La Ricerca dei Pianeti Extrasolari Facoltà di Scienze Matematiche Fisiche Naturali Corso di laurea in Fisica e Astrofisica Candidato Giammarco Campanella n° matricola: 1061676 Relatore Ch.mo Prof. Pietro Giannone Anno Accademico 2006/2007 Data 27 Febbraio 2008 Università degli Studi di Roma “La Sapienza” Estratto LA RICERCA DEI PIANETI EXTRASOLARI di Giammarco Campanella Relatore: Professore Pietro Giannone Negli ultimi anni lo studio dei meccanismi di formazione ed evoluzione dei sistemi planetari ha ricevuto una considerevole spinta dalla scoperta di più di 260 pianeti extrasolari, principalmente grazie all’analisi delle variazioni delle velocità radiali delle stelle. Mentre parecchie caratteristiche generali dei sistemi planetari stanno incominciando ad emergere, ancora poco è noto riguardo diversi aspetti, collegati per esempio ai possibili meccanismi che portano alle configurazioni dei sistemi planetari osservati (semiasse maggiore, eccentricità orbitale, masse planetarie, ecc.). Tutto ciò ha un impatto significativo sulla determinazione della frequenza dei pianeti in generale e di quelli in grado di ospitare la vita in particolare. La struttura della tesi è la seguente. Nel Capitolo 1 viene fornito un quadro storico relativo all’argomento oggetto della dissertazione. Nel Capitolo 2 vengono presentati i metodi utilizzati per l’individuazione degli esopianeti. Si mostrano con una speciale attenzione le tecniche riguardanti la velocità radiale, l’astrometria e la fotometria e si offre una panoramica generale su altri metodi concernenti le microlenti gravitazionali, il “pulsar timing”, i dischi circumstellari e protoplanetari e il rilevamento diretto. Nel Capitolo 3 sono esaminati alcuni aspetti generali riguardanti la ricerca in corso dei pianeti extrasolari. Vengono presentati alcuni programmi osservativi da terra, quali PLANET, HARPS, ELODIE e si descrivono alcune missioni spaziali in corso, e.g. COROT (CNES-ESA), e in fase di progettazione, quali KEPLER (NASA) e DARWIN (ESA). Infine nel Capitolo 4 sono brevemente presentate le attuali teorie concernenti la formazione dei pianeti, come l’accrescimento del nucleo e l’instabilità del disco. Inoltre, vengono commentati i meccanismi proposti della migrazione planetaria per spiegare la presenza di pianeti massicci in orbite molto vicine alle stelle ospitanti. Quindi sono discusse le proprietà generali degli esopianeti scoperti e le particolari caratteristiche dei pianeti extrasolari più peculiari. In più, vengono esposte le singolarità della Zona Abitabile e degli spettri che contraddistinguono l’attività biologica. SOMMARIO 1. Introduzione ........................................................................................ 1 2. Metodi di individuazione ..................................................................... 4 2.1 Velocità radiale ................................................................................................. 6 2.2 Astrometria ...................................................................................................... 17 2.3 Transiti ............................................................................................................. 23 2.4 Microlenti gravitazionali ................................................................................ 30 2.5 Variazioni degli intervalli di emissioni di una Pulsar ............................... 34 2.6 Dischi circumstellari e protoplanetari ........................................................ 35 2.7 Rilevamento diretto ....................................................................................... 36 3. I programmi di ricerca ....................................................................... 43 4. I sistemi planetari ............................................................................... 48 4.1 Teorie sulla formazione dei sistemi planetari............................................ 48 4.2 Le proprietà generali delle stelle e degli esopianeti scoperti ................... 49 4.3 Nomenclatura ................................................................................................. 52 4.4 Pianeti extrasolari degni di nota .................................................................. 53 4.5 Zona Abitabile e “Biosignatures” ............................................................... 57 5. Conclusioni ......................................................................................... 59 Bibliografia .............................................................................................. 60 i INDICE DELLE FIGURE 2.1 Perturbazione di una stella ...................................................................................... 6 2.2 Parametri orbitali di un sistema stella-pianeta in orbita circolare ............................. 7 2.3 Curva della velocità radiale di 51 Peg....................................................................... 8 2.4 Deformazione del profilo di riga stellare ................................................................... 9 2.5 Sviluppo delle tecniche Doppler nel corso degli ultimi decenni .................................. 10 2.6 Misure di velocità radiale per la stella Gliese 86 .................................................... 12 2.7 Moto e velocità del sistema Sole-Giove ................................................................... 13 2.8 Orbita kepleriana della stella attorno al centro di massa........................................ 14 2.9 Curve di velocità radiali messe in fase .................................................................... 15 2.10 Variazione di velocità radiali della stella HD82943............................................ 16 2.11 Il cammino perturbato di Gl 876 .......................................................................... 17 2.12 Esempio di orbita relativa ricostruita ..................................................................... 18 2.13 I parametri orbitali................................................................................................ 18 2.14 Il moto del Sole visto da 30 anni-luce di distanza .................................................. 22 2.15 Il sistema Gl 876 – Gl 876b ............................................................................... 22 2.16 La curva di luce di HD 209458 .......................................................................... 23 2.17 Schema di transito planetario ................................................................................ 24 2.18 Modello di transito planetario ................................................................................ 25 2.19 La curva di luce e la curva della velocità radiale di OGLE-TR-122 .................... 28 2.20 Schema di casi confondibili .................................................................................... 29 2.21 Il diagramma massa-raggio dei pianeti scoperti con tecniche fotometriche ................. 30 2.22 Individuazione di un pianeta attraverso una microlente .......................................... 32 2.23 La curva di luce dell’evento di microlente OGLE 2003-BLG-235 ...................... 33 2.24 La curva di luce della microlente con il pianeta OB053 ......................................... 33 2.25 Una stella e un pianeta in orbita attorno al comune centro di massa ...................... 34 2.26 Immagine di 2M1207 b e di GQ Lupi b ............................................................. 36 2.27 Contrasto di luminosità tra un pianeta e la sua stella madre ................................. 38 2.28 Principi della coronografia stellare .......................................................................... 40 2.29 Prestazioni ottenute col coronografo d’ADONIS e con quello del NACO............ 41 2.30 Simulazione delle prestazioni attese con un telescopio da 8m .................................. 42 3.1 Tutti i pianeti extrasolari scoperti al 31 agosto 2004 ............................................ 45 3.2 Il telescopio spaziale Kepler.................................................................................... 47 4.1 Distribuzione delle masse degli esopianeti .............................................................. 50 4.2 Distribuzione dei semiassi e delle eccentricità degli esopianeti .................................. 50 4.3 Le masse e i semiassi di alcuni esopianeti............................................................... 51 4.4 Probabilità di rivelazione dei pianeti in funzione della metallicità della stella ......... 51 4.5 La Terra messa a confronto con Gliese 581 c ........................................................ 56 4.6 La Zona Continuamente Abitabile attorno a stelle di classe diversa ...................... 57 4.7 Lo spettro nel medio-IR di Venere, Terra e Marte visti da 10 pc.......................... 58 ii INDICE DELLE TABELLE 2.1 Quantità base dei pianeti ........................................................................................... 5 2.2 Alcuni esempi di valori di segnali astrometrici .......................................................... 20 2.3 Risoluzione spaziale necessaria per separare angolarmente alcuni pianeti in orbite e a distanze diverse................................................................................................................ 37 3.1 Diversi programmi di ricerca sugli esopianeti ............................................................ 43 iii RINGRAZIAMENTI Vorrei ringraziare tutti quelli che mi hanno accompagnato in questa avventura: i miei amici, i ragazzi del Mazza, il Direttore Domaschio e Don Ugo ma soprattutto i miei familiari, mio padre Emilio, mia madre Wilma, mia sorella Cristiana, nonna Maria e nonna Rosa. Inoltre ringrazio il network "Exoplanets" diretto da Jean Schneider (Observatoire de Paris), Joseph Catanzarite (California Institute of Technology/Jet Propulsion Laboratory), Adrian Belu (Université de Nice) e Alessandro Sozzetti (University of Pittsburgh/Harvard Smithsonian Center for Astrophysics) per le rilevanti informazioni e suggerimenti che mi hanno fornito. iv Capitolo 1 INTRODUZIONE Ipotesi fantasiose di altri mondi diversi dal nostro, magari abitati da creature esotiche, sono state una parte integrante della nostra storia e cultura. I grandi della civiltà classica, come Democrito (460-371 a. C.) ed Epicuro (341-270 a. C.) e i filosofi e teologi medievali, quali Alberto Magno (1193-1280) e Giordano Bruno (1548-1600) immaginarono che potremmo non essere soli nell’Universo. Questi grandi pensatori seguivano un’antica tradizione filosofica e teologica, ma le loro idee, per quanto interessanti possano sembrare, non erano basate su nessuna evidenza sperimentale e osservativa. A quanto si sa, il primo cacciatore di pianeti extrasolari fu Christiaan Huygens, nel Seicento. Ma i tre secoli successivi videro solo falsi allarmi, speranze infrante e scoperte mancate. Si dovette arrivare al 1988 perché si registrassero i primi progressi: alcune rilevazioni di Gordon A.H. Walker e dei suoi collaboratori all’Università della British Columbia suggerivano la presenza di masse planetarie in orbita attorno a diverse stelle vicine. Gordon e colleghi, però, furono estremamente cauti e affermarono che quella dei pianeti in orbita era solo una delle possibili interpretazioni dei dati. In pochi presero in considerazione i loro studi. Un anno più tardi, David W. Latham dello Harvard Smithsonian Center for Astrophysics e quattro suoi collaboratori trovarono forti indizi di quello che poteva essere un pianeta in orbita attorno a una stella poco conosciuta, denominata HD 114762. Dato che il pianeta di Latham aveva una massa pari ad almeno 10 volte quella di Giove, gli astronomi ipotizzavano che si trattasse di una nana bruna, o di una stella ordinaria ma di massa molto piccola; e così anche questa notizia non finì sulle prime pagine. Nel 1992 Alexander Wolszczan della Pennsylvania State University e Dale A. Frail del National Radio Astronomy Observatory usarono un metodo per misurazioni temporali molto accurate e scoprirono due pianeti di massa simile a quella della Terra in orbita attorno alla pulsar PSR 1257+12. A quanto pare, questi mondi bizzarri si erano formati da un disco di detriti residui dell’esplosione della supernova che dette origine alla pulsar. Forse questo strano scenario spiega perché furono in pochissimi a ritenere che fosse stato scoperto un vero analogo del nostro sistema solare; eppure la scoperta di questi due mondi lontani fu il primo indizio del fatto che la formazione planetaria è un processo ordinario. Poi, nel 1995, due astronomi svizzeri, Michel Mayor e Didier Queloz dell’Osservatorio di Ginevra, stupirono il mondo quando individuarono un pianeta – che ha una massa pari a circa 150 volte quella della Terra e compie un’orbita completa in solo 4,2 giorni terresti – in orbita attorno a 51 Pegasi, una stella vicina non molto diversa dal Sole. Quando fu dato l’annuncio nel corso di un convegno scientifico a Firenze, le reazioni furono per lo più di incredulità. Un pianeta con un periodo orbitale così breve deve trovarsi molto vicino alla stella attorno a cui orbita, all’incirca un ventesimo della distanza tra la Terra e il Sole. Nel 1995 tutti ritenevano che i pianeti di grande massa dovessero trovarsi molto più perifericamente. Come era possibile che l’oggetto appena scoperto, denominato “51 Peg b”, potessero anche solo sopravvivere? Nel giro di pochi giorni altri astronomi verificarono le osservazioni di Mayor e Queloz e vari gruppi di astrofisici sottoposero a test i modelli al calcolatore di questo “Giove caldo”. Molti furono sorpresi quando i calcoli mostrarono che un pianeta come 51 Peg b poteva facilmente sopportare l’intensa radiazione stellare e che avrebbe presumibilmente perso solo una frazione trascurabile della propria massa nel corso dei suoi miliardi di anni di esistenza. 2 La scoperta di questo oggetto così strano e imprevisto diede vita a un nuovo rivoluzionario settore dell’astronomia: lo studio di sistemi planetari alieni. La ricerca dei pianeti extrasolari è considerata importante per tre ragioni principali: 1. Testare la nostra attuale comprensione sulla formazione dei sistemi (extra)solari. 2. Coadiuvare la ricerca della vita extraterrestre. 3. Fornire una visione complementare agli studi delle nane brune e delle stelle di piccola massa. Attualmente gli astronomi hanno scoperto più di 260 mondi extrasolari, che compongono sistemi planetari di stupefacente varietà. La recente individuazione di pianeti di massa 5 volte quella della Terra dimostra che gli esopianeti di piccola massa esistono. Tale esplosione nella scienza dei pianeti extrasolari è dovuta principalmente allo sviluppo di tecniche per l’individuazione degli esopianeti e all’elaborazione di modelli che spiegano le inaspettate caratteristiche mostrate da questi oggetti. 3 Capitolo 2 METODI DI INDIVIDUAZIONE I pianeti extrasolari sono incredibilmente difficili da rivelare. Ciò è dovuto al fatto che essi non brillano di luce propria, ma di luce riflessa della stella attorno a cui orbitano. Di conseguenza, sono molto meno luminosi della propria stella madre (nel caso di Giove, per esempio, di un fattore 1010). Pertanto, per trovare gli esopianeti si utilizzano principalmente metodi indiretti. Le cinque principali tecniche usate attualmente sono: 1. Spettroscopia Doppler 2. Astrometria 3. Fotometria di transito 4. Microlenti gravitazionali 5. Pulsar timing Questi metodi si basano sul fatto che un pianeta esercita una piccola influenza sulla stella ospitante mentre si muove lungo la propria orbita. Osservando i cambiamenti nella stella madre, si può dedurre la sua esistenza. Dato che i cambiamenti diventano maggiori man mano che il pianeta ha valori crescenti della massa, è più semplice rivelare pianeti gioviani che pianeti terrestri. 4 Tabella 2.1: Quantità base dei pianeti. Sole Giove Terra HD 209458b 1.99.1030 1.9.1027 5.98.1024 1.31.1027 4.85 25.5 27.8 - 696000 71474 6378 94346 P (giorni) - 4329 365 3.52 Semiasse - 5.2 1 0.045 - 12.5 0.09 86.52 - 520 100 4.5 Contrasto 1 1.82.108 1.5.109 - Profondità del - 1.01 0.0084 1.7 Massa (kg) MV (mag) Raggio (km) maggiore (UA) Semiampiezza VR del moto riflesso (m/s) Semiasse maggiore proiettato a 10 pc (mas) transito nella curva di luce (%) 5 2.1 Velocità radiale Iniziando con la scoperta di un pianeta attorno alla stella 51 Pegasi, il metodo della velocità radiale (VR), o della spettroscopia Doppler, si è mostrato sino ad oggi il più affermato nella ricerca dei pianeti extrasolari. La maggior parte degli esopianeti conosciuti sono stati in effetti scoperti e confermati misurando la variazione della VR della stella lungo la sua orbita attorno al baricentro del sistema stella-pianeta. (Figure 2.1 e 2.2). Figura 2.1: Vista schematica della variazione della lunghezza d’onda della luce di una stella per effetto di un pianeta in orbita così come vista da Terra. La stella si muove attorno al centro di massa del sistema planetario e il suo spettro appare spostato verso il blu quando si avvicina all’osservatore e verso il rosso quando se ne allontana. La stella compie una piccola orbita circolare di raggio as = a p ⋅ Mp Ms con un periodo pari al periodo orbitale P del pianeta. Ciò determina le perturbazioni di tre quantità osservabili della stella: la velocità radiale viene 6 perturbata di δ VRs = 2π as as , la posizione angolare di δα s = e il P D tempo d’arrivo del segnale di δ Ts = as , con D distanza stella-osservatore e c c velocità della luce. Figura 2.2: Parametri orbitali di un sistema stella-pianeta. La stella s di massa Ms e il pianeta p di massa Mp sono in orbita circolare attorno al centro di massa cm del sistema. I raggi orbitali sono as per la stella e ap per il pianeta. L’angolo i tra la normale al piano orbitale e la direzione di vista è l’angolo d’inclinazione orbitale. La velocità radiale Vs della stella misurata lungo la direzione di vista dipende dal seno dell’angolo d’inclinazione orbitale (da Alonso 2006). Le precisioni tipiche richieste per la misura della VR, al fine di rilevare esopianeti, possono essere ottenute dalla Tabella 2.1. Le semiampiezze delle curve delle VR sono ~50-100 m/s per i pianeti gioviani caldi (“Hot Jupiters”) (come 51 Peg b, Figura 2.3), pochi m/s per pianeti simili a Giove che percorrano orbite ampie e qualche cm/s per pianeti simili alla Terra. 7 Figura 2.3: Curva della velocità radiale di 51 Peg rilevata dal SARG (“Spettrografo ad Alta Risoluzione per Galileo”). Sono necessari spettri stellari sia di alta risoluzione che di alto rapporto segnale/rumore per determinare gli spostamenti delle lunghezze d’onda dovuti al moto relativo della stella visto dalla Terra, anche nei casi più semplici. Questo metodo favorisce la rilevazione sia di esopianeti di grande massa che di quelli di corto periodo. La maggior parte dei pianeti scoperti con la tecnica della VR possiedono masse dell’ordine di Giove, semiassi maggiori a fino a 0.05 UA e periodi dell’ordine di giorni o pochi anni. La maggior parte degli obiettivi indagati durante la ricerca degli esopianeti sono stelle di sequenza principale, tipicamente di tipi spettrali F-G-K, perché i loro spettri sono più adatti per l’analisi. Infatti, le stelle più calde e più massicce di quelle di tipo F5 sono dei rotatori veloci con caratteristiche spettrali che impediscono misure precise di VR (Perryman 2000). Le stelle giovani o giganti mostrano, nei loro spettri, effetti Doppler intrinseci. Le macchie, le zone cromosferiche attive, le disomogeneità convettive e le variazioni fotometriche generano infatti un moto periodico della superficie della stella che può imitare gli effetti di un moto baricentrico stellare (Figura 2.4). L’analisi delle stelle attive richiede quindi lo sviluppo di tecniche adatte a correggere le VR per questi fenomeni (Saar e Donahue 1997). 8 Figura 2.4: Deformazione del profilo di riga stellare dovuta ad una macchia che introduce un effetto Doppler apparente. Ad oggi, gli attuali strumenti e tecnologie permettono misure con precisioni anche superiori ad 1 m/s (Mayor et al. 2003) (Figura 2.5). Esopianeti di masse 21, 14 e 7.5 volte quella della Terra (in orbite di corto periodo) sono stati scoperti recentemente (Butler et al. 2004, Santos et al. 2004 e Rivera et al. 2005). Si può ragionevolmente pensare che, durante i prossimi anni, le misure Doppler supereranno il muro del km/h (28 cm/s) permettendo quindi l’individuazione di Terre calde e di super-Terre nella zona abitabile. Tuttavia, l’aumentare della precisione nelle misure di VR condurrà ad un limite naturale: il jitter della VR causato dal “rumore” stellare intrinseco. 9 Figura 2.5: Sviluppo delle tecniche Doppler nel corso degli ultimi decenni. L’ampiezza della velocità è collegata alla massa stellare, alla massa dell’esopianeta, al periodo e all’eccentricità dell’orbita. Usando la terza legge di Keplero è possibile stabilire il semiasse maggiore dell’orbita. Tuttavia la massa dell’esopianeta dipende dall’inclinazione orbitale attraverso il fattore sin i; perciò, la VR fornisce solo un limite inferiore alle masse. È possibile trovare il vero valore della VR solo quando il piano orbitale del pianeta si trova lungo la nostra direzione di vista (“edge-on”). Se, invece, il piano orbitale del pianeta è ortogonale alla direzione di vista (“face-on”), non è rilevabile alcuno spostamento delle righe spettrali e la presenza del pianeta rimarrà sconosciuta. Inoltre, a causa di questo inconveniente è possibile che qualche “pianeta” scoperto attraverso la spettroscopia sia in realtà una “nana bruna”. Perciò, quando è possibile, si combinano i risultati ottenuti col metodo della velocità radiale con le osservazioni astrometriche e fotometriche al fine di ottenere la corretta interpretazione. 10 La VR di una stella può essere ricavata dall’analisi del suo spettro, utilizzando la relazione per l’effetto Doppler-Fizeau, che lega la velocità di un corpo in movimento alla lunghezza d’onda misurata ∆λ λ = ∆v c (2.1) Lo spostamento delle righe di assorbimento prodotto dal fenomeno è relativamente piccolo dato che una variazione di velocità di 12 m/s corrisponde, nel visibile, ad uno spostamento delle righe spettrali di soli 0.2 mÅ. Ciò rappresenta solo qualche millesimo della larghezza tipica delle righe spettrali. In realtà, al risultato ottenuto per le VR conviene sottrarre la componente della velocità legata alla deriva dello spettrografo e quella legata al movimento della Terra. VR = Vspettro − Vderiva − VTerra (2.2) La componente di deriva strumentale è, la maggior parte delle volte (eccetto per gli spettrografi sotto vuoto), dominata dalle variazioni d’indice di rifrazione dell’aria, collegate alle variazioni di temperatura e di pressione atmosferiche. Una variazione di 1 mbar induce uno spostamento delle righe dell’ordine dei 90m/s. Una variazione di temperatura di 1°C produce uno spostamento dell’ordine dei 300 m/s. (si veda Bouchy 2005a per approfondimenti). Misurando lo spettro stellare nel tempo, si possono così ricavare le variazioni periodiche che indicano la presenza di un pianeta (Figura 2.6). 11 Figura 2.6: Misure di velocità radiale per la stella Gliese 86 nella costellazione dell’Eridano. Le misurazioni suggeriscono la presenza di un pianeta con un periodo orbitale di 15.8 giorni. La massa calcolata per il pianeta è circa 5 volte quella di Giove. La semiampiezza K della VR può essere espressa con la seguente relazione (2.3) dove G è la costante gravitazionale di Newton, P il periodo orbitale del pianeta, Mp la massa del pianeta, M* la massa della stella ed e l’eccentricità orbitale. Utilizzando la terza legge di Keplero, il periodo viene espresso con (2.4) dove a è il semiasse maggiore dell’orbita planetaria. 12 Considerando un’orbita circolare vista di profilo (e=0, sin i =1) l’equazione per la semiampiezza diviene (2.5) A titolo di esempio riportiamo i valori di alcuni cambiamenti di velocità indotti sul Sole a causa dei pianeti: K = 12.5 m/s nel caso di Giove (Figura 2.7), K = 2.7 m/s in quello di Saturno e K = 0.09 m/s per la Terra (Tabella 2.1). Perciò, i pianeti giganti (qualche massa gioviana) con orbite strette (più piccole di 1 UA) producono grandi valori di K, più facili da misurare. Inoltre la più piccola massa planetaria rilevabile varia come la radice quadrata del semiasse maggiore. Quindi, misurando il periodo, conoscendo la massa della stella e utilizzando la (2.4) e la (2.5), è possibile ricavare a e Mp. Figura 2.7: Moto e velocità del sistema Sole-Giove. 13 Inoltre, la definizione completa della curva della VR conduce alla determinazione di 6 parametri del sistema: – V0 la velocità del centro di massa, chiamata anche velocità sistematica, – K la semiampiezza della velocità, – P il periodo orbitale, – TP l’epoca del passaggio al periastro, – e l’eccentricità, – ω l’argomento del periastro. Figura 2.8: Orbita kepleriana della stella attorno al centro di massa (cm) del sistema stellapianeta. M* indica la stella, a1 è il semiasse maggiore dell’orbita ellittica, E è l’anomalia eccentrica, ν è l’anomalia vera ed r il vettore di posizione della stella. La freccia in punto-tratto indica il nodo ascendente a partire dal quale viene calcolata la distanza angolare del periastro dal nodo. La direzione dell’osservatore, non rappresentata, punta verso la parte inferiore sinistra della figura. 14 La Figura 2.9 mostra 4 esempi di curve di velocità radiali messe in fase con V0=0 m/s e K=100 m/s. Figura 2.9: Curve di velocità radiali messe in fase per diversi valori dell’eccentricità e dell’argomento del periastro w. La fase 0 corrisponde al passaggio al periastro. Nei casi in cui più di un oggetto orbita attorno alla stella osservata, le oscillazioni vengono modulate. 15 Figura 2.10: Variazione di velocità radiali della stella HD82943, che possiede due pianeti in risonanza 2:1 (Mayor et al. 2004). Le leggi della dinamica di due corpi non sono più sufficienti per descrivere questi sistemi. La definizione dei parametri deve allora tenere conto delle interazioni gravitazionali tra i diversi pianeti. Al fine di rilevare semiampiezze K di poche decine di m/s e per individuare esopianeti di massa piccola od orbite ampie, è necessario seguire delle procedure adatte di acquisizione e analisi dati (si veda Butler et al. 1996 e Mayor et al. 2003 per precisioni di 3 m/s e 1 m/s rispettivamente e Bouchy 2005a e Martinez Fiorenzano 2006 per gli accorgimenti tecnici). La maggior parte dei pianeti scoperti attraverso la spettroscopia sono dei pianeti gioviani caldi, cioè probabili luoghi non adatti alla vita, come noi la conosciamo. Per di più, la loro prossimità al centro di un sistema planetario rende improbabile la possibilità che pianeti simili alla Terra possano essere sopravvissuti nelle loro vicinanze. Quindi, mentre le scoperte fatte con la 16 spettroscopia stabiliscono la cospicua presenza di pianeti nel cosmo, la maggior parte dei sistemi identificati sono solo di uso limitato nella ricerca della vita nell’Universo. 2.2 Astrometria Una stella in un sistema planetario si muove attorno al baricentro lungo un percorso circolare o ellittico e proiettato sulla sfera celeste. Questo moto può essere osservato e misurato con l’astrometria. Essa è la più antica tecnica utilizzata per la rilevazione degli esopianeti e permette di studiare le precise e periodiche perturbazioni che un “compagno invisibile”, quale un pianeta o una nana bruna, causano sulla stella. Innanzitutto, si provvede a rilevare il percorso della stella sulla sfera celeste (Figura 2.11). Figura 2.11: La stella Gl 876 percorre un cammino oscillante rispetto alle “stelle fisse”. Ciò è dovuto alla presenza del pianeta Gl 876b (Benedict 2005) Quindi i dati rilevati vengono raccordati a un modello di moto orbitale kepleriano. 17 Figura 2.12: Esempio di orbita relativa ricostruita. L’orbita kepleriana richiede la determinazione di 7 parametri: il semiasse maggiore a, il periodo P, l’eccentricità e, l’inclinazione i, la posizione angolare della linea dei nodi Ω, l’argomento del pericentro ω e l’epoca del passaggio al pericentro τ. Misurando le componenti del moto orbitale, è possibile determinare l’inclinazione i, l’eccentricità e, il periodo orbitale P, il semiasse maggiore a (Asada et al. 2004). Quindi, combinando i valori ottenuti con i dati delle velocità radiali, si può determinare la massa dell’esopianeta senza ambiguità. Figura 2.13: I parametri orbitali. 18 Se la massa della stella è M*, e la massa del pianeta è Mp, allora, assumendo un’orbita perfettamente circolare, il raggio dell’orbita stellare attorno al centro di massa del sistema, scalato per la distanza dall’osservatore, viene chiamato segnale astrometrico (ampiezza angolare): α= Mp a M* D (2.6) Se Mp e M* sono forniti in unità di massa solare, a in UA e D in pc, allora α è in arcsec. Con l’astrometria, è possibile studiare un campione di stelle maggiore (es.: di masse maggiori, giovani e della pre-sequenza principale) e superare alcuni limiti che si presentano durante le osservazioni delle VR. Inoltre sarebbe possibile rilevare esopianeti attorno alle stelle giovani, al fine di indagare il tempo-scala della formazione planetaria e dei processi di migrazione. Poiché il segnale astrometrico cresce linearmente col semiasse maggiore a dell’orbita planetaria, sono più facilmente rilevabili quei sistemi di massa anche piuttosto piccola che hanno un valore abbastanza grande di a. Nel caso di un sistema planetario multiplo, non basta considerare semplicemente orbite kepleriane indipendenti, ma si devono avere ulteriori informazioni, quali ad esempio, le espressioni analitiche approssimate che descrivano le perturbazioni gravitazionali e le conseguenti variazioni temporali degli elementi orbitali. Il metodo astrometrico richiede misurazioni di posizioni angolari numerose e molto accurate, in un sistema di riferimento ben definito. Un osservatore che si trovasse a 10 pc dal Sole rileverebbe un’ampiezza angolare di 500 microsecondi d’arco per il moto di Giove e un’ampiezza di 0.3 µas nel caso 19 della Terra. Perciò, le misurazioni richiedono una precisione superiore al decimo di millisecondo d’arco (mas) per identificare oggetti più piccoli di Giove ad una distanza di 50-200 pc. La tabella 2.2 riporta alcuni esempi di valori di α. Tabella 2.2: Confronto degli ordini di grandezza di parallasse, moto proprio e segnali astrometrici indotti da pianeti di masse diverse e raggi orbitali vari, assumendo una stella di 1 M⊙ osservata a 10 pc di distanza. Sorgente α Giove a 1 UA 100 µas Giove a 5 UA 500 µas Giove a 0.05 UA 5 µas Nettuno a 1 UA 6 µas Terra a 1 UA 0.33 µas Parallasse 105 µas 5 x 105 µas/yr Moto proprio È impossibile misurare dagli osservatori a terra spostamenti dell’ordine di qualche mas utilizzando tecniche standard di rilevamento d’immagini; ciò è dovuto agli effetti atmosferici, quali la turbolenza e la rifrazione che impediscono la precisa focalizzazione delle immagini. Quindi, si cerca di superare queste difficoltà attraverso l’utilizzo di tecniche interferometriche e con le missioni spaziali. Tuttavia, bisogna sottolineare che già pianeti della 20 taglia di Giove producono degli effetti perturbativi impossibili da rilevare anche per l’Hipparcos, la cui precisione è di 1 mas. Rilevare un moto orbitale indotto da un pianeta terreste implica necessariamente un miglioramento di 2-3 ordini di grandezza in precisione, fino a raggiungere la scala dei microsecondi d’arco (µas). Ad oggi, dunque, nessun pianeta è stato scoperto con questo metodo. Ciò nonostante è stata determinata astrometricamente la massa del pianeta Gliese 876b utilizzando il Fine Guidance Sensor 3 (FGS) dell’Hubble Space Telescope (HST) (Benedict et al. 2002). Gliese 876 è una nana distante 4.7 pc, di tipo spettrale M4V e di massa M*=0.32M⊙. Con metodi spettroscopici erano già stati calcolati: il periodo orbitale del pianeta P=61 giorni e la sua massa M p sin i ≈ 2 M J . Con questi dati, utilizzando la (2.6), si prevede α=270 µas; Benedict et al. (2002) ritennero che tale valore potesse essere rilevato dal FGS che ha una precisione tipica di 0.5 mas. Dunque, utilizzando 5 stelle di riferimento che si trovavano entro pochi minuti d’arco dal bersaglio, essi combinarono i dati ricavati da misurazioni astrometriche e spettroscopiche e derivarono l’ampiezza angolare della perturbazione, l’angolo d’inclinazione e quindi la massa di Gl 876b (e non giusto M p sin i ). Trovarono α=(250±60)µas e Mp=(1.89±0.34)MJ . Alcuni nuovi progetti in fase di sviluppo in quest’area sono: PRIMA (PhaseReference Imaging and Micro-Arcsecond Astrometry) dell’ESO, Gaia dell’ESA (precisione 10 µas) e SIM (Space interferometry Mission) della NASA (precisione 2 µas, che potenzialmente permette di scoprire un pianeta di 6.6 masse terrestri che orbiti a 1UA da una stella come il Sole alla distanza di 10 pc da noi). 21 Figura 2.14: Il moto del Sole rispetto alle “stelle fisse” rilevabile a 30 anni-luce di distanza. Per individuare la perturbazione dovuta ad un pianeta simile alla Terra, serve misurare angoli con una precisione 1000 volte superiore a quella dell’Hubble Space Telescope. Figura 2.15: Il sistema Gl 876 – Gl 876b studiato da Benedict et al. 22 2.3 Fotometria Il primo successo del metodo fotometrico è datato 1999, quando venne osservato il transito di HD 209458b (Charbonneau et al. 2000 (Figura 2.16S) e Henry et al. 2000). Da allora la sua popolarità è aumentata, perché gli studi sui sistemi planetari visti di profilo sono molto più ricchi di quelli a qualsiasi altra inclinazione, dato che così si riesce a misurare direttamente il raggio e la massa del pianeta. Adesso, la prossima pietra miliare potrebbe arrivare da COROT e KEPLER con la prima scoperta di un pianeta simile alla Terra. Figura 2.16: Sinistra: la curva di luce di HD 209458 mostra il primo transito planetario osservato (Charbonneau et al. 2000). Destra: lo stesso sistema osservato da HST/STIS ha fornito la curva di luce con il più alto S/N osservato sino ad oggi (Brown et al. 2001). Il metodo fotometrico consiste nel cogliere il piccolo cuneo nella curva di luce stellare che si ha quando un pianeta transita davanti alla sua stella durante il suo moto di rivoluzione. Perciò, viene richiesto un allineamento quasi perfetto tra l’osservatore, il pianeta e la stella. Il transito si compie periodicamente, con un periodo pari a quello del moto di rivoluzione del pianeta. La probabilità Ptr che un sistema planetario mostri un transito è proporzionale al rapporto tra il raggio della stella e il semiasse maggiore a dell’orbita planetaria: Ptr = R a . Applicando questa equazione al sistema solare, si ha che, per un osservatore lontano, la Terra ha la probabilità di 1/214 di causare un transito davanti al 23 Sole; questo valore è pari a 1/1100 per Giove ma aumenta drasticamente per orbite strette (P ~ 3 d) quando ha un valore del 10% circa. Un sistema planetario osservato di profilo (“edge-on”) offre anche la migliore configurazione per l’osservazione della VR; inoltre, sparisce l’indeterminazione del “sin i” per la massa e quindi dalla curva di luce si possono determinare i parametri fisici dell’esopianeta, cioè: il raggio, l’inclinazione orbitale i, la densità, la gravità superficiale. Il transito planetario individuato nella curva di luce viene principalmente descritto da tre parametri: profondità, durata, forma. A seconda della latitudine del transito sul disco stellare, il cuneo della curva di luce avrà una forma a U (occultazione centrale) o a V (occultazione marginale). Quantitativamente, il parametro collegato è la durata tra l’ingresso e l’uscita dal transito. Calcoliamo questi parametri nel caso semplificato di orbita circolare e di disco stellare di luminosità uniforme (si veda Moutou e Pont 2005 per un’orbita ellittica). Uno schema di transito planetario è mostrato nella Figura 2.17. Figura 2.17: Schema di transito planetario, DF indica la differenza di flusso dovuta al transito e b è il parametro d’impatto. 24 L’ingresso (ovvero l’uscita) è definito come la fase tra il contatto 1 (ovvero 3) e il contatto 2 (ovvero 4). Il “fondo piatto” corrisponde alle fasi dalla 2 alla 3. Profondità di transito. La profondità del transito è collegata al raggio della stella e del pianeta (rispettivamente R e r) ed è: (2.7) ove il flusso stellare rilevato è Fon durante il transito e Foff in caso contrario. Questa formula trascura il fenomeno conosciuto col nome di oscuramento al bordo (“limb darkening”), cioè il fatto che le stelle sono leggermente più luminose al centro del disco rispetto al bordo. Tenendo conto dell’oscuramento al bordo, la curva di luce ha un profilo più tondeggiante (Figura 2.18). Figura 2.18: Sinistra: modello di transito planetario con diversi coefficienti di oscuramento al bordo corrispondenti a stelle nane di temperatura effettiva tra i 4000 e i 7000 K. Destra: lo stesso, in varie bande fotometriche. (Mandel e Agol 2002) 25 Durata del transito. La durata totale del transito, per un orbita circolare, è collegata ai parametri orbitali e al raggio della stella e vale (2.8) ove P è il periodo orbitale, a è il raggio orbitale ed i è l’inclinazione orbitale. L’espressione b = a cos i è chiamata parametro d’impatto ed indica la distanza R proiettata del centro del pianeta dall’equatore della stella. La (2.8) può essere riscritta (Seager e Mallen-Ornelas 2003) in funzione di P e b: (2.9) ove M è la massa della stella e si è trascurata quella del pianeta. Durata d’ingresso. Un altro parametro temporale che descrive il transito è la durata dell’ingresso o dell’uscita, data da (2.10) 26 Si può inoltre studiare la forma del transito calcolando il rapporto tra la durata del “fondo piatto” (tF) e quella totale del transito (d): (2.11) Le tre equazioni che descrivono un transito planetario (profondità, durata totale e dell’ingresso) possono essere usate per definire i 4 parametri incogniti del sistema: r, R, M, b. La massa e il raggio della stella possono essere determinati indipendentemente con altre osservazioni (spettroscopia ad alta risoluzione o modelli di evoluzione stellare). Ad esempio, per stelle di piccola massa, si ha che M ∝ R con una approssimazione piuttosto buona. La precisione attualmente raggiungibile da terra è dello 0.2% (si veda Perryman e Hainaut 2005). Essa è sufficiente per rivelare pianeti della taglia di Giove, ma non quelli simili alla Terra (si veda la Tabella 2.1); per i pianeti terrestri sono necessarie osservazioni spaziali. La temperatura superficiale del pianeta può essere ottenuta, una volta stimata la sua albedo (Moutou e Pont 2005), supponendo l’equilibrio tra l’irradiazione proveniente dalla stella e l’emissione del pianeta. Inoltre si può calcolare la temperatura effettiva studiando l’eclisse secondaria (quando la stella passa davanti al pianeta). Un’eclisse secondaria è difficile da rilevare nel visibile dato che il flusso emesso dal pianeta (inclusa la riflessione) è molto piccolo rispetto a quello della stella. Nell’IR, invece, il contrasto tra la stella e il pianeta è minore e quindi l’eclisse secondaria è rilevabile. La temperatura effettiva può essere stimata assumendo che la profondità del minimo secondario della curva di luce è data dal rapporto tra l’emissività del pianeta e quella della stella, modulata dal fattore (r/R)2. 27 Poiché i transiti sono abbastanza rari, le osservazioni devono essere eseguite su ampi campi e per lunghi periodi di tempo. In questo modo dovrebbe essere possibile identificare da terra pianeti di grandi raggi; la rivelazione di pianeti come la Terra richiede invece precisioni fotometriche di 10-5 mag, che sono possibili solo dallo spazio. Comunque, è importante preparare delle adeguate strategie di analisi dati al fine di eliminare i falsi positivi, che potrebbero essere causati da effetti stellari, quali brillamenti, macchie, attività coronali o intrinseca variazione stellare, ma anche da binarie fotometriche con eclissi marginali (“grazing eclipses”) o semplicemente da occultazioni e transiti tra stelle. Inoltre, nel caso di osservazioni da terra bisogna fare attenzione agli effetti atmosferici, quali le masse d’aria, le bande di assorbimento, il seeing. D’altra parte, i transiti possono essere dovuti a stelle binarie o nane brune invece che ad esopianeti. Tutti questi sono motivi per seguire ulteriori osservazioni spettroscopiche, al fine di confermare l’individuazione di pianeti in transito. Figura 2.19: La curva di luce e la curva della velocità radiale di OGLE-TR-122, una dei candidati fotometrici (Udalski et al. 2003). La curva fotometrica imita precisamente il transito di un pianeta, ma la curva Doppler mostra che la massa della compagna non è compatibile con questa ipotesi: si tratta infatti di una nana M della taglia di un pianeta (Pont et al. 2005). 28 Figura 2.20: Schema di casi confondibili: a) binarie marginali, b) binarie con una nana di tipo spettrale M c) binarie in un sistema triplo, d) falso positivo (causato dall’attività stellare o da artifatti strumentali). Tra gli esopianeti scoperti tramite metodi fotometrici vi sono: TrES-1, OGLE-TR-10, OGLE-TR-56, OGLE-TR-111, OGLE-TR-113, OGLE-TR132 e alcuni altri candidati del progetto OGLE (Osservatorio di Las Campanas in Cile). Gli esopianeti scoperti combinando le tecniche spettroscopiche e di transito sono: HD 209458b, HD 149026 e HD 189733 (Bouchy et al. 2005b e Hébrard e Lecavelier Des Etangs 2006). Tra questi, uno dei più osservati e studiati con attenzione è TrES-1 (Alonso et al. 2004). KEPLER studierà circa 100000 stelle continuamente e simultaneamente. Così, per la prima volta si potrà fare una stima della frequenza dei pianeti attorno alle stelle nane di classe F, G e K. 29 Figura 2.21: Il diagramma massa-raggio dei pianeti scoperti con tecniche fotometriche. Sono anche indicate le curve dell’isodensità e, per confronto, le ubicazioni di Giove e Saturno. 2.4 Microlenti gravitazionali Le microlenti costituiscono l’unico metodo capace di scoprire pianeti a distanze davvero molto grandi dalla Terra. Mentre la spettroscopia ricerca i pianeti nel nostro immediato vicinato galattico, fino a 100 anni-luce dalla Terra, e la fotometria può potenzialmente scoprire pianeti distanti centinaia di anni-luce, le microlenti possono rilevare pianeti che orbitano attorno a stelle distanti migliaia di anni-luce. Le microlenti sono dei rilevanti effetti astronomici, predetti dalla Teoria della Relatività Generale di Einstein. Secondo Einstein, quando la luce emessa da una stella passa molto vicino ad un’altra stella, lungo il suo cammino verso un osservatore a terra, la gravità della stella interposta curverà leggermente i raggi di luce provenienti dalla stella sorgente, facendo sì che le due stelle 30 appaiano angolarmente più lontane tra loro. Questo effetto venne utilizzato da Sir Arthur Eddington nel 1919 per fornire la prima prova sperimentale dell’esattezza della Relatività Generale. Se rispetto alla Terra la stella sorgente si viene a trovare esattamente dietro alla stella intermediaria, questo effetto è raddoppiato. I raggi di luce provenienti dalla stella sorgente passano da entrambi i lati dell’intermediaria, o stella “lente”. Dal momento che entrambi i flussi di luce sono curvati dalla gravità della stella “lente”, a terra la stella sorgente dovrebbe apparire come sdoppiata (Figura 2.22 3). In realtà, anche il più potente telescopio a Terra non riesce a risolvere separatamente le immagini della stella sorgente e della stella “lente” che si trova in mezzo, perciò quello che si riesce a vedere è un unico gigantesco disco di luce, che prende il nome di “disco di Einstein”. Il “raggio di Einstein” è il raggio angolare del disco ed è pari a: in radianti (2.12) ove M è la massa della “lente”, dL la distanza della “lente” e dS la distanza della sorgente. Se M è pari alla massa del Sole, dL=4 kpc e dS=8 kpc (tipico per un evento di microlente del Bulge), il raggio di Einstein è 1 mas. L’effetto risultante è un’improvvisa crescita della luminosità della stella “lente”, di addirittura 1000 volte. Ciò dura tipicamente qualche settimana o mese, in seguito la stella sorgente si porta fuori allineamento e la luminosità diminuisce. Se la stella “lente” ha un pianeta abbastanza vicino, accade che anche la gravità del pianeta curva i raggi di luce emanati dalla stella sorgente e così viene prodotta temporaneamente una terza immagine della stessa (Figura 2.22 4). Quando viene misurato da Terra, questo effetto appare come un temporaneo picco di luminosità, che può durare parecchie ore o giorni, sovrapposto al normale andamento prodotto dalla microlente. Inoltre, le precise caratteristiche della curva di luce osservata (la sua intensità e la sua durata) forniscono diverse informazioni sul pianeta. La massa, l’orbita e il 31 periodo possono essere dedotte con grande precisione da un evento di microlente gravitazionale. Figura 2.22: Individuazione di un pianeta attraverso una microlente. Da destra a sinistra, la stella “lente” (bianca) passa d’avanti alla stella sorgente (gialla) raddoppiando la sua immagine. Nella quarta immagine da destra il pianeta aggiunge il suo effetto, creando i due picchi caratteristici nella curva di luce. Tra tutti i metodi attualmente disponibili, le microlenti permettono di scoprire i pianeti più piccoli e più lontani. Tuttavia questi pianeti non potranno mai essere riosservati a causa del raro e casuale evento che permette la loro scoperta – il preciso passaggio visto dalla Terra di una stella davanti ad un’altra. Ciò rende molto difficile e imprevedibile l’individuazione di pianeti con questo metodo e obbliga ad osservare zone di cielo con molte stelle sullo sfondo (es.: il nostro Rigonfiamento Galattico o la Grande Nube di Magellano). Difatti ad oggi, nonostante anni di intense osservazioni, solo quattro pianeti sono stati scoperti con le microlenti: OGLE 2003-BLG235/MOA 2003-BLG-53 (Bond et al. 2004) (Figura 2.23), OGLE-2005- 32 BLG-071 (Udalski et al. 2005), OGLE–05-169L e OGLE–2005-BLG-390Lb (in breve OB053) (Beaulieu et al. 2006) (Figura 2.24) – un pianeta freddo, annunciato nel Gennaio 2006, di sole 5 masse terrestri che orbita a 3 UA da una stella nana prossima al centro della nostra galassia, cioè a 22000 anni-luce da noi. I progetti più attivi con questo metodo sono il nippo-neozelandese MOA (Microlensing Observations in Astrophysics) presso “Mt John University Observatory” in Nuova Zelanda e il polacco OGLE (Optical Gravitational Lensing Experiment) presso “Las Campanas Observatory” in Cile. Figura 2.23: La curva di luce dell’evento di microlente OGLE 2003-BLG-235/MOA 2003BLG-53 (Bond et al. 2004). Figura 2.24: La curva di luce della microlente con il pianeta OB053. La curva ha mostrato il picco il 31 Luglio 2005. Il disturbo attorno al 10 Agosto indica la presenza di un pianeta. Fonte: European Southern Observatory. 33 2.5 Variazioni degli intervalli di emissioni di una Pulsar (“Pulsar timing”) La presenza di un pianeta in orbita attorno ad una pulsar produce una perturbazione nel moto di quest’ultima che si traduce in una variazione periodica del tempo d’arrivo dell’impulso inviato dalla stella di neutroni. Quando, durante il suo moto attorno al centro di massa del sistema, la pulsar si allontana dalla Terra, l’intervallo di tempo tra due pulsazioni diventa leggermente più grande; per contro, quando la pulsar si muove verso la Terra, lo stesso intervallo si riduce leggermente. Misurando questi cambiamenti periodici del periodo di pulsazione, è possibile dedurre il semiasse maggiore dell’orbita del pianeta e fissare un limite inferiore per la sua massa. Ad oggi, solo quattro pianeti sono stati identificati usando questo metodo, di cui tre da Wolszczan nel 1994. Scoperte di questo tipo non sono molto interessanti per la ricerca dei pianeti extrasolari, dato che le pulsar e i pianeti verrebbero creati solo dopo che l’esplosione della supernova avrebbe spazzato via ogni forma di vita che si trovasse sui pianeti circostanti. Figura 2.25: Una stella e un pianeta in orbita attorno al comune centro di massa. 34 2.6 Dischi circumstellari e protoplanetari Un approccio ancora più recente consiste nello studio delle nubi di materia diffusa e ricche di polveri. Questa polvere forma un disco attorno alla stella, assorbe una parte della sua radiazione e la riemette come radiazione infrarossa. Sfortunatamente questo metodo può essere usato solo con osservazioni dallo spazio, perché la nostra atmosfera assorbe la maggior parte della radiazione infrarossa, rendendo impossibili le osservazioni da Terra. Il nostro stesso sistema solare contiene una quantità di polvere pari ad un decimo della massa della Luna. Anche se questa quantità è insignificante nel totale della massa, il volume su cui è distribuita è così elevato che, da grandi distanze, l'emissione infrarossa della polvere sarebbe 100 volte più intensa di quella di tutti i pianeti. Il telescopio spaziale Hubble può svolgere queste osservazioni, utilizzando la sua camera NICMOS (Near Infrared Camera and Multi-object Spectrometer). Immagini migliori sono state riprese da una camera "sorella", montata sul telescopio spaziale Spitzer. Lo Spitzer è stato progettato specificatamente per le osservazioni infrarosse e, per questo tipo di immagini, è molto più potente dell'HST. La pressione di radiazione esercitata dalla stella spingerebbe le particelle di polvere nello spazio interstellare in un tempo scala relativamente breve. Pertanto, la rilevazione di polvere indica un continuo rimpiazzamento dovuto a nuove collisioni, e fornisce una forte evidenza indiretta della presenza di piccoli oggetti quali comete ed asteroidi che orbitano attorno alla stella madre. In più, il rilevamento di una cavità centrale in un disco avvale l’ipotesi dell’esistenza di un pianeta che ha spazzato la polvere presente nella propria orbita, mentre la presenza di un ammasso di polvere potrebbe essere stata determinata dall’influenza gravitazionale di un pianeta. Entrambe queste caratteristiche sono presenti nel disco di polvere che circonda ε Eridani e suggeriscono la presenza di un pianeta con un raggio orbitale di circa 40 UA (Greaves et al. 2005). 35 2.7 Rilevamento diretto Le tecniche discusse in precedenza sono tutti modi indiretti per determinare la presenza di esopianeti attraverso l’influenza che esercitano sulla stella madre. Attualmente si sta cercando di rendere possibile il rilevamento diretto degli esopianeti e un buon risultato è l’immagine diretta dell’esopianeta 2M1207 b attorno alla nana bruna 2MASSWJ1207334-393254. Per questa scoperta, Chauvin et al. (2005) hanno utilizzato il VLT/NACO e hanno confermato che l’esopianeta condivide lo stesso moto proprio della stella ed ha una massa pari a circa cinque volte quella di Giove (Figura 2.26 sx). Altri risultati importanti sono il rilevamento fatto con Spitzer della radiazione termica di due esopianeti scoperti col metodo fotometrico: HD 209458b e TrES-1. Deming et al. (2005) hanno studiato l’eclisse secondaria di HD 209458b misurando la radiazione a 24 µm, per TrES-1 Charbonneau et al. (2005) hanno eseguito le analisi a 4.5 µm e 8 µm. Figura 2.26: Sinistra: Immagine dell’oggetto 2MASSWJ1207334-393254 e del suo compagno (Chauvin et al. 2005). Destra: Una nana bruna (solo 13-14 masse gioviane) assieme alla giovane stella GQ Lupi (Neuhäuser et al. 2005). 36 Il rilevamento diretto dei pianeti extrasolari soffre di due difficoltà maggiori: (1) una minuscola separazione angolare e (2) un enorme contrasto di luminosità. Per esempio, il sistema Sole-Giove a 10 pc di distanza sarebbe visto sotto un angolo di 0.5” e con un rapporto tra flussi di circa 109 nel visibile e 105 nell’IR. La tabella 2.3 mostra la risoluzione angolare necessaria per separare spazialmente alcuni sistemi planetari di taglia tipica (Giove caldo, Terra, Giove, Nettuno) situati a diverse distanze. A questo riguardo, si possono considerare le risoluzioni spaziali ottenibili coi telescopi. Il picco di diffrazione ha un raggio angolare pari a: (2.13) Tabella 2.3: Risoluzione spaziale necessaria per separare angolarmente alcuni pianeti in orbite e a distanze diverse. separazione 0.1 UA 1 UA 5 UA 30 UA 3 pc 30 mas 0.3" 1.5" 9" 10 pc 10 mas 0.1" 0.5" 3" 25 pc 4 mas 40 mas 0.2" 1.2" distanza Telescopio spaziale o ottica adattiva da terra 100 pc 1 mas 10 mas 50 mas Interferometria 37 0.3" Il secondo aspetto cruciale è il contrasto tra il pianeta e la stella che lo ospita. Devono essere considerati due processi radiativi: l’emissione termica del pianeta e l’emissione stellare diffusa dall’atmosfera del pianeta. Un pianeta in orbita attorno ad una stella di luminosità L* fornisce per riflessione una luminosità LP pari a: LP = AL* RP 2 ( ) φ( t ) 8 a (2.14) dove φ(t ) è un fattore di fase orbitale pari a φ(t ) = 1 − sin i sin(2π t P ) . La Figura 2.27 rappresenta la differenza di magnitudine tra un pianeta e la sua stella madre per diverse classi spettrali. La luce diffusa gioca un ruolo predominante per piccole separazioni (per esempio a ≤ 1.5 UA per una stella di classe G5). Figure 2.27: Contrasto espresso in differenza di magnitudine tra un pianeta e la sua stella madre per un’emissione puramente termica o frutto della diffusione della luce stellare. 38 Vari approcci vengono considerati per rendere possibili le rivelazioni. Il contrasto tra stella e pianeta può essere ridotto studiando le lunghezze d’onda dell’IR termico (λ>5µm) e rilevando le immagini dallo spazio eliminando così la componente atmosferica del rumore. Il telescopio spaziale James Webb (JWST) verrà utilizzato anche in quest’ambito. Invece, da terra è obbligatorio l’uso di un’Ottica Adattiva di alto profilo. Si modifica la superficie dello specchio secondario del telescopio in modo tale che la luce della stella (e non quella del pianeta) proveniente da diverse parti dello specchio (di focale F) interferisca distruttivamente nel punto in cui si trova il pianeta. Si considerino le ampiezze A*1 e A*2 (e AP1 e AP2 ) delle radiazioni luminose della stella (e del pianeta) che arrivano nel fuoco e provengono da due punti distanti l sullo specchio. Si supponga che in questi due punti lo specchio abbia una deformazione con una sfasature d tra i raggi di luce. Quindi, sul piano focale del telescopio, la fase relativa tra A*1 e A*2 è tra AP1 e AP2 è ( 2π l d , mentre la fase relativa F λ 2π l d + α ) ove si è introdotta la distanza angolare α = a D . F λ Quindi nel fuoco le ampiezze combinate della stella e del pianeta sono A* = A + A = A (1 + e 1 * Dati F, che 2 * 1 * α e λ, si 2π il d F λ ) e AP = AP1 + AP2 = A1P (1 + e possono sistemare l 2π l d 2π l d = (2n + 1)π e ( + α ) = 2nπ , F λ F λ e d in ottenendo i( 2π l d +α ) F λ modo così A* = 0 ). tale e AP = 2 AP1 ≠ 0 . Si possono così ottenere parecchie sfasature d in diversi punti dello specchio utilizzando degli “attuatori” piezoelettrici che ne deformano la sagoma (Angel 1994). Invece, per quanto riguarda il problema del contrasto di luminosità tra i due corpi, la coronografia è molto utile al fine di ridurre sia la saturazione del 39 picco centrale che gli anelli di diffrazione di ordine successivo dell’immagine stellare. I bordi della pupilla sono responsabili di effetti diffrattivi che si manifestano a causa della transizione netta nel flusso tra l’interno e l’esterno della pupilla. B. Lyot (1939) per osservare la corona solare inserì una maschera che occulta i bordi della pupilla (Figura 2.28 e) lì dove si trovano gli anelli di diffrazione di ordine successivo dell’immagine stellare. Sul piano focale finale (f), il flusso della stella è globalmente ridotto su tutta l’immagine mentre quello del pianeta è totalmente conservato. Il rapporto tra il flusso residuo della stella e quello del compagno viene quindi diminuito di un fattore rilevante. Figura 2.28: Principi della coronografia stellare. In alto: schema d’un coronografo con la maschera focale e la maschera di Lyot. In basso a sinistra: intensità luminose d’un coronografo con maschera focale classica in diversi punti del coronografo : (a) pupilla d’entrata, (b) piano focale davanti alla maschera, (c) dopo la maschera focale, (d) pupilla secondaria davanti la maschera di Lyot, (e) dopo la maschera di Lyot e (f ) piano focale finale. In basso a destra: stesse informazioni ma per un coronografo con maschera di fase a 4 quadranti rappresentata in (a). Il compagno, appena visibile nell’immagine diretta (b) appare difatti più luminoso nell’immagine coronografica (f ). 40 La figura successiva mostra come con la tecnica di Lyot si possa ottenere una riduzione di 5-6 grandezze nella differenza delle magnitudini tra stella e pianeta, che può permettere l’identificazione di compagni flebili. Figure 2.29: Prestazioni ottenute col coronografo d’ADONIS col telescopio di 3.60 m di La Silla e con quello del NACO/VLT sulla stella HIP 6856 (comunicazione privata di G. Chauvin 2005). A sinistra: immagini ottenute in alto con ADONIS e in basso con NACO nelle quali si nota la presenza di due deboli compagne CCb e CCc. La coronografia classica di Lyot non è necessariamente la più performante. Alcune varianti che fanno uso di maschere di fase sono state presentate da Roddier e Roddier (1997), Guyon et al. (1999) e Rouan et al. (2000) (cf. Figura 2.28 in basso a destra). In più per ridurre il fondo di luce diffusa dalle imperfezioni di planarità dell’ottica, si può beneficiare della turbolenza atmosferica utilizzando la tecnica delle “specole oscure” (“dark speckles”) proposta da Labeyrie (1995). L’atmosfera cambia il cammino dei raggi di luce con una frequenza di circa 1 kHz. Quando, per caso, la luce della stella interferisce distruttivamente nel luogo in cui si trova il pianeta, esso diviene visibile per brevissimo tempo (1 ms). 41 In più, con l’interferometria, è possibile combinare la luce stellare fuori fase per produrre interferenza distruttiva, mentre il segnale del pianeta interferisce costruttivamente (“nulling interferometry”) (Bracewell e Mc Phie 1979). Tra i diversi progetti che si prefiggono di rilevare direttamente gli esopianeti ci sono: il Terrestrial Planet Finder (TPF) della NASA (Unwin e Beichman 2004), il Planet Finder presso il Very Large Telescope (VLT-PF) dell’ESO (Mouillet et al. 2004) e la missione Darwin dell’ESA (Léger et al. 1996). La figura 2.30 illustra le “performance” attese per il VLT-PF. Lo scopo di questo progetto è quello di guadagnare 5 magnitudini in termini di contrasto rispetto alla strumentazione esistente, esplorare il dominio di separazione situato tra 0".1 e 3” corrispondenti a distanze tra 0.5 e 150 UA, sondare il dominio spettrale tra 0.96 e 2.32 µm con una risoluzione pari a 50 e realizzare delle misure polarimetriche che permettano di separare meglio i pianeti dalle stelle che li ospitano. Figura 2.30: Simulazione delle prestazioni attese con un telescopio da 8 m, equipaggiato con un sistema d’ottica adattiva 40 × 40 e un coronografo con maschera di fase acromatica per diversi tipi di sistemi planetari (da Boccaletti et al. 2005). 42 Capitolo 3 I PROGRAMMI DI RICERCA In questi giorni, la ricerca dei pianeti extrasolari si sta rivelando uno dei campi dell’astronomia più interessanti. Infatti, si contano più di 70 programmi di ricerca a terra e 17 missioni spaziali già al lavoro o in fase di progettazione. La tabella 3.1 riporta alcuni tra i programmi più attivi. Tabella 3.1: Diversi programmi di ricerca sugli esopianeti. Programma Metodo di individuazione Luoghi Istituzioni California & Carnegie Planet Search (più di 120 pianeti scoperti) velocità radiale Keck Observatory, Hawaii University of California, Berkeley AngloAustralian Observatory, Australia Carnegie Institution of Washington Elodie velocità radiale precisione 8 m/s Observatoire de Haute Provence, Francia Observatoire de Haute Provence Observatoire de Genève Coralie velocità radiale precisione 5 m/s La Silla Observatory, Cile Observatoire de Genève HARPS (High velocità radiale Accuracy Radial precisione 1 m/s velocity Planetary Search) La Silla Observatory, Cile ESO SARG (Spettrografo ad Alta Risoluzione Telescopio Nazionale Galileo, Canarie Observatoire de Genève velocità radiale 43 Osservatori Astronomici di Padova, Catania per Galileo) PLANET (Probing Lensing Anomalies NETwork) e Teramo microlenti La Silla Observatory, Cile 20 istituzioni in 10 Paesi Sutherland Boyden Observatory, South Africa Bickley Canopus Observatory, Australia OGLE (Optical Gravitational Lensing Experiment) fotometria e microlenti Las Campanas Observatory, Cile University of Warsaw Princeton University TrES (Transatlantic Exoplanet Survey) fotometria Palomar Observatory, California California Institute of Technology Lowell Observatory, Arizona Observatorio del Teide, Canarie Nel complesso, in 12 anni e con l’ausilio dello Spitzer Space Telescope e dell’Hubble Space Telescope sono stati scoperti più di 260 pianeti extrasolari. Il tasso di scoperte aumenta ogni anno di più e lo scopo principale resta quello di riuscire a rilevare pianeti di taglia simile alla Terra, dato che essi vengono ritenuti i più probabili ad ospitare la vita. 44 Figura 3.1: Tutti i pianeti extrasolari scoperti al 31 agosto 2004 (in ascisse il semiasse maggiore, sulle ordinate le masse gioviane): I puntini blu rappresentano pianeti scoperti con il Metodo delle Velocità radiali, in rosso quelli con metodo del transito, in giallo con le microlenti gravitazionali. L'immagine mostra anche i limiti delle capacità di rilevamento dei prossimi strumenti (linee colorate), sia terrestri che spaziali, dal 2006 al 2015. Infine l'immagine mostra anche la posizione dei pianeti del sistema solare: sono i pallini più grandi con l'iniziale del nome inglese. 45 La Figura 3.1 mostra i pianeti noti nel piano semiasse maggiore (o periodo) massa. Come già detto, i metodi noti selezionano pianeti massicci in orbite strette, ma questi limiti potranno essere estesi con la prossima generazione di telescopi. Il successo della rivelazione di esopianeti ha infatti stimolato l'avvio di molti progetti, tra i quali: • Sia il VLT che il Keck e l'LBT utilizzeranno l'interferometria ottica per misurare con precisione la posizione delle stelle vicine, in modo da rivelare pianeti tramite la tecnica astrometrica. • COROT (COnvection ROtation and planetary Transits): piccolo telescopio spaziale di 27 cm di diametro dell'Agenzia Spaziale Francese (CNES) in cooperazione con l'Agenzia Spaziale Europea. Lanciato il 27 dicembre 2006 a bordo di un vettore russo dal cosmodromo di Baikonur, COROT attualmente si trova in un orbita circolare polare a 827 km di altezza. Ha visto la prima luce tecnica il 18 gennaio 2007, ha individuato il suo primo pianeta extrasolare, Corot-exo-1b, nel maggio 2007 e ora sta conducendo una campagna di fotometria di precisione delle stelle vicine, sia per studi di sismologia stellare che per trovare pianeti terrestri con il metodo dei transiti. • Kepler: piccolo telescopio spaziale ottico della NASA da 95 cm di diametro, utilizzerà il metodo dei transiti per trovare pianeti terrestri orbitanti attorno a stelle vicine. Durante i 4 anni di vita della missione, Kepler monitorerà continuamente e simultaneamente la luminosità di 100000 stelle della sequenza principale. • SIMPlanetQuest: la Space Interferometry Mission della NASA è un telescopio interferometrico spaziale, costituito da piccoli telescopi da 30 cm su una base di 9 metri. Previsto per il prossimo decennio, misurerà la posizione delle stelle vicine con una precisione tale da rivelare la perturbazione di pianeti terrestri nelle stelle più vicine. 46 • Darwin (ESA) e Terrestrial Planet Finder (NASA): sistemi di 4-5 telescopi spaziali di 3 metri, collegati in interferometria. Saranno capaci non solo di rivelare pianeti terrestri ma di misurarne l'emissione, alla ricerca di segnali della presenza di vita (``biosignatures''). TPF sarà equipaggiato anche con un coronografo ottico. • L'OverWelmingly Large (OWL) telescope: un telescopio di 100 m a terra, lavorando in IR con ottica adattiva, potrebbe misurare direttamente la luce di pianeti terrestri. L'ESO sta considerando seriamente l'ipotesi di puntare ad un telescopio di queste dimensioni, ma le difficoltà tecniche (per non parlare dei costi) sono tali da rendere probabile la costruzione di un telescopio di “soli” 30-50 m di diametro. Il prossimo Extremely Large Telescope comunque monterà spettrografi di grandissima stabilità e precisione, che permetteranno di spingere il metodo delle fluttuazioni di velocità a livelli di segnale molto più bassi. Figura 3.2: Il telescopio spaziale Kepler il cui lancio è programmato per i primi mesi del 2009. 47 Capitolo 4 I SISTEMI PLANETARI Fino a 10 anni fa, la nostra conoscenza dei pianeti e dei sistemi planetari era basata sulle caratteristiche osservative del solo Sistema Solare. I nuovi esopianeti, scoperti attorno ad altre stelle, hanno mostrato un quadro diverso e più generale dei sistemi planetari e della formazione planetaria. 4.1 Teorie sulla formazione dei sistemi planetari Tra i primi modelli che hanno provato a spiegare la formazione del Sistema Solare dobbiamo ricordare quello di Pierre Laplace (1796) e quello di James Jeans (1917). Tuttavia, sia queste teorie, che quelle frutto dell’evoluzione di queste idee originali, non sono riuscite a spiegare alcune proprietà quali: la distribuzione del momento angolare nel sistema e la lenta rotazione del Sole. La scoperta di diversi esopianeti con caratteristiche molto particolari rispetto a quelle del Sistema Solare, come ad esempio gli esopianeti della taglia di Giove con orbite poco eccentriche (47 UMa), molto eccentriche (70 Vir) e molto vicini (pianeti gioviani caldi) in orbita pressoché circolare (51 Peg), hanno indicato la necessità di rivedere le vecchie teorie e di sviluppare dei modelli adatti a spiegare l’origine planetaria. Qui presentiamo due meccanismi riguardanti la formazione planetaria: l’accrescimento del nucleo e l’instabilità del disco. I pianeti giganti gassosi potrebbero essersi formati attraverso il processo di accrescimento del nucleo, durante il quale gli elementi che collidono all’interno di una nebulosa stellare danno origine ad oggetti solidi. Nuclei solidi di circa 10 masse terrestri, nella parte esterna della nebulosa stellare in orbite approssimativamente circolari, possono aggregare enormi inviluppi gassosi (Mizuno 1980). Il protopianeta forma un’atmosfera, cresce attirando a 48 sé gas e planetesimi fino a che non si rompe l’equilibrio idrostatico. Allora l’atmosfera si contrae durante un breve periodo di collasso in modo tale che il protopianeta acquisisce la maggior parte della sua massa attuale (Pollack et al. 1996). Il meccanismo dell’instabilità del disco suggerisce la formazione di proto pianeti attraverso le instabilità gravitazionali. Un disco instabile può dare origine a bracci a spirale che possono aumentare di densità fino a raggiungere una massa sufficiente per essere autogravitazionalmente stabili e formare protopianeti in un centinaio d’anni (Boss 2002). In tutti gli scenari è molto difficile formare pianeti giganti a corte distanze dalla stella, come invece si è osservato per l’intera classe dei pianeti gioviani caldi, di cui il primo esempio è 51 Peg b. La difficoltà sta nel fatto che le temperature molto alte e la presenza di campi magnetici in queste regioni impediscono l’attrazione dei gas. Per superare le difficoltà che i meccanismi di formazione in-situ incontrano, è stato suggerito che i pianeti potrebbero essersi formati a distanze molto maggiori, ed essere migrati nelle orbite attuali a corto periodo solo più tardi a causa di interazioni col disco. 4.2 Le proprietà generali delle stelle e degli esopianeti scoperti Con circa 200 pianeti rivelati, è possibile esaminarne la statistica. La Figura 4.1 mostra la distribuzione delle masse M P sin i dei pianeti noti. Questa funzione di massa sembra seguire una legge di potenza con pendenza circa 1.1, che non presenta molti oggetti oltre le 10 MJ. Dato che i pianeti più grandi sono anche i più facili da osservare, e dato che non si è trovata scarsità di pianeti gioviani in orbite strette, questo limite è probabilmente reale. La Figura 4.2 mostra la distribuzione dei semiassi maggiori delle orbite e delle eccentricità. Ancora una volta va notato come la casistica dei sistemi planetari mostri una grande diversità rispetto al semplice sistema solare: le orbite quasi 49 circolari non sono assolutamente la regola, i valori delle eccentricità arrivano fino a ~0.8. Inoltre, le orbite più strette tendono ad essere circolari. Figura 4.1: Distribuzione delle masse M P sin i degli esopianeti. Figura 4.2: Distribuzione dei semiassi e delle eccentricità di alcuni degli esopianeti. 50 Figura 4.3: Le masse e i semiassi di alcuni esopianeti confrontati con i pianeti del Sistema Solare. Sorprendente risulta la distribuzione della probabilità di trovare pianeti attorno ad una stella. Dati i limiti di rivelazione, queste percentuali vanno considerate come limiti inferiori. Risulta (Figura 4.4) che la probabilità di rivelare un pianeta è una funzione forte della metallicità della stella: attorno a stelle più metalliche si trovano più pianeti. Inoltre, l'esistenza di sistemi planetari è un fatto molto comune, tanto da rendere plausibile l'ipotesi che ogni stella sufficientemente metallica abbia il suo sistema. Figura 4.4: Probabilità di rivelazione dei pianeti in funzione della metallicità della stella (Fischer e Valenti 2005). 51 4.3 Nomenclatura Per il primo pianeta scoperto nel sistema (per esempio 51 Pegasi b) si aggiunge una lettera minuscola dopo il nome della stella, incominciando da “b” e si prosegue così via. Si noti che le lettere non vengono assegnate a seconda della posizione. Per esempio, nel sistema Gliese 876, l’ultimo pianeta scoperto è stato chiamato Gliese 876 d, nonostante sia il più vicino alla stella di Gliese 876 b e Gliese 876 c. Prima della scoperta di 51 Pegasi b, nel 1995, i pianeti extrasolari erano chiamati differentemente. I primi pianeti extrasolari scoperti attorno alla pulsar PSR 1257+12 furono chiamati con le lettere maiuscole: PSR 1257+12 B e PSR 1257+12 C. Quando un nuovo pianeta più vicino fu scoperto attorno alla pulsar, esso venne denominato PSR 1257+12 A e non D. Inoltre, parecchi pianeti extrasolari hanno soprannomi non ufficiali. Ad esempio, HD 209458 b è ufficiosamente chiamato “Osiride” e 51 Pegasi b è soprannominato "Bellerofonte"1. Attualmente l’IAU (International Astronomical Union) non ha in programma di dare nomi ufficiali ai pianeti extrasolari, poiché si ritiene che ciò non sia praticabile. 1 Bellerofonte è un eroe della mitologia greca che, secondo le narrazioni di Esiodo e Pindaro, cavalcava Pegaso 52 4.4 Pianeti extrasolari degni di nota La pietra miliare dei pianeti extrasolari fu posta nel 1992 dagli astronomi Wolszczan e Frail, che pubblicarono sulla rivista Nature i risultati di una loro osservazione, indicando che intorno alla pulsar PSR B1257+12 orbitavano dei pianeti. Le osservazioni erano cominciate due anni prima, grazie al Radiotelescopio di Arecibo, portando a questa sensazionale scoperta: si trattava dei primi pianeti extrasolare di cui era stata confermata l'esistenza. La prima scoperta di pianeta extrasolare ad essere stata verificata fu quella 51 Pegasi b, che orbita attorno a una stella della sequenza principale (51 Pegasi); fu annunciata da Michel Mayor e Didier Queloz sulla rivista Nature il 6 Ottobre 1995. Inizialmente, gli astronomi erano sorpresi per la scoperta di questo "hot Jupiter", ma presto furono rinvenuti numerosi i pianeti di questo tipo. Da allora, vi sono state numerose altre scoperte interessanti e significative: 1999, HD 209458 b Questo pianeta extrasolare, originariamente scoperto con il metodo delle velocità radiali, divenne il primo pianeta extrasolare a essere osservato transitare davanti alla propria stella. Il metodo del transito ha dimostrato l'esistenza di un pianeta extrasolare, confermando i risultati del metodo delle velocità radiali. 2003, PSR B1620-26c Il 10 Luglio 2003, utilizzando le informazioni del Telescopio Spaziale Hubble, un gruppo di scienziati guidati da Steinn Sigurdsson scoprì quello che è ancora oggi il più vecchio pianeta extrasolare conosciuto. Il pianeta è situato nell'ammasso globulare M4, nella costellazione dello Scorpione, a circa 5600 anni luce dalla Terra. Inoltre, si tratta del solo pianeta conosciuto che orbiti attorno a un sistema stellare binario: una delle due stelle del sistema è una 53 pulsar, mentre l'altra è una nana bianca. Il pianeta ha una massa pari al doppio di quella di Giove e si pensa abbia 12,5-13 miliardi di anni. 2006, OGLE-2005-BLG-390Lb Il 25 Gennaio del 2006, fu annunciata la scoperta di OGLE-2005-BLG390Lb. Questo è probabilmente il pianeta extrasolare più distante e più freddo mai individuato fino ad ora. Il pianeta orbita attorno ad una stella nana rossa situata a circa 21500 anni-luce di distanza dalla Terra, vicino al centro della Via Lattea. E' stato stimato che abbia una massa pari a 5,5 volte quella della Terra: ciò farebbe di OGLE-2005-BLG-390Lb uno dei pianeti extrasolari più piccoli finora scoperti attorno a una stella della sequenza principale. 2006, HAT-P-1b Usando un network di piccoli telescopi automatizzati noti come HAT, gli astronomi del Smithsonian Institution hanno individuato un pianeta, battezzato inizialmente come HAT-P-1b, che orbita attorno a una stella distante 450 anni luce dalla Terra, nella costellazione della Lucertola. Il pianeta ha un diametro che equivale a 1,38 volte quello di Giove, ma ha solamente metà della massa del più grande pianeta del Sistema Solare: ciò fa di lui il pianeta extrasolare meno denso osservato fino ad ora (la sua densità è circa 1/4 di quella dell'acqua). Rimane ancora poco chiaro come un pianeta possa evolversi, e si pensa che uno studio approfondito di HD 209458 b (così è stato ribattezzato il pianeta) possa contribuire alla formulazione di una teoria efficace sulla formazione e sull'evoluzione dei pianeti. 2007, HD 209458 b e HD 189733b Il 21 Febbraio, 2007, la NASA e la rivista scientifica Nature hanno rilasciato la notizia che HD 209458 b e HD 189733 b sono i primi pianeti extrasolari di cui si è riuscito ad osservare direttamente lo spettro. Tale sistema fu considerato il primo metodo tramite il quale era possibile individuare la 54 presenza di forme di vita non senzienti, analizzando la composizione dell'atmosfera del pianeta. Un gruppo di scienziati, guidati da Jeremy Richardson del NASA's Goddard Space Flight Center furono i primi a pubblicare, il 22 Febbraio un articolo su Nature. Gli scienziati analizzarono lo spettro dell'atmosfera di HD 209458 b, ottenendo risultati molto diversi da quelli aspettati. Lo spettro avrebbe dovuto avere un picco attorno ai 10 micrometri, il che avrebbe suggerito la presenza di vapore acqueo nell'atmosfera; tuttavia, il picco non fu rilevato, e ciò portò ad escludere l'ipotesi della presenza si acqua sotto forma di vapore. Un picco non previsto fu invece rilevato attorno ai 9,65 micrometri. Gli scienziati lo attribuirono alla presenza di nuvole di polvere di silicati, un fenomeno prima non osservato. Infine, un ultimo picco imprevisto fu rilevato attorno ai 7,78 micrometri, che gli scienziati non sono ancora riusciti a spiegare. 2007, Gliese 581 c Annunciato su Space.com il 24 Aprile 2007, è stato detto che questo pianeta sia in grado di supportare la presenza di acqua allo stato liquido e, quindi, la vita. Sebbene non vi siano dati evidenti che segnalino la presenza di acqua, la posizione del pianeta— nella cosiddetta zona abitabile del sistema— permetterebbe all'acqua di esistere. La conferma della posizione dell'esopianeta è stata ottenuta grazie all'HARPS dell' European Southern Observatory; per l'occasione fu utilizzato un telescopio di 3,6 m di diametro e usato il metodo della velocità radiale. Gliese 581 c, secondo le stime, dovrebbe essere circa il 50% più grande della Terra, e avere una massa pari a 5 volte quella terrestre. Alcuni ricercatori sostengono che Gliese 581 c potrebbe essere caratterizzato da una sorta di effetto serra e se così, il pianeta somiglierebbe come aspetto (non come dimensioni) a Venere, e non sarebbe in grado di ospitare la vita. Tuttavia, gli stessi sostengono che Gliese 581 d, altro pianeta del sistema, sarebbe vicino al bordo esterno della zona abitabile, avendo quindi maggiori probabilità di sostegno della vita rispetto a Gliese 581 c. 55 2007, Corot-exo-1b Il 3 maggio 2007 viene annunciato il primo pianeta scoperto dalla missione COROT Il pianeta e' un classico pianeta gioviano caldo con periodo di 1.5 giorni, di massa circa 1.3 masse gioviane e un raggio tra 1.2 e 1.8 raggi di Giove. Figura 4.5: La Terra messa a confronto con Gliese 581 c. 56 4.5 Zona Abitabile e “Biosignatures” La Zona Abitabile (ZA) circumstellare è definita come la regione attorno alla stella entro la quale un pianeta simile alla Terra può mantenere acqua allo stato liquido sulla sua superficie, una condizione necessaria per la fotosintesi2. Entro la ZA, la luce della stella è sufficientemente intensa da permettere ad una atmosfera serra di mantenere una temperatura superficiale di circa 273 K ed abbastanza tenue da non provocare condizioni serra che vaporizzino le intere riserve d’acqua, permettendo la foto dissociazione del vapore d’acqua e la perdita di idrogeno nello spazio. La Zona Continuamente Abitabile (ZCA) è la regione che rimane abitabile per più di 1 miliardo d’anni. La Figura 4.6 mostra i limiti della ZCA in funzione della massa stellare. I pianeti nella ZA non sono necessariamente abitabili. Possono essere troppo piccoli, come Marte, per mantenere una geologia attiva e limitare la perdita della loro atmosfera. Possono essere troppo grandi, come HD69830d, e aver creato un inviluppo di H2-He al disotto del quale l’acqua non può essere liquida. Figura 4.6: La ZCA (regione blu) attorno a stelle di classe diversa. La regione attorno al Sole che rimane abitabile per più di 5 miliardi di anni va da 0.76 a 1.63 UA. 2 Infatti l’equazione della fotosintesi clorofilliana ossigenica è 6 CO2(gas) + 12 H2O(liq) + 686 Kilocalorie/mole → C6H12O6(aq) + 6 O2(gas) + 6 H2O(liq) 57 Quindi, per sapere se un pianeta della ZA è veramente abitato, bisogna cercare le “biosignatures”, caratteristiche che sono specifiche delle attività biologiche e che possono essere individuate. Un esempio è l’O2 prodotto dalla fotosintesi. La Missione Darwin sarà capace di cercare i segnali di vita negli spettri dei pianeti scoperti nella ZA della propria stella. La Figura 4.7 mostra che lo spettro della Terra nel medio-IR presenta la banda dell’O3 a 9.6 µm, la banda del CO2 a 15 µm, la banda dell’H2O a 6.3 µm e la banda rotazionale dell’H2O che si estende fino a 12 µm. Lo spettro della Terra è palesemente diverso da quello di Marte e di Venere che presentano solo la banda del CO2. Quindi la rilevazione combinata delle bande di assorbimento dell’O3, dell’H2O e del CO2 è il segnale più robusto e meglio studiato dell’attività biologica. Figura 4.7: Lo spettro nel medio-IR di Venere, Terra e Marte visti da 10 pc. 58 Capitolo 5 CONCLUSIONI La ricerca dei pianeti extrasolari si sta mostrando uno dei settori più attivi nel campo dell’astronomia grazie alla scoperta di più di 260 pianeti in soli 12 anni. Si stanno progettando tecnologie sempre più avanzate al fine di avere: spettrografi che riescano a rilevare differenze di velocità radiale pari al km/h, ottiche adattive e tecniche interferometriche più performanti che permettano di avere risoluzioni angolari di 1 µas, coronografi che consentano di guadagnare 5 magnitudini in termini di contrasto e missioni spaziali che studino centinaia di migliaia di stelle contemporaneamente. Scopi della ricerca sono quelli di riuscire a rilevare pianeti di taglia simile alla Terra, formulare una teoria che spieghi come si sono formati i pianeti e capire quali siano le proprietà dei sistemi planetari. Infine il massimo obiettivo rimane quello di dare una risposta alla domanda principe che attanaglia l’uomo da millenni: esistono altre forme di vita nell’Universo? È entusiasmante pensare che i telescopi spaziali – a cominciare da Kepler e Corot – potrebbero dare una risposta affermativa nel corso della nostra vita. 59 BIBLIOGRAFIA O. Absil, A. Baglin, C. Beichman, L. Colangeli, V. Coudé du Foresto, C. Eiroa, T. Henning, T. Herbst, K. Johnston, L. Kaltenegger, P. Lawson, A. Léger, R. Liseau, F. Malbet, B. Mennesson, D. Mourard, C. Moutou, M. Ollivier, F. Paresce, G. Perrin, D. Queloz, A. Quirrenbach, H. Röttgering, D. Rouan, J. Schneider, M. Tamura, G. White, W. Benz, M. Blanc, H. Lammer, F. Selsis, D. Stam, G. Tinetti, F. Westall, A. Brack, C. Cockell, H. 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