Quando l’arte del piacere si
trasforma in morte
di Stefania Taruffi
Non c’è niente da fare, artisti si nasce. L’estro creativo, il
talento, la passione, sono caratteristiche innate. Oppure lo
si può diventare con la pratica, la dedizione, la cura del
particolare, la competenza delle tecniche. E quando parliamo
dell’arte del sesso ancora di più. Non basta il desiderio, ci
vuole anche competenza, esperienza, la sottile percezione dei
limiti oltre i quali ci si può spingere, non solo quelli
individuali, soprattutto quelli delle persone coinvolte. Solo
così il sesso diventa piacere puro, condiviso, eros libero da
preconcetti e tabù, com’è giusto che sia, tuttavia controllato
dal buon senso e da una partecipazione consapevole.
L’ingegner Soster
Mulè,
42enne romano, non ha questo
talento. Ha scelto di passare
una serata con due ragazze
poco più che ventenni, Paola,
salentina, studentessa di
Filosofia e
Federica,
consenzienti,
o
sotto
l’effetto di droghe e alcol,
verrà stabilito, per vivere
un’esperienza ‘trasgressiva’.
Le ha legate in maniera
comunicante, appese con un
cappio al collo, per fare
vivere loro l’esperienza del
breath play, la piccola apnea
che procurerebbe più piacere
nell’orgasmo e lasciate in
quella posizione, in un gioco
Federica è svenuta,
di equilibrio precario.
lasciando Paola in balia di un cappio
ormai libero di ucciderla. Probabilmente l’intento era nobile
per gli amanti del genere: donare alle due ragazze un piacere
smisurato, profondo, nell’ambito di un gioco perverso e molto
adrenalinico per la sua forma e i contenuti, coadiuvato da
falli finti, stimolatori clitoridei con impulsi elettrici e
quant’altro. E per farlo ha scelto una tecnica molto
raffinata, lo Shibari, conosciuto anche come Kimbaku,
un’antica forma artistica giapponese, una tecnica di bondage
che consiste letteralmente l’atto di legare qualcuno,
utilizzando delle corde sottili di fibra naturale, canapa o
iuta, per formare dei disegni geometrici sul corpo femminile.
Una forma artistica di scultura vivente, una sorta di tela
umana da contemplare, divenuta dunque nel tempo anche una
pratica sessuale. In questo “gioco erotico” (prima ancora di
essere un arte, nasce come tecnica punitiva) il Nawashi, colui
che lega le corde, assegna a ogni fune un significato ben
preciso e ogni nodo, (storicamente associato all’Hojo-jutsu,
l’arte marziale d’immobilizzazione del prigioniero), è posto
nei punti salienti del corpo indicati come punti di pressione
dalla medicina orientale.
L’obiettivo dello Shibari, oltre al divertimento erotico in
sé, è quello di aprire energia erotica attraverso l’ascolto e
l’atmosfera rituale, che comprende un mix di meditazione,
erotismo e tecnica. La pratica, che non è quasi mai riferita a
una sessualità esplicita come in questo caso di sesso estremo,
cerca di portare i protagonisti del “gioco” alla ricerca di
sensazioni profonde. Un’arte dunque, che presuppone stile,
capacità, conoscenza dei dettagli, dei punti di pressione, dei
limiti. In genere le donne oggetto dello Shibari non vengono
‘appese’ come carne al macello, ma restano adagiate per terra,
su un letto in una situazione in cui si sentano a proprio agio
e che favorisca il rilassamento e l’apertura al piacere
contemplativo della mente e del corpo, in una magica sintonia
tutta orientale. Il gioco della corda è in tal modo più sotto
controllo. Il Nawashi della situazione, il Mulè, non era forse
un conoscitore responsabile della tecnica giapponese.
Tantomeno ne conosceva lo stile: un vero Navashi non avrebbe
mai scelto uno squallido garage per le donne oggetto della sua
‘arte’, quanto un’ambientazione elegante e artefatta, degna e
sicura. Nessuno può giudicare Mulè a parte gli organi
giudiziari (rischia 18 anni di carcere), ma le ragazze che
hanno accettato di ‘giocare’ in un luogo simile e di farsi
mettere un cappio al collo appese sul filo del rasoio, erano
sì consenzienti, ma fino a che punto? Qual’era il limite che
ciascuno dei presenti al gioco avrebbe dovuto porsi? Fino a
che punto una mente perversa osa spingersi facendo leva sulla
mente e sul corpo?
Il piacere e l’eros sono l’anima dell’universo, come affermava
anche Platone. Tuttavia occorre saperli vivere in maniera sana
e naturale, nel piacere condiviso, seppur perverso. Viverli
con un alto rischio di salute, oppure della vita stessa, è una
follia.
Foto: Alex