Una catastrofe domestica* di Orazio Dotta

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Una catastrofe domestica*
di Orazio Dotta
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*L’articolo è apparso in forma ridotta (questioni di spazio) sulla pagina “Libero di leggere” del quotidiano
“LaRegione” il 21.3.2016. Qui di seguito l’intervista completa a Simone Giorgi.
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L’ultima famiglia felice di Simone Giorgi, Einaudi, 240 p. E. 18.00
L’incipit:
Il 12 dicembre 2003 nessuno vide l’alba: le nuvole impedivano alla luce di spazzare via gli incubi della notte
e il sole reagiva appiccando il fuoco nell’aria. Nei palazzi bassi in cui ogni bambino aveva la propria
cameretta e le lenzuola erano state stirate da una domestica a ore, il quartiere di Monteverde Vecchio a
Roma, dormiva un sonno arroccato. Si difendeva dalla gazzarra del centro storico con la sua posizione
sopraelevata, e dalle periferie con la prossimità al centro.
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Il libro, opera prima di Simone Giorgi, vanta una menzione speciale della giuria del XXIX Premio Italo Calvino
nella quale si legge: “l’autore sviluppa con perfezione geometrica la drammaturgia di una famiglia italiana
middle class che è insieme un caustico e acribico ritratto delle pratiche educative programmaticamente
corrette dei nostri tempi”. Il romanzo ci racconta di una famiglia che aspira, tramite i buoni rapporti, un
modello educativo libertario e il rispetto delle personalità, alla felicità. Ma si può pensare davvero pensare
di vivere sempre felici? Lo abbiamo chiesto a Simone Giorgi che in questa intervista ci parla del suo
interessante romanzo d’esordio:
Ci descrive la trama del suo romanzo?
Ne L’ultima famiglia felice si racconta della giornata di inverno in cui le tensioni all’interno della famiglia
Stella – tensioni assolutamente normali in una famiglia che si trova ad affrontare la pre-adolescenza di uno
dei suoi componenti – deflagrano assumendo le proporzioni di una catastrofe domestica prima, e poi forse
di una catastrofe tout court.
La felicità è una condizione difficile da raggiungere ma soprattutto da mantenere nel tempo, perché la
felicità è delicata e fragile. Basta un nulla per far cadere un bel castello. Le chiedo: perché la felicità della
famiglia Stella precipita? Ci dobbiamo arrendere all’idea che la felicità è effimera?
Credo che lei abbia ragione, quando dice che la felicità è effimera. O comunque imperfetta, mai piena e
definitiva. Non si tratta di arrendersi, di essere fatalisti. La scienza ci insegna che la sopravvivenza della
nostra specie è fortuita; avremmo potuto non esserci, estinguerci migliaia di anni fa. La nostra
sopravvivenza, la nostra posizione privilegiata, la felicità: nulla è il risultato di un calcolo, prevedibile e
sicuro; l’imprevedibilità, l’incidente, l’accidente non sono l’eccezione, ma la norma. Matteo Stella, invece,
ha provato a elaborare in modo scientifico un sistema in grado ricomporre ogni anomalia, neutralizzare
ogni eccezione e assicurare a sé e alla propria famiglia una felicità stabile e duratura. Una missione
impossibile.
La famiglia Stella ha una composizione molto tradizionale: un padre, una madre e due figli (un maschio e
una femmina), ovvero la perfezione secondo l’ideale comune. Viviamo però in una società in mutamento
nella quale il concetto di famiglia si è molto dilatato fino ad assumere fisionomie molto variegate. Perché
scegliere il prototipo da Mulino bianco?
Proprio perché la tesi di fondo del libro è che la felicità è imperfetta. E imperfetta non vuol dire impossibile;
solo che, ecco, non esiste una famiglia da Mulino bianco strictu senso. In altre parole, non esiste la famiglia
perfetta, perché quello familiare è un modello strutturalmente problematico, a prescindere da come la
famiglia sia formata. Per poterlo dimostrare ho dovuto ricreare una sorta di situazione di laboratorio, un
ambiente per così dire neutro, privo di quelle contingenze che, da sole, avrebbero potuto costituire il capro
espiatorio della sopraggiunta infelicità della famiglia Stella. Niente capri espiatori, niente appigli alla
retorica. Ogni famiglia ha un coefficiente fisso di infelicità, determinato dalla semplice convivenza di
persone, anche se si amano: il dolore di un familiare è insopportabile per gli altri, la reazione a quel dolore
può essere scomposta, può provocarne altro, e via così, in un circolo vizioso. Quindi non ha senso la
retorica secondo cui certi tipi di famiglia assicurerebbero la serenità, mentre altri no. La serenità, come ha
imparato Matto Stella, non è programmabile, né dal migliore dei padri come lui, né dal legislatore.
Matteo Stella, il “capofamiglia”, è un buono. Conduce una vita cercando consenso e offrendo
comprensione. Basa la sua esistenza su un’infinità di teorie, ne ha una per ogni occasione; una sorta di
cintura di sicurezza per ogni evenienza. C’è ancora posto nella nostra società per i buoni? Le teorie sono
utili?
Direi che oggi più che mai c’è posto per i buoni: lo dimostra la grande quantità di onlus, ong, fondazioni,
istituti religiosi e semplici cittadini che ogni giorno si attivano, gratuitamente o meno, per il benessere di
qualcun altro. D’altronde un padre come Matteo Stella sarebbe stato impensabile anche solo cinquant’anni
fa. Oggi invece è lo specchio dei tempi: i politici si danno tanta pena di ostentare la propria vicinanza agli
elettori, di sembrare come noi, più miti e tolleranti. Non mi azzarderei a dire che anche loro costruiscono
delle teorie nello stile di Matteo Stella; le loro sono più che altro strategie di marketing e, in quanto tali,
nella maggior parte dei casi tornano loro molto utili. Anche le teorie come quelle di Matteo, quelle
elaborate in buona fede e con buoni propositi, possono essere utili, ma spesso finiscono col rivolgercisi
contro. Forse, in fin dei conti, per un genitore è più importante avere un vigile senso critico e autocritico
che non un saldo apparato teorico.
Anna incarna la donna in carriera, una donna che si trascina gli ideali della gioventù, che tradisce il marito
perché bisognosa di essere desiderata ma anche di desiderare. Cosa rappresenta per lei questo
personaggio?
Anna, a differenza del marito, non riesce a pacificarsi. Anche lei ci prova, a volte disperatamente, a fare
l’incanto a se stessa, a dirsi che va tutto bene, che la sua vita è bella, perfetta. Ma la verità è che,
nonostante tutti gli sforzi fatti da Matteo e anche da lei stessa, Anna sente che manca qualcosa nella sua
esistenza. Cosa? Il desiderio, come osserva lei: Anna si rifiuta di deporre la sfera del desiderio – mutevole e
imprevedibile per definizione – in cambio della solidità, e rifiuta ancora di più di far passare questa rinuncia
per un’appagante conquista. Si può essere felici se si è smesso di desiderare?
Il metodo educativo di Matteo è per metà fallimentare. Da una parte la figlia Eleonora nutre per lui una
certa considerazione, dall’altra Stefano, il figlio tredicenne, non sopporta il padre tanto da mettere un
cartello sulla porta della sua camera con la scritta: papà qui non può entrare. Ma forse Stefano odia
l’impossibilità dello scontro e del confronto che tutti gli adolescenti ricercano per confrontarsi e per
capire quale direzione prendere. Matteo non se ne accorge, nemmeno quando Anna, la moglie, cerca di
farglielo capire: “Stefano ha bisogno di essere guidato, di opporsi, ribellarsi. Forse voleva dirci questo,
con la pallina, cerca un muro con cui scontrarsi. Perché non ti imponi, ogni tanto?” Il libro sembra
criticare una forma di educazione troppo accondiscendente; un’educazione che non pone limiti e che non
sa imporre i “no” che, invece, possono dare una mano a crescere. È così?
Il punto è proprio che, come lei scrive, la teoria di Matteo è fallimentare per metà, e dunque per metà
vincente. Teorie avverse, più autoritarie per così dire, hanno un tasso di fallimento anche maggiore. Perché
alla fine tutti, in un modo o nell’altro, si sentono fallimentari nel loro rapporto con gli altri componenti della
famiglia. Forse, l’errore di Matteo Stella sta proprio nel rifiutarsi di accettare che il fallimento non è un
rischio, ma una parte integrante di ogni approccio educativo. Il metodo di Matteo pecca di intransigenza e
di volontà di purezza; andrebbe solo contaminato un po’.
Un altro aspetto importante del libro è quello relativo all’adolescenza; periodo della vita notoriamente
difficile. Lei descrive due ragazzi piuttosto diversi tra loro, ce ne vuole parlare?
Sì, l’adolescenza è un periodo decisamente difficile, ed è sotto gli occhi di tutti, sia degli adulti che degli
adolescenti stessi. Forse ciò che è appena meno visibile è quanto sia delicato il momento della preadolescenza, quello che vive Stefano e che Eleonora si è lasciata alle spalle già da qualche anno, proiettata
com’è nell’età adulta. A 17 anni Eleonora, come ogni ragazza della sua età, si crede ormai grande, per
questo guarda suo fratello come se a separarli non fosse una distanza di quattro anni, ma di una
generazione. Per lo stesso motivo guarda a Matteo con una comprensione che ha i tratti della complicità: si
accorge che suo padre non è l’eroe che aveva creduto da bambina, ma solo un uomo. E questa scoperta,
anziché gettarla nello sconforto, la riempie di soddisfazione, la vive come una prova della maturità
raggiunta, quasi un rovesciamento dei ruoli: ora sarà lei a prendersi cura del padre. Stefano, invece, nell’età
adolescenziale ci sta entrando proprio ora: i primi turbamenti sessuali, le prime problematizzazioni del
proprio aspetto fisico. Se Eleonora è cambiata, Stefano sta cambiando e vive quello che potremmo
chiamare il “paradosso del presente progressivo”: un presente così legato al recente passato e al futuro
prossimo da non riuscire a essere un vero presente. Stefano non può avere un’idea di sé perché il suo sé è
in movimento, perché, appunto, sta cambiando. La differenza fra Stefano e Eleonora chiaramente non è
solo anagrafica, hanno due temperamenti diversi, ma quel che è certo è che quella di tredicenne e quella di
una diciassettenne sono due adolescenze quasi antitetiche.
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