle che prevedono distinzioni di fatto. Ora la domanda che resta aperta è se áÉÇÉ ÑÉáá|u|Ä| z|âw|é| á|Çàxà|v| t ÑÜ|ÉÜ|? Kant risponde affermativamente: Kant propone un esempio: 7+5 uguale a12. Ora, Egli afferma che, similmente al ragionamento proposto sopra, nel concetto del numero sette io non trovo già il concetto del numero dodici . Non lo trovo neache nel solo concetto di somma. Che sette più cinque faccia dodici , al di là dell’esperienza del contare con le dita, è un giudizio che sebbbene si basa sull’intuizione, esprime un z|âw|é|É á|Çàxà|vÉ t ÑÜ|ÉÜ| e non a posteriori. La proposizione aritmetica è sempre sintetica per Kant. (si pensi alla somma di numeri molto alti). Anche le proposizioni geometriche – la retta è la linea più breve tra due punti - sono giudizi a priori, âÇ|äxÜátÄ|? ÇxvxáátÜ|x? á|Çàxà|v{xA _Éz|vt yÉÜÅtÄx x àÜtávxÇwxÇàtÄx Come i concetti puri, non derivati dall’esperienza possono riferirsi all’esperienza ossia ad oggetti? Nell’analitica trascendentale Kant si occupa di questo problema, per quanto articolata internamente in modo assai complesso: analitica dei concetti (filo conduttore per la scoperta dei concettipuri o categorie ) e dei principi. Kant definisce in primo luogo l’intelletto dintiguendolo dalla sensibilità intesa come facoltà discorsiva, attraverso giudizi: S è P. Secondo Kant la facoltà di giudizio, attraverso concetti empirici, unifica il molteplice intuito nella sensibilità. Il concetto di mela o di frutto sono derivati dall’esperienza anche se il concetto di causa o di sostanza non è derivato dall’esperienza. Ora esistono per Kant anche concetti puri, non desunti dall’esperienza. Tali concetti equivalgono alle categorie, sebbene con importanti distinzioni: esse sono funzioni unificanti che consentono di unificare la molteplicità delle intuizioni sensibili. Kant è convinto che Aristotele abbia cercato i concetti fondamentali, le categorie senza un vero e proprio ordine logico mentre la filosofia trascendentale ha il compito di elencare con ordine la lista dei concetti puri. Se le categorie sono concetti unificanti del molteplice ossia consentono di produrre giudizi, allora qualsiasi giudizio empirico è riferibile ad una categoria. Tutti i possibili giudizi dell’intelletto devono far capo alle categorie: conoscendo tutti i possibili giudizi dell’intelletto posso risalire alla tavola dei concetti puri che rendono possibili giudizi. I giudizi sono distinti per: ÖâtÇà|àõM âÇ|äxÜátÄ| ;ÉzÇ| å ¢ ç<? ÑtÜà|vÉÄtÜ| ;Xå ¢ ç;å<<? á|ÇzÉÄtÜ|Nå ¢ ç 47 ÖâtÄ|àõM tyyxÜÅtà|äÉ? Çxztà|äÉ? |Çy|Ç|àÉN å ¢ çN å ÇÉÇ ¢ çN å ¢ ÇÉÇ çN ÜxÄté|ÉÇxM vtàxzÉÜ|v|? |ÑÉàxà|v|? w|áz|âÇà|ä| M å ¢ çN áx å tÄÄÉÜt çN k É çN ÅÉwtÄ|àõM ÑÜÉuÄxÅtà|v|? tááxÜàÉÜ|? tÑÉw|àà|v|M å Ñâ´ xááxÜx çN å ¢ çN å wxäx xááxÜx çN Ogni tipologia di giudizio è applicabile, contemporaneamente, alle altre tipologie: nessun x è y, ad esempio, è universale, negativo e categorico, etc. Dai giudizi Kant ritene di poter dedurre le categorie: nell’ambito della qualità possiamo associare la categoria della realtà al giudizio affermativo; al giudizio negativo la categoria della negazione; al giudizio infinito la categoria della limitazione. Al giudizio categorico la categoria della sostanza; al giudizio ipotetico la categoria della causa; al giudizio disgiuntivo la categoria della azione reciproca, al giudizio problematico la categoria della possibilità; al giudizio assertorio la categoria dell’esistenza; al giudizio apodittico la categoria della necessità. Nell’ambito della quantità al giudizio universale Kant81 associa la categoria dell’unità; al giudizio della particolarità la categoria della pluralità; alla singolarità la totalità sebben tale ultima associazione risulti un pò problematica. Kant afferma che, in ordine alla associazione della categorie ai giudizi, la terza categoria deriva sempre dall’unione della prima categoria con la seconda e quindi, dall’associazione giudizi di quantità\categorie, troviamo in effetti che dalla categoria di unità associatà alla pluralità, deriva la categoria della totalità, anche se tale ordine delle categorie non riflette l’ordine dei gudizi. Altro aspetto delle categorie: distinzione delle categorie in due gruppi. Quantità e Qualità sono considerate da Kant, categorie matematiche ossia indirizzate ad oggetti dell’intuizione. L’intelletto, per Kant, mediante tali categorie costitutisce gli oggetti: unificazione in oggetto intuito (reale o meno). Le altre due categorie sono invece dinamiche: indirizzate all’esistenza degli oggetti dell’intuizione in rapporto tra loro o con l’intelletto. Ciò significa per Kant che le prime tre categorie (sostanza, causa, azione reciproca) sono indirizzate all’esistenza degli oggetti in rapporto tra di loro ossia consentono di individuare\determinare la tipologia di rapporti tra gli oggetti di esperienza - tra loro. Le categorie nell’ambito della modalità consentono di comprendere un oggetto, in rapporto all’intelletto, sia come possibile che come necessario. I concetti puri dell’Intelletto, non sono solo quelli di sostanza e di causa, come era forse possibile pensare all’inizio del percorso kantiano, ma ben dodici. Essi sono elencati nella Analitica Trascendentale e precisamente nell’Analitica dei concetti: deduzione trascendentale delle categorie. Con “deduzione “ però ci si deve riferire al linguaggio giuridico, vero tribunale della ragione. In altri termini, per Deduzione si intende l’argomentazione che, di diritto, e non in base all’esperienza, stabilisce che le categorie possano riferirsi ad oggetti. In questo senso, la Deduzione Trascendentale, 81 Prof. Serino, cit. Comment [WU61]: Nel linguaggio giurudico, i giuristi, quando parlano di facoltà e pretese, distinguono in una questione giuridica , quel che è di diritto (quid iuris), da ciò che si attiene al fatto (quid facti). Eseguendo la dimostrazione dell’uno e dell’altro punto, chiamano la prima, quella che deve dimostrare il diritto o anche la pretesa, DEDUZIONE.(Analitica Trascendentale, I,II,I,§ 13) Comment [WU62]: È necessario sapere altresì come questi concetti, ossia le categorie, possano riferirsi ad oggetti, mentre non traggono punto la loro legittimità dall’esperienza. Chiamo quindi deduzione trascendentale la spiegazione del modo in cui i concetti apriori si possono riferire ad oggetti. Analitica Trascendentale,I,II,I,§ 13. 48 risponde alla domanda sulla legittimità di utilizzare nozioni quali quelle di sostanza e di causa: nozioni non derivate dall’esperienza come suggerivano gli stessi empiristi. Per altro verso, stante la legittimità dell’uso di tali nozioni, quale uso posso farne? Ad entrambe queste domande risponde la trattazione della Deduzione trascendentale delle categorie. Ora, ogni conoscenza implica un processo di unificazione: i fenomeni intuiti, fanno capo ad una unificazione, ad un processo di unificazione e connessione dei vari oggetti della mia esperienza. Ma la sensibilità è un facoltà passiva mentre una altra facoltà, l’intelletto, unifica tutte le mie impressioni esperienziali. Comment [WU63]: Perchè non è necessaria una Deduzione trascendentale di Spazio e Tempo? Possiamo affermare che per Kant, le intuizioni sono impensabili senza spazio e tempo. E’ un dato di fatto. Le intuizioni sono impensabili senza Spazio e Tempo: sono condizioni a priori. E’ una evidenza, mentre le categorie, pur essendo condizioni a priori, esse sono condizioni a priori del pensiero, non delle intuizioni ed in questo senso non è scontato che esse si possano applicare ai fenomeni. _Ë\É cxÇáÉ In ordine quindi alle condizione di possibilità dell’esperienza, Kant cerca di rispondere ad una domanda fondamentale: come mai il molteplice fenomenico\empirico mi appare unitario? Detto altrimenti: come mai la mia esperienza è una esperienza? Kant risponde facendo appello ad una unità profonda della “coscienza ”: l’io penso. Secondo Kant: “l’unità di tale rappresentazione - io penso – la chiamo anche l’unità trascendentale dell’autocoscienza, per designare la possibilità della conoscenza a priori fondata su di essa”.82 Ecco che allora l’Io penso precede tutto l’ordine dei miei pensieri, conferendogli unità e stabilità. Una forma di sintesi del materiale sensibile che fa sì che io abbia una una coscienza, una esperienza. Ciò che però è di particolare rilievo non è tanto o solo l’elaborazione di una funzione sintetizzatrice ed unificatrice dela materiale empirico, aspetto peraltro ricco di conseguenze, quanto il riferimento di Kant ad un aspetto generale e non particolare del singolo individuo concreto. Kant parla dell’Io penso come coscienza in generale, come funzione in generale nettamente distinto e separato dalla precedente metafisica che cercava un fondamento del mondo empirico in una sostanza – Dio – natura – trascendente o immanente la singolarità umana. Si tratta insomma della ragione o meglio dell’Io come attività sintetizzatrice in via di progressiva attuazione. Una razionalità concreta che va realizzandosi nel mondo: l’Io come pensante l’esperienza concreta attraverso le categorie. Categorie presupposte da ogni oggetto intuito. Gli oggetti intuiti quindi sono costituti dall’Io penso attraveso le categorie, senza arbitrio, bensì dalle regole delle categorie. Ecco come e perche è è lecito applicare le categorie agli oggetti. Ancora, noi possiamo solo intuire gli oggetti in forma sensibile, tramite o grazie alla sensibilità (non siamo in grado di intuire qualcosa attraverso l’intelletto, non siamo in grado di intuire 82 Cfr. L. Geymonat, cit. pag. 588. Comment [WU64]: Senza la coscienza che quel che pensiamo è appunto quel medesimo che pensavamo un momento prima, ogni riproduzione della serie delle rappresentazioni sarebbe inutile. Infatti ci sarebbe una nuova rappresentazione nello stato presente, la quale non apparterebbe punto all’atto per cui essa ha dovuto essere prodotta poco a poco, ed il molteplice di essa non potrebbe mai costituire un tutto, perchè mancherebbe dell’unità, che può conferirgli solo la coscienza. Analitica trascendentale, I.II. Comment [WU65]: RISPETTO A CARTESIO, L’io penso non è solo la prima certezza bensì il fondamento di ogni conoscenza. E’ la condizione di possibilità di ogni nostro pensiero. D’altra parte, l’Io penso, non ci autorizza ad asserire l’esistenza di una res cogitans: è una funzione non una sostanza, un’anima. Non è nemmeno l’io empirico, condizionato dalle esperienze concrete. 49 direttamente le cose come sono): attraverso spazio e tempo. L’intuizione è l’ambito della nostra esperienza concreta a cui solo si applicano le categorie (concetti puri). Le categorie non si possono quindi applicare oltre l’ambito dell’esperienza: una metafisica scientifica è quindi impossibile. `xàty|á|vt x Ä|Å|à| wxÄÄt vÉÇÉvxÇét La limitazione della conoscenza ai fenomeni non esclude però la possibilità di oggetti oltre essi: la “causa” del materiale percettivo è infatti non riconducibile al soggetto ed è intesa come noumeno, di cui il soggetto non può conoscere la natura. Tuttavia, il soggetto conoscente, riferendosi ai concetti dell’Intelletto, i concetti a priori dell’Intelletto che si applicano solo all’esperienza, mediante la Ragione, cerca di stabilire alcuni principi o Idee trascendentali (concetti puri della ragione) che mirano a giungere a conoscenze assolute ossia complete e definitive sull’esperienza. E’ questo di fatto un superamento dei limiti dell’esperienza sebbene un superamento che si pone su un piano diverso da quello dell’esperienza e dell’intelletto83. Potremmo anche dire che le Idee trascendentali della Ragione, questi concetti puri della Ragione, aspirano a determinare la natura della cosa in sè senza che però ciò possa mai diventare oggetto di esperienza: tali sono le Idee di Dio, Anima, Mondo. In particolare, l’Idea di mondo, presuppone che esso sia costitutito da un lato, da un insieme di fenomeni correlati deterministicamente secondo leggi di natura e, contemporaneamente, dall’altro, da cose in sè autodeterminantesi. Ciascuna di queste tesi è ragionevole se posta su diversi piani, ossia quello dei fenomeni e quello della cosa in sè, nonchè insolubile, vista l’impossibilità del soggetto di approdare nella sua conoscenza, oltre i fenomeni. Ora, se dal punto di vista del conoscere, le Idee della 83 L. Geymonat, Boncinelli, Cattaneo, Il pensiero filosofico, Garzanti 50 ragione sono esecrabili84 se poste a fondamento di una metafisica scientifica, dal punto di vista dell’agire esse costituiscono uno stimolo all’approfondimento del senso dell’agire morale. _t Ütz|ÉÇ ÑÜtà|vt Una volta sancita l’illegittimità delle pretese conoscitive della metafisica, stabilita dalla Ragion Pura, si tratta di indagare un altro campo del sapere fondativo dell’agire umano: l’Etica. Nel campo dell’Etica si tratta però, a differenza dell’ambito della Ragion Pura, ove la Ragione “non tiene conto” dell’esperienza e ne definisce piuttosto i limiti e gli ambiti, di dettare le Regole da trasformare in Realtà mediante l’agire85: Ragion pratica. La ragion pratica consiste infatti nella capacità di determinare la volontà, senza fondarsi sulla sensibilità, al fine di garantirne l’universalità. In effetti, l’esperienza è legata all’interesse individuale e quindi necessariamente priva di quella universalità costitutiva del giudizio etico (cos’è giusto?, cos’è morale?, cos’è buono?). Ora, tale giudizio morale, l’indagine sulla universalità e giustezza di tale giudizio, fa capo senz’altro per Kant alla ratio essendi del giudizio: la libertà. La determinatezza dell’agire umano risulta infatti contario al porre il problema della libera scelta: solo un essere libero si pone il problema morale, diversamente perchè porlo? In misura conversa: è grazie al problema morale, al porsi del problema morale, che è possibile inferire l’esistenza della libertà. In buona sostanza, Kant propone quindi di pensare all’uomo come ad un essere che vive, contemporaneamente, nella realtà fenomenica condizionata dagli assunti della ragion Pura e in quella noumenica in cui invece è libero. Secondo Kant, in particolare, l’esistenza della legge morale si esprime attraverso l’esistenza degli imperativi morali: categorici(prescrizione di una azione per il dovere ) ed ipotetici (prescrizione di una azione per fini spcifici) Tali imperativi costituiscono un comando, nel caso dell’imperativo categorico, che esclude scopi particolare in chi agisce secondo tale imperativo: esso non ha un contenuto specifico ma afferma solo cosa si deve fare (espressione del così dev’essere) e non come di deve agire. In questo senso l’imperativo categorico esprime qualcosa di universale. In misura maggiore, l’imperativo categorico non prevede o non fa tanto riferimento all’esito della azione morale, ma all’intenzione che muove l’agente che segue il comando espresso nell’imperativo morale. Secondo Kant la legge morale che ognuno sente nella propria coscienza si esprime attraverso diverse caratteristiche: 84 85 Ibidem. Ibidem. Comment [WU66]: Con il termine “Pratica” Kant si riferisce al mondo della libertà e non della necessità, come nella Ragion pura. Più determinatamente, diversamente dagli aspetti tematizzati nella critica della Ragion Pura, la praxis, ossia la tematica delle azioni umane, rimanda alla tematica della sceltà e della libertà delle azioni umane, in quanto non condizionate da altro. Comment [WU67]: In genere il termine “libertà” indica la possibilità del soggetto di agire senza costrizioni possedendo la capacità di autodeterminarsi. Comment [WU68]: Agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere nello stesso tempo come principio di una legislazione universale. I. Kant 51 1) l’imperativo categorico ha un aspetto formale, non facendo riferimento a nessun contesto particolare; 2) il giudizio sull’azione si fonda sull’intenzione (volontà) che muove l’agente ad agire; 3) l’azione compiuta o da compiere è buona se e solo se è universalizzabile ovvero qualora il principio sulla cui base il singolo agisce (massima) possa essere fatto proprio dall’intera umanità; Ora, secondo Kant, in una successiva formulazione, la ricaduta dell’azione del singolo sugli altri esseri umani risulta centrale86. Tale formulazione sottolinea: 1) 2) 3) 4) Comment [WU69]: Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altra, sempre anche come fine, e mai solo come mezzo. I. Kant ogni uomo ha pari dignità in quanto dotato di ragione; Ragione ed umanità sono coessenziali; L’azione buona è quella che concorre al fine dell’umanità; Il fine assoluto dell’azione morale è l’uomo. Successivamente Kant, adotta un’altra formulazione: non compiere alcuna azione secondo una massima diversa da quella suscettibile di valere come legge universale, cioè tale che la volontà, in base alla massima, possa considerare, contemporaneamente, se stessa come uivesalmente legislatrice. Ecco che allora, l’azione morale richiede che la volontà sia guidata esclusivamente dalla ragione: poichè la razionalità esprime l’essenza dell’uomo, obbedendo alla ragione l’uomo obbedisce a se stesso. Ancora, è la razionalità che autonomamente comanda alla volontà di agire secondo la legge morale, legge che la ragione si da da sè: gli altri uomini portano infatti la stessa legge universale. Ora, se l’uomo, ogni uomo, riconosce al proprio interno un fatto della ragione, ossia la legge morale, è necessario postulare l’esisitenza della libertà dell’uomo: l’indagine condotta da Kant sulla legge morale, ha il suo presupposto nell’esistenza della libertà87, anche se la libertà non è e non può essere oggetto di esperienza. Come dire che per non contraddire l’esistenza della legge morale che si esprime attraverso l’imperativo categorico è necessario postulare l’esistenza della libertà. etz|ÉÇ cÜtà|vt x etz|ÉÇ câÜtM _t VÜ|à|vt wxÄ z|âw|é|É I postulati della libertà, dell’immortalità dell’anima e dell’esistenza di Dio, danno all’uomo certezze che gli erano precluse sul piano conoscitivo. In questo senso la ragion pratica detiene un primato sulla ragione teoretica: essa riesce a dare consistenza a concetti che nella Critica della ragion Pura si preentavano solo come possibilità teoretiche, sebbene tale consistenza non si traduce in una estensione della conoscenza. La validità dei postulati non è teoretica ma 86 Ibidem. 87 Ibidem. Comment [WU70]: Proposizione indimostrabile 52 solo pratica. In una battuta: l’intelletto guida la conoscenza della natura, la ragione sovraintende all’operare della libertà. Il primo ha a che fare con i fenomeni, la seconda con la cosa in sè, territorio dell’incondizionato e quindi della libertà, che tuttavia non è oggetto di conoscenza in quanto extrafenomenica. Ora, tale impostazione sembra porta ad una separazione netta tra natura e libertà, tra intelletto e ragione così da introdurre una scissione insuperabile nella realtà dell’uomo. La scissione può essere ricomposta nella Critica del Giudizio: il giudizio come facoltà intermedia tra intelletto e ragione. Si pensi ad un giudizio conoscitivo determinato dall’intuizione sensibile come “Questo è un tavolo”. Tale giudizio determinante che ha per oggetto un fenomeno può però dar luogo ad un giudizio riflettente che mette a capo ad un rapporto tra il fenomeno ed il soggetto che ne fa esperienza. Ad esempio: “questo tavolo è bello”. Tale giudizio, che esprime una relazione tra mondo fenomenico e mondo noumenico del soggetto (aspetto morale), è un giudizio estetico: un giudizio che “non può riferirsi ad uno scopo oggettivo, ossia assumere il suo oggetto entro la relazione ad un fine – sia essa esterna, o utile, sia quella interna, o perfezione88 - così non deve confondersi con l’attrattiva, con l’emozione, con tutto ciò che, pur potendo anche non essere disgiunto dal bello, non serve a caratterizzarlo. Due specie di bellezza si possono infatti distinguere, quella libera (pulchritudo vaga) e quella aderente (pulchritudo adhaerens): la prima indipendente dal concetto che si può avere del suo oggetto, o bellezza per sè stante; la seconda condizionata perchè aderente al concetto che si ha del suo oggetto. La bellezza di un fiore, ad esempio, per il giudizio di gusto è tale indipendentemente dallo scopo che il botanico riconosce al fiore stesso nella vita della pianta, dunque si stratta di bellezza libera; mentre la bellezza di un edificio, o della stessa figura umana presuppone un concetto di scopo che inerisce alla pefezione della cosa considerata: si tratta in tal caso di una bellezza aderente, condizionata cioè dal concetto della pefezione dell’oggetto”.89 Ora, il bello che trova nella sua forma il suo limite, ossia la bellezza che ha a che fare con le forme in quanto limite esteriore che con-forma l’aspetto, include nella sua forma una finalità: per cui l’oggetto sembra come predisposto per il nostro giudizio. Si tratta, secondo Kant, di un accordo percepito immediatamente nel giudizio estetico in quanto giudizio riflettente. Tale finalità percepita nel giudizio estetico può anche essere pensata nel giudizio riflettente telelogico: si rende possibile per Kant allora, il pensiero di una natura con una finalità oggettiva. Una finalità . 88 89 Marzorati, Da Bacone a Kant, Vol. IIII. Ibidem. 53 [xzxÄ ^tÇà xw [xzxÄ Kant distingue il conoscere dal pensare: il conoscere ha come oggetto l’esperienza, il pensare ha come oggetto la cosa in sè. Kant pretende quindi di parlare solo in negativo della cosa in sè, ponendo dei limiti al pensare. L’idealismo,viceversa, nega la tesi kantiana dell’inconoscibilità della cosa in sè: al di là del pensiero, per l’idealismo, non c’è nulla, proprio perchè nulla sfugge al Pensiero. In questo senso, il Pensiero non è una parte della realtà, non è una cosa tra le cose, proprio perchè le cose sono pensate, non può essere una Pensiero90. cosa, ma sono le cose a poter essere rappresentate nel Pensiero non trascendente, peculiare di Dio. Il Pensiero esprime dunque l’essenza dell’uomo. “Essenza divina”, si potrebbe dire, perchè per l’idealismo il Pensiero è l’Assoluto: il Pensiero è allora l’intrascendibile, ciò all’interno del quale tutto accade. In questo senso l’Assoluto ossia il Pensiero è Sostanza: il Pensiero come Assoluto esprime quindi l’idea che il Pensiero sia Sostanza ossia ciò che è in sè e per sè e che non abbisogna di altro cui inerire91. In questo senso il Pensiero non è il singolo atto umano, non è un atto della sostanza individuale umana bensì la stessa Sostanza infinita che differisce dal singolo atto del pensare dell’individuo concreto e sostanziale. Piuttosto il Pensiero “può” esser espresso dall’Io Trascendentale di Kant, con l’avvertenza che nell’idealismo il pensiero non è limitato dalla cosa in sé. Sussiste poi una ulteriore questione: il concetto di cosa in sè, per Kant, non è ulteriormente indagabile ma necessario per stabilire i limiti della conoscenza. La critica kantiana, viceversa, andando oltre il dettato kantiano, intende la cosa in sè come una realtà al di là dei fenomeni e causa di essi. Per cui il concetto di cosa in sè appare doppiamente contraddittorio: 1) Esiste una realtà oltre i fenomeni ma la conoscenza è limitata ai fenomeni; 90 91 E.Severino, Storia della Filosofia Moderna, cit. pag. 165 e sgg. Ibidem. Comment [WU71]: Il pensiero non è uno strumento usato dall’uomo per accedere alla realtà, ma la stessa trasparenza della Realtà assoluta a se stessa. L’automanifestazione dell’Essere: la coscienza che è insieme autocoscienza. Cfr. Severino, cit. pagg. 357 e sgg. 54 2) Tra la cosa in sè ed i fenomeni esiste un rapporto causale estendendo così oltre l’esperienza l’uso di una categoria valida solo al suo interno. Ancora, secondo la critica idealista e romantica, Kant è fonte di dualismi irrisisolti: 1) 2) 3) 4) Limitazione della conoscenza al finito; Contradditorietà del concetto di cosa in sè; Scissione delle facoltà umane; Superiorità della Ragion pratica . \wxtÄ|áÅÉ x áÉzzxààÉ àÜtávxÇwxÇàtÄx Le critiche mosse alla concezione kantiana di una cosa in sè, indipendente dalla conoscenza, la cocncepiscono come il limite o il residuo del dato empirico92. Il risultato di tale operazione, rende la Ragione o coscienza l’unico principio della conoscenza: non solo nella sua forma, funzione già attribuita da Kant alle struture a priori dell’intelletto, ma anche della sua materia, ovvero delle cose che si presentano nell’esperienza stessa. In questo senso, eliminata la cosa in sè, l’unica realtà è quella presente allo spirito. Ora, lo spirito, la cocsienza, che sperimenta il limite imposto ai suoi atti dalle realtà, come può essere considerato il “creatore” di questa realtà? In primis, gli idealisti, che attribuiscono creatività allo spirito, soggetto, coscienza, parlano dell’Io Trascendentale: un principio che si attua negll’umano ma non si riduce ai singoli uomini. Tale principio, per l’idealismo, conduce a tre diversi aspetti: 92 Geymonat, cit. pagg. 750 e sgg 55 1) Centralità del soggetto: la realtà è considerata in funzione del soggetto o dello spirito, anche se non inteso come individuo, ma come principio infinito di cui l’individuo, così come la realtà di cui fa esperienza, non è che una manifestazione; 2) La realtà naturale è considerata manifestazione di quello spirito immanente che prima di assurgere alla consapevolezza si sviluppa attraverso la natura; 3) La storia, è considerata come lo svolgimento del principio infinito, prima attraverso le vidende naturali, quindi in quelle dell’umanità. Il valore del singolo risiede nella manifestazione ed incarnazione del principio infinito, mentre la sua libertà consiste nell’adesione a tale principio, guidata dalla consapevolezza di essere “creatore” della realtà, dominatore della natura e protagonista della storia. Hegel, in particolare non intende più pensare l’Assoluto come Io trascendentale: l’Io deve sempre essere contrapposto a un non Io o a un oggetto o a una cosa in sè, rispetto a cui resta in un rapporto di estraneità. Hegel esce quindi dal soggettivismo per cui l’Assoluto diventa il Pensiero stesso. In seconda battuta, tutti gli attributi dell’Assoluto diventano attributi del Pensiero. Hegel continua quindi Kant: Kant aveva tradotto la sostanza, la causa, la possibilità, da termini ontologici in termini logici (le categorie kantiane). Hegel, in misura ancora maggiore, ritiene che questi attributi non siano delle cose, come determinatezze che sono, come sostanza, ma siano tutte determinazioni del Pensiero. Con l’avvertenza che il Pensiero non si contrappone all’oggetto, alla cosa in sè: in Kant le categorie sono formali solo in quanto la cosa in sè le rende possibili, sono funzioni diversamente, le categorie esistono indipendentemente dall’esistenza di una cosa in sè. di. In Hegel, TááÉÄâàÉ x fÉzzxààÉM Y|v{àx Altra determinazione essenziale dell’Assoluto93 è il suo essere soggetto: Hegel accoglie quindi la fondamentale intuizione fichtiana in base alla quale l’Assoluto deve essere soggetto. Quella 93 Comment [WU72]: Per Fichte l’Assoluto deve essere soggetto. Nel momento in cui l’Io si pone, in quel momento, l’Io è assoluto. L’Io raggiunge la sua assolutezza non in quanto è sostanza ossia qualcosa di indipendente, raggiunge la sua indipendendenza solo in quanto esso si pone. Solo nell’autoporsi dell’Io, l’Io raggiunge la sua assolutezza. Fichte opera quindi un cambiamento rispetto a Kant: mette a tema il pensarsi da parte dell’Io come autoposizione dell’Io. Largamente presente nel platonismo medievale e rinascimentale, in particolare nelle correnti mistiche, tale concezione dell’a. riceve nuova linfa vitale dall’idealismo tedesco posteriore a Kant – e anzi in aperta polemica con le conclusioni scettiche della terza parte della Critica della ragion pura ), la Dialettica trascendentale, riguardo alla possibilità di conoscere l’assoluto La speculazione intorno all’a. è infatti al centro dell’idealismo oggettivo di Schelling e di Hegel, che inizialmente prendono le mosse da un a. indifferenziato, assimilato da entrambi alla «notte». Ben presto, tuttavia, le due filosofie prendono strade diverse. Mentre Schelling resterà sostanzialmente fermo a quella che Hegel definirà ironicamente una «notte in cui tutte le vacche sono nere» (Fenomenologia dello Spirito, 1807), Hegel si attesta sul concetto di un A. che ha in sé la differenza, definito fin dagli anni giovanili «identità dell’identità e della non identità». Il concetto era già noto al neoplatonismo, che lo usava per descrivere l’attività dell’Intelletto o υοῦς, ma non poteva trovare applicazione all’Uno, imprimendo quello che Hegel definirà un tratto di «orientalismo», cioè di irrazionalismo mistico, a tutto il sistema neoplatonico. Hegel propende invece per una «mistica razionale», una mistica, cioè, nella quale all’A. non si arrivi attraverso una intuizione improvvisa (il «colpo di pistola» della Fenomenologia – altra allusione a Schelling), ma attraverso Comment [WU73]: assoluto Ciò che non dipende da altro per la sua realtà, incondizionato. Si oppone quindi propriamente a «condizionato», «dipendente», ma non a «relativo», giacché esso non esclude la relazione per la quale un altro dipenderebbe da lui. Oltre a questo significato, a. ha l’altro (del resto connesso con il primo) di «compiuto in sé e per sé», «perfetto». l 56 intuizione in basa alla quale nel porsi dell’Io, da parte dell’Io a se stesso, in quel momento l’Io è assoluto. Non è assoluto in quanto l’Io è sostanza, qualcosa di indipendente; pittosto l’Io è indipendente nel momento in cui esso si pone. Nell’autoporsi dell’Io, l’Io pone quindi la sua assolutezza. In questo aspetto, Fichte va oltre Kant: l’Io di Fichte, in confronto all’Io di Kant, è autoposizione; il pensarsi dell’Io esprime quindi l’assolutezza dell’Io. In effetti Fichte, in una fondamentale recensione dell’Enesidemo (Schulze), accoglie le osservazioni di Schulze almeno per ciò che riguarda il principio di coscienza. A tale rigurado, Fichte sostiene che quest’ultimo non può essere considerato il Principio assolutamente primo della filosofia in quanto la rappresentazione identifica il fatto della coscienza, la sua essenza empirica e materiale e non costituisce quindi un autentico cominciamento trascendentale del filosofare. Principio dell Filosofia, secondo Fichte, dev’essere un atto e non un fatto. Considerare la rappresentazione come il principio primo della filosofia significa quindi rimanere in un’ottica puramente critica ossia limitarsi a dedurre (in senso kantiano) le condizioni di possibilità di quel tal fatto della struttura della ragione.94Si tratta piuttosto di chiedersi quale sia l’essere della ragione: a tale domanda Kant aveva già risposto, in linea di principio ossia la praticità e spontaneità ossia la sua libertà ed autonomia. La praticità della ragione spinge dunque Fichte ad elaborare il suo sistema filosofico: la ricerca della genesi di tutte le forme della ragione che mette capo ad una intuizione, un atto della ragione, che si coglie nella propria interezza95. una dimostrazione. La realizzazione di questo complesso programma filosofico è affidata principalmente a uno strumento: la «mediazione che toglie sé stessa», o «mediazione della mediazione». Tale concetto, illustrato soprattutto nell’Enciclopedia delle scienze filosofiche (1817), consiste – come nelle cosiddette prove «a posteriori» della tradizione tomistica – nel partire ancora una volta dal finito per arrivare all’a., per poi scoprire, invece, che il finito, da cui l’a. pareva dipendere come punto di partenza, è in realtà un prodotto dell’a. stesso, nel quale si dissolve, come il cibo, che pure dà inizio al processo digestivo, si scioglie nei succhi gastrici e diventa una sola cosa con questi. Analogamente, nel processo hegeliano di mediazione, l’a. distrugge ciò da cui in un primo tempo pareva dipendere, e si rivela il vero protagonista dell’intero processo dialettico. Nelle lunghe Aggiunte ai §§ 80 e 92 dell’Enciclopedia Hegel precisa che l’apparente consistenza e identità delle cose finite è opera della «bontà» dell’a. (di Dio), ma che superiore alla bontà dell’a. è la sua «potenza», in virtù della quale le cose finite appaiono per quello che realmente sono, e cioè un suo prodotto privo di autonoma sussistenza. L’a. si conferma così, a pieno titolo, un vero a., cioè un incondizionato. Resta naturalmente una fondamentale differenza con qualsiasi concezione mistica dell’a., in particolare quella che Hegel tiene costantemente presente quando parla di Jacobi e del «sapere immediato». Nella concezione hegeliana l’a. è processualità, anzi l’a. si può e si deve confermare tale solo ed esclusivamente nella processualità, perché solo nella processualità si può confermare come il signore di tutto. L’a. dei mistici si condanna a una «inerte solitudine», dalla quale risulta più la sua impotenza che la sua potenza. L’a. di Hegel non ha nessun timore di entrare nel tempo e nello spazio attraverso l’alienazione , perché spazio e tempo sono dentro di lui, e l’alienazione è momentanea, apparente, è un «gioco» – termine e concetto già presenti nella filosofia neoplatonica – che egli intraprende seco stesso. 94 95 Cioffi, Cit. pagg. 69 e sgg. Ibidem. 57 Nello specifico Fichte: i. ii. iii. L’Io pone se stesso assolutamente; Per Fichte il primo principio è “Tathandlung”, contrapposto a “Tatsache” (stato di fatto) : atto che si realizza da sè (“Handlung” è inteso come azione, contrapposto a “Sache” - “cosa di fatto”)96 L’IO assoluto oppone a se stesso un NON Io altrettanto assoluto; Nell’Io Assoluto, l’Io divisibile si oppone ad un NON Io altrettanto divisibile. Il primo principio non si riferisce ad un fatto bensì all’atto della ragione che accade al di fuori dello spazio e del tempo: una condizione trascendentale dell’intera attività della ragione. Fichte utilizza a questo proposito il termine Tachtandlung: con questo termine ci si riferisce al: fare come operare; fare come condizione; fare come risultato. In questo senso l’Io è il risultato della sua stessa azione. Il secondo principio enuncia la finitezza e la contingenza della ragione umana: così come Kant affermava la libertà un fatto della ragione, così per Fichte è immotivata ed ingiustificabile la spontaneità e libertà dell’Io. Ora, seconda condizione trascendentale del sapere umano è il suo rapporto con una realtà altrettanto assoluta (il dato sensibile) , nella sua contingenza e gratuità, della ragione umana. Ma assoluto è anche il rapporto con la realtà, che vien posto non appena vien posto l’Io. Il terzo principio non si riferisce ad un principo trascendentale ma descrive la condizione della coscienza reale. Da un lato, la coscienza reale è determinata dalla sua spontaneità, dall’altro dalla sua intrinseca contingenza: essa è allora limitazione o “divisibilità” (Teilbarkeit) intrinseca alla esigenza di spontaneità. Finitezza costitutiva che tende però, per sua natura, all’assoluto. Schematicamente: 1) A-------------------------------------------------------------------------------------- verso infinito 2) A--------------------------------------------------------------------------------------\C 3) A:::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::\C 96 Il primo principio è intuizione pura e non può essere dedotto: nè quanto alla forma, in quanto esso è presupposto anche da principio di identità A uguale ad A; nè quanto al contenuto poichè il contenuto di questa intuizione si pone liberamente con questa stessa intuizione. Cfr. Coffi. Cit. pag. 92 e sgg. Comment [WU74]: “Non si può pensre nulla - nemmeno la cosa in sè – che stia al di fuori del Pensiero, attività produttrice infinita di ogni essere”. “..mentre per Shelling ed hegel, l’Io è infinito e coincide con la Realtà assoluta, pe fichte invece l’io è ancora il finito”. E. Severino, Cit. pag. 219. Comment [WU75]: “qualcosa posta al di fuori dell’Io, della quale non si può dire null’altro che questo: che essa deve esser assolutamente oposta all’Io (...) non fa altro che mettere in movimento l’Io per l’azione, senza tale primo motore, l’Io non avrebbe mai agito, e pochè la sua esistenza non consiste se non nell’attività, non avrebbe mai agito” Fichte. Comment [WU76]: “... i due termini assolutamente opposti (Io e NON IO) sono posti (dall’Io – ossia l’Io oppone sè al NON Io), sono unificati, cioè messi in relazione e quindi non sono assolutamente opposti; sì che il compito consiste nella realizzazione non antinomica – cioè esente da contraddizioni – della relazione, ossia della sintesi tra i due termini assolutamente opposti; realizzazione che è lo stesso processo di liberazione infinita dell’Io dal limite della cosa in sè.” Cfr. Severino, Cit. pag. 221 Comment [WU77]: Il sistema filosofico deve dar conto a priori, tanto del fatto dell’esistenza concreta ed empirica della sintesi (la rappresentazione), quanto delle condizioni trascendentali della sua genesi, siano esse attive (spontanee) o passive (recettive) 58 Per altro verso97, Hegel fa notare come non sia più possibile pensare l’Assoluto come Io: se l’Io è assoluto non ha più senso pensarlo come Io, in quanto l’Io è sempre contrapposto, per Fichte, ad un NON IO, ad una cosa in sè, rispetto al quale permane un rapporto di estraneità. Hegel accoglie quindi il contributo fichtiano dell’assolutezza dell’Io per andare oltre il soggettivismo. L’Assoluto hegeliano presenta quindi delle caratteristiche diverse dalla tradizione precedente: da oggetto del pensiero diventa il Pensiero stesso. _t YxÇÉÅxÇÉÄÉz|t wxÄÄÉ fÑ|Ü|àÉ La Fenomenologia dello Spirito è considerata una delle opere fondamentali per la comprensione del sistema filosofico hegeliano: nel 1806 hegel annunciava quest’oera come premessa a un corso di Logica e Metafisica, concepito a sua volta come prima parte del sistema della scienza”comprendente , nella seconda parte, la filosofia della natura e dello spirito. Premessa che mette a tema le diverse esperienze che la coscienza deve compiere per avere accesso al sapere dell’Assoluto98. Particolare, nella Prefazione, il “bisogno di filosofia” vine posto in relazione al fatto che la presente è un’epoca di trapasso e transizione: verso un rinnovamento. Ed i suoi linementi esseniziali, per HEGEL, il suo “CONCETTO” , possono essere appresi da chi abbia guadagnato il punto di vista della filosofia. Nella prefazione Hegel, alla confutazione delle filosofie di Kant, Fichte, Jacobi, si aggiunge la critica a Shelling. Secondo Hegel, l’Assoluto schellinghiano - assoluta identità di soggetto ed oggetto, finito ed infinito - è la famosa notte in cui tutte le vacche sono nere , per rimarcare la confusa indistinzione e vuota uguaglianza in cui nessuna determinazione finita è mantenuta. La scienza di cui il tempo presente ha bisogno si può allora sviluppare in riferimento al fattto che il vero è esprimibile non come sostanza bensì come soggetto. Non l’Essere opposto al Pensiero, nè il Sapere opposto all’Essere, come momenti distinti e separati. In questo senso ricadono in una concezione sostanzialistica sia il Dio di Spinoza, nella cui definizione sembra andar smarrito l’elemento soggettivo dell’autocoscienza; sia l’Io fichtiano, come pura ed astratta autocoscienza. Sia infine l’identità schelighiana in cui l’indifferenza tra finito ed infinito, soggettivo ed oggetivo si presenta come inerte semplicità. Il vero invece per Hegel è Soggetto: l’Assoluto non sta nè nell’Essere immediato separato dal pensare, né nell’immediatezza dell’autocoscienza, nè nella loro unità immediata: l’Assoluto è bensì unità mediata.99 Ancora, l’unità dell’Assoluto è identità che non va perduta nel divenir altro: non ha bisogno dunque di restare immobile in sé per conservarsi identica a sé. Non allora la rigida identità della Sostanza bensì la mobile identità di un Soggetto che permane e si sa identico in tutte le sue mlteplici manifestazioni. Questo è il senso della concezione hegeliana di Assoluto come Spirito: espressa nella Fenomelogia quando si afferma che l’Assoluto è l’intero ossia l’essenza che si completa 97 98 99 Prof. Lucio Cortella, 1991, Venezia: Corso monografico Cioffi, Cit. Pagg. 243 e sgg. Ibidem. 59 mediante il suo sviluppo. L’assoluto è dunque movimento i cui momenti non hanno senso se presi isolatamente100. Si diceva che la Fenomenologia è la storia delle esperienze della coscienza: esperienze sia pratiche che teoriche. Lungo questo percorso, la coscienza si presenta innanzitutto come coscienza con una struttura bipolare (aspetto questo, del porsi in altro dell’Assoluto): io\non io; io\oggetto, in cui essa avverte come altro da sè l’oggetto, sia esso l’oggetto dei sensi, della percezione, dell’intelletto, un’altra autocoscienza. Alla fine del percorso però la coscienza, nello stadio del sapere assoluto, giunge a far propria la prospettiva dell’identità tra soggetto ed oggetto. Le diverse figure della coscienza quindi sono aspetti necessari dell’Assoluto, che nella sua storicità di figure ed aspetti, si manifesta in altro: sapere assoluto che non è nient’altro che lo spirito. Fenomenologia quindi del manifestarsi dello Spirito. Una storia del manifestarsi dello Spirito nelle sua diverse figure,uno sviluppo necessario. Si badi dunque che il sapere che la coscienza acquisce nel progredire delle sue esperienze e che si manifesta alla fine del percorso come sapere l’assoluto non è differente dall’Assoluto: tra sapere l’assoluto ed Assoluto vi è identità: solo a questa condizione diventa possibile per il sapere conoscere l’Assoluto. _É fÑ|Ü|àÉ La coscienza e le sue esperienze sono modi di manifestarsi dell’Assoluto, che Hegel chiama anche Spirito. Le diverse figure fenomenologiche della coscienza sono allora “tappe” del modo di manifestarsi dello Spirito o meglio dell’automanifestarsi dello Spirito. Lo Spirito si manifesta dunque nella coscienza singola che fa esperienza di sè ma anche, come Spirito, nelle Istituzioni, nella comunità, assumendo dunque la forma di coscienza comune, condivisa da un gruppo sociale, dal popolo. Lo Spirito cioè si oggettiva in determinati contesti storici, nello spazio e nel tempo. Quindi Hegel denomina Spirito non solo l’Assoluto ma anche l’agire di una collettività o del popolo: la dimensione intersoggettiva e preterindividuale. Nello specifico, lo Spirito secondo Hegel: 1) Rappresenta il sostrato o la sostanza comune, cui gli individui partecipano, pur mantenendosi nella reicproca diversità e indipendenza: Io che è Noi, Noi che Io. Hegel qui allude a quell’insieme di tradizioni, legami cultutali, idee, valori, che fa di un insieme di individui un gruppo, di un insieme di aspetti culturali\valori\tradizioni un mondo; 2) Rappresenta il prodotto dei singoli, dell’agire di una comunità; 3) Rappresenta l’opera, la attività e quindi la soggettività che si manifesta nel tempo: in un battuta lo spirito è storia. Esso si manifesta in diverse epoche o mondi spirituali differenti; mondi differenti come effettive realtà (Wirklichkeiten). In riferimento a queste figure dell fenomenologia, le prime figure, quelle della coscienza individuale, sono delle Astrazioni ossia sono state “tratte fuori” per essere analizzate. In effetti, la formazone della coscienza singola, avviene per sulla base dela cultura di appartenenza, condizionandone il propro punto di vista sul mondo. Per converso, il singolo, la coscienza individuale, prende mano a mano coscienza, approfondendo la propria esperienza, della sostanza spirituale del proprio 100 Ibidem. 60 tempo. Sostanza erede dello spirito delle epoche precedenti e anticipatore del tempo nuovo che sta sorgendo: tempo i cui tratti spetta alla filosofia comporre in sistema. TÜà|vÉÄté|ÉÇx wxÄÄËÉÑxÜt Prefazione \ÇàÜÉwâé|ÉÇx A) Coscienza: - certezza sensibile: Percezione; certezza che le rappresentazioni siano riferite all’oggetto; B) Forza ed intellletto C) Autocoscienza: la verità della certezza di se stesso: la coscienza si vede qui come appetito – Begierde – che vuole essere appagato. Aspetto pratico della autocoscienza e non teoretico. D) Grande sezione suddivisa in : Ragione; Spirito; Religione; Sapere assoluto: figura che prevede il superamento della distinzione soggetto\oggetto; propria della cosceinza. Lo Spirito, in particolare, ha non solo come oggetto se stesso, ma ha se stesso come oggetto nella forma del concetto e non della Rappresentazione, tipica della cosceinza nelle sue fasi iniziali. Ciò accade appunto nel Sapere assoluto, che corrisponde all’autocosciena dello Spirito in foma concettuale o scienza, ossia nella forma del sistema filosofico. \Ä á|áàxÅt y|ÄÉáÉy|vÉ La prospettiva delineata nella Fenomenologia dello Spirito, ossia la prospettiva della formazione della coscienza, lascia spazio, nello Hegel maturo, all’esposizione del sapere assoluto: la filosofia esposta in modo matematico, enciclopedico. L’esposizione del Sapere assoluto non pregiudica però quanto era già emerso nella Fenomenologia: la storicità del manifestarsi dell’Assoluto101. 101 Ibidem. 61 Piuttosto, la complementarietà tra il manifestarsi dei diversi momenti storici dell’Assoluto e le categorie della logica esprime la cifra del sistema hegeliano. Cifra perseguita nella Enciclopedia delle Scienze filosofiche, nella Scienza della Logica , ne I lneamenti di Filosofia del diritto. Nello specifico Hegel ritiene che, in riferimento alle altre scienze quali la Fisica, il Diritto, sebben esse costitutiscano un presupposto da cui partire cronologicamente per arrivare all’esposizione del sistema filosofico, solo la Filosofia può rivendicare il ruolo fondante del sapere , il ruolo logico e fondativo del sapere. Essa costituisce dunque la verità delle scienze. E ne costituisce la verità mostrando come lo stesso kantismo sia un errore: la cautela critica dei kantiani appare tanto assurda “quanto il saggio proposito di quello scolastico che voleva impararre a nuotare prima di arrischiari in acqua”102, ossia il proposito di esaminare con attenzione lo strumento o gli strumenti della conoscenza quando invece, per H., le regole del pensare speculativo sono parte dell’oggetto della Scienza della Logica, non le sono presupposte . Comment [WU78]: L’oggetto del conoscere è considerato, ab initio, esterno al conoscere, un approccio intellettualistico alla conoscenza. Un’idea delle conoscenza come fondata sulla opposizione io\oggetto. In altre parole per Hegel, il Sapere Assoluto in cui consiste la filosofia prevede, sebbene alla fine dell’esposizione dell’intero processo di conoscenza, l’identità di Soggeto ed Oggetto per cui non c’è un oggetto esterno al sapere. Il superamento della opposizione soggetto\oggetto peraltro è già stato acquisito nella Fenomenologia: ma questa acquisizioe svolta o determinata geneticamente nel processo storico di liberazione dalle diverse figure filosofiche parziali della filosofia, è primo solo dal punto di vista psicologico e storico, non logico. Per quanto afferisce il contenuto, il sistema hegeliano si articola in tre grandi sezioni: 1) La logica: scienza dell’Idea in sè e per sè. (Con Idea qui Hegel intende l’identità di finito ed infinito, L’Idea, in buona sostanza esprime per H. il processo del pensiero nella sua interezza soggettivo\oggettiva e si identifica con il Reale). La logica studia il pensiero inuqnato tale ed affronta reinterpreati un ampio spettro di problemi metafisici; 2) La filosofia della natura: scienza dell Idea nel suo alienarsi da sè. Fondazione delle scienze della natura quali fisica, chimica e biologia; 3) Filosofia dello Spirito: scienza del’Idea cha dalla sua alienazione torna in sè. Discute i fondamenti dei saperi che riguardano l’uomo. COME INDIVIDUO (Psicologia), come collettività (Diritto), per poi interessarsi dell’arte, della religione e della stessa Filosofia. 102 Ibdem. Comment [WU79]: Con alienazione H. intende riferirsi letteralmente all’essere in altro di una determinazione. L’alienazione rappresenta un momento del movimento dello Spirito e dell’Idea 62 _t ÄÉz|vt w|tÄxàà|vt Il compito della Logica, secondo Hegel, è quello di esporre l’atomovimento del concetto, ossia del pensiero in quanto tale. Ora, indipendentemente dagli ambiti del reale in cui il pensiero si esplica, è possibile farsi un’idea della Logica di Hegel fissando l’attenzione sulla attività del pensare così come essa si dà concretamente in qualsivoglia contesto di applicazione. In particolare, il Pensare risulta essere una attività complessa,103 i cui momenti è possibile distinguere solo a fatica . Hegel, con la Logica, mira a dar conto di tutti gli atti del pensiero preoccupandosi di ricondurli a loro fondamento comune ossia al pensare stesso: del resto il pensare è appunto una attività, automovimento, sviluppo, e questo carattere fluido del pensare si mostra nel fatto concreto che l’operazione del pensare scorre da una determinazione ad un’altra. A riprova di ciò possiamo indicare brevemente la determinazione Essere, che se fissata nel proprio significato conduce inevitabilmente o meglio dialetticamente al significato Nulla per concludere al significato Divenire. Per spiegare meglio tale aspetto, la Dialettica, in Hegel, si articola come esemplificato in tre momenti: tesi, antitesi, sintesi104. Tale procedere triadico contrassegna il prodursi del pensiero, quanto lo sviluppo di ogni suo atto o meomento. La Logica infatti, presenta una partizione triadica, sia nella partizione generale che in ogni singolo momento. Poichè - d’altra parte – se la logica studia il pensiero nella sua forma pura, il pensiero stesso si esplica nella realtà in quanto ragione immanente, ogni ambito del reale, se compreso speculativamente, presenta una analoga processualità dialetttica triadica: I. II. 103 104 Primo lato: determinazione immediata ed astratta quale ad esempio “Essere”, rigidamente escludente il suo opposto “Nulla”; L’Essere, in questo senso, è privo di determinazioni, vuota assenza di determinazioni. Secondo lato: il movimento dialettico evidenzia come quella prima determinazione sia appunto astratta, ed il concetto di qule primo termine “Essere”, in quanto vuota assenza di determinazioni, puro indeterminato, si capovolga nel suo opposto, il “Nulla” altrettanto privo di contenuto. Entrambe le nozioni sono infatti prive di significato determinato. Ancora, tanto il Nulla quanto l’Essere sono identici a se stessi – A uguale ad A - recita la tradizione, ed in quanto identici a sè e privi di contenuto determinato non si distinguono dunque. Ibidem. Ibidem. 63 III. Terzo lato: la ragione non si ferma tuttavia alla astratta considerazione dei precedenti significati l’uno negantesi nell’altro, ma proprio in virtù della negazione, considera contemporaneamente la reciproca appartenenza di quei significati in una sintesi superiore: il Divenire. Il divenire è unità di Essere e Nulla: infatti sono se pensiamo all’Essere ed al Nulla come momenti distinti e non separati di una superiore unità quale il Divenire possiamo tenere fermi i due momenti come trapassanti l’uno nell’altro. Dobbiamo insomma ricercare nel Divenire il fondamento dell ‘Essere e del Nulla che, presi separatamente non riescono a tenere fermo il proprio significato. Quanto esposto esprime la Dialettica o meglio il procedere dialettico delle Logica. Nella Logica, come si accennava, che è scienza in cui il pensiero conosce se stesso in forma pura, il pensiero muove quindi l’inizio, il cominciamento del suo procedere dalla determinazione astratta per poi considerarne il passaggio nella sua negazione ed infine evidenziare il legame delle singole determinazioni astratte nella loro superiore unità. La Scienza della Logica allora perviene alla conoscenza delle distinte e diverse determinazioni astratte proprio perchè tali determinazioni non sono altro che i singoli momenti dell’esplicarsi di un unica attività di pensiero, attività tanto più ricca quanto la manifestazione del processo del pensiero si articola al suo interno in direzione del momento logicamente conclusivo del processo. Si badi che le singole determinazioni via via negate nel processo dialettico (Essere; Nulla; Finito; Infinito;etc.) non sono semplicemente abolite , piuttosto le singole determinazioni sono tolte nella loro pretesa indipendenza dal loro opposto, ma conservate come momento Necessario di una categoria più comprensiva. Tale superamento e conservazione delle singole determinazioni è definito da Hegel Aufhebung. Sotto si espone la prima partizione della Scienza della Logica che riguarda L’Essere: a) Essere a) Qualità: a) - Essere indeterminato : - Essere - Nulla - Divenire b) - Essere determinato : - qualcosa - finito - infinito c) - Esser per sé b) Grandezza a) - Quantità : - quantità pura - continuo o discreto - limitazione della quantità 64 b) - Quanto : - numero - quanto intensivo - infinità quantitativa c) c) Misura Rapporto quantitativo a) Quantità specifica b) Misura reale c) Divenire dell’essenza 65 _ËtááÉÄâàÉ Per Hegel l’Assoluto è Pensiero. Ciò significa che l’Assoluto ha quattro determinazioni: 1) Da oggetto del pensiero diventa Pensiero; 2) Gli attributi dell’Assoluto diventano attributi del Pensare: operazione già avviata da Kant che traduce “sostanza” e “causa” da termini ontologici in termini logici – le categorie sono formali solo in quanto c’è qualcosa in funzione del quale esse sono - Hegel continua Kant affermando che questi attributi non sono delle “cose”bensì attributi del pensare senza che il pensiero sia contrapposto ad un oggetto; 3) L’Assoluto è inteso come Totalità e non come trascendente, in linea conSpinoza; 4) L’Assoluto si presenta come triadico in riferimento alla sua connotazione come movimento, come posizione e come autoposizione.105 Hegel intende affermare che l’Assoluto, in quanto è Pensiero, è autoposizione e quindi differenziazione: sè come soggetto e sè come oggetto. Ancora, l’Assoluto è sia sè come autoposizione che sè come atto che sè come oggetto. In questo senso, per l’Assoluto, per il pensiero, è decisivo il momeno del negativo e della differenza, chè se la differenza non fosse pensata all’interno dell‘Assoluto, come interna all’Assoluto, minerebbe la sua assolutezza come un qualcosa di esterno. La Differenza è quindi costitutiva dell’Assoluto. La differenziazione dell’Assoluto, al proprio interno, presenta tre momenti: 1) Sè come autoposizione: il porre se stesso dell’Assoluto. L’assoluto si riferisce a se stesso ed è considerato in sè, come una cosa, solo in quanto è per sè ossia si pone. 2) Sè come atto: attività dell’Assoluto contrapposta all’intendere l’Assoluto come sostanza, res, semplice fatto; 105 Ibidem. 66 3) Sè come soggetto: non oggetto del pensiero ma soggetto che si differenzia al proprio interno come soggetto\oggetto. Hegel intende così il passaggio dal paradigma dell’Oggetto al paradigma del Soggetto. Questo modo di intendere l’Assoluto fa la differenza tra l’Assoluto scellinghiano e l’Assoluto hegeliano: Schelling pone l’Assoluto coma assoluta identità, sviluppando la concezione spinoziana di sostanza. L’Assoluto, per Shelling è Pensiero assolutamente identico con se stesso. Dove c’è differenza c’è finitezza secondo Schelling, c’è reciproca estraneità dei momenti e quindi mancanza di libertà dell’Assoluto. Non c’è quindi assolutezza per Schelling. Diversamente, per Hegel, in quanto l’Assoluto è pensiero, deve porre al proprio interno la Differenza, chè se la Differenza è pensata fuori dell’Assoluto, ciò mina la sua assolutezza, lo limita; l’Assoluto non riesce più ad essere la totalità che deve essere. In questo senso la Differenza deve essere costitutiva dell’Assoluto. L’Assoluto è quindi massimamente reale. cxÇátÜx xw xááxÜx Nella dottrina dell’Essenza, della Scienza della Logica, Hegel condensa le sue considerazioni sul concetto di realtà: 1) Assoluto: ossia manifestazione completa dell’Essere. In questo senso l’Assoluto è solo ciò che viene alla fine, perchè la manifestazione completa è appunto il proprio completamento: solo alla fine essa accade. Non ha più senso allora sostenere la differenza, come fa Spinoza, tra Assoluto e Modo. Il Modo, in quanto manifestazione dell’Assoluto è propriamente identico all’Assoluto: L’Assoluto è tale solo nel Modo: solo nella sua completa manifestazione. Ora, in quanto l’Assoluto è assoluto manifestarsi esso è realtà. In particolare, il capitolo del rapporto assoluto è sudiviso in tre sezioni: Sostanza, Causa, Azione reciproca. Le tre categorie kantiane della Relazione; 2) Realtà: - Wirklikheit – tradotto in genere con Realtà mentre sarebbe più opportuno tradurlo con Realtà in atto, nella misura in cui essa è differente dalla semplice fatticicità - Realitat –tradotta dal Moni con realtà. Il De Negri, nella Fenomenologia dello Sipito, traduce Wirklikeit con effettualità. La scelta del Ne Negri è giustificata dall’occorrenza di Wirkung in Wirklikeit ossia dell’effetto. Con effettualità dobbiamo allora intendere la realtà in quanto tale, la Realtà in atto, nella sua completa manifestazione . La differenza tra il capitolo sulla Realtà ed il Terzo capitolo, quello realativo al Rapporto assoluto, sta nel fatto che il concetto di Realtà esprime la Realtà in quanto tale manifestazione, in quanto in essa non c’è distinzione tra esterno ed interno, tra sostanza e accidente, tra essenziale e inessenziale. In misura maggiore, nel capitolo sull’Assoluto, si mostra dell’Assoluto quell’atto per cui l’ Assoluto pone se stesso: la relazione dell’Assoluto con se stesso ossia la relazione con cui 67 l’Assoluto pone se stesso. Solo in quanto l’Assoluto pone se stesso l’Assoluto è tale. In questo concetto Hegel esprime già compiutamente la risoluzione della sostanza nel soggetto. fÉáàtÇétM fÑ|ÇÉét La sostanza spinoziana è espressa da un concetto che non abbisogna di altro per essere definito: una realtà che non ha bisogno di altro per esistere. Essa, per Spinoza, è potenza (Macht) ossia indipendenza ontologica; essa dipende dalla propria potenza, non è sottomissibile a nessuna altra potenza: causa sui. Gli effetti della Sostanza non sono dunque mai al di là di sè: tutti gli effetti di questa causa devono ricadere nella sostanza. Sin qui Spinoza, che esprime la diversità tra “causa” ed “effetto” con “natura naturans e natura naturata”: due lati della Natura. Ora sembrerebbe che sia il primo lato della natura, il suo essere causa, ad esprimere la sostanzialità della Sostanza: Hegel mostra invece che è in forza del secondo lato che la Sostanza è tale. Il primo lato, afferma Hegel, è pura e semplice attività ma non è sostanza: è la sostanza passiva a poterci condurre alla sostanza come cosa che è. E’ solo perchè c’è un effetto che diciamo che una cosa è causa. Hegel utilizza il termine “substrat” per richiamare la sostanza passiva: puro e seplice essere posto. Qui assistiamo ad un passo centrale: se l’effetto è la condizione per cui la causa è causa, allora l’effetto è il presupposto della causa. Quindi l’effetto si capovolge nel presupposto. Tale risultato, che l’effetto è presupposto della sostanza, va però di pari passo secondo Hegel, con la verità che l’effetto è comunque posto dalla causa. Ora nell’Assoluto hegeliano, causa ed effetto esprimono una unica realtà: sono lo stesso, detto altrimenti la sostanza deve presupporsi o porsi come sostrato immediato. Sin qui siamo dentro Spinoza. Ma proprio questa identità dei due momenti, causa ed effetto, che identificano La sostanza ancora come una cosa che sta, che permane, quello che resiste è solo il movimento: illl puro movimento del porsi reciproco. Pura e semplice mediazione. Quindi, in conclusione, non c’è una cosa che pone ed un posto che sta, che permane, piuttosto è solo l’azione del Porre che rimane. Spinoza tine ferma la sostanza solo in quanto presuppone il movimento del Porre: la vera natura della sostanza. 68 Y|ÄÉáÉy|t wxÄÄt fÑ|Ü|àÉ La natura secondo Hegel, si presenta come una mescolanza di casualità e necessità, questo perchè le singole distinzioni naturali si presentano come, de facto, realmente contrapposti dato che un medesimo spazio non può essere occupato da due entità differenti. In questo senso la natura non è immediatamente riconducibile ad un sistema di leggi e classificazioni: da un lato le leggi naturali ma dall’altro la grossolanità dell’accidentalità e molteplicità dei singoli fenomeni naturali. Ora, più compitamente, lo Spirito si manifesta nella sua completezza e razionalità nel momento del ritorno a sè dell’Idea, appunto il momento dello Spirito, l’ultima fase di sviluppo dell’Assoluto in cui Esso prende posse sso della propria natura razionale e della propria libertà106. In effetti la staticità della natura, intesa come il semplice riprodursi biologico, necessita di essere superato: l’Idea deve quindi manifestarsi completamente nello Spirito che si attua concretamente nella storia. Ecco che allora l’esteriortà della natura viene superata nel ritorno a sè dello Spirito dopo la sua esteririzzazione nella natura e come tale rappresenta la sintesi di Idea e natura. Lo spirito dunque consiste nella presa di coscienza di sè come oltrepassamento della realtà naturale e biologica che si compie nell’uomo. Egli allora si comprende prima come semplice realtà biologica per poi compredersi come vitalità universale. Ancora l’uomo si compreden come momento dell’Assoluto, momento della razionalità universale che si manifesta nella vita del singolo individuandosi come soggetto cosciente di sè. Potremmo anche dire che lo Spirito si esprime nell’umanità in tutte le sue dimensioni. Il processo dello spirito si esprime, come sempre nel procedere dialettico, in Spirito soggettivo, ogggetivo ed Assoluto: coscienza individuale, fenomeni sociali e politici, cultura (conoscenza di sè mediante le proprie realizzazioni). In particolare, nello Spirito oggettivo, ossia nel processo storico del mondo umano, la libertà che lo spirito soggettivo può solo volere, si realizza sebbene in modo finito. La filosofia dello spirito oggettivo mira quindi a presentare la razionalità dello sviluppo storico, finalisticamente orienato allo sviluppo dello spirito assoluto. Nello specifico il mondo umano, al di là dell’accidentalità dei singoli accadimenti, presenta una razionalità manifestata dal complesso dei fatti e degli stati di cose che accadono secondo uno sguardo sub specie aeternitatis, proprio della ragione (semplice apparenza della involuzione dei singoli fatti storici) e non dell’intelletto. Dirito astratto, moralità ed eticità sono i momenti in cui si articola lo Spirito oggettivo: conretamente senza società e senza stato, senza un sistema sociale, non esisterebbero nè moralità nè diritto; d’altro cato uno Stato non sarebbe tale senza moralità dei cittadini regolati nei loro rapporti dal Diritto. Come dire che la vera libertà non si realizza astrattamente nella propria moralità che si oppone al mondo, ma solo concretamente nelle istituzioni. Un esempio è costituito dalla famiglia, dalla società civile e dallo Stato. Solo nello Stato infatti, o anticipatamente nella famiglia, l’individuo 106 Cfr. Geymonat, cit. pagg. 807 e sgg. Comment [WU80]: Il termine Idea , dalla radice Id che indica il “vedere”, indica l’archetipo eterno ed intelligibile del mondo sensibile nella tradizione platonica. In hegel: 1)L’inero processo del pensiero; 2)La realtà; 3)La natura come idea oggettivata ; 4)L’assoluto in cui coincidono realtà e pensiero. Comment [WU81]: Se Kant parla di Spirito riferendosi al potere produttivo e creativo della ragion pura, Hegel si riferisce, in modo più metafisico, alla forza vitale immanente allla natura ed alla storia. Lo spirito può essere definito come razionalità oggettiva coincidente con la realtà umana nelle sue manifestazioni conoscitive, politiche, culturali e storiche. Quindi sia spirito soggettivo, come singolo uomo nelle sue manifestazioni teoretiche e pratiche, che spirito oggettivo come realizzazione sociale nelle istituzioni e nella storia. Lo spirito assluto poi rappresenta la conoscenza esplicita della struttura logica del reale che manifesta nell’arte, religione, filosofia). 69 diventa realmente libero. Ma cos’è dunque la libertà per Hegel? E’ volontà razionale, ed in quanto tale universale: come dire che la volontà del singolo è capacità di perseguire fini razionali (influsso kantiano) che si relizza compiutamente nello stato. L’azione del singolo di attua quindi solo mediante leggi e principi universali che consentono al singolo di vivere e così identificarsi nelle itituzioni che lo governano. Sebbene nella sfera individuale sussita una volontà libera, solo nel tessuto collettivo, o meglio nello Stato etico, essa si realizza. Solo nel tessuto sociale l’individuo si ri- conosce e riconosce il valore dellle regole, in cui coglie la concreta realizzazione della propria essenza razionale ed universale. Per altro verso v’è da dire che Hegel respinge le teorie contrattualistiche in quanto le considera espressione del diritto privato; nè la volontà popolare è assunta da Hegel in senso positivo, piuttosto il “popolo senza il suo monarca è espressione informe”. 70 _t y|ÄÉáÉy|t wxÄÄt áàÉÜ|tDCJ 107 Per Hegel107 la storia è mossa dalle passioni umane: amore, ambizione, vanità. Solo che gli uomini agiscono in vista dei propri interessi gli uni verso gli altri: alla fine ciò che ne risulta, è qualcosa di diverso. La Storia ha un senso e bisogna scoprirlo: a prima vista sembra un banco di macellaio, invece HEGEL ritiene che sia necesario trasformare questo qualcosa in qualcosa di visibile. Una delle frasi più fraintese di Hegel recita: ciò che è razionale è reale e cio che reale è razionale. Hegel,107 con questa affermazione intende riferirsi alla storia, non tanto ad un qualcosa inteso come realtà empirica, fattuale, bensì alla storia effettiva come depurata dalle nostre proiezioni: la storia va vista insomma come un procedere razionale anche se attraversato da contraddizioni. Ed è la ragione, diversamente dall’intelletto che è classificatorio, a contenere in sè delle contraddizioni-. Tali contraddizioni sono previste, incluse nella Dialettica inteso come sviluppo mediante contraddizioni. Quindi lo sviluppo contraddittorio della Storia va studiato indipendentemente dai nostri desideri e proiezioni. Quello di Hegel è quindi un richiamo al realismo. Ora, questo termine dialettica, mentre in Kant significava una apparenza necessaria, in H. è l’introduzione del divenire nella realtà: dissoluzione della rigidità. Questo perchè in H. Non c’è dissoluzione tra Pensiero e Mondo come in Kant. Anzi la Fenomenologia dello spirito è quel percorso che porta alla ontologia. Al Logos che conosce l’essere ed all’essere che si può spiegare attraverso il Pensiero. Spesso di dice che H. distrugge il principio di non contraddizione. Ora in H. non si tratta di questo: nella logica ad esempio, non posso pensare al Tempo come semplice unione di essere e nulla. Non si tratta nè dell’essere nè del nulla, bensì della loro reciproca interazione come conservati e superati. Il pensiero dialettico è quindi il pensiero della vita: senza usare categorie fisse. D’altra parte il termine Dialettica è stato abusato. La Dialettica in H. è solo il momento dissolutivo mentre è la speculazione il punto d’arrivo ossia il sapere Assoluto: gli uomini attraverso il pensiero capiscono la natura ma poi l’uomo nel rappresentarsi le cose ritorna in se stesso. L’oggettività è ad esempio fare le istituzioni, poi l’oggettività non mi basta perchè ho bisogno del riconscimento delle istituzioni. Lo spirito oggettivo è infatti la necessità, come il denaro, la fabbrica, di vedere e toccare qualcosa per l’uomo. Noi ereditiamo allora le azioni degli altri in libri, quadri, etc. Cio che era il nostro progetto si realizza e si trasmette107. La filosofia ha il compito di capire come il nostro modo di pensare sia venuto ad influire sulla realtà: i Pensieri agisono insomma sulla realtà concreta. La filosofia, è presentata da H. - nel 1821 - come la civetta che ha grandi occhi per vedere nella notte: H. sa che un’epoca storica si sta chiudendo e sta per aprirsene per aprisene un altra. La storia è quindi sempre al lavoro, quasi esisitesse una talpa che lavora nella storia per produrre degli effetti concreti sulla società e sul singolo. Mentre la filosofia guarda dunque, la Storia lavora: i tedeschi sono la civetta, i francesi la talpa che agisce. La Storia però non basta, la cerniera tra spirito oggettivo ed assoluto. Ma cos’è lo sprito Assoluto: quella specie di specchio su cui ognuno di noi si riflette per comprendere la realtà (Remo Bodei – Hegel e la dialettica) Hegel utilizza il termine Dialettica intesa come attività di dissoluzione di ciò che rappresenta il Divenire 71 In misura concreta, il fine della storia si attua attraverso le voceden degli stati, in quanto gli spiriti dei singoli popoli sono momenti dell’unico spirito del mondo, l’umanità, che si relizza nei singoli passaggi della storia. Ceto, secondo hegel, la stpria si attua in modo conflittuale: il confronto bellico tra i popoli esprime l’incarnazione dello spirito universale; la guerra designa un vincitore: punta avanzata della razionalità in quel preciso momento storico. Come dire che la guerra sancisce la decadenza di un popolo e l’ascesa di un altro attraverso singoli uomini che, in modo non intenzionale, concorrono allo sviluppo dell’umanità. Lo sviluppo dell’umanità, all’interno del procedere della storia, accade attraverso la manifestazione della propria concezione della realtà la cultura. La cultura in effetti, è l’insieme delle forme in cui un popolo manifesta la propria concezione della realtà, ossia il pensiero estrinsecato in un contesto, sintesi del momento soggettivo ed oggettivo dello spirito. Le diverse espressioni della cultura costituiscono infattti lo spirito assoluto: la consapevolezza della realtà di un determinato tempo espressa via via nell’arte, nella religione e nella filosofia. Nello specifico la filosofia, la propria filosofia secondo Hegel, rappresenta il punto di arrivo dell’intera evoluzione dello spirito anche se la ragione non può negare che vi sia sempre ancora la possibilità di un superamento, cioè del futuro, ma non è suo compito conoscerlo. 72 _t wÉààÜ|Çt wxÄ `xàÉwÉM X|ÇÄx|àâÇz „ \ÇàÜÉwâé|ÉÇx tÄÄt yxÇÉÅxÇÉÄÉz|t wxÄÄÉ fÑ|Ü|àÉ @DKCJ La Einleitung, cotituisce l’introduzione alla Fenomenologia dello Spirito ed è correlata alla prefazione (Vorrede) della Fenomenologia sebbene scritta alla fine dell’opera stessa. Una specie di sintesi della filosofia hegeliana. Essa si presenta come una vera e propria Dottrina del metodo secondo Hegel: una dottrina che sconfessa il metodo filosofico, ogni metodo, presente sino ad allora. Secondo Hegel, nella Einleitung, c’è differenza tra scienza filosofica e filosofia ed una sconfessione del metodo e della scienza filosofica. In una battuta, essa non è quindi filosofia. Una presa diposizione contro Cartesio e soprattutto Kant. • cÜ|Åt ÑtÜàxM vÉÇàÜÉ |Ä ÅxàÉwÉ |Ç Y|ÄÉáÉy|t • fxvÉÇwt ÑtÜàxM tÇvÉÜt wâx ÑtÜÉÄx áâÄ ÅxàÉwÉA In ordine al primo pnto, afferma H., prima di affrontare la cosa stessa, la conoscenza della verità dell’essere, sembra lecito chiedersi se il conoscere, lo strumento utilizzato a conoscere la cosa stessa, sia idoneo a questo compito (riferimento a Kant, alla prime pagine della Ragion Pura). La preoccupazione nasce dal saggiare lo strumento del conoscere, se così non fosse potremmo incappare nelle nubi dell’errore e non raggiungere il cielo della verità. Eppure questa preoccupazione per H. è insensata: 73 Un primo pregiudizio a riguardo è relativo al fatto che il conoscere sia un medio che filtra la realtà e ci dovrebbe far entrare in contatto con la realtà. H.non è d’accordo108. Secondo aspetto pregiudiziale : che ci sia una differenza tra noi ed il conoscere: noi siamo o saremmo dunque differenti dal conoscere e dovremmo valutare lo strumento del conoscere in un modo non precisato. Terzo aspetto pregiudiziale, quello capitale: l’Assoluto, la realtà, sta da una parte e la conoscenza dall’altra. La conoscenza non è forse reale?109 Se la cosa stessa, la realtà sono da una parte ed il conoscere dall’altra allora la conoscenza non è vera. Se la conoscenza è intesa come mezzo allora siamo già in difficoltà nel raggiungere le cose in se stesse. Ora questo affacendarsi in tali discorsi ,secondo H., ha a che fare con il timore della verità: scrive Hegel: “...non c’è bisogno di questi inutili discorsi, attraverso cui sia dato scorgere la verità, (...) non c’è bisogno di quelle scappatoie.”(Traduzione De Negri). Invece il primo compito della filosofia è dare il concetto e la definizione di ciò di cui sta parlando (Aristotele). Hegel esclude che noi siamo altra cosa dal conoscere, dalla verità: l’Assoluto ed il Vero invece coincidono. Noi siamo110 già nella verità, viceversa se non fossimo nella verità non ci entreremmo mai. Eppure non siamo l’Assoluto anche se noi siamo parti della realtà, nel mondo, ci siamo già, questo non può essere rifiutato. Ma di nuovo, pur essendo nell’Assoluto non siamo l’Assoluto. Piuttosto noi siamo nell’Assoluto, nella differenza dall’Assoluto e nella differenza del sapere: siamo come il percorso della coscienza e del sapere che sperimentiamo ogni giorno come caduco, come errore, come differenza dall’Assoluto. Siamo dunque l’essere in errore. 111 Assistiamo dunque ad una rivoluzione: contro Kant che afferma che la metafisica è densa di errori da secoli, Hegel afferma il contrario. L’errore e la verità, secondo Hegel, sono dunque in qualche modo collegati, non stanno in due mondi separati. Si tratta, dice Hegel, di un cammino tragico e doloroso: il cammino di una coscienza che è errore (errare) che prosegue nel dubbio (figura dello scetticismo)che non può mai essere abbandonato. Una coscienza che sperimenta il franare continuo del suo fondamento: lungi da essere uno scandalo, questo continuo errare e sperimentare la propria caducità è la stessa manifestazione dell’Assoluto. Si tratta dice Hegel di uscire allora dal pregiudizio che stare nella verità sia uno stare fermi, un possesso definitivo: una epistéme. La verità è invece movimento, dubbio, divenire, dubbio ed incertezza. Il metodo filosofico non è quindi una intuizione (intuitus mentis), un termine medio 108 Sini, La storia della conoscenza.Videolezione on line 109 Ibidem. 110 Ibidem. 111 Ibidem. 74 attraverso cui ci giunge la verità. NON è il termine medio, lo strumento che ci consente di catturare la verità dunque. Nel cammino del dubbio vi è poi un secondo punto: l’insufficienza del sapere non è un risultato negativo. Quel negativo, quella negazione determinata non è il puro nulla bensì l’esperienza che la coscienza fa del suo cammino e del suo sapere. L’intera Storia della filosofia non è il luogo della sconfitta: è il luogo dellla sua vittoria invece, non è pura negatività. E’ il luogo del suo calvario e della sua resurrezione. Ed ecco allora che le nubi dell’errore non devono diradare: sono questo cielo della verità ed hanno una realtà, seppure parziale. Scrive H.: “ Il sapere è necessariamente inerente la meta, non meno che la serie del processo, la meta è là dove il sapere non ha più bisogno di andare oltre se stesso. (...) la coscienza è per se stessa il suo concetto. Ed è quindi l’atto del sorpassare il limitato e poichè questo limitato gli appartiene, del áÉÜÑtáátÜx áx áàxáát.” (Tr. De Negri) Ora, le figure del sapere, procedono di nube in nube vaneggiando la verità: pretendendo ognuna di essere la verità, nella sua parzialità. Ecco che allora l’oggetto del sapere continuamente muta: in quanto l’Assoluto si manifesta senz’altro nel particolare, senza però esaurirsi nel particolare112. Dunque il percorso del sapere filosofico e della coscienza 112 Ibidem.