la legge naturale nella dottrina della chiesa

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Studia
Moralia
Biannual Review
published by the Alphonsian Academy
Revista semestral
publicada por la Academia Alfonsiana
Rivista semestrale
pubblicata dall’Accademia Alfonsiana
46/2 • 2008
EDITIONES ACADEMIAE ALFONSIANAE
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Studia Moralia 46/2
Luglio -Dicembre 2008
CONTENTS / ÍNDICE / INDICE
Articles / Artículos / Articoli
La legge naturale nella dottrina della Chiesa . . . . . . . . . . . . . . .
Zenon Grocholewski
383
La luce della “Moral Insight” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Angelo Scola
413
Contemplating the Life and Ministry of Christ
Emerging Guidelines for Christian Living . . . . . . . . . . . . . .
Dennis J. Billy
433
Sequela et radicalisme . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Réal Tremblay
455
Dottrina cristiana alfonsiana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Alfonso V. Amarante
469
Padre Bernhard Häring. Un teologo “capace di futuro”? . . . . .
Giuseppe Quaranta
487
The Originality of Alasdair MacIntyre’s Reading
of Aquinas on Justice . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Martin McKeever
501
“Doctrina – vida”: una postura dialéctica de frente a la Humanae
vitae . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
J. Silvio Botero Giraldo
519
Reviews / Recensiones / Recensioni
FRATTICCI WALTER, Il bivio di Parmenide ovvero la gratuità della
verità. Modalità di ricerca filosofica di inizio millennio (Raphael
Gallagher) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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CONTENTS / ÍNDICE / INDICE
JAN PAWEŁ II, Encyklopedia nauczania moralnego (JOHN PAUL II,
Encyclopedia of Moral Teaching) (Jerzy Gocko) . . . . . . . . . . . . .
543
MELINA LIVIO – NORIEGA JOSÉ – PÉREZ-SOBA JUAN JOSÉ, Camminare nella Luce dell’Amore. I fondamenti della morale cristiana
(Gabriel Witaszek) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
546
SCHALLENBERG PETER, Jenseits des Paradieses. Ethische Anstöße für
den Alltag (Manuel Wluka) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
551
VENDEMIATI ALDO, Universalismo e relativismo nell’etica contemporanea (Alberto Onofri) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
557
WETTACH-ZEITZ TANIA, Ethnopolitische Konflikte und interreligiöser Dialog. Die Effektivität interreligiöser Konfliktmediationsprojekte analysiert am Beispiel der World Conference on Religion and
Peace-Initiative in Bosnien-Herzegowina (Vincenzo Viva) . . . . .
562
WOODS THOMAS E. JR., Come la Chiesa cattolica ha costruito la civiltà occidentale (Domenico Santangelo) . . . . . . . . . . . . . . . . . .
568
Book Presentation / Presentación del libro
Presentazione del libro
TREMBLAY RÉAL – ZAMBONI STEFANO (a cura di), Figli nel Figlio.
Una teologia morale fondamentale
L’uso della Sacra Scrittura, Klemens Stock . . . . . . . . . . . . . .
Aspetti etici, Angel Rodríguez Luño . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
L’impostazione filiale, Ignazio Sanna . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Epilogo. “Un Figlio ci è stato dato” (Is 9, 5), Réal Tremblay
573
579
586
601
International Conference / Congreso Internacional
Congresso Internazionale
Memorial Event on the Tenth Anniversary of the Death of Fr.
Bernhard Häring (Gars am Inn, July 5th 2008) . . . . . . . . . . .
Martin McKeever
“Carità e giustizia per il bene comune”, Cronaca del XXII congresso nazionale dell’Associazione Teologica Italiana per lo Studio
della Morale (Pescara, 8-11 settembre 2008) . . . . . . . . . . . . . .
Giuseppe Quaranta – Giovanni Del Missier
603
605
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CONTENTS / ÍNDICE / INDICE
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Chronicle / Crónica / Cronaca
Cronaca dell’Accademia Alfonsiana relativa all’Anno Accademico
2007-2008 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Danielle Gros
613
Books Received / Libros recibidos / Libri ricevuti . . . . . . . . . . .
641
Index of volume 46 (2008) / Índice del volumen 46 (2008) /
Indice del volume 46 (2008) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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LA LEGGE NATURALE
NELLA DOTTRINA DELLA CHIESA
Zenon Grocholewski*
Introduzione
Vorrei affrontare una questione di estrema importanza ed attualità
per il mondo contemporaneo. Infatti, la legge naturale – insita nel cuore degli uomini – appartiene al grande patrimonio della sapienza umana, ma nello stesso tempo è oggetto dell’insegnamento della Chiesa, in
quanto, pur essendo una verità di ordine naturale, è stata illuminata
dalla luce della Rivelazione. Essa, di conseguenza, offre il fondamento
naturale, che permette al credente la possibilità di dialogare anche con
le persone di altro orientamento e di altra formazione1.
Davanti alle sfide moderne, va innanzi tutto riscoperto il valore essenziale della legge naturale; e, in questa prospettiva, va ribadita la
percezione di tale legge da parte dell’insegnamento della Chiesa.
Il Servo di Dio, Papa Giovanni Paolo II – forse, nel secolo XX, il
più grande difensore della legge naturale e dei conseguenti diritti
umani – quando si è rivolto per l’ultima volta ai Membri della Congregazione per la Dottrina della Fede, ha invitato così ad una nuova
riaffermazione della lex naturalis: “Quello della legge morale naturale
è un argomento importante ed urgente che vorrei sottoporre alla vostra attenzione. [...] Sulla base di tale legge si può costruire una piattaforma di valori condivisi, intorno ai quali sviluppare un dialogo costruttivo con tutti gli uomini di buona volontà e, più in generale, con
la società secolare. [...] Vi invito pertanto a promuovere opportune
* Prefect of Congregation for Catholic Education
* Prefecto de la Congregación para la Educación Católica
1
Cf. J.-P. SCHOUPPE, Convergences et différences entre le droit divin des canonistes et le droit naturel des juristes, in Ius Ecclesiae 19 (2000) 29-67.
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iniziative allo scopo di contribuire ad un rinnovamento costruttivo
della dottrina sulla legge morale naturale, cercando anche convergenze con rappresentanti delle diverse confessioni, religioni e culture”2.
Un forte incoraggiamento per intraprendere un tale cammino ci
viene da parte di Benedetto XVI, il quale in un recente discorso ha
ribadito che, nell’attuale momento storico, considerate le circostanze dello sviluppo delle scienze, “appare in tutta la sua urgenza la necessità di riflettere sul tema della legge naturale e di ritrovare la sua
verità comune a tutti gli uomini”3.
Nella mia presente relazione, intendo limitarmi semplicemente a
riaffermare la dottrina della Chiesa concernente la legge naturale. Per
affrontare tale tema, bisogna prima di tutto tener conto del momento presente che l’umanità sta vivendo, ossia del mondo davanti al
quale la Chiesa proclama la propria visione della legge in parola.
1. Il mondo di un pensiero metafisicamente debole
Infatti, la riaffermazione dei principi della legge naturale si presenta in tutta la sua urgenza proprio in considerazione del pensiero
contemporaneo, segnato della crisi della metafisica. In un pensiero
debole, “allergico” al discorso metafisico, il concetto di legge naturale è incompreso, ignorato, oppure esplicitamente rifiutato, così da togliere ogni possibile fondamento per un dialogo comune al riguardo.
Si nega infatti quella naturale tendenza del pensiero umano a cercare ed a scoprire un ordine morale oggettivo.
Davanti a questo panorama, l’insegnamento della Chiesa costituisce indubbiamente un luogo eloquente e coraggioso dell’affermazio2
GIOVANNI PAOLO II, Discorso ai partecipanti della Plenaria della Congregazione
per la Dottrina della Fede, 6 febbraio 2004, n. 5, in AAS 96 (2004) 399-402 (il corsivo è nostro). Cf. anche ID., Discorso ai partecipanti della Plenaria della Congregazione
per la Dottrina della Fede, 18 gennaio 2002, n. 3, cpv. 2, in AAS 94 (2002) 332-335.
3 BENEDETTO XVI, Discorso ai partecipanti al Congresso Internazionale sulla legge morale naturale promosso dalla Pontificia Università Lateranense, 12 febbraio
2007, cpv. 3, in AAS 109 (2007) 243-246.
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ne della legge naturale, paradigmatico per la difesa di ciò che è veramente umano. La Chiesa sembra essere oggi anche l’unica a proclamare con vigore in che cosa risiede la forza della legge naturale. Se
tale impressione è vera, ciò dovrebbe destare molta preoccupazione,
perché si tratta di un’inquietante trascuratezza di una realtà universale, iscritta in tutte le creature umane.
La crisi del pensiero metafisico comporta, nei riguardi della legge
naturale, due principali pericoli. Da una parte, il credente, trascurando
l’ordine naturale creato da Dio, corre il rischio di aderire ad una morale di carattere fideista. Dall’altra parte, indipendentemente da qualsiasi convinzione religiosa, alla società intera, e in modo particolare ai
legislatori, viene a mancare, trascurando la legge naturale, un riferimento oggettivo per qualsiasi altra legge; di conseguenza, queste spesso si basano soltanto sul consenso sociale, così da rendere sempre più
difficile giungere ad un fondamento etico comune a tutta l’umanità4.
Mi fa piacere ricordare al riguardo che l’allora Card. Joseph Ratzinger, in uno dei suoi ultimi interventi prima dell’elezione al soglio pontificio, con gli esponenti del cosiddetto “pensiero laico”, sintetizzava
con chiarezza: “Quanto alla domanda se lo jus naturale sostenuto dalla
Chiesa cattolica possa essere una risposta [universale], sappiamo che il
mondo di oggi è convinto che non lo sia. Per la Chiesa il diritto naturale insito nella stessa creatura umana, è stato il mezzo per poter dialogare con quanti non condividevano la fede. Ma oggi lo stesso concetto
di natura ha assunto un significato puramente empirico; è ridotto a
quanto si può osservare con le scienze, con la biologia, a quanto è riscontrabile nella dottrina evoluzionistica. Quindi [per il mondo] il termine natura non indica più niente di umano in senso proprio e perciò
[la stessa comprensione] del concetto del diritto naturale si riduce”5.
4
Cf. GIOVANNI PAOLO II, Discorso ai partecipanti della Plenaria della Congregazione per la Dottrina della Fede, 6 febbraio 2004, n. 5, cpv. 2.
5 «Dialogo del Card. Ratzinger con il Prof. Galli della Loggia, Roma, Palazzo Colonna, 25 ottobre 2004», in Atti del Convegno su Storia, Politica e Religione,
Quaderno n. 7, Roma 2004, p. 16; cf. «Pensieri cardinali. Ratzinger e Galli della Loggia su storia, politica e religione», in Il Foglio Quotidiano, n. 297 (anno IX)
27 ottobre 2005, p. 1. Al riguardo si veda anche: J. RATZINGER – J. HABERMAS,
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La stessa osservazione, in modo ancor più perspicace, egli l’ha
espressa da Pontefice, segnalando un pericolo inquietante: “Il metodo che ci permette di conoscere sempre più a fondo le strutture razionali della materia ci rende sempre meno capaci di vedere la fonte
di questa razionalità, la Ragione creatrice. La capacità di vedere le
leggi dell’essere materiale ci rende incapaci di vedere il messaggio
etico contenuto nell’essere, messaggio chiamato dalla tradizione lex
naturalis, legge morale naturale. Una parola, questa, per molti oggi
quasi incomprensibile a causa di un concetto di natura non più metafisico, ma solamente empirico”6.
Nel contempo, nonostante queste fratture nei percorsi razionali
diagnosticate nel mondo d’oggi, il Cardinale Ratzinger costatava con
grande speranza e fiducia nella persona umana: “Penso che, nonostante tutte le riserve nei confronti della metafisica che ben conosciamo, non dovrebbe essere così impossibile capire che non si tratta
di un’invenzione cattolica, ma di una risposta alle sfide dell’essere
umano: il riconoscere che l’uomo è soggetto di diritti ancora prima
di qualsiasi Costituzione. Tutte le leggi debbono [infatti] conformarsi a quei diritti e non questi alla Costituzione”7.
2. La forza della legge naturale
a. La questione della legge naturale, e dei diritti naturali che da essa scaturiscono, come pure dei doveri essenziali dell’uomo, non è solo una nozione cattolica, ma è l’espressione delle inclinazioni innate
dell’uomo verso la verità ed il bene. In questo senso, essa costituisce
la profonda sorgente dell’ispirazione e l’impulso di tutto l’agire uma-
Etica, religione e Stato liberale, Morcelliana, Brescia 2005, oppure il relativo contributo anche in J. RATZINGER, Europa. I suoi fondamenti oggi e domani, Edizioni
San Paolo, Milano 2005.
6 BENEDETTO XVI, Discorso ai partecipanti al Congresso Internazionale sul diritto naturale promosso dalla Pontificia Università Lateranense, 12 febbraio 2007,
cpv. 2, in AAS 109 (2007) 243-246.
7 «Dialogo del Card. Ratzinger con il Prof. Galli della Loggia», p. 17.
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no. Appartenente alla struttura spirituale dell’uomo, essa è il suo genio morale, ovvero il primo e naturale principio d’ispirazione. Pur non
essendo una legge scritta, essa però è “iscritta” in modo da non poter
essere cancellata, anzi è “scolpita nell’anima di ogni uomo”8 e come
tale risponde alle sue sfide più profonde, precede qualsiasi legge positiva, determinando i diritti dell’uomo e gli imperativi etici che è doveroso onorare.
b. Ai credenti, una lectio doctrinae sulla legge naturale viene offerta dalla Sacra Scrittura. La Rivelazione indica che la legge eterna di
Dio si manifesta all’uomo per due vie: per primo, attraverso le opere
del Creatore (Rm 1, 18-219), in cui è impressa la luce della legge naturale; e poi, nella pienezza dei tempi, nella Persona del Verbo incarnato, “il Signore nostro Gesù Cristo” (1Cor 1, 6-710), essendo Egli
stesso la Legge nuova.
La dottrina della Chiesa esprime e rende sempre attuale quello
che Dio rivela nelle Scritture e quello che già prima aveva manifestato tramite la creazione dell’uomo. I Padri della Chiesa erano soliti
chiamarlo scintilla animae, la scintilla che illumina la coscienza. Tra i
primi autori cristiani, Tertulliano (II/III sec.) parlava del “diritto di
8
LEONE XIII, Lettera Enciclica Libertas, 20 giugno 1888, cpv. 9, in Leonis
XIII P. M. Acta, VIII, Romae 1889, 219. Cf. CONCILIO ECUMENICO VATICANO
II, Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et
spes, 7 dicembre 1965, n. 16; e Dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis humanae, 7 dicembre 1965, n. 3 cpv. 1 e 3.
9 “In realtà l’ira di Dio si rivela dal cielo contro ogni empietà e ogni ingiustizia di uomini che soffocano la verità nell’ingiustizia, poiché ciò che di Dio si
può conoscere è loro manifesto; Dio stesso lo ha loro manifestato. Infatti, dalla
creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e
divinità; essi sono dunque inescusabili, perché, pur conoscendo Dio, non gli
hanno dato gloria né gli hanno reso grazie come a Dio, ma hanno vaneggiato
nei loro ragionamenti e si è ottenebrata la loro mente ottusa”.
10 “La testimonianza di Cristo si è infatti stabilita tra voi così saldamente, che
nessun dono di grazia più vi manca, mentre aspettate la manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo”.
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natura”11 e della “disciplina naturale”12. Lattanzio (250 ca-325 ca)
sviluppava ancora più spiccatamente i termini di questo linguaggio,
parlando, nelle Istituzioni divine, della “hominis ratio” o “humanitatis
ratio”, come anche della “vitae ratio”, identificandola con la “vera justitia”, che è fondata sulla natura13. San Girolamo (347 ca-419), poi,
sottolineava l’universalità della conoscenza della legge naturale14. Per
Sant’Ambrogio (339-397) essa è una vera e propria rivelazione naturale15. Anche per Sant’Agostino (354-430) l’idea della legge eterna è
naturalmente riflessa nell’uomo16. La lex naturalis, secondo il suo
pensiero, è un’“impronta” di Dio e della sua lex aeterna, cioè del suo
stesso pensiero divino, nell’animo umano17.
L’espressione dottrinale matura sulla legge naturale ci viene offerta da San Tommaso d’Aquino (1124/1125-1274)18 che l’ha anche ap-
11
Cf. TERTULIANO, De spectaculis, II: PL 1, 705; Apologeticus, c. 39: PL 1, 534.
Cf. TERTULIANO, De corona, c. 7: PL 2, 84.
13 Cf. LATTANZIO, rispettivamente Divinarum institutionum, II, 1: PL 6, 255257; IV, 1: PL 6, 449; VI, 8: PL 6, 365; VI, 9: PL 6, 663-664.
14 Cf. S. GIROLAMO, Epistola 121: PL 22, 1025.
15 Cf. B. MAES, La loi naturelle selon Ambroise de Milan, Analecta Gregoriana
Presses de l’Université Grégorienne, Roma 1967.
16 Cf. SANT’AGOSTINO, Confessiones, II, 4, 9: PL 32, 678.
17 Cf. SANT’AGOSTINO, De libero arbitrio, I, 6, 15.
18 Cf. SAN TOMMASO, Summa Theologiae, I-II, q. 94: De lege naturali, aa. 16. Esiste un’ampia bibliografia al riguardo della concezione tomista, di cui si ricordano solo alcuni esempi tra i più significativi: M. RHONHEIMER, Natur als
Grundlage der Moral. Die personale Struktur des Naturgesetzes bei Thomas von
Aquin. Eine Auseinandersetzung mit autonomer und theologischer Ethik, Tyrolia,
Innsbruck – Wien 1987 (tr. sp. Ley natural y razón práctica. Una visión tomista de
la autonomía moral, Colección teológica 101, EUNSA, Pamplona 2000; tr. ingl.
Natural law and practical reason: a Thomist view of moral autonomy, Moral philosophy and moral theology 1, Fordham University Press, New York 2000; tr. it.
Legge naturale e ragione pratica. Una visione tomista dell’autonomia morale, Studi
di filosofia, A. Armando, Roma 2001); R. BAGNULO, Il concetto di diritto naturale in san Tommaso d’Aquino, A. Giuffrè, Milano 1983; R. PIZZORNI, Diritto naturale e diritto positivo in S. Tommaso d’Aquino, Civis 15, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 19993. Si vedano anche: A. SCOLA, La fondazione teologica della
legge naturale nello Scriptum super Sententiis di san Tommaso d’Aquino, Studia
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profondita e ne ha elaborato una sintesi. Per lui, la lex naturalis è “la
partecipazione della legge eterna nella creatura ragionevole”19. Di
conseguenza, tale legge rientra nell’ordine della trascendenza e la
partecipatio legis aeternae mantiene solo quei tratti d’immanenza che si
conciliano con tale orizzonte. Ma questo non toglie che essa rientri
nella percezione nettamente razionale.
Come è noto, nell’arco di tutta la storia della Chiesa – basta pensare alle lettere di San Paolo (soprattutto Rm 2,15) –, la legge naturale fa parte della morale cristiana, ma in epoca moderna questo concetto è rinato ed è stato ulteriormente rinforzato. Il concetto è rinato (riapparso) in reazione al protestantesimo, quando l’Europa si è divisa confessionalmente: pur essendo divisi nella fede, la stessa natura
umana indicava i comportamenti morali fondamentali. Il concetto si
è, invece, rinforzato alla scoperta del nuovo mondo delle Americhe,
quando bisognava rispondere alla domanda se i popoli non appartenenti alla cristianità, avessero diritti. Poco a poco, la risposta fu formulata, affermando i loro diritti a partire dal loro essere persone.
Oggi viviamo una nuova necessità di ri-affermare la dottrina, quale
viene etichettata, da parte di una dominante mentalità relativista, come una tesi solo “confessionale” o addirittura accusata di essere “intollerante” verso gli altri. Invece, bisogna rendersi conto che è propriamente il rifiuto della legge naturale a costituire un procedimento di tipo ideologico e a instaurare l’intolleranza al vero.
c. In passato tutta la grande Tradizione cristiana circa la percezione
della legge naturale – che sopra non potevamo solo che accennare20 –
Friburgensia N. S., Universitätsverlag Freiburg, Freiburg (CH) 1982; A. VENDEMIATI, La legge naturale nella Summa theologiae di san Tommaso d’Aquino, Temi di morale fondamentale, Edizioni Dehoniane, Roma 1995.
19 SAN TOMMASO, Summa Theologiae, I-II, q. 91, a. 2, corp (il corsivo è nostro).
20 Cf. G. AMBROSETTI, Diritto naturale cristiano. Profili di metodo, di storia e di
teoria, Milano 19852; R. M. PIZZORNI, Il diritto naturale dalle origini a S. Tommaso d’Aquino: saggio storico-critico, Diritto 3, Pontificia Università Lateranense –
Città Nuova, Roma 1978, 19852; l’ultima ed.: Civis 16, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 20003.
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aveva da sempre degli “alleati”, anche tra chi non era credente. Essa li
ha trovati, già molto prima dell’Incarnazione del Logos, nella filosofia
greca. L’antica sapienza greca, la cui voce paradigmatica è quella di Antigone, riconosceva l’esistenza delle leggi non scritte, a cui gli uomini
sono tenuti ad obbedire, poiché queste valgono più di ogni legge umana21. Celebre al riguardo è la già matura definizione di Cicerone (10643 a. C.), che afferma: “Certamente esiste una vera legge: è la retta ragione; essa è conforme alla natura, la si trova in tutti gli uomini; è immutabile ed eterna; i suoi precetti chiamano al dovere, i suoi divieti
trattengono dall’errore [...] È un delitto sostituirla con una legge contraria; è proibito non praticarne una sola disposizione; nessuno poi ha
la possibilità di abrogarla completamente”22.
È soprattutto il filosofo Aristotele (384/383-322 a. C.) che – molto prima di Cicerone – ha esposto la dottrina delle norme non scritte, universalmente valide e immutabili, perché prescritte per natura23. San Tommaso d’Aquino (1224/1225-1274), Doctor communis e
anche Doctor humanitatis, ha dialogato a lungo con il pensiero aristotelico, accogliendo le sue migliori intuizioni al servizio dell’insegnamento del Vangelo.
d. Oggi si presenta la nuova necessità di cercare una convergenza al
livello della legge naturale con le altre confessioni, religioni e culture,
ma ciò può avvenire solo a condizione che da parte di tutti sia condivisa e rispettata quella che gli antichi chiamavano la recta ratio, orthòs logos, secondo quanto ha postulato Giovanni Paolo II nella Fides et ratio24.
21
SOFOCLE (496-406 a. C.), Antigone, vv. 450 ss.
CICERONE, La repubblica, 3, 22, 33; questo famoso passo di Cicerone ha
meritato di essere citato, al riguardo della legge naturale, nello stesso Catechismo
della Chiesa Cattolica (ed. tipica 1997), n. 1956.
23 Cf. ARISTOTELE, Etica nicomachea, lib. V, cap.10, 1134 b 18 – 1135 a 15,
dove il filosofo dice tra l’altro: “del giusto politico una forma è naturale, un’altra legale. Naturale è quello che dovunque ha la medesima potenza e non dipende dall’avere o da una data opinione”; tr. it. M. ZANATTA, vol. I, Biblioteca
Universale Rizzoli, Milano 19998, pp. 358-563.
24 Cf. GIOVANNI PAOLO II, Lettera Enciclica Fides et ratio, 14 settembre
1998, n. 4 cpv. 3, in AAS 91 (1999) 5-88. Si tratta dell’Enciclica in cui il Papa ha
22
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Perciò viene proposta a tutti gli uomini di buona volontà la sfida
di riflessione sul patrimonio della Chiesa circa questa verità naturale.
Annunciando le insondabili ricchezze della grazia di Gesù Cristo, la
Chiesa, soprattutto negli ultimi tempi, non si stanca di richiamare
anche la forza della legge naturale. Nonostante ciò, il Servo di Dio
Giovanni Paolo II, nel discorso ricordato all’inizio, ha deplorato la
scarsa accoglienza di questa voce: “Nelle Lettere encicliche Veritatis
splendor e Fides et ratio ho voluto offrire elementi utili a riscoprire [...]
l’idea della legge morale naturale. Purtroppo questi insegnamenti
non sembra siano stati recepiti finora nella misura auspicata e la complessa problematica merita ulteriori approfondimenti”25.
Per di più, un preoccupante dissenso, un rifiuto o una deformazione dell’idea della legge naturale, della sua universalità e della permanente validità dei suoi precetti, sono avvenuti anche nel campo
della stessa teologia. Il Papa ha affrontato la questione nell’Enciclica
Veritatis splendor26, la vera magna charta della dottrina tradizionale
della Chiesa sulla legge naturale. Il Santo Padre costatava con preoccupazione che tale rifiuto si è sviluppato in “una nuova situazione entro la stessa comunità cristiana, che ha conosciuto il diffondersi di molteplici dubbi ed obiezioni, di ordine umano e psicologico, sociale e
culturale, religioso ed anche propriamente teologico, in merito agli
insegnamenti morali della Chiesa.
Non si tratta più di contestazioni parziali e occasionali, ma di una
messa in discussione globale e sistematica del patrimonio morale, basata su determinate concezioni antropologiche ed etiche. Alla loro
radice sta l’influsso più o meno nascosto di correnti di pensiero che
richiamato con forza quella “diaconia alla verità”, che è missione della Chiesa e
tramite cui la comunità dei credenti, da una parte, annuncia le certezze acquisite tramite la Rivelazione, dall’altra, si fa partecipe dello “sforzo comune che l’umanità compie per raggiungere la verità” (ivi, n. 2).
25 GIOVANNI PAOLO II, Discorso ai partecipanti della Plenaria della Congregazione per la Dottrina della Fede, 6 febbraio 2004, n. 5, in AAS 96 (2004) 401 (il
corsivo è nostro).
26 Cf. GIOVANNI PAOLO II, Lettera Enciclica Veritatis splendor, 6 agosto 1993,
nn. 42-53, in AAS 85 (1993) 1133-1228.
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finiscono per sradicare la libertà umana dal suo essenziale e costitutivo rapporto con la verità”27.
Per i cattolici d’oggi, tenendo conto delle questioni di carattere
storico, legate alla comprensione della legge naturale, è urgente innanzitutto richiamare la forza della verità della legge naturale e ciò
che è essenziale per la comprensione di tale legge secondo la dottrina della Chiesa. Per questo motivo mi accingo a sintetizzare il recente insegnamento del Magistero al riguardo.
3. La legge naturale e divina
Il Catechismo della Chiesa Cattolica inizia l’esposizione sulla legge
naturale con le seguenti parole: “L’uomo partecipa alla sapienza e
alla bontà del Creatore, che gli conferisce la padronanza dei suoi atti e la capacità di dirigersi verso la verità e il bene. La legge naturale esprime il senso morale originale che permette all’uomo di discernere, per mezzo della ragione, quello che sono il bene e il male, la verità e la menzogna”28. Un tale compito, affidato alla ragione umana, di attingere prescrizioni aventi forza di legge, presuppone una Ragione ad essa superiore, trascendente. In questo senso,
per i credenti, si tratta di una legge alla stesso tempo divina e naturale, cioè iscritta da Dio nella natura dell’uomo, che gli mostra i primi principi e le norme essenziali che reggono la vita morale, come
pure indica la via da seguire per compiere il bene e raggiungere il
proprio fine29.
27
GIOVANNI PAOLO II, Veritatis splendor, n. 4 cpv. 2.
Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1954. In merito alla legge naturale, cf.
anche ibidem, nn. 1954-1960, 2036, 2070-2071; Compendio del Catechismo della
Chiesa Cattolica, 28 giugno 2005, nn. 416-418, 430; PONTIFICIO CONSIGLIO
DELLA GIUSTIZIA E DELLA PACE, Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 20043, nn. 22, 37, 53, 89, 140-142,
224, 397.
29 Cf. CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Gaudium et spes, n. 89; Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1955.
28
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Questa legge “ha come perno l’aspirazione e la sottomissione a
Dio, fonte e giudice di ogni bene, e altresì il senso dell’altro come
uguale a se stesso”30, e come tale determina la possibilità della vera libertà dell’uomo e la garantisce. La libertà dell’uomo, modellata su
quella del Creatore, soltanto mediante obbedienza alla legge divina,
rimane nella verità ed è conforme alla dignità della persona umana31.
Per poter scegliere liberamente il bene ed evitare il male, l’uomo deve poter distinguere il bene dal male, ciò che avviene principalmente
grazie alla luce della ragione naturale, “la luce dell’intelligenza infusa in noi da Dio [...] donata alla creazione”32.
Nella comprensione della legge naturale, la dottrina della Chiesa
ha privilegiato sempre la visione tomista, la cui impostazione è stata
autorevolmente recepita sia dall’insegnamento della Veritatis splendor,
sia dall’esposizione della dottrina nel Catechismo della Chiesa Cattolica.
Tale visuale parte sempre dalla “ragione più alta”, quella di Dio, e
della sua divina provvidenza, a cui in modo più eccellente, rispetto alle altre creature, è soggetta la creatura razionale. Perciò, anche la
dottrina della Chiesa vede, senza alcuna difficoltà, la legge naturale
non in rapporto alla natura degli esseri irrazionali, ma propriamente
alla natura umana, grazie al suo particolare ed unico rapporto di partecipazione della ragione eterna di Dio33.
In questo senso, facciamo nostro il grande postulato del Cardinale Ratzinger – ora Santo Padre Benedetto XVI –, secondo cui, in
mezzo all’attuale crisi delle culture che pretenderebbero progredire
etsi Deus non daretur, dobbiamo avere coraggio di “capovolgere l’assioma degli illuministi e dire: anche chi non riesce a trovare la via dell’accettazione di Dio dovrebbe comunque cercare di vivere e indirizzare la sua vita veluti si Deus daretur, come se Dio ci fosse”34.
30
Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1955.
Cf. GIOVANNI PAOLO II, Veritatis splendor, n. 42 cpv. 1; PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA GIUSTIZIA E DELLA PACE, Compendio della Dottrina sociale della
Chiesa, n. 140.
32 SAN TOMMASO D’AQUINO, Collationes in decem praeceptis, 1.
33 Cf. GIOVANNI PAOLO II, Veritatis splendor, nn. 43-44.
34 J. RATZINGER, L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture, Radici 3, Libreria Editrice Vaticana e Edizioni Cantagalli, Siena 2005, pp. 62-63. L’Autore, poi
31
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4. Le proprietà della legge naturale
Come è noto, nella dottrina della Chiesa si individuano principalmente tre proprietà caratteristiche della legge naturale: la sua universalità, l’immutabilità e la conoscibilità. A causa di alcune interpretazioni inadeguate, esse rischiano di essere, però, e di fatto lo sono,
trascurate, in nome di un presunto conflitto tra la natura dell’uomo
e la sua libertà35.
Facciamo solo qualche accenno a ciascuna di queste caratteristiche.
a. Universalità
La legge naturale è quella a cui tutti gli uomini sono sottomessi,
senza eccezioni né scusanti. Il Catechismo della Chiesa Cattolica afferma al riguardo: “Presente nel cuore di ogni uomo e stabilita dalla ragione, la legge naturale è universale nei suoi precetti e la sua autorità
si estende a tutti gli uomini. Esprime la dignità della persona e pone
la base dei suoi diritti e dei suoi doveri fondamentali”36. La legge naturale, manifestando diritti e doveri, anche quando si tratta di applicarla alle diverse condizioni di vita, rimane inalterabile nei suoi principi comuni37.
Giovanni Paolo II ha riaffermato la caratteristica universale della
legge naturale, anche prendendo in considerazione la singolarità di
ogni persona umana, notando: “Questa universalità non prescinde dalla
singolarità degli esseri umani, né si oppone all’unicità e all’irripetibilità di ciascuna persona: al contrario, essa abbraccia in radice ciascuno
dei suoi atti liberi, che devono attestare l’universalità del vero bene.
Sottomettendosi alla legge comune, i nostri atti edificano la vera co-
prosegue: “Questo è il consiglio che già Pascal dava agli amici non credenti; è il
consiglio che vorremmo dare anche oggi ai nostri amici che non credono. Così
nessuno viene limitato nella sua libertà, ma tutte le nostre cose trovano un sostegno e un criterio di cui hanno urgentemente bisogno” (ivi).
35 Cf. GIOVANNI PAOLO II, Veritatis splendor, nn. 51-53.
36 Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1956.
37 Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1957.
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munione delle persone e, con la grazia di Dio, esercitano la carità,
vincolo della perfezione (Col 3,14)”38.
b. Immutabilità
Anche l’immutabilità della legge naturale viene messa in dubbio
sempre più spesso. Da una parte, tale immutabilità viene confrontata con la sensibilità odierna per la storicità e per la diversità delle culture, come ha rilevato Giovanni Paolo II39, ma, dall’altra, non si può
venir meno a tener presente che, nella natura dell’uomo, esiste qualcosa che trascende le culture e diventa la sua giusta misura e condizione della sua dignità40. In realtà, la legge naturale, in quanto tale,
“permane inalterata attraverso i mutamenti della storia; rimane sotto
l’evolversi delle idee e dei costumi e ne sostiene il progresso”. Anche
se i suoi principi venissero negati, “non la si può però distruggere, né
strappare dal cuore dell’uomo”41.
c. Conoscibilità da parte di tutti gli uomini
Infine, è importante rilevare che la legge naturale, anche senza la
legge rivelata, può essere scoperta e seguita nelle sue norme42.
Nondimeno, a causa del peccato della creatura, i suoi precetti non
sono chiaramente e immediatamente percepiti da tutti, per cui al fine di conoscere “con ferma certezza e senza mescolanza di errore”43
38
GIOVANNI PAOLO II, Veritatis splendor, n. 51 cpv. 3.
Al riguardo sono note le tesi secondo le quali nella legge naturale si troverebbe l’espressione di una determinata forma di cultura particolare in un certo momento della storia. Per una sintesi si veda anche: CONGREGAZIONE PER LA
DOTTRINA DELLA FEDE, Dichiarazione circa alcune questioni di etica sessuale
Persona humana, 29 dicembre 1975, n. 4, in AAS 68 (1976) 77-96.
40 Cf. GIOVANNI PAOLO II, Veritatis splendor, n. 53 cpv. 1-2.
41 Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1958.
42 Cf. Rm 2,14-15; At 17, 22ss.
43 PIO XII, Lettera Enciclica Humani generis, 12 agosto 1950, Introduzione,
cpv. 3, in AAS 42 (1950) 561-578. Al riguardo cf. Compendio del Catechismo della
Chiesa Cattolica, n. 417.
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le verità religiose e morali, all’uomo peccatore risultano necessarie la
grazia e la rivelazione44.
5. Due sottolineature importanti
Per l’esposizione della legge naturale, come essa viene presentata
dalla dottrina della Chiesa, sono importanti due sottolineature, nelle
quali si accumulano anche tutte le grandi questioni che oggi pone il
tema della lex naturalis. La prima riguarda il rapporto tra la legge naturale e il Decalogo, cioè la legge rivelata, della cui necessità si è appena menzionato. La seconda indica il rapporto, anch’esso ricordato
sopra, tra la legge naturale e il concetto stesso di natura. La prima si
pone nei riguardi dell’ordine rivelato, la seconda invece di fronte alla creazione, e cioè è connaturale a tutti. Puntualizziamo le due questioni più da vicino in riferimento alla legge naturale.
a. La legge naturale e il Decalogo
Il Decalogo (Es 20, 1-17; Dt 5, 6-22) è la manifestazione privilegiata della legge naturale e, pur essendo rivelato da Dio nell’arco della storia della salvezza, esso è però accessibile nei suoi precetti alla sola ragione umana. “La morale sviluppata a partire dal Decalogo è
morale razionale, che vive del sostegno della ragione, che Dio ci ha
donato, mentre allo stesso tempo egli con la sua parola ci ricorda ciò,
che nel modo più profondo è iscritto nelle anime di tutti noi”45.
La morale cristiana fa appello alla ragione ed alla sua capacità di
comprensione, perché – come ricorda Sant’Ireneo di Lione – “fin
dalle origini, Dio aveva radicato nel cuore degli uomini i precetti della legge naturale. Poi si limitò a richiamarli alla loro mente. Fu il De44
Cf. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1960.
J. RATZINGER, «Attualità dottrinale del Catechismo della Chiesa Cattolica, dopo 10 anni dalla sua pubblicazione», Intervento al Congresso Catechistico promosso dalla Congregazione per il Clero, 8 ottobre 2002. Il testo si trova
in www.clerus.org/clerus/dati/2002.
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calogo”46. In questo senso, queste “dieci parole” (Es 34, 28) contengono la morale umana universale, una morale umana naturale, che è
aperta ad essere illuminata da una rivelazione soprannaturale.
L’annuncio dell’essere, ovvero della natura, e l’annuncio della Rivelazione non possono essere in contraddizione, in quanto lo stesso
Dio è autore sia della creazione sia della redenzione. In questo senso, sono anche in profonda relazione ragione e fede, nonché l’essere,
cioè la natura, da una parte, e la ragione, dall’altra.
b. La “natura” per la legge naturale
Gli ultimi secoli però hanno posto la domanda: quale natura è richiesta per esprimere la legge naturale?47 Il problema lo abbiamo annunciato già in principio di questa riflessione, ricordando un’affermazione del nostro Santo Padre Benedetto XVI sulla profonda divergenza tra la mentalità dominante e il pensiero della Chiesa.
Per ribadire il significato essenziale della natura, che è richiesto
per una giusta comprensione della legge naturale, ricorro anche ora
ad un’analisi dell’allora Cardinale Ratzinger. L’insegnamento della
Chiesa si serve della categoria di “natura”, nel senso però diverso da
un naturalismo definito da Ulpiano (sec. II/III) nella famosa sentenza: “è naturale ciò che la natura insegna a tutti gli esseri viventi”. Esso riconosce che “la ragione appartiene alla natura umana; «naturale» è
per l’uomo ciò che è conforme alla sua ragione, e conforme alla sua ragione è ciò che lo apre a Dio. Così, il mero meccanismo fisiologico
non può definire la «natura» ed essere norma della morale; quando
parliamo di natura umana dobbiamo sempre tener presente l’unità
inscindibile di corpo e di anima, la dimensione spirituale e la dimen46
SANT’IRENEO DI LIONE, Adversus haereses, 4, 15, 1; cf. Catechismo della
Chiesa Cattolica, nn. 2070-2071; Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica, n.
418; PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA GIUSTIZIA E DELLA PACE, Compendio della
Dottrina sociale della Chiesa, n. 22.
47 Per una buona sintesi si rinvia ad es. a F. D’AGOSTINO, Filosofia del diritto,
Recta Ratio: testi e studi di filosofia del diritto, Terza serie 16, G. Giappichelli
Editore, Torino 20003, pp. 49-75.
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sione corporale dell’unico essere uomo”48. Si tratta di una ragione indebolita dal peso del peccato, ma non compromessa nella sua capacità di percepire il Creatore e l’ordine della creazione.
Aiutare oggi a tornare ad un significato essenziale della natura
umana, quale è insito nella dottrina della legge naturale sembra uno
dei compiti fondamentali di chi, seguendo la legge naturale, si trova
nella situazione di doverla difendere davanti ad attacchi sempre più
preoccupanti.
6. Il Magistero della Chiesa sulla legge naturale
a. La competenza del Magistero
Alla fine, vorrei dedicare qualche parola alla questione dell’autorità del Magistero della Chiesa e del suo rapporto con la legge naturale. Ciò costituisce una questione fondamentale per l’insegnamento
ecclesiale in materia.
Il Magistero della Chiesa – che è “madre e maestra di tutte le gen49
ti” , anche in quanto “esperta in umanità”50 – esprime le esigenze
48 J.
RATZINGER, «Il Catechismo della Chiesa Cattolica e l’ottimismo dei redenti», in J. RATZINGER – CH. SCHÖNBORN, Breve introduzione al Catechismo della Chiesa Cattolica, Città Nuova Editrice, Roma 1994, 20053, pp. 33-34 (i corsivi sono nostri; orig. ted.: Kleine Hinführung zum Katechismus der katholischen Kirche, Verlag Neue Stadt, München 1993).
49 PAOLO VI, Lettera Enciclica Humanae vitae, 25 luglio 1968, n. 19, in AAS
60 (1968) 481-503.
50 PAOLO VI, Discorso all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, 4 ottobre
1965, n. 1, cpv. 1, in AAS 57 (1965) 877-885; Lettera Enciclica Populorum progressio, 26 marzo 1967, n. 13, in AAS 59 (1967) 257-299. Cf. CONGREGAZIONE
PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Istruzione sul rispetto della vita umana nascente e la dignità della procreazione Donum vitae, 22 febbraio 1987, n. 1 cpv. 2, in
AAS 80 (1988) 70-102, e Lettera ai Vescovi della Chiesa Cattolica sulla collaborazione dell’uomo e della donna nella Chiesa e nel mondo, 31 maggio 2004, n. 1 cpv. 1, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2004; in L’Osservatore Romano, 1
agosto 2004, supplemento.
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della legge naturale e le attualizza. Proprio in nome della sua competenza in umanità, il Magistero, pronunciandosi in merito alla legge naturale, si rivolge non solo ai credenti, ma a tutti gli uomini di
buona volontà51.
Infatti, quando il Magistero dichiara qualcosa circa la fede e i costumi, si basa sulla Rivelazione, ma non di meno anche sulla legge naturale. Già la stessa Rivelazione, per sua natura, non è una trattazione completa di tutte le questioni morali, perché essa presuppone una
morale, offerta alla creatura nella legge naturale. Riguardo alla competenza magisteriale così afferma l’Istruzione Donum veritatis: “Il
compito di custodire santamente e di esporre fedelmente il patrimonio della divina Rivelazione implica, di sua natura, che il Magistero
possa proporre in modo definitivo enunciati che, anche se non sono
contenuti nelle verità della fede, sono ad esse tuttavia intimamente
connessi, così che il carattere definitivo di tali affermazioni deriva, in
ultima analisi, dalla Rivelazione stessa”52.
Il Magistero ordinario, nel suo primo grado dell’insegnamento infallibile53, riguarda, accanto al deposito della fede, ciò che gli è connesso, quindi anche la legge naturale. Tale competenza dell’autorità
magisteriale ha suscitato molte discussioni, ma non si può negare che
essa si estende ai precetti della legge naturale, perché la loro osservanza, in quanto chiesta dal Creatore, è necessaria alla salvezza54. Infatti, “richiamando le prescrizioni della legge naturale, il Magistero
della Chiesa esercita una parte essenziale della sua funzione profetica di annunziare agli uomini ciò che essi sono veramente e di ricordare loro ciò che devono essere davanti a Dio”55.
51
Giovanni Paolo II ad es. ha indirizzato la sua Lettera Enciclica Evangelium
vitae, 25 marzo 1995, anche “a tutte le persone di buona volontà” (incipit, in AAS
87 [1995] 401).
52 CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Istruzione sulla vocazione ecclesiale del teologo Donum veritatis, 24 maggio 1990, n. 16 cpv. 1, in
AAS 82 (1990) 1550-1570.
53 Cf. Codice di Diritto Canonico, cann. 749-750.
54 Cf. Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 430.
55 Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2036 (i corsivi sono nostri).
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Vale quindi sempre il chiaro enunciato di Paolo VI nell’Enciclica
Humanae vitae: “Nessun fedele vorrà negare che al Magistero della
Chiesa spetti di interpretare anche la legge morale naturale. È infatti incontestabile, come hanno più volte dichiarato i nostri predecessori, che Gesù Cristo, comunicando a Pietro e agli apostoli la sua divina autorità e inviandoli a insegnare a tutte le genti i suoi comandamenti, li costituiva custodi e interpreti autentici di tutta la legge morale, non solo cioè della legge evangelica, ma anche di quella naturale. Infatti anche la legge naturale è espressione della volontà di Dio,
l’adempimento fedele di essa è parimenti necessario alla salvezza
eterna degli uomini”56.
b. Il recente Magistero
Il recente Magistero contiene un ricco patrimonio di dottrina sulla legge naturale, comprendente gli insegnamenti morali ad essa legati che vengono costantemente richiamati. Pio XII aveva enunciato
i principi, fondati sul diritto naturale, di un ordine sociale conforme
alla dignità dell’uomo, concretato in una sana democrazia, capace di
meglio rispettare il diritto alla libertà, alla pace e ai beni materiali.
A seguito del Magistero del Concilio Vaticano II57, i Romani Pontefici hanno sviluppato il tema della legge naturale nel riferimento ai
diritti della persona umana. Il Beato Giovanni XXIII, nella Lettera
Enciclica Pacem in terris (11 aprile 1963), interamente dedicata ai diritti dell’uomo, li fondava sulla legge naturale, nello stesso tempo inerente alla creazione e ordinata alla redenzione58.
56
PAOLO VI, Enc. Humanae vitae, n. 4, in AAS 60 (1968) 481-503.
Cf. CONCILIO VATICANO II, Gaudium et spes, n. 16, nonché nn. 26, 29, 73,
76, 79.
58 Per una sintesi cf. CONGREGAZIONE PER L’EDUCAZIONE CATTOLICA, In
questi ultimi decenni. Orientamenti per lo studio e l’insegnamento della dottrina sociale
della chiesa nella formazione sacerdotale, 30 dicembre 1988, n. 33, in L’Osservatore
Romano, 28 giugno 1989, inserto tabloid (= Tipografia Poliglotta Vaticana, Roma 1988); in Enchiridion Vaticanum, vol. 11, nn. 1901-2044. Al riguardo del diritto naturale nella dottrina sociale della Chiesa si rinvia alle sintesi di F.
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Ma è soprattutto il Servo di Dio, Paolo VI che, nella Lettera Enciclica Humanae vitae (25 luglio 1968), ha rilanciato con forza la questione della legge naturale, insegnando a proposito della dottrina
morale del matrimonio che questa è una “dottrina fondata sulla legge
naturale illuminata e arricchita dalla rivelazione divina”59. In questo
senso, il Papa poteva dichiarare definitivamente: “richiamando gli
uomini all’osservanza delle norme della legge naturale, interpretata
dalla sua costante dottrina, la Chiesa insegna che qualsiasi atto matrimoniale deve rimanere aperto alla trasmissione della vita”60.
Più recentemente, Giovanni Paolo II, nella Lettera Enciclica
Evangelium vitae (25 marzo 1995), sul Vangelo della vita, che il Signore ha consegnato alla Chiesa, esprime la convinzione che questa Buona novella ha nel cuore di ogni persona un’eco profonda e persuasiva: “Pur tra difficoltà e incertezze, ogni uomo sinceramente aperto
alla verità e al bene, con la luce della ragione e non senza il segreto
influsso della grazia, può arrivare a riconoscere nella legge naturale
scritta nel cuore (Rm 2, 14-15) il valore sacro della vita umana dal primo inizio fino al suo termine, e ad affermare il diritto di ogni essere
umano a vedere sommamente rispettato questo suo bene primario.
Sul riconoscimento di tale diritto si fonda l’umana convivenza e la
stessa comunità politica”61.
D’AGOSTINO, Il diritto come problema teologico ed altri saggi di filosofia e teologia del
diritto (Recta Ratio: testi e studi di filosofia del diritto, Terza serie 4), G. Giappichelli Editore, Torino 19973, pp. 171-206.
59 PAOLO VI, Humanae vitae, n. 4, in AAS 60 (1968) 481-503 (i corsivi sono
nostri). Il Papa, dopo aver ribadito il compito della Chiesa di di interpretare anche la legge morale naturale oltre quella evangelica, ha aggiunto: “Conformemente a questa sua missione, la Chiesa ha dato sempre, ma più ampiamente nel
tempo recente, un adeguato insegnamento sia sulla natura del matrimonio sia
sul retto uso dei diritti coniugali e sui doveri dei coniugi”.
60 PAOLO VI, Humanae vitae, n. 11. Più avanti, rivolgendosi ai governanti, e
cioè a tutti gli uomini di buona volontà, richiamava che “non lascino che si degradi la moralità dei loro popoli; non accettino che si introducano in modo legale in quella cellula fondamentale dello stato, che è la famiglia, pratiche contrarie alla legge naturale e divina” (ivi, n. 23).
61 GIOVANNI PAOLO II, Lettera Enciclica Evangelium vitae, 25 marzo 1995,
n. 2 cpv. 3, in AAS 87 (1995) 401-522. Cf. ivi, n. 90 cpv. 3.
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A partire da questa base universale, il Papa “ha confermato e dichiarato” in modo definitorio le tre verità, e cioè che “l’uccisione diretta e volontaria di un essere umano innocente è sempre gravemente immorale”62, che “l’aborto diretto, cioè voluto come fine o come mezzo, costituisce sempre un disordine morale grave”63 e che “l’eutanasia è una grave
violazione della Legge di Dio”64. Queste dottrine sono trasmesse dalla
Tradizione della Chiesa ed insegnate dal Magistero ordinario e universale, perché fondate sulla legge naturale e sulla Parola di Dio scritta e perciò “nessuna circostanza, nessuna finalità, nessuna legge al
mondo potrà mai rendere lecito un atto che è intrinsecamente illecito, perché contrario alla Legge di Dio, scritta nel cuore di ogni uomo, riconoscibile dalla ragione stessa, e proclamata dalla Chiesa”65.
Come ha ricordato il Cardinale Ratzinger in diversi suoi contributi, già a partire dalla fedeltà razionale alla legge naturale, non si
può mai arretrare nel difendere il diritto alla vita in quanto è il primo che scaturisce dal diritto della natura66. Infatti, “alla base di que62
GIOVANNI PAOLO II, Enc. Evangelium vitae, n. 57 cpv. 4.
GIOVANNI PAOLO II, Enc. Evangelium vitae, n. 62 cpv. 3-4. Cf. PAOLO VI,
Discorso ai Giuristi Cattolici Italiani, 9 dicembre 1972, in AAS 64 (1972) 777; ID.
Enc. Humanae vitae, n. 14; ed anche CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Dichiarazione sull’aborto procurato De abortu procurato, 18 novembre
1974, n. 7, in AAS 66 (1974) 730-747.
64 GIOVANNI PAOLO II, Enc. Evangelium vitae, n. 65 cpv. 4. Cf. anche CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Dichiarazione sull’eutanasia Iura
et bona, 5 maggio 1980, n. II, cpv. 5, in AAS 72 (1980) 542-552.
65 GIOVANNI PAOLO II, Enc. Evangelium vitae, n. 62 cpv. 4 (i corsivi sono nostri); cf. anche n. 65 cpv. 4. Recentemente Benedetto XVI, parlando della legge
naturale insegnata dalla Chiesa sulla famiglia, ha notato: “Nessuna legge fatta
dagli uomini può perciò sovvertire la norma scritta dal Creatore, senza che la
società venga drammaticamente ferita in ciò che costituisce il suo stesso fondamento basilare. Dimenticarlo significherebbe indebolire la famiglia, penalizzare i figli e rendere precario il futuro della società” (Discorso ai partecipanti al Congresso Internazionale sulla legge morale naturale promosso dalla Pontificia Università
Lateranense, 12 febbraio 2007, cpv. 4).
66 Al riguardo si vedano anche: J. RATZINGER, «La sacralità della vita umana»,
in La via della fede. Le ragioni dell’etica nell’epoca presente, Ragione e fede 19, Edizioni Ares, Milano 1996, pp. 105 ss.; ID., «Il diritto alla vita e l’Europa», in L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture, Radici 3, Cantagalli, Siena 2005, 67-91.
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sti valori non possono esservi provvisorie e mutevoli ‘maggioranze’ di
opinione, ma solo il riconoscimento di una legge morale obiettiva
che, in quanto ‘legge naturale’ iscritta nel cuore dell’uomo, è punto
di riferimento normativo della stessa legge civile. Quando, per un
tragico oscuramento della coscienza collettiva, lo scetticismo giungesse a porre in dubbio persino i principi fondamentali della legge
morale, lo stesso ordinamento democratico sarebbe scosso nelle sue
fondamenta, riducendosi a un puro meccanismo di regolazione empirica dei diversi e contrapposti interessi”67.
Parlando del recente Magistero della Chiesa circa i concreti postulati della legge naturale, mi pare doveroso nella realtà attuale citare anche le molto attuali parole di Benedetto XVI: “Sento infine il
dovere di affermare ancora una volta che non tutto ciò che è scientificamente fattibile è anche eticamente lecito. La tecnica, quando riduce l’essere umano ad oggetto di sperimentazione, finisce per abbandonare il soggetto debole all’arbitrio del più forte. Affidarsi ciecamente alla tecnica come all’unica garante di progresso, senza offrire nello stesso tempo un codice etico che affondi le sue radici in quella stessa realtà che viene studiata e sviluppata, equivarrebbe a fare
violenza alla natura umana con conseguenze devastanti per tutti.
L’apporto degli uomini di scienza è d’importanza primaria. Insieme
col progredire delle nostre capacità di dominio sulla natura, gli scienziati devono anche contribuire ad aiutarci a capire in profondità la
nostra responsabilità per l’uomo e per la natura a lui affidata”68.
Anche nel recentissimo Messaggio per la celebrazione della Giornata
Mondiale della Pace 2008 (dell’8 dicembre 2007), Benedetto XVI fa riferimento alla legge naturale (nn. 4, 12-13). Vorrei richiamare tre sue
constatazioni. Riguardo alla Carta dei diritti della famiglia, pubblicata
67
GIOVANNI PAOLO II, Enc. Evangelium vitae, n. 70 cpv. 5.
BENEDETTO XVI, Discorso ai partecipanti al Congresso Internazionale sulla
legge morale naturale promossa dalla Pontificia Università Lateranense, 12 febbraio
2007, cpv. 5, in AAS 109 (2007) 243-246. Poi il Santo Padre ha aggiunto: “Su
questa base è possibile sviluppare un fecondo dialogo tra credenti e non credenti; tra teologi, filosofi, giuristi e uomini di scienza, che possono offrire anche
al legislatore un materiale prezioso per il vivere personale e sociale” (ivi).
68
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dalla Santa Sede nel 1983, osserva: “I diritti enunciati nella Carta sono espressione ed esplicitazione della legge naturale, iscritta nel cuore dell’essere umano e a lui manifestata dalla ragione. La negazione
o anche la restrizione dei diritti della famiglia, oscurando la verità
sull’uomo, minaccia gli stessi fondamenti della pace” (n. 4). Per quanto
concerne il diritto positivo umano, esorta: “Bisogna risalire alla norma
morale naturale come base della norma giuridica, altrimenti questa resta
in balia di fragili e provvisori consensi” (n. 12). Infine, nel medesimo
Messaggio riconosce, fra l’altro che: “Di fatto, valori radicati nella legge naturale sono presenti, anche se in forma frammentata e non sempre
coerente (corsivo aggiunto), negli accordi internazionali, nelle forme
di autorità universalmente riconosciute, nei principi del diritto umanitario recepito nelle legislazioni dei singoli Stati o negli statuti degli
Organismi internazionali. L’umanità non è «senza legge». È tuttavia
urgente proseguire nel dialogo su questi temi” (n. 13).
Nel discorso ai Membri dell’Assemblea Generale dell’ONU (New
York, 18 aprile 2008) Benedetto XVI, riferendosi al 60° anniversario
della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, ha notato “Tali diritti sono basati sulla legge naturale iscritta nel cuore dell’uomo e
presente nelle diverse culture e civiltà. Rimuovere i diritti umani da
questo contesto significherebbe restringere il loro ambito e cedere ad
una concezione relativistica, secondo la quale il significato e l’interpretazione dei diritti potrebbero variare e la loro universalità verrebbe negata in nome di contesti culturali, politici, sociali e persino religiosi differenti. Non si deve tuttavia permettere che tale ampia varietà di punti di vista oscuri il fatto che non solo i diritti sono universali, ma lo è anche la persona umana, soggetto di questi diritti”.
c. Gli interventi della Congregazione per la Dottrina della Fede
Oltre al Magistero pontificio, sono importanti in merito al nostro
tema anche i numerosi pronunciamenti della Congregazione per la
Dottrina della Fede, nei quali essa richiama la legge naturale in considerazione degli scottanti problemi del momento presente.
Ricordiamo soprattutto il documento Considerazioni circa i progetti di riconoscimento legale delle unioni tra persone omosessuali, dove tutto
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il problema si introduce e propone a partire dalla sua qualifica di moralità naturale: “Poiché si tratta di una materia che riguarda la legge
morale naturale, le seguenti argomentazioni sono proposte non soltanto ai credenti, ma anche a tutte le persone impegnate nella promozione e nella difesa del bene comune della società”69. In tale modo, il documento propone una verità e denuncia una non-verità. Innanzitutto, ricorda la “verità naturale sul matrimonio [che] è stata
confermata dalla Rivelazione contenuta nei racconti biblici della creazione, espressione anche della saggezza umana originaria, nella quale si fa sentire la voce della natura stessa” e, conseguentemente, denuncia ciò che è contrario alla legge morale naturale, dicendo: “non
esiste fondamento alcuno per assimilare o stabilire analogie, neppure remote, tra le unioni omosessuali e il disegno di Dio sul matrimonio e la famiglia. Il matrimonio è santo, mentre le relazioni omosessuali contrastano con la legge morale naturale”70.
Quanto detto sopra è solo un esempio dell’affermazione di una verità naturale, la cui percezione nella mentalità odierna rischia di perdersi del tutto, negando la legge naturale. In difesa di tale verità, la
Chiesa non può smettere di impegnarsi, non perché si tratta di una
sua verità confessionale, ma in quanto è in gioco una verità appartenente all’universale retta ragione.
d. Di fronte al relativismo etico e al positivismo giuridico
Tra le varie cause di questo intenso richiamo del valore e dell’argomento della legge naturale da parte del Magistero della Chiesa si
69
CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Considerazioni circa i
progetti di riconoscimento legale delle unioni tra persone omosessuali, 3 giugno 2003,
n. 1, in AAS 96 (2004) 41-49. Si veda anche ID., Lettera sulla cura pastorale delle persone omosessuali Homosexualitatis problema, 1 ottobre 1986, n. 2 cpv. 2, in
AAS 79 (1987) 543-554.
70 CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Considerazioni circa i
progetti di riconoscimento legale delle unioni tra persone omosessuali, nn. 3-4. In questa luce, “le legislazioni favorevoli alle unioni omosessuali sono contrarie alla
retta ragione perché conferiscono garanzie giuridiche, analoghe a quelle dell’istituzione matrimoniale, all’unione tra due persone dello stesso sesso” (ivi, n. 6).
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possono individuare sicuramente due ragioni: primo, il rischio di un
progressivo e generale offuscamento di questa verità nel momento
presente; secondo, una sempre più diffusa promozione e legittimazione di atti e di comportamenti per loro natura illeciti, intrinsecamente cattivi, che invece vengono riconosciuti in sé buoni. I problemi richiamati sopra non sono solo contrari al deposito della fede, ma offendono un’etica naturale e universale e perciò devono essere affrontati e risolti già al livello della legge naturale. Difatti, negando la legge naturale, si è spinti a negare un sempre più crescente numero di
verità universali, cominciando dal diritto alla vita, la cui soppressione nell’aborto costituisce un caso paradigmatico.
Infatti, si verifica oggi “un certo relativismo culturale che offre evidenti segni di sé nella teorizzazione e difesa del pluralismo etico che
sancisce la decadenza e la dissoluzione della ragione e dei principi della legge morale naturale”71. Un tale pluralismo senza alcun riferimento alla legge naturale, pretenderebbe di essere la condizione “sine qua
non” per la democrazia, e, invece, al contrario, ne risulta nocivo. E in
nome di una sua “tolleranza”, che in sé contraddice il vero senso di
essere tolleranti, esigerebbe da molti, tra questi anche dai cattolici, di
rinunciare nella vita pubblica alla loro concezione di persona e del
bene comune. Ma, come osserva un documento della Congregazione per la Dottrina della Fede, basta guardare la storia del XX secolo
per “dimostrare che la ragione sta dalla parte di [quelli] che ritengono del tutto falsa la tesi relativista secondo la quale non esiste una
norma morale, radicata nella natura stessa dell’essere umano, al cui
71
CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica, 24 novembre 2002, n. 2 cpv. 2, in AAS 96 (2004) 359-370. In questo senso
ancora la Congregazione per la Dottrina della Fede ha denunciato un “intollerante laicismo”. Esso “vuole negare non solo ogni rilevanza politica e culturale
della fede cristiana, ma perfino la stessa possibilità di un’etica naturale. Se così
fosse, si aprirebbe la strada ad un’anarchia morale che non potrebbe mai identificarsi con nessuna forma di legittimo pluralismo. La sopraffazione del più
forte sul debole sarebbe la conseguenza ovvia di questa impostazione” (ivi, n. 6,
cpv. 4).
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giudizio si deve sottoporre ogni concezione dell’uomo, del bene comune e dello Stato”72.
In considerazione di tali sfide relativiste, l’insegnamento della
Chiesa prosegue nel ribadire “la sua costante dottrina sulla necessaria conformità della legge civile con la legge morale”73, e cioè di un incondizionato rispetto della legge naturale da parte di ogni autorità
legislativa. Volgendo lo sguardo verso il limpido insegnamento di
San Tommaso d’Aquino, la Chiesa è convinta che – come diceva il
Dottore comune – “ogni legge posta dagli uomini in tanto ha ragione
di legge in quanto deriva dalla legge naturale. Se invece in qualche cosa è in contrasto con la legge naturale, allora non sarà legge bensì
corruzione della legge”. San Tommaso affermava anche: “la legge
umana in tanto è tale in quanto è conforme alla retta ragione e quindi deriva dalla legge eterna. Quando invece una legge è in contrasto
con la ragione, la si denomina legge iniqua; in tal caso però cessa di
essere legge e diviene piuttosto un atto di violenza”74. Oggi questi
deplorabili “atti di violenza” sono sempre più frequenti e sempre più
arroganti nel mancato rispetto del mistero della persona umana e
della sua intima natura.
Riferendosi ai postulati del positivismo giuridico, oggi largamente diffuso, e alla conseguente legislazione che “diventa spesso solo un
compromesso tra diversi interessi” (“si cerca di trasformare in diritti
interessi privati o desideri che stridono con i doveri derivanti dalla
responsabilità sociale”), Benedetto XVI ha opportunamente notato
che: “La legge naturale è, in definitiva, il solo valido baluardo contro
l’arbitrio del potere o gli inganni della manipolazione ideologica.[...]
è la vera garanzia offerta ad ognuno per poter vivere libero e rispet-
72
Ivi, n. 2 cpv. 2.
GIOVANNI PAOLO II, Evangelium vitae, n. 72 cpv. 1. Cf. GIOVANNI XXIII,
Lettera Enciclica Pacem in terris, 11 aprile 1963, n. 30, in AAS 55 (1963) 257304; CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Considerazioni circa i progetti di riconoscimento legale delle unioni tra persone omosessuali, n. 6.
74 SAN TOMMASO, Summa Theologiae, I-II, q. 95, a. 2 e q. 93, a. 3, ad 2um, i
testi citati da Giovanni Paolo II nell’Evangelium vitae, n. 72 cpv. 1.
73
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tato nella propria dignità”75. Anche Giovanni Paolo II, parlando ai
partecipanti ad un Simposio Internazionale di Diritto Canonico, nel
1993, ha invitato le società civili a non sottrarsi “ai postulati del diritto naturale, per non cadere nei pericoli dell’arbitrio o di false ideologie”76.
e. Per formare una retta coscienza morale
Vorrei sottolineare anche il ruolo che il Magistero della Chiesa attribuisce alla coscienza nella prospettiva della legge naturale. In realtà, la coscienza dell’uomo ci aiuta a scoprire la legge naturale e la legge naturale forma le coscienze.
Al riguardo, Benedetto XVI ha perspicacemente osservato: “La
conoscenza di questa legge iscritta nel cuore dell’uomo aumenta con
il progredire della coscienza morale. La prima preoccupazione per
tutti, e particolarmente per chi ha responsabilità pubbliche, dovrebbe quindi essere quella di promuovere la maturazione della coscienza morale. E’ questo il progresso fondamentale senza il quale tutti gli
altri progressi finiscono per risultare non autentici”77.
Quindi, nonostante i più ricercati attacchi contro la legge naturale, non si può scordare che c’è nell’intimo della coscienza di ogni uomo “una legge che non è l’uomo a darsi, ma alla quale deve invece
obbedire; una voce che lo chiama sempre ad amare e a fare il bene e
a fuggire il male e che, quando occorre, dice chiaramente al cuore: fa’
questo, fuggi quest’altro. [...] La coscienza è la capacità di aprirsi all’appello della verità obiettiva, universale e uguale per tutti, che tutti
possono e devono cercare. Essa non è isolamento, ma, al contrario,
75
BENEDETTO XVI, Discorso ai partecipanti al Congresso Internazionale sulla
legge morale naturale promossa dalla Pontificia Università Lateranense, 12 febbraio
2007, cpv. 4.
76 GIOVANNI PAOLO II, Discorso ai partecipanti al Simposio Internazionale di Diritto Canonico, 23 aprile 1993, n. 7, in AAS 86 (1994) 244-248.
77 BENEDETTO XVI, Discorso ai partecipanti al Congresso Internazionale sulla
legge morale naturale promossa dalla Pontificia Università Lateranense, 12 febbraio
2007, cpv. 4.
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comunione: cum sentire nella verità sul bene, che accomuna gli uomini nell’intimo della loro natura spirituale”78.
Osservazioni conclusive
a. L’epoca moderna ha fortunatamente portato a una chiara formulazione della concezione dei diritti umani, i quali, essendo propri
dell’uomo, precedono ogni legislazione positiva. Nella Dichiarazione
Universale dei diritti dell’uomo (1948) – di cui nel 2008 celebriamo il
60° anniversario – viene espressa proprio la consapevolezza che tali
diritti appartengono alla natura dell’uomo e vengono riconosciuti e
non concessi da alcun potere. Sostenere questa premessa e nello stesso tempo negare il diritto naturale appare una contraddizione.
Ma se oggi la libertà dell’uomo, così largamente riconosciuta, è
considerata poi in modo individualistico, come un diritto assoluto, e
se la coscienza diventa la divinizzazione di una soggettività isolata, allora, nella stessa epoca moderna, quasi a sorpresa, la comprensione
della legge naturale si indebolisce o viene del tutto cancellata, producendo un disordine, in cui non più una legge “scolpita nel cuore”,
ma un isolato individuo diventa l’ultima istanza morale per sé stesso,
relativista e in definitiva assurda.
b. Credo che nella complessa e, non di rado, confusa situazione
della modernità, non dovrebbe essere così impossibile capire che,
parlando della legge naturale, non si tratta di un’invenzione cattolica, ma di una risposta alle sfide dell’essere umano. Non dovrebbe essere così difficile tornare a quel senso comune, grazie al quale ciascuno
prenda in considerazione ciò che è essenziale e fa scoprire ciò che do78
J. RATZINGER, «La sacralità della vita umana», in La via della fede. Le ragioni dell’etica nell’epoca presente, Ragione e fede 19, Edizioni Ares, Milano 1996,
pp. 114-115. Circa i concetti della coscienza e della sinderesi si veda il celebrissimo contributo del Card. Ratzinger: «Coscienza e verità», in La Chiesa: una comunità sempre in cammino, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (Milano) 1991,
19922, pp. 113-137 (or. ted.: Zur Gemeinschaft gerufen, 1991).
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vrebbe essere la semplice percezione di un inclinazione naturale di
ogni persona umana. Questa è la convinzione di fondo della dottrina
della Chiesa in merito alla legge naturale e dei suoi migliori maestri
ed interpreti, che in questi ultimi tempi la Chiesa e il mondo hanno
trovato prima nel Servo di Dio Giovanni Paolo II ed ora nel Santo
Padre Benedetto XVI.
c. La legge naturale, nella dottrina della Chiesa, costituisce poi la
verità basilare di quell’umanesimo cristiano, di cui la comunità dei credenti sempre si è fatta ricercatrice e promotrice. E ciò riguarda specialmente i tempi ostili a riconoscere quanto iscritto nella natura dell’uomo e, perciò, tanto doveroso di essere riaffermato. Con questa
sua dimensione profondamente umana le esigenze etiche della legge
naturale, non richiedono di per sé una professione di fede cristiana,
ma la dottrina della Chiesa, confermando e tutelando sempre e
ovunque i principi di tale legge, lo fa “come un servizio disinteressato alla verità sull’uomo e al bene comune delle società civili”79.
d. Per concludere, mi sia lecito fare mie – ed applicarle a tutti i
Centri di Studio interessati – le parole che l’attuale Pontefice ha rivolto al Congresso internazionale sulla legge naturale, svoltosi a Roma nel febbraio 2007: possano essi “portare non solo a una maggior
sensibilità degli studiosi nei confronti della legge morale naturale, ma
spingano anche a creare le condizioni perché su questa tematica si arrivi a una sempre più piena consapevolezza del valore inalienabile che
la lex naturalis possiede per un reale e coerente progresso della vita
personale e dell’ordine sociale”80.
79
CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica, 24 novembre 2002, n. 5, in AAS 96 (2004) 359-370.
80 BENEDETTO XVI, Discorso ai partecipanti al Congresso Internazionale sulla
legge morale naturale promossa dalla Pontificia Università Lateranense, 12 febbraio
2007, parte finale.
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SUMMARIES
Having given the context of current debates on the natural law, which is linked
to the decline of strong metaphysical thought, the author proceeds to a presentation of the essential notions inherent in natural law. He stresses that the
natural law is not merely a catholic idea, but has its roots in ancient philosophy. The catholic tradition integrates this philosophical content, and the author
highlights the importance of this integration between human and divine law.
The essential qualities of the natural law are its universality, immutability and
knowability: these qualities are understandable in the light of the link between
natural law and the Decalogue, and because nature is always to be understood as the reasonable nature of a human person. All the above points are
underlined in recent statements of the Magisterium and in documents emanating from the Congregation of the Doctrine of the Faith. The author concludes by demonstrating how a creative recovery of the natural law is particularly apt in our modern age with its desire to have properly-founded human
rights and a truly Christian humanism.
***
Después de haber presentado el contexto de los debates actuales sobre la ley
natural, que está unida a la decadencia de un fuerte pensamiento metafísico,
el autor pasa a una presentación de las nociones esenciales inherentes a la ley
natural. Él subraya que la ley natural no es sólo una idea católica, sino que tiene sus raíces en la filosofía antigua. La tradición católica integra este contenido filosófico y el autor evidencia la importancia de esta integración entre la ley
humana y la ley divina. Las cualidades esenciales de la ley natural son su universalidad, su inmutabilidad y su ser conocible: estas cualidades son comprensibles a la luz de la unión entre la ley natural y el Decálogo y porque la naturaleza es comprendida siempre como la naturaleza racional de una persona
humana. Todos estos puntos mencionados están puestos en evidencia en las
recientes declaraciones del Magisterio y en los documentos publicados por la
Congregación de la Doctrina de la Fe. El autor concluye demostrando cómo la
recuperación de modo creativo de la ley natural sea particularmente apta a la
edad moderna con su deseo de haber justamente fundado los derechos humanos y un humanismo verdaderamente cristiano.
***
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L’autore in questo contributo, dopo aver descritto il contesto dei dibatti attuali
sulla legge naturale, che è legata al declino di un forte pensiero metafisico,
passa ad una presentazione delle nozioni essenziali inerenti alla legge naturale. Egli sottolinea che la legge naturale non è solamente un‘idea cattolica, ma
ha le sue radici nella filosofia antica, infatti la stessa tradizione cattolica integra
questo contenuto filosofico. L’autore evidenzia l’importanza di questa integrazione tra la legge umana e quella divina. Le qualità essenziali della legge naturale sono la sua universalità, immutabilità e conoscibilità: queste qualità sono comprensibili alla luce del legame tra la legge naturale e il Decalogo, in
quanto la natura è sempre intesa come natura ragionevole di una persona
umana. Tutti i punti su menzionati sono messi in evidenza nelle recenti dichiarazioni del Magistero e nei documenti emanati dalla Congregazione della Dottrina per la Fede. L’autore conclude dimostrando come un recupero creativo
della legge naturale sia particolarmente adatto nell’età moderna per fondare i
diritti umani ed un umanismo veramente cristiano.
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LA LUCE DELLA “MORAL INSIGHT”
Angelo Scola*
1. Un quadro complesso
Moral insight è un’espressione complessa che ha bisogno di rigorose delimitazioni; in se stessa, prima ancora che a causa delle rapide trasformazioni oggi in atto nella sfera degli affetti, del bios, delle tecnologie, delle comunicazioni e del mescolamento di civiltà e culture. È polisemica la nozione stessa di insight, il cui termine va riferito al latino
intelligere (intelligentia, intellectus), richiamato anche dalla radice inglese che dice “vedere”; ma il termine insight dice anche “capire”, “comprendere” (understanding), “afferrare” (to grasp)1. Sono tutti significati
tra loro correlati ma distinti che mostrano come il contenuto di insight
sia quello di un processo che implica tanto gli atti propri della capacità di osservare, quanto il discernere l’effettivo carattere delle cose. Si
parte dalla meraviglia che dilata l’orizzonte dei dati a disposizione, si
procede ad una primitiva, provvisoria intelligibilità, fino a giungere al
giudizio che può possedere gradi diversi di probabilità e di certezza.
Qualificare poi l’insight in chiave moral aggiunge al concetto ulteriore problematicità, che proviene dalla stessa qualifica di moral in sé
presa, ancor prima che dalla complessità ricevuta dalla riduzione della morale ad etica pubblica entro la società plurale di oggi. Proble-
* Patriarch of Venice
* Patriarca de Venecia
Keynote Adress del Convegno “A Common Morality for the Global Age: In Gratitude for What We Are Given” organizzato dalla Catholic University of America,
Washington 27 marzo 2008.
1
Cfr. S. MURATORE, Prefazione dei curatori, in B. J. F. LONERGAN, Insight.
Uno studio del comprendere umano, Opere 3, Città Nuova, Roma 2007, XXI, n. 1.
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maticità che proviene, in ultima istanza, dal rapporto del “pratico”
con lo “speculativo”, dalla secolare questione del loro nesso, dalla difficoltà della relazione tra la luminosità dell’essere, oggi fortemente
messa in discussione, e la luce della moral insight.
Che cosa succede poi se termini già di per sé così complessi e problematici vengono impiegati per individuare anche una common morality? Nozione quest’altra non solo problematica, ma addirittura
equivoca, benché urgente nell’era globale in cui viviamo, caratterizzata dal rischio, divenuto formidabile, della Abolition of Man cui faceva riferimento Lewis2.
Si devono registrare in proposito dei dati imponenti.
La tecnoscienza, per definire in termini sbrigativi il connubio strabiliante di scienze (soprattutto biologiche) e tecnologie, applicando
la teoria della micro-evoluzione, tende a sostituire al concetto di natura umana il concetto di un bios che si darebbe, senza soluzione di
continuità, a partire dai primissimi organismi monocellulari fino alla
comparsa dell’homo sapiens sapiens.
Le teorie cosmologiche più recenti vedono nella possibilità di risalire all’origine dell’universo, quasi all’attimo successivo al big bang,
il segno di una inedita capacità conoscitiva in grado di modificare il
ritmo stesso dell’evoluzione, anzi di affidarne ormai l’indirizzo all’iniziativa dell’uomo. Così che la stessa nozione di creazione – per
giunta ormai considerata dai più come mitologica – non servirebbe a
contenere gli eccessi della dottrina neo-evoluzionista legata al caso,
dal momento che le nostre conoscenze scientifiche hanno ormai ricondotto la stessa cosmologia ad una espressione della storia umana.
Si tratta ormai di parlare in termini di una “bioconvergenza” come nuova alleanza fra intelligenza artificiale e biologia, che potrebbe
consentirci di andare “oltre la specie”, entrando in una sfera in cui la
“natura” sarà totalmente assorbita nel “culturale”3.
In questa prospettiva molti oggi sostengono che, lungo tutto l’arco della storia che ci precede, morale e diritto altro non sono stati che
2
3
Cfr. C. S. LEWIS, L’abolizione dell’uomo, Jaca Book, Milano 1979.
Cfr. A. SCHIAVONE, Storia e destino, Einaudi, Torino 2007, 56-77.
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la “naturalizzazione ideologica” di modelli storicamente determinati
e contingenti. Ogni “ordine della natura” cui affidare “certezze universali”, una volta divenuto palese il meccanismo storico culturale
che sta alla base della sua formazione, è sempre, rispetto ai suoi contenuti, un ordine provvisorio: sia che si tratti di ammassi galattici, di
forme di vita, o di quella che si è usi chiamare “natura umana” come
base istintuale e razionale del nostro cammino culturale, l’unica differenza è solo di misura nella durata. La natura non va più considerata vincolo e barriera e perciò non è più norma, tanto meno morale
e morale sacrale.
Per i sostenitori di queste tesi non consegue che l’era globale non
abbia bisogno di etica. Al contrario essa è ancor più necessaria della
politica. A condizione, però, che sia un’etica della trasformazione e
dell’emancipazione. Nessun assetto naturale, biologico, sociale può
essere proposto come indisponibile ed immodificabile all’agire individuale e collettivo. Solo un’etica senza parametri immodificabili
può essere l’etica proporzionata all’era in cui l’uomo non è più pensato secondo la vetusta categoria di soggetto spirituale e di persona,
ma – a dire dal filosofo tedesco Jongen – solo come il suo proprio
esperimento4.
Su queste basi si può ancora parlare di una comune moralità e di
una luce della moral “insight”, per sua natura universale e propria di
ogni uomo in quanto uomo (natura)? Come si può identificare, sia in
chiave negativa sia in chiave positiva, il contenuto della tradizionale
Regola d’oro, a cui pure si continua, di fatto e di diritto, a fare riferimento nella pratica odierna della vita comune?
Certe affermazioni del magistero sulla legge naturale – sono celebri quelle di Veritatis splendor e Deus caritas est5 – oggi largamente
ignorate o criticate, possono essere obiettivamente giustificate e
quindi ancora proposte?
4
Cfr. M. JONGEN, „Der Mensch ist sein eigenes Experiment”, in Feuilleton.
Die Zeit 9 agosto 2001.
5 Cfr. Veritatis splendor 4, 12, 40, 42-44, 46-48, 50-53, 57, 59-60, 67, 71, 74,
79; Deus caritas est, 28, 31.
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A questa visione delle cose, che pare attraversata da un eccesso di
acritico ottimismo (quella contemporanea sembra per davvero una
“gaia scienza”), si può opporre – secondo l’affermazione cara a Lewis
– un’attitudine di rispetto e di gratitudine per ciò che c’è stato donato6,
propria di ogni uomo nei confronti di quell’eredità di saggezza pratica che tutte le tradizioni e le culture hanno assicurato, in tutte le
parti del globo, alla grande catena delle generazioni. È la prospettiva
richiamata da Benedetto XVI nel discorso per l’Università La Sapienza di Roma dove ha ricordato – in dialogo con J. Rawls – la rilevanza etica pubblica delle dottrine «che derivano da una tradizione responsabile e motivata [...] nel corso di lunghi tempi», espressione del «fondo storico dell’umana sapienza»7. Tesi già formulata dallo stesso Benedetto XVI in Deus caritas est8, secondo cui l’esistenza è illuminata, a
livello storico e culturale, da un patrimonio normativo comune “naturale”, suscettibile di essere posto a fondamento di una concezione
non deduttivistica della legge naturale, sia essa di stampo cosmologico, biologico o razionalistico.
Tuttavia, se proposta come interpretazione esauriente della luce
della moral insight, questa “attitudine” universale regge alla critica di
essere niente più che un’interpolazione ideologica di taluni dati culturali che, esaminati da vicino, si presentano come transitori ed anche contraddittori e, quindi, irriducibili ad una dottrina coerente ed
accreditata?
La ricerca di una common morality, basata sulla luce della moral insight, deve senz’altro tener conto dell’argomentazione di Lewis, ma
non può esimersi tuttavia dal riproporre il problema di una legge
“naturale”, sollevato sempre di nuovo dall’esigenza metaempirica ed
universale dell’etica. Proprio in forza degli accennati cambiamenti in
atto nell’era globale, è ragionevole un tentativo che parta dal riconoscimento che qualcosa accomuna gli uomini di qualsiasi razza, popo-
6
Cfr. C. S. LEWIS, L’abolizione dell’uomo, 33-56, in particolare 54-55.
BENEDETTO XVI, Allocuzione per l’incontro con l’Università degli Studi “La
Sapienza”, Roma 17 gennaio 2008.
8 Cfr. Deus caritas est, 28.
7
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lo e lingua, per giungere, se possibile, fino a identificare il qualcosa
comune e il tipo di conoscenza che gli appartiene, senza abdicare all’interrogativo per quanto impervio circa la natura dell’uomo.
A questo scopo intendiamo procedere nel modo seguente.
In un primo momento ci interrogheremo circa l’esistenza e la natura dell’esperienza morale elementare che consente di cogliere univocamente la luce della moral insight come capace di generare una
common morality oggettiva, rispettosa della libertà, della storia e delle
culture. In un secondo momento mostreremo come l’universale concreto cristiano, l’evento di Gesù Cristo, in ragione della sua stessa
universale forza salvifica, mostri la vera natura del moral insight e favorisca una common morality.
Infine, accenneremo a come in una società plurale, che si costruisce per procedure pattuite, sia da intendere il riferimento ad una simile moralità comune.
2. L’esperienza morale elementare
Due importanti correnti in ambito di filosofia morale – la New
classic Theory (Grisez, Finnis, Boyle, May, ecc.) e il personalismo
(Krempel, Reuss, Janssens, Häring, Böckle, Fuchs, Angelini: figure
assai diverse per epoca ed impostazione teorica) – concordano nell’affermare che per cogliere l’autentica natura della morale si debba
partire dalla esperienza elementare del bene che ogni uomo compie.
Troviamo una traccia suggestiva di tale livello di esperienza in una
pagina di von Balthasar. Il teologo, riflettendo sul carattere del gioco
del bambino9, osserva che in esso si manifesta in modo paradigmatico l’esperienza dell’“essere liberamente accolto” nella vita. Nel gioco il
bimbo dilata come fiducia verso il mondo il sorriso ricevuto della madre, che costituisce per lui la relazione che lo custodisce e lo rende
capace di esperienza.
9
Cfr. H. U. VON BALTHASAR, Gloria V. Nello spazio della metafisica. L’età moderna, Jaca Book, Milano 1978, 549-550.
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In che senso questa considerazione del grande teologo basilese
può essere una via d’accesso per rispondere all’interrogativo cruciale:
esiste in ogni uomo una esperienza morale elementare?
Riflettiamo ancora un istante sull’esperienza ludica. Il gioco svela
il desiderio del bambino (la parola desiderio è qui da prendere in tutta
la sua forza ontologica che non può in alcun modo essere ridotta alla
pura somma dei desideri soggettivi) che il mondo sia per lui accogliente, armonioso, ricco di possibilità da scoprire e da utilizzare, ecc.;
ma, insieme, svela che tale desiderio è sorretto da un riconoscimento
che lo attiva, lo rassicura, lo sostiene. È in forza del riconoscimento
ricevuto che il bambino intrattiene rapporti di fiducia con il mondo e
gli altri soggetti, che il bambino è reso capace di rapporti positivi e
stabili, di rapporti di comunione con gli altri e con la realtà tutta.
Emerge così dal gioco del bambino una struttura dell’esperienza
articolata sulla connessione di desiderio-riconoscimento-comunione.
Riflettendo su questa triade è possibile pensare che il gioco infantile individui un archetipo della figura morale originaria. Se, infatti,
guardiamo all’esperienza morale del soggetto ci rendiamo conto che
essa si radica proprio in un desiderio di compimento di sé che prende
forma nelle inclinazioni e negli affetti originari, a partire dalle relazioni primarie di riconoscimento, in cui, circolarmente, il desiderio
prende coscienza pratica di se stesso e diventa capace di comunione
con il mondo. È ragionevole pensare che sia attraverso queste relazioni condivise di riconoscimento che si attiva il senso dell’imperativo morale e il nucleo normativo della Regola d’oro10.
Può essere utile a questo punto rivolgere la nostra attenzione ad
una pagina del santo Vangelo significativa anche ad una pura lettura
filosofica, come vogliamo fare qui. Mi riferisco alla pagina del dialogo tra il giovane ricco e Gesù (Mt 9, 16-22) che tanto peso ha in
Veritatis splendor11. Vi possiamo trovare conferma della scansione
10
In proposito cfr. C. VIGNA, Universalità umana, riconoscimento, reciprocità,
in F. BOTTURI – F. TOTARO (a cura di), Universalismo ed etica pubblica, Annuario
di etica/3, Vita e Pensiero, Milano 2006, 3-22.
11 Cfr. Veritatis splendor, 6-27.
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triadica dell’esperienza morale elementare: desiderio-riconoscimentocomunione.
Il giovane ricco si avvicina a Gesù con la domanda: «Maestro, che
cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?», alla quale Gesù risponde: «Perché mi interroghi su ciò che è buono?. È interessante notare la modalità sorprendente con cui si muove Gesù. Egli incomincia
spostando la questione: «Uno solo è buono», il bene è una persona. Poi
risponde in recto alla domanda: ci sono già delle regole perché ci si
possa comportare bene. Ma la domanda intorno al “buono” ha segnalato una diversa profondità dell’esigenza dell’interlocutore: la pura
osservanza delle regole non basta a colmare la promessa che il desiderio di compimento suscita. «Ho sempre osservato tutte queste cose; che
mi manca ancora?». Gesù ritorna allora all’affermazione iniziale: il
centro della questione non è l’osservanza di regole, ma il compimento del desiderio di bene che rende sensibili ad esse; il problema è la
perfezione della vita: «Se vuoi essere perfetto» devi volgerti alla sorgente del bene, all’Uno che soltanto è buono. Se capisci questo, allora da’ tutto ai poveri e... «vieni e seguimi».
Accogliendone la domanda, Gesù invita il giovane ricco a riscoprire il nesso tra il bene e la relazione. Il desiderio di compimento si
realizza in questo riconoscimento che apre ad una vita comune, condivisa: è questa la forma originaria dell’esperienza del bene e la verità antropologica della moralità12. I comandamenti sono la via al bene, ma il principio della moralità è il bene stesso. E questo sta primariamente in una relazione. Del bene si deve fare esperienza perché il desiderio di bene trovi la via della piena attuazione. Gesù chiede al giovane ricco di prendere sul serio quella relazione umana costitutiva che dovrebbe in sé apparire evidente e che si trova nella
grande tradizione, soprattutto profetica: «da’ ai poveri». Ma poi domanda un’altra più impegnativa relazione: «una volta che hai dato tutto vieni e seguimi».
12
Cfr. F. BOTTURI, Esperienza del bene e dinamismo della ragion pratica, in
AA.VV., Camminare nella luce. Prospettiva della teologia morale a partire da “Veritatis Splendor”, a cura di L. Melina – J. Noriega, Lateran University Press, Roma
2004, 225-238.
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In questa proposta è contenuta una “pretesa” singolare. La forma
originaria da cui l’uomo apprende ad attuare il bene è nella relazione
con l’origine del bene, mentre la domanda circa le cose buone da fare trova come risposta l’invito ad intrattenere relazioni buone. L’esperienza
elementare del bene e della moralità consiste dunque nel beneficio
primario della relazione. L’esperienza morale concreta non si origina
da un’idea del bene che sia contenuta nel cosmo o nel bios, né si deduce dalla natura razionale dell’uomo (cosa che peraltro l’interlocutore di Gesù aveva intuito quando – nella versione dell’episodio secondo Mc 10, 17 e Lc 18, 18 – chiama “buono” il maestro).
Ritorniamo così alla terna balthasariana della necessità della relazione di riconoscimento affinché il desiderio che urge verso una comunione divenga fondamento di moralità.
Conviene notare che questo punto di partenza epistemologico circa l’identificazione dell’esperienza morale elementare è diffuso in
tutta la tradizione occidentale premoderna e non solo. Si tratta dell’idea secondo cui l’esperienza morale non nasce dal confronto solitario di un singolo con un codice di norme, ma all’interno di tradizioni etiche condivise e nel rapporto con chi ne è esemplare rappresentante, il maestro o il saggio, come colui di cui parla Aristotele,
quale criterio vivente di misura del bene secondo virtù13.
L’idea di una scienza morale separata dalle relazioni costitutive e
dalle esperienze primarie del desiderio del riconoscimento e della
comunione, ha preso l’avvio invece nella modernità, preoccupata di
far fronte alle sue nuove condizioni religiose, culturali e politiche. Si
trattava di affrontare il problema del valore morale e del sapere morale in un contesto inedito di società plurale e di pluralismo assiologico. Ma la risposta della modernità si è incentrata su una nuova
concezione del soggetto umano come individuo centripeto e separato, che ha prodotto anche una problematica separazione del sapere
morale dal suo luogo genetico, l’esperienza delle relazioni significative, di cui il soggetto ha bisogno per giungere in maniera adeguata
alla coscienza della propria identità – come ha iniziato ad insegnare
13
Cfr. ARISTOTELE, Etica Nicomachea III, 4, 1113a.
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Hegel14 – e per destarsi alla coscienza morale e al suo sapere. L’esperienza noetico-pratica della triade desiderio-riconoscimento-comunione in quanto esperienza primaria, incomincia così a decifrare
lo spettro complesso della luce della moral insight, come senso morale elementare della persona che si fonda sulla storia personale di ogni
soggetto e che attraversa diacronicamente e sincronicamente ogni
cultura. Pensiero che incrocia l’affermazione di Lewis sull’attitudine
di rispetto e gratitudine per ciò che ci è stato donato dalle tradizioni
familiari e culturali delle generazioni che ci hanno preceduto, apportandovi più solidi argomenti. Anzitutto perché, riferendo questo atteggiamento di gratitudine al quadro interpersonale dei benefici delle relazioni primarie, gli offre dignità speculativa oggettiva. In secondo luogo, perché fa meglio comprendere la radice antropologica delle insostituibili mediazioni storiche e culturali di cui sono portatrici
le svariate tradizioni religioso-morali.
Dobbiamo ora chiederci: come più precisamente l’esperienza elementare ed originaria ha la valenza morale di una legge di carattere
universale?
Penso che l’esperienza fondamentale del bene sia la condizione
psicologica ed epistemologica dell’esperienza morale, della percezione cioè di un legame deontico (ob-ligazione) con le possibilità del bene stesso, la percezione della loro non opzionalità ed ipoteticità, bensì della loro doverosità come opera della libertà. Stiamo parlando del
passaggio dal potere del desiderio al dovere di quello che si può operare secondo la comunione del bene. Nei termini della tradizione etica questo significa passare dal regime dell’esperienza del bene che già
è a quello della “legge” del bene che ha da-essere. Come può essere
pensato questo passaggio?
Una strada che personalmente reputo proficua per elaborare il
passaggio dall’esperienza del bene alla legge morale è una ri-lettura
(che dovrebbe dare l’avvio ad una ri-scrittura) dell’interpretazione
14
Cfr. F. BOTTURI, Il bene della relazione e i beni della persona, in AA.VV., Il bene e la persona nell’agire, a cura di L. MELINA – J. J. PÉREZ-SOBA, Lateran University Press, Roma 2002, 161-184.
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tomana della legge naturale, che tenga conto delle riserve formulate
sia dalla visione neo-classica, sia da quella personalista, ivi compresa
la variante fenomenologica15.
Una simile rilettura, che in questa sede possiamo solo suggerire,
dovrebbe estrarre dai tre schemi teorici impiegati da Tommaso per
parlare di legge naturale (synderesis, disposizione degli appetiti verso
l’oggetto conveniente, regole di tutte le cose create), la dottrina delle inclinazioni intese come spontanei orientamenti antropologici,
sensibili e razionali, a beni convenienti.
Sono note le critiche alla concezione tomana delle inclinazioni e
più ancora della connaturalità come base per l’elaborazione della legge naturale. La critica neo-classica propone di sostituire alla teoria
delle inclinazioni l’articolata dottrina intuizionistica dei basic goods,
che si sviluppa a partire dai basic motives dell’atto umano che appartengono allo spontaneous willing. Il pregio di questa teoria è la rinuncia ad una concezione deduttiva della conoscenza pratica in genere e
di quella morale in specie per individuare nella conoscenza pratica
immediata i basic goods capaci di orientare al compimento della persona. Tali conoscenze, infatti, portano in sé l’indicazione della “fioritura” possibile dell’essere umano, così che il loro valore antropologico ed etico non ha bisogno di fondazione in una dottrina della natura umana. Si tratta di un bene che riconosciuto come tale non può
non essere voluto.
A sua volta, la critica personalista alla teoria tomana delle inclinazioni, soprattutto nella sua formulazione fenomenologica che ci sembra la più rigorosa, sostiene che le inclinazioni per avere rilievo antropologico richiedono la mediazione dell’agire libero nelle forme
storiche della lingua, del costume e della cultura. Questo apre uno
spazio alle inclinazioni, ma solo come annuncio del bene sintetico
dell’uomo. Al contrario, nella sua idea originaria la teoria tomana
delle inclinazioni manterrebbe un’interpretazione naturalistica del-
15
Cfr. G. ANGELINI, La legge naturale e il ripensamento dell’antropologia, in ID.
(a cura di), La legge naturale. I principi dell’umano e la molteplicità delle culture,
Glossa, Milano 2007, 187-215.
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l’esperienza che evacuerebbe il dramma della libertà e della storia e
darebbe troppa fiducia a un criterio normativo universalistico, che in
realtà risulta essere del tutto formale.
Ritengo possibile una lettura della dottrina delle inclinazioni che
ne eviti una giustificazione deduttivistica ed essenzialistica, come richiesto dai “neoclassici” e che tenga conto dell’esperienza elementare soggettiva e storica, come richiesto dai “personalisti”, senza sacrificare il riferimento al fondamento antropologico della “natura umana” e senza svuotare le inclinazioni del loro contenuto specifico e
normativo.
Credo che sia fondamentale a questo proposito quanto Tommaso
dice a riguardo della conoscenza per connnaturalità, essendo questa la
mediazione attraverso cui la datità naturale dell’inclinazione assume
il suo primo significato antropologico. In realtà Tommaso già nello
Scriptum super Sententiis, come ho mostrato nel mio lavoro di dottorato16, presenta il tema delle inclinazioni connesso a quello della conoscenza per inclinazione o per quandam connaturalitem17. Tema che
non riguarda soltanto la legge ma che, come ha dimostrato Maritain,
ha a che fare con diversi gradi del sapere (innanzitutto, quelli teologico spirituale, morale ed estetico)18. Solo rielaborando questo nesso
prezioso si può riannodare la tesi tomana sulla legge naturale all’esperienza elementare di cui ci siamo occupati.
Anzitutto bisogna riconoscere che la tesi di Tommaso sulle inclinazioni prende in considerazione l’intera gamma delle tendenze, non
solo gli appetiti sensitivi ma anche quelli razionali. Sarebbe una grave
svista imputare a Tommaso la incapacità di legare gli appetiti sensitivi all’espressione razionale della legge morale. Quando Tommaso parla delle inclinazioni in generale e nell’ambito specifico della legge na16
Cfr. A. SCOLA, La fondazione teologica della legge naturale nello Scriptum super Sententiis di San Tommaso d’Aquino, Studia Friburgense 60, Universitätsverlag, Freiburg 1982.
17 Cfr. I. BIFFI, Teologia, storia e contemplazione in Tommaso d’Aquino, Jaca
Book, Milano 1995, 87-127; M. D’AVENIA, La conoscenza per connaturalità in S.
Tommaso d’Aquino, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1992.
18 Cfr. J. MARITAIN, Les degrés du savoir, Desclée de Brouwer, Paris 19326.
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turale, non le riduce mai all’appetito sensibile, concupiscibile ed irascibile, come è documentato dal fatto che fanno parte di esse anche le
inclinazioni razionali alla vita sociale, alla ricerca della verità, alla domanda sul senso ultimo e su Dio19. Per questo la riflessione dell’Aquinate sulle inclinazioni può condurre a considerare un’amplissima
gamma di esperienze e di tendenze spontanee di tipo vitale, sessuale,
affettivo, relazionale, educativo, sociale, intellettuale, ecc., in cui il riconoscimento tra uomini e la sua intrinseca promessa di bene svolge
un ruolo rilevante. Nel suo volume sulle fonti della teologia morale20,
S. Pinckaers ha colto questa interessante implicazione, commentando
l’affermazione della Summa secondo cui la ragione apprende come
buone le cose verso le quali ha una naturale inclinazione21.
Considerata nel suo insieme, la dottrina di Tommaso sulle inclinazioni mi pare possa suggerire due importanti piste di riflessione,
suscettibili di molti svolgimenti.
Innanzitutto va ricordato che nell’ottica dell’Aquinate la coscienza morale si mostra – come sappiamo – ben radicata nell’esperienza
elementare di bene. Ciò significa che l’apprendimento morale non
avviene come generica coscienza, ma attraverso un procedimento conoscitivo in cui è in gioco la dimensione appetitiva. Tommaso la chiama
appunto “conoscenza per connaturalità” o “per inclinazione”, figura gnoseologica del sapere che, pur essendo giudicativo, non procede però
per argomentazione, ma su base affettiva, e che, pur essendo conoscenza esperienziale, sta in rapporto circolare con il sapere «per modum cognitionis»22.
Si può superare così sia una visione essenzialista, sia una visione relativista della legge morale. La teoria delle inclinazioni, adeguatamente articolata col tema della conoscenza per inclinazione, non è essenzialista, perché riconosce che non esiste né una intuizione razio19
In proposito cfr.: Summa Theologiae Ia-IIae q. 94 a. 2; Summa Contra Gentiles III, 24, n. 2052.
20 S. PINCKAERS, Les sources de la morale chrétienne. Sa méthode, son contenu, son
histoire, Editions Universitaires – Cerf, Fribourg-Paris 1985, 400-456.
21 Cfr. Summa Theologiae Ia-IIae q. 94 a. 2.
22 Cfr. BIFFI, Teologia, storia e contemplazione, 120-127.
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nale della legge morale‚ né una deduzione concettuale di essa a partire da una conoscenza teoretica della natura umana o da una qualche
altra analisi antropologica. D’altra parte non è relativista, perché le
inclinazioni non sono a totale disposizione del sentire soggettivo, anche se non giungono a coscienza senza intrecciarsi con questo sentire, e non derivano dalle condizioni storico-culturali del vivere, anche
se non si danno mai senza una certa qualificazione culturale.
Un secondo aspetto importante della dottrina di Tommaso consiste nel mostrare come un’adeguata nozione di inclinazione e di conoscenza per inclinazione sia espressiva di una ontologia dinamica23,
in grado di fare spazio al dinamismo della libertà e al suo dramma.
Tesi che esige un duplice ordine di considerazioni.
Innazitutto bisogna sottolineare l’importanza di una concezione
ontologica e dinamica della “natura”. L’idea di inclinatio, infatti, significa la tendenza che ogni essente, in dipendenza dalla sua “forma”
o natura/struttura, possiede in direzione del bene perfettivo confacente: tutto ciò che esiste è strutturalmente orientato a ciò che lo realizza. L’inclinazione è perciò rivelativa della “natura” dell’essente,
cercando ciascuno il bene che gli è connaturale. E, correlativamente,
l’inclinazione rilevante per definire l’esperienza elementare ed il suo
significato morale non può essere se non quella che è raccordabile alla struttura ontologica dell’agente. Così che non qualunque sentire
attrattivo a livello psicologico può valere come definitorio di esperienza e di valore morale, perché a questo livello l’inclinazione può
essere rivolta ad ogni sorta di cose ed è sottoposta ad una forte variabilità soggettiva sincronica e diacronica. Per questo vi è, alla base della dottrina, una diretta corrispondenza dei diversi livelli di inclinazione che l’uomo sperimenta e dei livelli ontologici cui egli partecipa come essente, vivente e razionale.
In secondo luogo, è rilevante il fatto che la dimensione ontologica dell’inclinazione, appaia solo alla ragione, alla quale è affidato perciò il compito di leggere l’esperienza morale elementare per coglierne il significato ontologico entro il circolo di conoscenza per modum
23
Cfr. A. SCOLA, La fondazione teologica, 259-262.
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inclinationis (per quandam connaturalitatem) e per modum cognitionis24.
Ma ciò non significa solo che la ragione stessa, avvertita della sua
condizione storica di esercizio, deve stabilire continuamente una circolarità ermeneutica virtuosa tra esperienza e legge, ma anche che in
tal modo il dinamismo spontaneo delle inclinazioni viene affidato alla ragione, che ne è l’esclusiva interprete e, quindi – in quanto radix
totius libertatis –, è la condizione della loro libera esecuzione da parte
della volontà. In quanto lette dalla ragione e ad essa affidate, insomma, le inclinazioni non sono meccanismi deterministici, ma solo orientamenti che sollecitano e mettono in gioco la libertà e così circostanziano l’esperienza morale e la rendono possibile.
Compete, dunque, esclusivamente alla ragione integralmente intesa compiere questo lavoro interpretativo di discernimento del senso dell’esperienza, di definizione delle inclinazioni umane fondamentali e quindi di statuizione del loro significato morale vincolante,
tocca cioè alla ragione operare il passaggio dal desiderio-riconoscimento al comandamento. Cosa – si osservi – che non comporta assolutamente l’eliminazione del senso storico dell’esperienza e della formulazione della legge morale, poiché il gioco di esperienza, conoscenza esperienziale e conoscenza argomentativa salvaguarda insieme
il valore esistenziale e il valore razionale della conoscenza morale e
con essi il discernimento metastorico del valore morale e la dimensione storica dell’esperienza morale e del suo giudizio.
Giunti a questo punto sarebbe necessario lavorare ulteriormente
sui delicati passaggi dall’esperienza originale del bene al riconoscimento razionale del bene morale come sua promulgazione e come
fondazione razionale della legge. La storia delle interpretazioni della
dottrina tomista in proposito costituisce un grande patrimonio teorico ed offre una gamma assai vasta di soluzioni.
A noi è sufficiente aver chiarito che la dottrina delle inclinazioni e
la loro conoscenza per connaturalità permettono di pensare l’artico-
24
Si deve notare di passaggio che la conclamata critica alla connaturalità non
vede che per Tommaso in definitiva questa nozione si connette all’amor naturalis che nel suo livello sostanziale antropologico coincide con il desiderio.
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lazione dell’esperienza del bene e insieme la sua vocazione morale,
evitando sia il rischio dei neo-classici di cosificare attraverso i basic
goods la legge naturale, sia quello di ridurre l’esperienza originaria del
bene ad un’indeterminatezza tale che finisca per privare la stessa legge naturale di ogni riferimento contenutistico.
Di conseguenza, il modello di riferimento su cui lavorare ci sembra essere – in estrema sintesi – quello che afferma, da una parte, che
l’esperienza morale non inizia con il comandamento, ma dall’interno
di una ricca e complessa esperienza elementare del bene come articolata
unità di desiderio, riconoscimento e comunione; dall’altra, che esclusivamente alla ragione compete compiere il lavoro interpretativo di discernimento del senso dell’esperienza, di definizione dei beni umani
fondamentali e quindi di statuizione del loro significato morale; per
cui la legge morale è in definitiva formulazione dei beni fondamentali affidati all’impegno della libertà.
3. Cristianesimo e common morality
Il cristianesimo, non come pura religione, ma considerato nella sua
vera natura di evento universale concreto svela una universalità etica
che include quella della legge morale e nello stesso tempo la trascende, come risulta chiaro dal già citato episodio evangelico del giovane
ricco25. Gesù stesso, compimento vivo della legge e Lui stesso legge
vivente e personale, si propone come sintesi dinamica della morale interna e intrinseca alla Rivelazione. Nei paragrafi 12-15 di Veritatis
splendor questa dinamica è presentata secondo il ritmo della promessa,
del comandamento e dell’amore, che troviamo in corrispondenza con la
triade di desiderio-riconoscimento-comunione, a cui abbiamo fatto
riferimento. Infatti, il comandamento si lega ad una promessa che ne
25
Riprendo qui alcune riflessioni sviluppate in: A. SCOLA, La prospettiva teologica di Veritatis splendor, in L. MELINA – J. NORIEGA, Camminare nella luce. Prospettive della teologia morale a partire da Veritatis splendor, Lateran University
Press, Roma 2004, 65-81.
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costituisce la ragion d’essere26. Nell’Antico Testamento è la promessa della terra per un’esistenza in libertà e giustizia, nel Nuovo Testamento è la promessa del Regno, che segna il passaggio dal regime del
servizio a quello della figliolanza (cfr. Gal 4-5). In comune i due Testamenti hanno l’idea della promessa del dono della vita vera, che consiste appunto in una rinnovata relazione (comunione-amore) con Dio
e con gli altri uomini. Questa promessa si rivela esplicitamente e si
compie in Gesù. Per questo non c’è antinomia tra l’evento di Gesù di
Nazareth e la legge morale, mentre si può parlare di Gesù come legge vivente e personale27, che trascende la legge naturale.
Gesù infatti mostra quale sia la partecipazione personale trasformante alla vita divina e come i comandamenti siano in realtà un cammino alla perfezione dell’amore. Quindi la morale cristiana consiste
nell’amore a Cristo come motivazione dell’osservanza dei comandamenti. Nell’assumere come regola morale l’agire di Gesù, la Sua parola, le Sue azioni, i Suoi precetti, nel seguire Cristo, nell’aderire alla persona stessa di Cristo, nella comunione con Lui c’è la ragione
adeguata del senso morale dell’esistenza. Cristo quindi è il principio
essenziale ed originale della morale cristiana. Ma, in quanto principio di morale universale, conserva in sé e dà valore al cammino dell’esperienza morale umana come tale, di cui la Rivelazione non è
smentita, ma svelamento del contenuto pieno secondo il ritmo di
promessa, comandamento e amore.
Infatti, come l’esperienza morale è radicata nel rapporto originario al bene, così essa è orientata alla maturità della perfezione umana
(amore) che include la maturità morale e nello stesso tempo la trascende nella pienezza antropologica dell’amore, cui per sua natura
spalanca il desiderio che non punta solo al retto agire, ma ad una condizione di felicità integrale.
In sintesi, la relazione alla persona di Cristo, mentre conferma il
valore universale della legge morale razionale, evidenzia che tale uni-
26
Cfr. Veritatis splendor, 12.
Cfr. A. SCOLA, Questioni di Antropologia Teologica, Pul-Mursia, Roma 19972,
103-106.
27
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versalità non è affidata alla dipendenza da una norma universale, ma
è ricompresa entro una relazione personale. In Cristo “legge vivente
e personale”, sono mirabilmente sintetizzate la dimensione universale e quella personale della vita morale. Senza nulla perdere del suo
valore universale, anzi confermandolo ed approfondendolo, la moralità acquista nel cristianesimo la consapevolezza che il senso del bene
antropologico e morale ha nella relazione il suo luogo privilegiato di
genesi, di manifestazione e di attuazione. La centralità del rapporto
alla persona umano-divina di Gesù mostra così in modo unico ed
esemplare l’universalità personalistica ovvero il personalismo universalistico dell’esperienza morale.
4. Common morality e società plurale
Come questa visione di una moral insight che fonda anche un’oggettiva, universale common morality è compatibile con le odierne democrazie plurali che vivono di procedure pattuite e non accettano
fondamenti di altra natura?
In accordo con le riflessioni più accreditate sui temi della società
civile plurale e dello Stato – si possono qui citare i nomi di Habermas, Rawls e Böckenförde – è ormai ampiamente condivisa l’idea che
sia necessario “tradurre” in termini di argomentazione “pubblica” la
visione filosofica della singola tradizione etica o la visione cristiana o
altrimenti religiosa. È cioè indispensabile tradurre i linguaggi dei fondamenti in termini di assiomi intesi, al modo della logica matematica,
come sistema formale di proprietà che definiscono implicitamente
l’espressione a cui si riferiscono a prescindere dalla loro evidenza.
Su questa base si devono chiamare i soggetti che abitano la società civile plurale ad un lavoro di dialogo continuo e di inesausta narrazione in vista di un riconoscimento reciproco, per usare un linguaggio caro a Ricoeur28, così che dal paragone tra loro scaturiscano
28
Cfr. P. RICOEUR, Percorsi del riconoscimento, Raffaello Cortina Editore, Milano 2005.
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orientamenti e linee di bene comune. Come ha scritto recentemente
Benedetto XVI nel discorso redatto per l’università “La Sapienza”,
l’esperienza stessa della democrazia evidenzia che non sono sufficienti le “maggioranze numeriche” e i loro rapporti di forza a garantirla e a conservarla, ma che è necessario – come ha scritto J. Habermas – che essa si caratterizzi anche come “un processo di argomentazione sensibile alla verità”29.
Una società civile così concepita non ha bisogno di neutralizzare
le religioni e non ha alcuna necessità di accanirsi contro gli assoluti
universali di cui fossero convinti taluni soggetti sociali. Deve esclusivamente accettare un confronto dialogico paritario, riservando alle
istituzioni statali che promulgano ed interpretano leggi, il compito di
interpretare quale sia l’opinione più vantaggiosa30, la tradizione prevalente o “predominante” – per usare un’espressione impiegata nello
scambio epistolare tra Böckenförde e Ratzinger31 – che il popolo sovrano, direttamente o indirettamente attraverso i suoi rappresentanti, indica essere quella a cui una determinata società civile vuole attenersi. Ciò non implica una dittatura della maggioranza che stabilisce
la verità, né la negazione dei diritti fondamentali a qualsivoglia minoranza. Si tratta soltanto di non far coincidere la necessaria laicità
dello Stato con una sua impossibile neutralità32.
Riconoscere che una società plurale basata su procedure è per sua
natura conflittuale, esige che le esperienze di tutte le persone e di tutti i corpi intermedi, delle loro culture, della loro ricerca e della loro
proposta educativa non cessino di testimoniare reciprocamente contenuti di vita buona. La stessa Carta dei Diritti fondamentali non dovrà essere concepita come puro catalogo astratto dedotto a sua volta
da un’astratta natura, ma dovrà diventare, con l’aiuto dell’universale
concreto proprio di tutte tradizioni culturali, religioni comprese, il
29
Cfr. BENEDETTO XVI, Allocuzione.
Cfr. J. HABERMAS, Quel che il filosofo laico concede a Dio (più di Rawls), in HABERMAS – RATZINGER, 41-63.
31 Cfr. E. W. BÖCKENFÖRDE, “Libertà religiosa e diritto: lo stato secolarizzato e i suoi valori”, in Il Regno (2007) n. 18, 637ss.
32 Cfr. A. SCOLA, Una nuova laicità, Marsilio, Venezia 2007.
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LA LUCE DELLA “MORAL INSIGHT”
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terreno per quel confronto che può rendere la società civile contemporanea, in un tempo di grande travaglio e di grandi cambiamenti,
luogo di un’avventura di pace.
Nell’era globale le grandi questioni circa il significato dell’umano
esistere e dell’umano convivere non sono più appannaggio di gruppi
di intellettuali chiusi in aule accademiche, come è stato fino all’insorgere dell’epoca post-moderna.
“Da dove vengo?”, “dove vado?”, “chi sono?”, “perché vivo?”, “perché
soffro?”, “che cos’è la morte?”, “che cosa c’è dopo la morte?” “chi alla fine
mi assicura amandomi definitivamente?”, queste domande sono presenti, oggi come non mai, nel dibattito popolare quotidiano ed irrompono direttamente dai sofisticati laboratori della tecno-scienza. Proprio perché esposte ad un accanito conflitto d’interpretazione una
common morality è assolutamente necessaria, ed anche possibile. Richiede che ogni singola persona, i corpi intermedi, le nazioni riscoprano il valore pratico dell’inevitabile vivere insieme33, che non comporta la neutralizzazione delle “etiche sostantive”, bensì il leale lavoro di ogni tradizione etica a comprendere e confrontare il senso dell’esperienza morale alla luce della originaria comune moral insight.
33
Cfr. BOTTURI, Il bene della relazione.
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SUMMARIES
The article shall consider the question of the existence and nature of the elementary moral experience which allows us unambiguously to receive the light
of moral insight as capable of generating an objective common morality, respectful of liberty, history, and cultures. Secondly it will go on to show how, by
virtue of its salvific power, the universal concrete element in Christianity, the
event of Jesus Christ, shows the true nature of moral insight and encourages
a common morality. Finally it shall discuss how reference to a common morality like this is to be understood in a plural society constructed by agreed procedures.
***
El artículo afronta la existencia y la naturaleza de la experiencia moral elemental que permite reconocer en modo unívoco la luz de la moral insight capaz de generar una common morality objetiva, que respete la libertad, la historia y las culturas. Sucesivamente se mostrará como el universal concreto
cristiano, el evento de Jesucristo, precisamente en virtud de su fuerza salvífica universal, muestra la verdadera naturaleza de la moral insight y favorezca
una common morality. Por último el artículo afronta como en una sociedad
plural, basada en procedimientos frutos del consenso, pueda existir una referencia a dicha moral común.
***
L’articolo si interroga circa l’esistenza e la natura dell’esperienza morale elementare che consente di cogliere univocamente la luce della moral insight come capace di generare una common morality oggettiva, rispettosa della libertà, della storia e delle culture. In un secondo momento mostra come l’universale concreto cristiano, l’evento di Gesù Cristo, in ragione della sua stessa
universale forza salvifica, mostri la vera natura del moral insight e favorisca una
common morality. Infine, accenna a come in una società plurale, che si costruisce per procedure pattuite, sia da intendere il riferimento ad una simile
moralità comune.
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CONTEMPLATING THE LIFE
AND MINISTRY OF CHRIST
Emerging Guidelines for Christian Living
Dennis J. Billy, C.Ss.R.*
Jesus does not fit into any category. Neither ancient nor modern, nor
Old Testament categories are adequate to understand him. He is
unique. He is and remains a mystery. He himself does little to illuminate this mystery. He is not interested in himself at all. He is interested in only one thing, but interested in it totally: God’s coming
rule in love. He is interested in God and human beings, in God’s history with human beings. That is his mission. We get closer to the
mystery of his person only when we look into that mission. The theological perspective is the only one which does not falsify the person
and work of Jesus1.
Jesus lived and ministered for the coming of the kingdom. He entered our world to proclaim the nearness of God’s rule of love and
paid for it with his life. When we think of Jesus’ redemptive action,
it is important for us not to overlook the period between his birth
and paschal mystery. His entire earthly life, both hidden and public,
was part of the total offering of self that began in the Incarnation and
reached its culmination in his death on the cross and glorious resurrection from the dead.
* The author is an ordinary professor at the Alphonsian Academy. He is presently
serving as professor, scholar-in-residence, and holder of The John Cardinal Król Chair
of Moral Theology at St. Charles Borromeo Seminary in Philadelphia, Pennsylvania.
El autor es Profesor Ordinario en la Academia Alfonsiana. Al presente se desempeña como titular de la Cátedra de Teología Moral en el Seminario de S. Carlos Borromeo en Filadelfia (Pensilvania).
1
WALTER KASPER, Jesus the Christ, trans. V. Green (London/New York:
Burns & Oates/Paulist Press, 1976), 70.
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In this essay, we will seek “to contemplate the face of Christ,” to
use a phrase of the late Pope John Paul II2, by pondering what the
narrative of Jesus’ life and ministry – as told for centuries, popularly
received, and ingrained in the Christian imagination – reveals about
his purpose and self-identity. In doing so, we hope to gain a better
theological understanding of what he sought to accomplish for us
and why he gave up everything to see it through. This narrative tells
us that Jesus’ life was defined by his mission and reveals to us the true
meaning of discipleship. It reminds us that to walk in his way means
to live in eager anticipation for the coming of the kingdom. This
kingdom is still to come, yet also reflected in our midst3.
Jesus’ Divine Sonship
There have been many attempts over the years to ascertain Jesus’
true identity. Volumes have been written on the quest for the historical Jesus and the relationship between the Jesus of history and the
Christ of faith. These attempts have employed different methods and
achieved varying degrees of success. While many can point to genuine insights about his calling, identity, and mission, none can claim
to have presented a definitive picture of this elusive historical figure.
The person and character of Jesus, moreover, have sometimes been
shaped to fit the categories used to measure him, thus making him
more an anachronistic projection from another time than an authentic reflection of his own4.
2
See JOHN PAUL II, Novo millennio ineunte, nos. 16-28.
For a summary of the mysteries of Jesus’ hidden and public lives, see Catechism of the Catholic Church, nos. 512-70 (Vatican City: Libreria Editrice Vaticana, 1994), 129-46. For a more extended treatment, see Jacques Duquesne, Jesus: An Unconventional Biography (Liguori, MO: Triumph Books, 1997).
4 For a bibliographical survey of the quest for the historical Jesus, see RAYMOND E. BROWN, As Introduction to the New Testament (New York: Doubleday,
1997), 817-30. For changing perceptions of Jesus through history, see Jaroslav
Pelikan, Jesus through the Centuries (New Haven/London: Yale University Press,
1985).
3
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Through all these years of historical critical speculation, the
Church has held steadfast to its conviction about the fundamental
continuity between the Divine Logos, the historical Jesus, and the
Risen Lord. It bases this claim not on scholarly biblical criticism,
which it values as only one of several helpful tools for the study of
God’s Word, but on its understanding of Divine Revelation as flowing from Scripture and Tradition and safeguarded by the ongoing interpretation of the Church’s Magisterium5. When seen in this light,
Divine Sonship becomes the unifying thread and source of personal
identity of Jesus the Christ. As the Creed itself asserts: “We believe...in one Lord Jesus Christ, the only Son of God, eternally begotten of the Father”6.
According to Catholic belief, there is one and only one Son of
God, who became man, suffered and died for our sins, rose from the
dead in a transformed, glorified state, and ascended into heaven to sit
at the Father’s right hand. A genuinely Catholic consideration of Jesus’ life and ministry cannot divorce itself from this fundamental
claim about Jesus’ personal identity. Ultimately rooted in the experience and witness of the apostles and the faith of the early Church,
this assertion affirms that time and eternity, the human and divine,
history and faith, have somehow converged in the person of the historical figure known as Jesus of Nazareth. As such, it grounds Jesus
in space and time, yet also carries him beyond them. The strictures
of critical historical inquiry cannot verify this assertion, since it is a
5
For the main characteristics of Catholic Scriptural interpretation, see The
Pontifical Biblical Commission, The Interpretation of the Bible in the Church (Vatican City: Libreria Editrice Vaticana, 1993), 86-127.
6 The First Council of Nicea, Expositio fidei CCCXVIII patrum, in Decrees of
the Ecumenical Councils, English ed., Norman P. Tanner, vol. 1 (London/Washington, D.C.: Sheed and Ward/Georgetown University Press, 1990), 5. See also Catechism of the Catholic Church, nos. 430-55, pp. 108-14. For the sources of
revelation and its authentic interpretation, see Dei verbum, no. 10 in Decrees of
the Ecumenical Councils, vol. 2, 975. See also Catechism of the Catholic Church, nos.
74-95, pp. 24-29. For the characteristics of the Catholic interpretation of Scripture, see The Pontifical Biblical Commission, The Interpretation of the Bible in the
Church (Vatican City: Libreria Editrice Vaticana, 1993), 86-112.
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revelatory claim rooted in faith. As such, it comes from beyond history and ultimately transcends it7.
Jesus’ identity as the Son of God provides us with an important
key with which to understand his life and mission. He lived and acted with a purpose hidden in the depths of his intimate relationship
with the Father. This relationship influenced his conscious thoughts
and unconscious desires and lay behind his hidden life in Nazareth,
his public ministry in Galilee and Judea, and ultimately his sacrifice
of self on Golgotha just outside Jerusalem’s city walls. It also lay behind those moments of solitude with God that he sought in desert
wastelands and on lonely mountaintops, as well as in those dramatic
symbolic actions of baptism and table fellowship that marked the beginning and end of his public ministry. Everything Jesus did pointed
to the Father and to the coming of God’s reign. As a prophet, he
boldly proclaimed that God’s kingdom was to come, yet somehow already in his midst. As high priest of the New Covenant, he gave himself up to death and opened the way to salvation. As king, he established a new universal order governed by the love of enemies, the
practice of the beatitudes, and the rule of selfless giving8.
Jesus’ Divine Sonship has important repercussions for his relationship with us. By entering our world, living among us, giving himself to us, and dying for us, he made his relationship with the Father
available to us. As a result, he no longer calls us slaves, but friends9.
On Easter morning, he rose as the New Adam, the firstborn of the
new creation, and we rose with him as members of his body and have
now become the Father’s adopted sons and daughters10. Even the
17
See Second Vatican Council, Dei verbum, nos. 17-20 in Decrees of the Ecumenical Councils, vol. 2, 978-79. For a treatment of Christ as the norm of history,
see Hans Urs von Balthasar, A Theology of History (New York: Sheed and Ward,
1963), 79-107.
18 For the universal dimensions of Christ’s redemptive action, see Gerald
O’Collins, Christology: A Biblical, Historical, and Systematic Study of Jesus (Oxford:
University Press, 1995), 296-305.
19 See Jn 15:15.
10 See Rom 8:14-17.
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prodigals among us receive the same loving and compassionate attention as God’s Only Begotten Son, if we are but willing to accept
it11. For Jesus, the reign of God was all about establishing a new order of relationships based on the disclosure of God’s unending love
for humanity. The Divine Logos became a man, lived among us,
taught us, healed us, and died for us in order make us sons and
daughters of God. In doing so, he now relates to us as his brothers
and sisters and asks us to do likewise in our relations with him and
one another12.
In his life and ministry, Jesus fostered an ever-growing circle of
kingdom-oriented relationships. Nor would he allow rejection, at
times even by those close to him, deter him from his goal. What began at Bethlehem with his incarnation in his mother’s womb was, at
Nazareth, nurtured in his immediate family life with Joseph, his
adoptive father, and among many of his kinfolk, neighbors, and fellow villagers. These relationships from Jesus’ so-called hidden life
were eventually extended to those in his public ministry in Galilee
and Judea to include all people, especially the poor and oppressed,
outcasts, and those in need of physical and spiritual healing. After his
passion, death, and resurrection, they were then offered to everyone
who ever lived and ever would live13.
Jesus’ relationship with the Father ties all these facets of Jesus’ life
together. What once existed only between the Father and his Only
Begotten Son was freely given to humanity through Mary’s gracefilled fiat and had repercussions for Jesus’ hidden life and public ministry. What once was hidden was progressively made public and then
universal. What was deep in the depths of the Father’s love took flesh
in the womb of Mary, became visible at Bethlehem, grew and ma11
See Lk 15:11-31.
See Second Vatican Council, Lumen gentium, nos. 2-4 in Decrees of the Ecumenical Councils, vol. 2, 850-51. See also Catechism of the Catholic Church, nos.
514-570, pp. 129-46.
13 For more on the nature of these kingdom-oriented relationships, see Hans
Urs von Balthasar, The God Question & Modern Man, trans. Hilda Graef (New
York: The Seabury Press, 1967), 142-55.
12
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tured in Nazareth, became public in Jesus’ ministry, and universal in
Jesus’ paschal mystery. Jesus life and ministry were all about establishing the relationships of the kingdom. Wherever and whenever
they appear, the kingdom that he preached enters our midst and extends that circle of relationships even further14.
Contemplating Jesus’ Life and Ministry
The doctrine of Divine Sonship reconciles the Jesus of history
with the Christ of faith and provides the point of continuity between
the Logos, the Incarnation, and the Risen Lord. It lies at the center
of Jesus’ self-identity and has great importance for our attempt to understand his life and ministry. Contemplating certain aspects of Jesus’
earthly life – his communion with the Father, his contemplative attitude, his sense of purpose, his total self-offering – will bring to the
surface important insights into the content and form of the Christian
moral and spiritual life.
1. Communion with the Father. Jesus’ life is traditionally divided into his so-called hidden at Nazareth and his public ministry in Galilee
and Judea. The first includes his infancy, childhood, adolescence, early adulthood, and growth to manhood. The second begins roughly at
the age of thirty with his baptism in the waters of the Jordan by John
the Baptist and continues for approximately three years where he
leads the life of an itinerant preacher, teacher, and miracle worker.
It is generally agreed that Jesus’ hidden life extends from his early life to his baptism by John in the Jordan, while his public ministry
begins with his baptism and continues until the events in Jerusalem
that lead to his passion and death. Jesus’ birth and baptism define his
hidden life; his baptism and celebration of his Last Supper, his pub-
14
For how Jesus’ status as Son and Word of God permeates every facet of
his life, see Hans Urs von Balthasar, A Theological Anthropology (New York:
Sheed and Ward, 1967), 246-47.
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lic ministry. Both his hidden and public lives, moreover, can be said
to converge in the terrible events of his passion and death, a truth
that is appropriately symbolized by the presence of his mother Mary
and his beloved disciple at the foot of the cross, who represent figures coming respectively from his hidden and public lives15.
When contemplating Jesus’ life and ministry, it is very important
to remember at the very outset that both dimensions of his life, the
hidden and the public, were intimately connected. The roots of his
public ministry were already present in his hidden life, just as he carried his hidden life within him wherever he went during his public
ministry. It is also important to remember that each of these dimensions of Jesus’ life and ministry flowed out of and, in many respects,
remained hidden in his relationship with his heavenly Father. Both
his hidden life in Nazareth and his public ministry in Galilee and
Judea were equally “hidden” in his relationship to his Father and his
identity as Divine Son. At every stage of his earthy life, Jesus’ actions
were influenced by his relationship to his heavenly Father.
Although it would be impossible to determine the depth of his
consciousness of this relationship, we may surmise that he became
increasingly aware of it as his mind matured and as he went through
the various stages of human development. We may also suppose that
his growing awareness of his Divine Sonship manifested itself in a
deep experience of communion with the Father and a profound capacity to contemplate the divine. Jesus, we might say, lived entirely
out of his relationship of communion with the Father and a contemplative attitude toward the divine that permeated his entire outlook.
When we view his life and ministry in this way, we see that everything his did – both in private and in public – flowed from his relationship to the Father. Our contemplative gaze upon Jesus reveals
communion with the Father and contemplation of the Father as the
primary means through which he lived his life and sought to extend
the relationships of the kingdom to others. As he lived his earthly
life, in other words, he never stopped living in communion with and
15
See Jn 19:25-27.
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contemplating the divine. As a result, he was able to look upon people and events as his heavenly Father saw them and for what they
were destined to become16.
2. Contemplative Attitude. Jesus lived his life and went about his
public ministry not only while in deep, intimate communion with his
heavenly Father, but also while contemplating the people and events
surrounding him. His marked and profound contemplative attitude
toward life flowed from his relationship of Sonship to the Father and
is closely related to his premeditated actions for the world’s redemption. This activity had both internal and external dimensions in the
life of the Son. Before its implementation in the mysteries of the Incarnation and Jesus’ life, death, and resurrection, it was already present in the mind of God as a providential design for the establishment
of a new creation.
A plan for the world’s redemption existed in God’s mind from all
eternity and continued to exist even as Jesus carried out this activity
in time and space. Jesus’ contemplative gaze toward the people and
events surrounding him flowed from his being in contact with this
divine plan and his understanding of it being an expression of the Father’s will. Although it is difficult (indeed, next to impossible) to ascertain the extent to which Jesus was humanly aware of the various
intricacies of this plan, we may reasonably conclude that it manifested itself, in the very least, in a deep sense of trust in the Father’s love
and the promptings of the Spirit that moved him. It was out of this
deep sense of trust, that Jesus was able to contemplate the world
around him and implement God’s redemptive plan for humanity.
Our ongoing contemplation of Jesus’ life and ministry reveals a
man deeply rooted in his relationship to the Father and who allowed
that relationship to shape his outlook toward the world and motiva16
For a consideration of Jesus’ conscious knowledge, see Raymond E.
Brown, Jesus, God and Man (New York/London: Macmillan/Collier Macmillan,
1967), 39-102. For a treatment of Jesus’ understanding of his Divine Sonship,
see O’Collins, Christology, 113-35. See also Walter Kasper, The God of Jesus
Christ, trans. Matthew J. O’Connell (New York: Crossroad, 1984), 158-97.
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tions for acting in it. We see someone who was continually in touch
with the personal ground of his existence and who was able to sustain
an ongoing contemplative gaze upon the world that eventually gave
rise to the liberating actions that filled his entire life and ministry.
We see someone who truly was in the world, but not of it, someone
whose relationship with the Father would not allow him to cave-in to
pressures, prejudices, and ideologies surrounding him. We see someone who sensed the eternal in the present moment and who acted in
order to help others do the same.
Our contemplation of Jesus’ life and ministry also sees someone
whose contemplation moves him to compassionate and loving action
in the world around him. Jesus’ relationship with the Father will not
allow him to contemplate the world from afar without getting involved in it and taking an active role in its affairs. Jesus is the contemplative-in-action par excellence. His ministry is not a mere consequence of his contemplative activity, but an actual extension of it.
It flows from his relationship to his heavenly Father and his loving
gaze upon the world into which he has freely chosen to live, preach,
teach, and heal17.
3. Sense of Mission. Jesus’ relationship with the Father and his contemplative outlook toward the world gave him a deep sense of purpose and mission. In the next phase of our contemplation of Jesus’
life and ministry, we notice that Jesus’ actions are connected by an
underlying sense of resolve. His thoughts, words, and actions are interrelated and connected by an underlying unity. He speaks in order
to move our hearts. He touches in order to make us whole. He reaches out to us in order to bring us closer to the Father. As the Word of
God made flesh, Jesus’ actions are the actions of the Father. His
thoughts, words, and actions are God’s revelation, the announcement
of a new beginning, a new creation, a new humanity. His mission is
to bring the Good News of the in-breaking of God’s reign of love.
17
For a consideration of Jesus earthly ministry, see Kasper, Jesus the Christ,
63-123; Idem, The God of Jesus Christ, 166-72.
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Jesus’ life and mission embody this reign. Everything he says and
does reflects the Father’s love for a world gone awry. His life and mission flow from his relationship to the Father and his contemplative
outlook on life. He comes to call us into communion with him so
that he might lead us back to the Father and enjoy with him the fullness of life. As Jesus acts in the world, he sanctifies it. The air he
breathes is cleansed. The ground he treads becomes hallowed. The
people he encounters are never the same. Because God has walked
upon it, the world has become a different place. The entire world has
become the Holy Land – and we God’s Holy People.
Jesus remains centered in the midst of much activity. There is a
calmness about him that never goes away, a still point from which all
else radiates. He sustains this inner calm even when he is in the
throes of intense missionary activity. His actions are not separated
from his contemplative gaze but flow from it, just as a ray of light
flows from its source. Jesus’ actions ultimately flow from the will of
the Father. The words, “Your kingdom come, your will be done”
come from his heart, not merely his lips, and reflect his deep experience of communion with the Father18. Jesus’ life was his mission –
and vice versa. His seeks out the Father’s will at all times and in all
circumstances. He carries it out without ever thinking of himself,
seeking only to serve, rather than be served.
Our contemplation of Jesus’ life and ministry reveals someone
whose words and actions are authentic and correspond fully to his
stated purpose. If holiness is to will the one thing necessary, to be entirely focused on carrying out the Father’s will, then Jesus was not
only holy, but Holiness itself. His life and ministry were a life and
ministry of sanctifying, of “making holy.” He did so not merely
through his preaching, teaching, and miracles, but by living a life that
was entirely grounded in the Father’s love. Jesus experienced the
depths of the Father’s love for him at the very core of his existence.
18
Mk 1:17. All quotations from the New Testament come from NestleAland, Greek-English New Testament, 3d ed. (Stuttgart: Deutsche Bibelgesellschaft, 1986).
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His life and ministry flow out of that experience and seek to share it
with others19.
4. Total Offering of Self. Jesus’ life and actions speak for themselves.
In his hidden life at Nazareth, he lived the ordinary life of a Jew living in first-century Palestine. He knew the warmth and security of a
family’s love, which protected him as an infant and as a boy from the
harsh realities of living in an occupied land and kept him safe from
those who would harm him and might even wish to take his life. He
grew up with an extended family of kinsmen and local villagers, who
gave him a sense of belonging to a greater whole, to a people blessed
by God and chosen to enter into Covenant with him. As an adolescent, he understood the value of both work and play. He helped with
the chores and learned his father’s trade. He kept the Sabbath and
learned the words of prophets and the tales of his ancestors preserved
in the Torah.
Jesus’ hidden life was valuable in itself, for it put him in touch
with the experience of human growth and development. It was also
a time of preparation for his public ministry, during which time he
preached a radical new message to the people of Israel. The kingdom of God was at hand. God had visited his people and had come
to establish with them a New Covenant, one forged not in the blood
of animal sacrifice, but in Jesus’ total offering of self. Jesus’ death on
Calvary must be understood in the context of his life and ministry.
It was not an idiosyncratic event disconnected from all that came before, but the culmination of everything he lived and stood for. Jesus’
experience of communion with the Father impressed upon him a
deep contemplative outlook toward life that propelled him into a life
of selfless giving. This total offering of self is a part of Jesus’ selfidentity. It flows from his relationship to the Father and manifests itself in his becoming man, in his life and ministry, and in his sacrificial death.
19
For a consideration of Jesus’ sanctifying and redemptive role in human history, see Hans Urs von Balthasar, A Theology of History, 49-75.
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Our contemplation of Jesus’ life and ministry reveals him as a man
entirely dedicated to others. His life of selfless giving manifests itself
in his deep desire to carry out his Father’s will so that the experience
of communion known to him might be extended to others. His contemplative outlook on life leads him to a life of preaching, teaching,
and healing. It also leads him to provide concrete signs of God’s mysterious action and loving presence in the world. Most notably, these
include immersion in the waters of baptism, a mark of one’s entrance
into the New Covenant20, and his offering of bread and wine at his
Last Supper with his disciples21, a foreshadowing of his sacrificial
death, a symbol of his abiding presence, and a foretaste of the heavenly banquet. By emptying himself into these and other sacramental
actions, Jesus acts where and whenever they are performed, thereby
extending his life and ministry through time and space. Through
them, he raises his life and ministry to a new level, for he now lives,
moves, and breathes through the members of his mystical body. In
doing so, he has brought his contemplative gaze full circle. His communion with the Father, his contemplation of the world, his sense of
messianic mission, his total offering of self, his sacramental actions
converge in our lives as we carry out his mandate to follow and serve.
The lives we now live are not our own, for Christ lives within us22.
Guidelines for Christian Living
Jesus life and ministry always point to the one who sent him. “The
teaching and miracles of Christ,” as Thomas Merton puts it, “were
not meant simply to draw the attention of men to a doctrine and a set
of practices. They were meant to focus our attention upon God himself revealed in the person of Jesus Christ”23. When contemplating
20
See Mk 1:9-11; Mt 3:13-17; Lk 3:31-22.
See Mk 14:22-25; Mt 26:26-29; Lk 22:15-20.
22 See Gal 2:20.
23 THOMAS MERTON, No Man an Island (Garden City, NY: Doubleday,
1976), 143.
21
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Jesus life and ministry we begin to understand that his thoughts and
actions flow from his intimate relationship with the Father and that
it was for this reason that they bore fruit and did not return in vain.
It should come as no surprise to us, therefore, that contemplating Jesus life and ministry also has clear implications for Christian
living. Without exhausting the possibilities, the following guidelines draw out some of the implications of Jesus’ life and ministry
for our own.
1. As Christians, we acknowledge and celebrate the personal ground of
our existence. Jesus’ relationship with the Father reminds us that a
personal presence lies behind all of reality and is present to us at each
moment of our lives. This presence brings the universe into being
and sustains it from one moment to the next. Although we are but a
small part of this creation, we are deeply cherished by this personal
presence, even beloved. Nothing else in all of creation bears its image and likeness24. Through his life and mission, Jesus puts us in
touch with this personal ground of our existence and teaches us to relate to it as a child relates to a loving father. Jesus acknowledges and
celebrates the Father’s love by seeking to carry out his will. He asks
us to follow his example and do the same.
2. As Christians, we live in communion with the Father and seek to share
this relationship with others. Jesus’ life and mission flow from his relationship with the Father. From this experience of intimate love and
communion flows his deep sense of purpose. Jesus derives his identity from his relationship with the Father and enters our world to share
that identity with us. His life and mission cannot be understood apart
from this relationship and his deep desire to share this relationship
with us. Because of Jesus’ life and mission, the Father adopts us as his
own sons and daughters and embraces us in his paternal embrace. As
a result, we not only relate to God in a new and different way, but also take on duties and responsibilities we never had before. Jesus’ mis-
24
See Gn 1:26-27.
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sion and purpose now become our own. With him, we live in communion with the Father and invite others to join in.
3. As Christians, we seek to view everything that happens to us in life in
the light our relationship to the Father. Jesus’ relationship to the Father
shaped his entire outlook on life. It gave him a deep desire to do the
Father’s will at all times and in all circumstances. He viewed everything that happened to him in light of this relationship and made his
decisions accordingly. Because we are members of Jesus’ body and
share in his relationship to the Father, we too look upon everything
that happens to us in light of this precious bond. We act out of our
relationship with the Father and seek to do only what we discern to
be in accordance with his will. Like Jesus, we seek not our own interests, but the interests of the Father. We actively pursue those interests for the building up of God’s kingdom.
4. As Christians, we contemplate the people and events around us. Our
relationship with the Father and the experience of communion flowing from it fosters in us a contemplative outlook on life. We extend a
contemplative gaze upon those we meet and the circumstances in
which we find ourselves. This gaze helps us to keep things in perspective and to remember what is most important. It helps us to step
back from life and to value it at a deeper level. It helps us to ponder
our actions beforehand so that we do not act impulsively or with little forethought. Our contemplative outlook on life flows from our experience of communion with the Father, which comes to us through
the Son and in the Spirit. Our actions flow from our contemplation,
and our contemplation is rooted in our experience of God.
5. As Christians, we listen to others and ponder what they say. Jesus was
intent on doing the Father’s will. For this reason, he needed to listen
to the silence within him and around him so that he could hear the
Father’s voice and properly discern what it was saying. Jesus’ capacity to listen intently to the voice of his Father also affected his relations with others. Because he listened deeply to what others were
saying, he was authentically present to them and able to discern their
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real needs, those behind the words and often left unspoken. As members of his body, we seek to be present to those we serve in such a way
that we truly listen to them and respond to their genuine needs. Listening in prayer helps us to listen in ministry. Both are necessary in
discerning and carrying out the Father’s will.
6. As Christians, we offer ourselves in service to others. Jesus’ total offering of self flows from his relationship to the Father and his contemplative gaze on the world. It is an expression of the Father’s will
and explains every dimension of his life and mission. Jesus was a man
for others; he came to serve, not to be served. He humbled himself
by becoming one of us and living among us. He did so that he might
draw us to himself and reestablish our relationship to the Father. Our
relationship to the Father moves us to do the same. Our contemplative gaze upon the world moves us to compassion and inspires us to
empty ourselves in a life of service for others. We put the interests of
others before ourselves and take concrete action to alleviate the
world from suffering and lead others to the Father’s love.
7. As Christians, we view our lives in terms of mission. Jesus’ life was
closely identified with his mission. He preaching, teaching, cures,
and acts of forgiveness were personal expressions that flowed from
his intimate relationship with his Father. He identified with and considered himself One with his Father. Everything he did flowed from
this experience of personal communion and expressed itself in his
mission. As members of Christ’s body, we too are asked to view our
lives in terms of mission. Although not all of us are called to spread
the Good News as missionaries in foreign lands, we are all called to
mission, wherever we find ourselves. Jesus extends his mission
through space and time through the members of his body. We are his
eyes and ears, his lips and tongue, his arms and legs, hands and feet
that carry his message of love for all to hear.
8. As Christians, we forge bonds of communion and solidarity with others. Jesus mission and purpose in life was to give humanity the opportunity to enter into communion with his Father. He did this by
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his total offering of self that expressed itself in a life of service to others. We too are called to build bonds of communion and solidarity
with those we serve. Like Jesus, we do so my entering their worlds,
giving ourselves to them, to the point that we become nourishment
for them, and a source of hope. Whenever we establish such bonds
with others, the kingdom of God enters our midst in a concrete, palpable way. We succeed in transforming a part of the world into a
haven of divine love. The more we extend Christ’s kingdom of love
to others, the more prepared we will be for his long awaited return.
9. As Christians, we mission in and through community. Very early in
his public ministry Jesus gathered around him twelve apostles and a
much larger group known as his disciples25. They followed him and
learned from him as he made his way through the countryside and the
various towns and villages of Galilee and Judea. At one point, he sent
them out two by two to cure the sick, cast out demons, and spread his
message of the coming of the kingdom26. This communal dimension
of the disciples’ mission was meant to give them human support and
to lend a watchful eye so that no one strayed from the master’s teaching. Jesus’ disciples today also need to be aware of the important communal dimension of their ministry. “Going it alone” runs counter to
Jesus’ message and may well prove dangerous and even counter-productive. If we truly wish to follow Jesus and partake in his mission, it
is important for us do so in community and as community.
10. As Christians, we live simply and without clutter. Jesus had few
possessions and claimed to have no place to lay his head27. He was not
tied down by possessions and was thus able to travel about lightly and
in complete freedom. His simple lifestyle enabled him to focus completely on his mission. He was detached from property and possessions so that he could dedicate himself completely to proclaim the
25
See Mk 3:13-19; Mt 10: 1-4; Lk 6:12-16.
See Lk 10:1-16.
27 See Mt 8:20; Lk 9:58.
26
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coming of God’s reign. He became poor not for the sake of being
poor, but so that his message would resonate with our common humanity. His disciples are also called to live simply and without clutter.
Doing so will help us to put things in perspective and to see their true
value. It will enable us to cling more tightly to what truly matters and
to minister to others without looking for reward or recompense.
11. As Christians, we find time for prayer. Even Jesus, who was in
constant union with Father, found it necessary to set himself apart
and pray. Doing so gave him the opportunity to rest and regain his
strength after his extended missionary efforts. He retreated into the
desert for forty days and nights before he began his public ministry28.
At various other times during his ministry, he went up a mountain or
found a deserted place to be alone with the Father and commune
with him in solitude29. These moments of quiet retreat were an intimate part of Jesus’ life and mission. They enabled him to explore the
depths of his relationship with the Father and reinvigorated him for
what lay ahead. We too need to find moments in our lives to get away
and be nourished by God through prayer and reflection. Such moments can help us to grow in our relationship with God and deepen
our dedication to our mission.
12. As Christians, we read the Scriptures as a way of discerning the Father’s will for us. Jesus spoke not like the scribes and Pharisees, but
with authority30. He used simple language, parables, and examples
from everyday life to touch the hearts of his hearers. He chose his
words wisely and used them to draw others close. He knew when to
challenge and when to console. He knew when to begin and when to
end. He knew what to say and how to say it for the sake of the kingdom. Whenever we read the Scriptures, Jesus speaks to us with the
same authority and sense of immediacy. Through our slow, medita-
28
See Mk 1:12-13; Mt 4:1-11; Lk 1-13.
See Mk 6:46; Mt 14:23; Lk 6:12, 9:28.
30 See Mk 1:27; Lk 4:32, 36.
29
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tive reading of the Word of God, we sense the Lord’s Spirit moving
our hearts in the midst of the silence and revealing to us the Father’s
will. We read the Scriptures to listen to God’s Word to us and to discern its meaning and relevance for our lives.
13. As Christians, we value purity of heart and seek to foster it in others.
In his Sermon on the Mount, Jesus blessed those who were pure of
heart and said that they would see God31. The pure of heart are the
single-hearted, those who see their goal and focus all their energies on
it until they reach it. Jesus himself possessed this important quality of
heart. His steadfast and single-hearted devotion to his mission set him
apart from the religious leaders of his day. He was totally focused on
doing his Father’s will and would not rest until he finished what he set
out to accomplish. Like him, we too are called to be single-hearted in
our lives and dealings with others. We will accomplish the mission
that God has set out for us only if we keep our hands to the plow and
refuse to look back32. We will see God in the kingdom to come only
if we intently keep our eyes on him in the here and now.
14. As Christians, we find words that will touch people’s hearts and
draw them closer to Christ. Once we discover the Lord’s will for us, we
too must seek to find the words that will move people’s hearts and
lead them along the way of conversion. To discover these words we
need to ponder, reflect, think and, most of all, pray. The words we
speak must be authentic. They must come from the heart. They must
reflect our experience of communion with Christ and our deep desire to know and carry out the Father’s will. These words must be
simple, clear, and direct. They must speak the ordinary language of
the men and women of our time. Their purpose is to offer the people we serve a glimpse of the Father’s love for them. They are meant
to entice people, to draw them on, to encourage them to get in touch
with and actively seek the deepest yearnings of their hearts.
31
32
See Mt 5:8.
See Lk 9:62.
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15. As Christians, we receive the sacraments and view them as unique
opportunities to encounter Christ and be touched by his grace. When he
walked the earth, Jesus lived a historical life. Seated at the right hand
of the Father, he now lives a mystical life through the members of his
body33. The sacraments are the visible mysteries of faith that he has
given us we might remain in close contact with him. They are actions
of Christ that render worship to the Father through him and in the
Spirit. The sacraments mediate Christ’s love to us and remind us that
Jesus has promised to be with us until the end of time. They are historical signs of our transcendent destiny to be with Christ in the
presence of the Father. We are divinized by them and empowered to
carry on Christ’s mission and purpose.
Contemplating Jesus’ life and ministry has great relevance for our
own lives. The above guidelines highlight just some of the attitudes
and values reflected of his hidden and public lives that should also be
reflected in ours. These authentic qualities of mind and heart are not
of our own making, but come to us as gifts. We acquire them not by
external imitation, but as a result of entering into communion with Jesus so that we might share in his intimate relationship with the Father.
To live in communion with Jesus is to share in his life and ministry –
and to call them our own. We do so with him living within us and using us, as members of his body, to proclaim the coming of his kingdom.
Conclusion
Jesus’ life and ministry are a continuation of an eternal process of
self-offering that manifests itself historically in the mystery of the Incarnation and culminates in the mystery of his passion, death, and
resurrection. They tie together Jesus’ entrance into the world and
departure from it to form a single redemptive narrative that touches
33
For more on Christ’s mystical life in his members, see Jean-Pierre de
Caussade, Abandonment to Divine Providence, trans. John Beevers (Garden City,
NY: Image Books, 1975), 44-46.
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the human heart and offers it healing and fullness of life. Those who
contemplate this narrative and enter into its dramatic warp and woof
do not emerge from it unchanged. They find their own lives reflected in it and receive from it a deep sense of purpose and dedication to
mission.
When we contemplate Jesus’ life and ministry, we discover a person entirely focused on doing the will of his heavenly Father. This
sense of single-hearted purpose unites his hidden life in Nazareth
with his public ministry in Galilee and Judea. It shows us someone
who listened intently to God’s Word as revealed in the Scriptures and
who saw it fully reflected in his heart. Throughout his life, Jesus drew
his strength and identity from the Father and was interested only in
the coming of God’s rule of love. He lived and ministered to this end
– and eventually gave his life for it.
Jesus’ life and ministry also offer us helpful guidelines for Christian living. As we ponder them, we find the way that we too should
walk. “Follow me,” Jesus said to his first disciples34. These words resonate in our hearts and extend to us the call of discipleship. The story of Jesus’ life and ministry fascinates us. As we reflect upon his
words and actions, we sense a call to view our lives and relationships
in a different way. We identify with Jesus’ communion with the Father and his contemplative outlook on the life. We are moved by his
sense of purpose and whole-hearted dedication to his mission. We
desire to follow him, to go and do likewise. What we have received
from him, we now seek to understand and offer to others.
34
Mk 1:17.
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SUMMARIES
When contemplating Jesus’ life and ministry, it is important to remember that
both dimensions of his life, the hidden and the public, were intimately connected. It is also important to remember that each of these dimensions of Jesus’ life and ministry flowed out of and, in many respects, remained hidden in
his relationship with his heavenly Father. For this reason, his thoughts and actions bore fruit and have clear implications for Christian living.
***
Cuando se contempla la vida de Jesús de Nazareth y su ministerio, es importante recordar que ambas dimensiones, la privada y la pública, están estrechamente relacionadas. Es igualmente importante tener presente que de
cada una de ellas fluyen muchos otros aspectos que permanecen ocultos en
su relación con el Padre celeste. Por esta razón, su pensamiento y su acción
dan fruto y tienen claras implicaciones en la vida del cristiano.
***
Nel contemplare la vita e di conseguenza il ministero di Gesù, è importante ricordare che le due dimensioni della sua vita, quella nascosta e quella pubblica, sono strettamente legate tra loro. Queste due dimensioni del Figlio sorgono e sono innestate nella relazione fondante con il Padre Celeste. Questa duplice dimensione ci aiuta a comprendere la radice della fecondità del pensiero e dell’agire del Cristo come implicazioni chiare fino ad oggi per la vita cristiana.
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SEQUELA ET RADICALISME
Réal Tremblay, C.Ss.R.*
La dîme, la Loi ne la réclamera
pas à celui qui a consacré à Dieu tout son avoir,
qui a quitté son père, sa mère et toute sa parenté
et qui a suivi le Verbe de Dieu.
S. IRÉNÉE
Le binôme “sequela-radicalisme” est un binôme plus délicat à manier qu’il ne semble à première vue. La raison en est qu’il implique
des données de diverses natures qu’il faut définir avec rigueur et unir
de manière à constituer un tout cohérent, reflet des sources scripturaires dont il relève. Voici donc quelques-unes de ces données présentées ici sous forme de questionnement. À quoi se réfère le radicalisme moral qui accompagne la sequela? Comment le Christ peut-il
tout exiger des personnes qu’il appelle à le suivre? Comment se faitil que ce “tout” prenne des formes si diverses dans les textes qui en
parlent? Se définit-il en soi ou doit-il être mesuré à la mission par
exemple? À qui s’adresse l’appel à la sequela? À tous ou à quelques privilégiés?
En supposant connu le contenu de la sequela dont je rappellerai ici,
par besoin de clarté, les traits essentiels (1), je tenterai de répondre à
ces questions qui, comme on l’a sans doute remarqué, se rattachent
toutes au second membre du binôme à l’étude (2).
* The author is an ordinary professor at the Alphonsian Academy.
* El autor es profesor ordinario en la Academia Alfonsiana.
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RÉAL TREMBLAY
1. Quelques traits essentiels de la sequela
Ailleurs1, j’ai étudié le concept de sequela en partant des sources
bibliques (surtout synoptiques)2 qui le concernent et en m’appuyant
sur l’exégèse scientifique qui les explicite. Je n’ai pas l’intention de reprendre ici cette étude dans le détail, d’abord pour éviter des répétitions inutiles et ensuite pour respecter les limites assignées à ces pages. À la fin de cette étude, je m’exprimais donc ainsi:
(On peut affirmer) que l’appel de Jésus à la sequela signifie à l’origine
l’appel à une communion de vie personnelle et à la vocation de disciples. Au temps de l’Église primitive, la sequela devient expression du
lien propre de la foi, de la participation à la voie suivie par Jésus en sa
mort et en sa résurrection et de l’«imitation» morale.
En prenant cette définition comme point de repère pour la suite
de ces pages, je voudrais, comme déjà indiqué, réfléchir sur les divers
éléments qui composent le second membre du binôme en cause.
2. Les diverses composantes du radicalisme lié à la sequela
2.1. Le radicalisme proprement dit
Une première question à clarifier est le sens à donner au radicalisme rattaché à la sequela. En passant en revue les épisodes évangéliques3 plus notoires où Jésus requiert tout4 de ceux qu’il appelle à le
1
R. TREMBLAY, La dimension théologale de la morale, dans StMor 34 (1996),
276-278. Le texte cité plus bas se trouve à la p. 278.
2 Pour saint Jean, voir R. TREMBLAY, Vous, lumière du monde... La vie morale
des chrétiens: Dieu parmi les hommes, Fides, Montréal 2003, 65-78 (avec bibliographie).
3 À une exception près, je ne m’intéresse ici qu’à la tradition synoptique.
4 Jésus ne requiert pas toujours tout explicitement, mais les évangélistes savent que telle a été par la suite la vie des appelés.
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suivre, on peut observer que ce “tout” vise différents objets. Aux disciples qui, d’après Mc 1, 16-205, deviendront plus tard ses apôtres
(des “pêcheurs d’hommes”), son appel, “ordre inconditionnel, sans
préambule ni explication” (Légasse), implique l’abandon de leur métier d’abord, de leur père ensuite. Lisons le texte en question:
Comme (Jésus) passait sur le bord de la mer de Galilée, il vit Simon
et André, le frère de Simon, qui jetaient l’épervier dans la mer; car
c’étaient des pêcheurs. Et Jésus leur dit: «Venez à ma suite et je vous
ferai devenir pécheurs d’hommes». Et aussitôt, laissant les filets, ils le
suivirent.
Et avançant un peu, il vit Jacques, fils de Zébédée, et Jean son frère,
eux aussi dans leur barque en train d’arranger les filets; et aussitôt il
les appela. Et laissant leur père Zébédée dans la barque avec ses employés, ils partirent à sa suite (Mc 1, 16-20p).
Il en va de même de l’épisode de l’appel de Lévi, fils d’Alphée
(Matthieu, le futur Apôtre):
En passant, (Jésus) vit Lévi, le fils d’Alphée, assis au bureau de la
douane et il lui dit: «Suis-moi». Et, se levant, il le suivit (Mc 2, 14p)6.
Ailleurs dans le même évangile, le “tout” se fait encore plus exigeant. Il s’agit de se renier soi-même, de perdre sa vie, de se charger
de sa croix (cf. Mc 8, 34-35p). Au sujet de cet ensemble, Légasse apporte les précisions suivantes:
Celui qui veut devenir disciple de Jésus doit apprendre que sa décision met en danger ses «intérêts vitaux». [...] Le verbe «se renier» [...]
implique qu’on fasse abstraction de sa propre personne. Une attitude
dont on va savoir jusqu’où elle entraîne le sujet. Jésus dit ensuite:
5
Pour l’exégèse, nous suivons surtout S. LÉGASSE, L’évangile de Marc I et II
(LDCom., 5), Cerf, Paris 1997.
6 Pour cette citation et pour les autres qui vont suivre, j’utilise la traduction
de la Bible de Jérusalem, Cerf, Paris 2000.
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RÉAL TREMBLAY
«prendre sa croix». [...] Le texte lui-même semble bien étendre l’image hors de la perspective tragique du martyre (même si elle n’est
pas exclue naturellement) et, par là en atténuer la cruauté. Car il s’agit de prendre «sa croix» personnelle, non la croix en général. Ainsi
la disposition à mourir pour le Christ n’épuise pas la requête et d’autres épreuves s’offrent à l’acceptation anticipée du candidat. Luc (9,
23) écrira du disciple qu’il doit porter «sa croix chaque jour», développant ce qui est discrètement inclus dans la formule de Marc7.
Un autre épisode évangélique important à considérer pour notre
problématique est celui de l’homme riche. Nous le lisons encore dans
la version marcienne:
(Jésus) se mettait en route quand un homme accourut et, s’agenouillant devant lui, il l’interrogeait: «Bon maître, que dois-je faire
pour avoir en héritage la vie éternelle?» Jésus lui dit: «Pourquoi
m’appelles-tu bon? Nul n’est bon que Dieu seul. Tu connais les
commandements: Ne tue pas, ne commets pas d’adultère, ne vole
pas, ne porte pas de faux témoignage, ne fais pas de tort, honore ton
père et ta mère». – «Maître, lui dit-il, tout cela, je l’ai observé dès ma
jeunesse». Alors Jésus fixa sur lui son regard et l’aima. Et il lui dit:
«Une seule chose te manque: va, vends ce que tu as, donne-le aux
pauvres, et tu auras un trésor dans le ciel; puis, viens, suis-moi». Mais
lui, à ces mots s’assombrit et il s’en alla contristé, car il avait de grands
biens (Mc 10, 17-22).
“Tout” signifie pour cet homme richissime (il n’est pas dit, comme en Matthieu, qu’il est jeune) de se départir de la totalité de ses
biens matériels en faveur de ceux qui sont dans le besoin. C’est à
l’exemple de Jésus, pourrait-on ajouter, se priver de tout son avoir
7
S. LÉGASSE, L’évangile de Marc, II, 510-511. (C’est l’A. qui souligne). Pour
une interprétation légèrement différente, voir S. ZAMBONI, Chiamati a seguire
l’Agnello. Il martirio compimento della vita morale (ETO., 43), EDB, Bologna
2007, 66-67.
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pour enrichir ceux qui n’ont rien (cf. 2Co 8, 9). Encore ici Légasse
précise en s’inspirant cette fois d’une étude de Fusco8:
L’ordre («viens, suis-moi») qui ne suppose aucun délai... requiert la
vente de tous les biens immeubles. [...] Suit l’ordre de distribuer l’argent de la vente «aux pauvres», sans autre précision, autant qu’il y aura d’argent pour soulager la masse indéfinie des nécessiteux. [...] Mais
ce n’est là qu’un but en l’occurrence marginal. L’essentiel est de se
défaire de tout, de “couper les ponts”, sans possibilité de récupérer un
jour les biens abandonnés9.
D’après ces quelques passages de la tradition marcienne, le radicalisme évangélique évoque donc soit l’abandon des liens familiaux et de
son gagne-pain, soit le port de la croix quotidienne jusqu’au sacrifice
de sa propre vie si nécessaire, soit enfin le renoncement aux richesses
matérielles en faveur des pauvres. Autant dire que Jésus lie l’appel à le
suivre à une préférence totale pour lui. Cette donnée est confirmée, voire
même amplifiée, par les traditions matthéenne et lucanienne:
«Qui aime son père ou sa mère plus que moi n’est pas digne de moi.
Qui aime son fils ou sa fille plus que moi n’est pas digne de moi. Qui
ne prend pas sa croix et ne suit pas à derrière n’est pas digne de moi»
(Mt 10, 37-38).
Gnilka comprend en effet le portement de la croix lié à l’appel à
la sequela de Jésus dans le sens d’une disponibilité au don de sa propre vie dans le martyre. Le caractère métaphorique de l’expression
n’exclut cependant pas, ajoute-t-il, une application à d’autres types
d’hostilité, d’empêchement et de sacrifice assumés par les disciples
appelés à la sequela10.
18
V. FUSCO, Povertà e sequela. La pericope sinottica della chiamata del ricco (Mc
10, 17-31 parr.) (StBib, 94), Queriniana, Brescia 1991, 56-57.
19 S. LÉGASSE, L’évangile de Marc, II, 614-615.
10 Cf. J. GNILKA, Das Matthäusevangelium (HThKNT., I/1), Herder, Freiburg-Basel-Wien 19882, 397.
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Dans le contexte des exigences de la vocation apostolique, Luc a
ce passage particulièrement percutant en considération de ce que signifiait l’usage d’ensevelir ses proches dans l’ambiance culturelle de
l’époque:
(Jésus) dit à un autre: «Suis-moi.» Celui-ci dit: «Permets-moi de
m’en aller d’abord enterrer mon père». Mais il lui dit: «Laisse les
morts enterrer leurs morts; pour toi, va-t’en annoncer le Royaume de
Dieu» (Lc 9, 59-60).
Ernst commente: l’appel à la sequela exige pleine libération de tous
les liens familiaux et sociaux existants jusqu’à présent. Le disciple est
tellement engagé au service du Royaume de Dieu que tous les liens
et les tâches humains perdent leur valeur. Et il conclut: “L’appel à la
sequela est radical et sans condition”11.
2.2. Jésus est le Fils de Dieu
En présence d’une telle emprise de Jésus sur le cœur et la vie des
disciples, on peut s’interroger sur la raison d’être d’un tel comportement. Plus précisément encore, qu’est-ce qui autorise Jésus à tant
exiger des personnes qu’il appelle à sa suite?
Dans les pages de son livre Jésus le Christ consacrées à la “christologie implicite”, Walter Kasper énumère quatre pistes ou voies qui
permettent aux témoins de la vie terrestre de Jésus de pressentir son
identité proprement divine. L’une de celles-ci12 est justement son appel à la sequela. Après avoir insisté sur la différence existant entre la
manière de Jésus de faire des disciples et celle des rabbins juifs de son
temps de recruter leurs élèves, Kasper écrit:
11
J. ERNST, Das Evangelium nach Lukas, Pustet, Regensburg 1976, 321.
(C’est moi qui traduis).
12 En plus des “attitudes” et “comportements” inédits de Jésus (sa fréquentation des pécheurs et le pardon qu’il leur accorde, etc.), de sa “prédication” (il
parle avec autorité supérieure à celle de Moïse, etc.) et de sa prière (il s’adresse
à Dieu comme à son “Abba”).
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Le lien qui unit les disciples de Jésus à leur maître est plus englobant
que chez les rabbins. Jésus appelle ses disciples «pour être auprès de
lui » (Mc 10, 28); ils partagent sa vie errante et sans abri assuré et
donc son destin dangereux. Il s’agit d’une communauté de vie totale,
d’une communauté de destin à la vie et à la mort. La décision de suivre Jésus signifie en même temps la rupture de toutes les autres attaches, il faut «tout quitter» (Mc 10, 28), tout risquer jusqu’à sa tête (cf.
Mc 8, 34). Cet engagement aussi radical et aussi entier à la suite de Jésus
équivaut à une confession de foi en Jésus 13.
Puis il conclut en parlant de la “christologie implicite” en son ensemble:
La christologie implicite du Jésus terrestre contient une prétention
inouïe, qui fait exploser tous les schèmes préétablis. On rencontre en
lui Dieu et son Royaume; on rencontre en lui la grâce de Dieu et le
jugement de Dieu; il est le Royaume de Dieu, la parole de Dieu et l’amour de Dieu en personne14.
À la lumière de ces réflexions de Kasper, on peut retourner les
choses et répondre à la question de départ en ce sens: c’est son identité divine qui permet à Jésus de pousser les exigences de la sequela jusqu’à une telle extrémité. Aucun homme sur cette terre, à moins d’être un mégalomane pernicieux, peut justifier la prétention d’être
pour les autres un point de référence incontournable pour la réussite de leur vie en ce monde et dans l’autre.
2.3. La force du divinum
Si Jésus peut “tout” exiger de ses disciples, il peut aussi tout obtenir d’eux, à moins que leur liberté s’y oppose. Il peut tout obtenir
d’eux parce que, en vertu de sa puissance divine, il peut pénétrer dans
13
W. KASPER, Jésus le Christ (CF., 88), Cerf, Paris 1980, 151 (tr. légèrement
modifiée). (Or. Jesus der Christus, Grünewald Verlag, Mainz 1974, 121-122).
(C’est l’A. qui souligne).
14 W. KASPER, Jésus, 151.
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les cœurs et les accorder pour ainsi dire au dépouillement radical exigé d’eux. Le fait que l’homme puisse refuser le don de l’amour divin
ne met pas en cause la capacité de cet amour d’avoir accès aux cœurs
humains et de les modeler conformément à son appel. Ce fait montre seulement que l’homme a la terrifiante possibilité de dire non à
Dieu qui le convoque.
De cet ensemble de données est témoin la version marcienne de l’épisode de l’homme riche lue au début de ces pages. Constatant que cet
homme était déjà en rapport avec Dieu par l’observance des préceptes
du Décalogue et donc qu’il s’était approché de lui avec le désir d’obtenir la vie éternelle en le reconnaissant comme un “bon maître” en
raison justement de sa sensibilité innée à la bonté divine, Jésus, dit explicitement le texte sacré, “fixa sur lui le regard et l’aima”. À ce regard
d’amour15 fait suite l’invitation à vendre tous ses biens, à distribuer
l’argent aux pauvres et à acquérir ainsi un trésor dans le ciel. Remarquons ici que c’est l’amour de Jésus qui suscite et anime l’appel à tout
donner16. Tandis que dans bien d’autres cas analogues racontés, sous
d’autres paramètres, par les évangiles, l’issue de cette rencontre se solde par une adhésion profonde du cœur, dans le présent cas l’homme se
dérobe. L’amour transformant de Dieu n’a pas eu de prise sur ce cœur
au service de “deux maîtres” (cf. Mt 6, 24; Lc 16, 13; Mc 4, 19).
À la joie divine de se départir des biens matériels en faveur des autres, renoncement qui donne la vie éternelle, fait place la tristesse
“charnelle” de s’agripper aux biens matériels aux dépens des autres,
accaparement qui exclut de la vie éternelle. Le texte biblique le note
explicitement. À l’appel de Jésus et à ses exigences de dépouillement,
l’homme “s’assombrit et il s’en alla contristé, car il avait de grands
biens”. Tristesse tragique s’il en est une, puisque l’aspiration de
l’homme à la vie éternelle se voit par son refus compromise vraisemblablement pour toujours.
15
Légasse parle d’un “élan de tendresse”, d’un “mouvement d’affection”. Cf.
LÉGASSE, L’évangile de Marc, II, 613 et la note 31.
16 Voir sur ce point les remarques pertinentes et complémentaires de F. MACERI, dans R. TREMBLAY-S. ZAMBONI (a cura di), Figli nel Figlio. Una teologia morale fondamentale, EDB, Bologna, 2008, 225-226.
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2.4. Un radicalisme différencié
Comme il est facile de le constater, le tout ou la préférence totale
et exclusive des disciples pour Jésus liée à la sequela prend ici la forme d’un renoncement à la richesse matérielle. Nous avons pu constater plus haut que les exigences de Jésus ne se limitent pas à ce type
de dépouillement. Elles concernent plusieurs secteurs de la vie des
disciples comme les liens familiaux aussi importants que les rapports
de fils à père ou à mère, etc., comme les métiers ou professions qui
assurent la subsistance matérielle, les devoirs les plus fondamentaux
à rendre à ses proches parents comme le devoir de l’ensevelissement,
l’amour de sa propre vie. Pourquoi cette pluralité d’exigences?
En examinant les contextes dans lesquels s’insèrent les textes qui
relatent ces faits, on se rend compte qu’ils sont pour la plupart insérés dans le contexte des activités évangélisatrices de Jésus. Pour collaborer à la mission de Jésus voulue par le Père, les disciples doivent
être libres de toutes attaches matérielles, parentales, personnelles ou
autres, en somme de tout ce qui pourrait les distraire des nécessités
de la mission ou y faire obstacle de quelque manière. Rappelons qu’il
ne s’agit pas ici seulement d’une pure stratégie d’efficacité comme
c’est le cas chez un chef d’entreprise qui exige des renoncements de
la part de ses collaborateurs pour faire fonctionner son établissement
avec le maximum de rendement. Les diverses exigences de Jésus pour
faciliter l’œuvre de l’évangélisation sont d’abord et avant tout l’expression d’un lien d’amour, d’une choix radical pour lui. Cela nous fait mieux
voir que l’évangile à proclamer se réalise d’abord et avant tout dans
la personne de Jésus – en ce sens Origène pouvait dire de Jésus qu’il
était en personne le “Royaume de Dieu”17 – et que, par conséquent,
l’annonce de l’Évangile est l’irradiation de sa personne puisée dans
l’amour radical que les disciples lui portent. Paul est l’exemple accompli de cette observation18, sans parler de l’”autre colonne”, Pierre, qui reçoit du Ressuscité la mission de “paître” ses brebis par sui-
17
18
Cf. ORIGÈNE, In Matth. tract., 14, 7 (GCS 10, 289).
Voir son apologie à la fin de la 2Co 10-12.
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te du renversement de son reniement par l’amour: “Seigneur, tu sais
tout, tu sais que je t’aime”, qui se prolonge ensuite dans l’appel à la
sequela cruciforme (cf. Jn 21, 15-19). Signalons au passage comment
le Caravage a su, beaucoup mieux que Michel-Ange, que Guido Reni et bien d’autres, représenter plastiquement l’enjeu de cet épisode
en ce regard de l’apôtre jeté, avant de mourir, sur l’Église de tous les
temps, Église qu’il paît maintenant, dans le Crucifié ressuscité, par
l’anéantissement de la croix partagée.
2.5. Les appelés à la sequela
Cette observation conduit à nous interroger sur les appelés à la sequela. S’agit-il exclusivement de quelques privilégiés destinés à jouer
un rôle de pointe dans la proclamation du Royaume et en son implantation jusqu’aux extrémités de la terre (cf. Mt 28, 19) ou s’agit-il
de tous sans exception? S’il est incontestable, comme nous l’avons vu,
que l’invitation de Jésus à la sequela cible ordinairement certains individus destinés à jouer des rôles bien précis dans la mise en oeuvre
du plan de Dieu en faveur de l’humanité (les futurs apôtres par exemple), la tradition lucanienne, comme la tradition marcienne du reste
(cf. Mc 2, 13p), ne manque pas de faire retentir l’appel de Jésus à
tous19. Un texte témoin de cette tendance lucanienne est le suivant:
Des foules nombreuses faisaient route avec lui, et se retournant (Jésus) leur dit: «Si quelqu’un vient à moi sans haïr son père, sa mère, sa
femme, ses enfants, ses frères, ses sœurs, et jusqu’à sa propre vie, il ne
peut être mon disciple. Quiconque ne porte pas sa croix et ne vient
pas derrière moi ne peut être mon disciple» (Lc 14, 25-27).
19
Dans la partie biblique de l’article “Nachfolge Christi”, TH. SCHMELLER distingue en ce “tous” les Douze, un cercle plus élargi de personnes qui tournent
autour d’eux (“ein weiterer Kreise”) et enfin les adeptes habituels (“die seßhaften Anhänger”) qui, selon lui, sont plus qu’un simple groupe de sympathisants.
Les exigences radicales de Jésus ne s’adresseraient qu’aux deux premiers groupes. Cf. Lexikon für Theologie und Kirche, Bd. 7, Herder, Freiburg-Basel-RomWien 19982, 609.
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Remarquons en l’occurrence que le “tout” dont nous avons parlé
plus haut apparaît chez Luc sous une forme particulièrement radicale. Dans le contexte familial, l’évangéliste parle non seulement des
liens de fils à parents (père et mère), mais d’époux à épouse, de parents à enfants, de frères à sœurs. La ligne est la même que les autres
Synoptiques, mais plus accentuée encore20. Mais laissons là cet aspect
des choses pour l’essentiel déjà connu et approfondi et retournons à
notre question de départ.
À prendre saint Luc vraiment un sérieux, on n’est pas autorisé à
concevoir deux types de christianisme comme ce fut souvent le cas
dans le passé encore récent et contre lequel a réagi fortement le
Concile Vatican II, surtout dans la Constitution dogmatique Lumen
Gentium21. Un christianisme donc pour l’élite (indépendamment ici
des formes concrètes dans lesquelles se coulait ce christianisme des
“parfaits”) et un autre pour le commun des fidèles (avec la conséquence de voir justifier la médiocrité qui se trouvait en contradiction
flagrante avec l’évangile où Dieu est à l’œuvre et où il ne peut pas,
comme disait si profondément saint Léon le Grand, être moins que
lui-même22). Tous les croyants sont appelés au radicalisme de la sequela selon des formes différentes accordées à leurs missions dans l’Église.
Précisons encore en nous servant de la comparaison paulinienne
de l’Église aux membres du corps humain (cf. 1Co 12, 12s). Il est clair
que plus un membre de l’Église est important pour la vitalité de tout
le Corps, plus s’intensifient pour lui les exigences de la sequela. En
disant cela, je ne renie pas l’exigence évangélique du radicalisme de
la sequela pour tous, mais je la spécifie, ce qui est évidemment bien
différent.
20
Ernst note: “Nirgendwo sonst, ist mit gleichem Ernst von den Bedingungen der Nachfolge gesprochen worden wie in diese Stelle” Das Evangelium, 447.
21 Cf. G. PHILIPS, La Chiesa e il suo mistero. Storia. Testo e commento della Lumen Gentium, Jaca Book, Milano 19863, 389s. Cf. aussi M. DOLDI, dans R.
TREMBLAY-S. ZAMBONI (a cura di), Figli nel Figlio, 89-91.
22 “... Cum gradus in vera Divinitate esse non possit”, LÉON LE GRAND, Huitième Sermon pour Noël, 4 (SCh., 22bis, 168).
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Du reste, l’histoire de l’hagiographie chrétienne va exactement
dans ce sens. On a vu en effet des mères et pères de famille, des laïcs
de condition souvent très effacée et exerçant des professions diverses,
d’humbles religieux, voire même des petits enfants, pratiquer, à côté
des papes, des évêques ou d’autres personnages prestigieux, le renoncement radical de la sequela, – sans préjudice évidemment, nous y reviendrons à l’instant, des modalités concrètes que peut et doit prendre ce radicalisme mesuré à la mission confiée à chacun. Ces constatations me conduisent à penser que l’instauration de deux classes de
chrétiens déjà signalée vient du fait que l’on n’a pas su reconnaître
dans la vie et la tâche de chacun l’espace spécifique où peut émerger le
“tout” exigé par Jésus. Voici un exemple à cet égard. Une mère de famille ne peut pas “haïr” son enfant à cause du Christ, mais elle peut le
faire en n’adhérant pas aux caprices de son enfant et en l’initiant au renoncement à lui-même, au partage, à la sobriété de vie. Tous ces comportements et d’autres analogues se reflètent sur le visage du Christ et
préparent l’enfant à chercher sa présence avec une issue éventuellement plus positive que celle de l’homme riche de l’évangile de Marc.
Quel renoncement peut représenter un tel type d’éducation pour une
mère aux prises avec un environnement qui pense tout différemment!
D’autres exemples de ce genre pourraient être mentionnés.
En voici un autre. En un hôpital bondé de malades, un médecin
peut difficilement “haïr” sa profession par préférence pour le Christ,
mais il peut “haïr” sa réputation en acceptant de subir mépris, menaces, voire même insécurité pour son avenir, par le refus de faire des
avortements au nom de ses convictions chrétiennes en faveur de la vie.
Ces quelques exemples auxquels on pourrait en ajouter bien d’autres montrent que tout croyant porte en son coeur un espace propre où
peut émerger et s’épanouir le “tout” de la sequela. Si ce n’était pas le
cas, l’évangile deviendrait incohérent.
3. Conclusion
Sous l’influence de l’hellénisme ambiant, nous savons que l’idée
de l’“imitation” (Nachahmung) a fait son chemin dans les écrits néo-
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testamentaires les plus tardifs23 jusqu’aux Pères apostoliques comme
Ignace d’Antioche par exemple. Néanmoins il ne s’est jamais agi en
l’occurrence d’une pure imitation extérieure, d’une simple copie d’un
modèle. Restait toujours présent, dans la ligne de la sequela évangélique, un lien intime avec le Seigneur24.
Jean-Paul II fait écho à cette donnée quand, à la lumière du récit
du “jeune homme riche” de la version matthéenne, il présente la sequela comme partie intégrante de la vocation chrétienne en insistant
sur le rapport intérieur du croyant avec le Christ nourri aux sources
sacramentelles. En terminant, lisons ce texte pontifical qui reprend et
complète quelques données essentielles de ces pages et surtout qui
renoue avec le premier membre du binôme à l’étude:
Suivre le Christ ne peut pas être une imitation extérieure, parce que cela concerne l’homme dans son intériorité profonde. Être disciple de
Jésus veut dire être rendu conforme à celui qui s’est fait serviteur jusqu’au don de lui-même sur la Croix (cf. Ph 2, 5-8). [...] Sous l’impulsion de l’Esprit, le baptême configure radicalement le fidèle au Christ,
dans le mystère pascal de la mort et de la résurrection; il le «revêt» du
Christ (cf. Ga 2, 27). [...] Et la participation à l’Eucharistie [...] est le
plus haut degré de l’assimilation au Christ, source de «vie éternelle»
(cf. Jn 6, 51-58), principe et force du don total de soi25.
23
Dans le corpus paulinien par exemple. E. COTHENET attribue ce fait aux
“rapports des disciples de Jésus (qui) ne pouvaient être du même type que ceux
des croyants, comme Paul, qui n’avaient pas connu le Jésus de l’histoire et vivaient dans la foi au Kyrios glorifié” art. “Imitation du Christ”, dans le Dictionnaire de Spiritualité, t. 7/2, Beauchesne, Paris 1971, 1539.
24 C’est à juste titre que J. Weismayer écrit ce qui suit: “Nachfolge wurde in
der patristischen und mittelalterischen Spiritualität meist als Nachahmung begriffen (...) und als “Kreuztragen” und Selbstverleugnung” in einem asketischen
Sinn interpretiert. Im Hintergrund stand aber das Bewußtsein, daß Nachfolge
geschenkhaft durch Gnade ermöglicht ist, gründend in der sakralischen Gemeinschaft mit Christus” art. “Nachfolge Christi”, dans Lexikon für Theologie und
Kirche, Bd. 7, Herder, Freiburg-Basel-Rom-Wien 19982, 611.
25 Veritatis Splendor, 21.
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RÉAL TREMBLAY
SUMMARIES
In this article, the intention of the author is to deepen the radicalism linked to
following. After briefly recalling the essential features of following, he seeks to
answer questions such as the following. To what does the moral radicalism implied in following refer? How could Christ demand all from the persons he has
called? How could it be that the ‘all’ in question takes different forms in the biblical sources that speak of it? Has mission something to say in this respect? To
whom is the call to following directed? To all or to a privileged one? The answers to such questions will have as consequences the strengthening of the
definition of following given at the beginning of the article, and to present it as
an intimate bond with the Lord rather than the simple imitation of a model.
***
En el presente artículo, el autor examina el radicalismo vinculado al seguimiento. Tras recordar brevemente los puntos fundamentales del seguimiento,
trata de dar respuesta a algunas preguntas fundamentales: ¿Qué significa el
radicalismo moral inherente al seguimiento? ¿Cómo puede Cristo exigir todo
de las personas a las que Él llama? ¿Cómo es posible que dicho “todo” adopte las variadas formas a las que aluden las fuentes bíblicas? ¿Tiene algo que
decir la misión al respecto? ¿A quiénes se dirige la llamada al seguimiento?
¿A todos o a algún privilegiado? Las respuestas a estas preguntas confirmarán la definición que se dio al comienzo del estudio sobre el seguimiento y lo
presentarán más como un vínculo estrecho con el Señor, que como la simple
imitación de un modelo.
***
In questo articolo, l’autore intende approfondire il radicalismo legato alla sequela. Dopo aver ricordato brevemente i tratti essenziali della sequela, egli cerca di rispondere a domande come quelle: A che cosa si riferisce il radicalismo
morale coinvolto nella sequela? Come può Cristo esigere tutto dalle persone
da lui chiamate? Come mai il “tutto” in questione prenda forme varie nelle fonte bibliche che ne parlano? La missione ha qualche cosa da dire a proposito?
A chi si rivolge la chiamata alla sequela? A tutti o a qualche privilegiato? Le risposte a tali domande avranno come conseguenze di rafforzare la definizione
della sequela data all’inizio dello studio e di presentarla come legame intimo
con il Signore piuttosto che come pura imitazione di un modello.
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DOTTRINA CRISTIANA ALFONSIANA
Alfonso V. Amarante, C.Ss.R.*
Introduzione
L’arco storico che copre i secoli XVII-XIX è stato caratterizzato
da una grande fioritura dello strumento catechistico. I teologi e i pastori, spinti dalle indicazioni del Concilio tridentino e dall’urgenza
pastorale di arginare la morale giansenista e l’avanzare del protestantesimo, trovarono in questo strumento un valido metodo per aiutare
i curati nell’istruzione al popolo.
In questo periodo, abbiamo il sovrapporsi di due strutture di catechismi che rispondono a due genere letterari diversi i quali sottendono ad una proposta morale dommatica basata su preoccupazioni e visioni dissimili.
La prima struttura del catechismo, fedele all’insegnamento del
Concilio tridentino, si richiama alle tre virtù teologali (fede, speranza e carità) ed ai sacramenti. A partire da questa griglia, il catechismo
viene diviso in cinque parti: Simbolo della fede, Preghiera, Comandamenti, Sacramenti e Vita cristiana (peccati e virtù).
La seconda proposta di catechismo, la quale è sviluppata a partire
dal secolo XVII, risponde ad uno schema di tipo sistematico: dogma,
morale e grazia. Dal XVII al XIX secolo, questa seconda struttura si
afferma gradualmente fino a confluire nel catechismo di Pio X e risalente al 1912.
Alfonso de Liguori, si inserisce anch’egli in questo dibattito contribuendovi con degli opuscoli di “dottrina cristiana”. Egli, come
teologo, elabora la sua proposta morale sia attraverso la ricerca e la
pubblicazione di una notevole quantità di studi, nei quali perfeziona
* The author is an associate professor at the Alphonsian Academy.
* El autor es profesor asociado en la Academia Alfonsiana.
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ALFONSO V. AMARANTE
ed affina la sua proposta morale equiprobabilista, destinata principalmente agli addetti ai lavori, sia attraverso dei testi utili per la formazione nella vita cristiana di laici e catechisti.
In questo studio analizzeremo la proposta morale alfonsiana così
come si evince dai testi catechetici, consapevoli che nella visione del
Santo non è possibile dividere l’aspetto speculativo della ricerca morale dalla vita pratica.
1. Le disposizioni tridentine per il catechismo
Il sostantivo “catechismo” ha la sua radice etimologica nella parola
greca “katechismòs”, che significa “ciò che è insegnato”. Nella Chiesa
primitiva, l’insegnamento dispensato agli adulti che chiedevano il battesimo era detto “catechesi” e derivava dal termine greco “katechéo”,
cioè “insegnare a viva voce”1. Nella cultura odierna, con il termine catechismo, si intende il testo che raccoglie e presenta «con fedeltà ed in
modo organico l’insegnamento della Sacra Scrittura, della Tradizione
vivente della Chiesa e del Magistero autentico, come pure l’eredità
spirituale dei Padri, dei santi e delle sante della Chiesa»2.
La storia dei testi catechistici coincide con quella della Chiesa3.
La nascita del testo ufficiale catechetico come strumento della Chie1
Cfr. Emilio ALBERICH, «Carechesi» in Dizionario di Catechetica, a cura di
Joseph Gevaert, Elledici, Leumann-Torino 1986, 104-108.
2 GIOVANNI PAOLO II, Costituzione apostolica Fidei depositum per la pubblicazione del Catechismo della Chiesa Cattolica, redatto dopo il Concilio Ecumenico Vaticano II, in AAS 86 (1994), 113-118. Cfr. anche EV/13, 2047-2068.
Cfr. CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA, Libreria Editrice Vaticana, Città
del Vaticano 1992, 13.
3 Per uno sguardo sintetico sulla storia della catechesi e dei catechismi cfr. A.
ETCHEGARAY CRUZ, Storia della catechesi, Ed. Paoline, Roma 1983; J. GEVARET
(a cura di), Dizionario di catechetica, Elle Di Ci, Leumann (TO) 1986; PIETRO
BRAIDO, Lineamenti di storia della catechesi e dei catechismi. Dal «tempo delle riforme» all’età degli imperialismi (1450-1870), Elle Di Ci, Leumann (TO) 1991; P.
BRAIDO, Dossier informativo sul Catechismo della Chiesa Cattolica, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 1992.
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DOTTRINA CRISTIANA ALFONSIANA
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sa cattolica per evangelizzare, formare e correggere, si ha solamente
nel 15664. Seguiamone velocemente la storia della sua intuizione e
sviluppo.
Il 26 febbraio del 1562, durante la XVIII sessione del Concilio di
Trento (1545-1563), i padri conciliari constatarono che
il numero dei libri sospetti e pericolosi, nei quali si contiene una dottrina impura, da essi diffusa in lungo e in largo, è troppo cresciuto, –
ciò è stato il motivo per cui molte censure in varie province, e specialmente nella città di Roma, sono state stabilite con pio zelo, senza
però che ad un male così grave e così pericoloso giovasse alcuna medicina, – questo sinodo ha disposto che un gruppo di padri scelti per
lo studio di questo problema, considerasse diligentemente che cosa
fosse necessario fare e, a suo tempo, ne riferissero allo stesso santo sinodo, perché esso possa più facilmente separare, come zizzania, le
dottrine varie e peregrine dal frumento della verità cristiana; e con
maggiore opportunità prendere una deliberazione e stabilire qualche
cosa di preciso su quelle questioni che sembreranno più opportune a
togliere lo scrupolo dall’anima di parecchia gente e a rimuovere le
cause di molti lamenti5.
Nel corso della penultima sessione del concilio tridentino, l’undici novembre 1563, è approvato il Decretum de reformatione, in cui il
quarto canone è dedicato alla disciplina della predicazione ecclesiastica e alla formazione catechistica dei fedeli.
Il santo sinodo, desiderando che l’ufficio della predicazione, che è il
principale dovere dei vescovi, venga esercitato quanto più frequente-
4
Sia in ambito cattolico che protestante prima del 1566 esistevano già dei
catechismi. In ambito cattolico basta pensare alla proposta catechetica di Georg
Witzel (1501-1573) o ai lavori di Pietro Canisio (1524-1597). In ambito protestante i punti di riferimento sono la produzione di Martin Luther (1483-1546)
e di Giovanni Calvino (1509-1564).
5 Conciliorum Oecumenicorum Decreta, a cura di G. ALBERIGO – G. L. DOSSETTI [et. al.], Istituto per le Scienze religiose di Bologna, Edizione bilingue,
Bologna 1991, Sess. XVIII, 723, 725.
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mente è possibile per la salvezza dei fedeli, adattando meglio alle necessità dei tempi presenti i canoni emanati un tempo su questo argomento sotto Paolo III, di felice memoria, comanda che essi espongano le sacre scritture e la legge divina: nella propria chiesa, personalmente, o, se ne fossero legittimamente impediti, mediante persone
assunte per la predicazione, nelle altre chiese di città o della diocesi
[...] almeno tutte le domeniche e nelle feste solenni, durante la quaresima e l’avvento del Signore, ogni giorno, o almeno tre volte la settimana, se lo credono opportuno, ed inoltre ogni volta che ciò possa
esser stimato utile. [...].
Gli stessi vescovi avranno anche cura che almeno nei giorni di domenica e negli altri festivi in ogni parrocchia i bambini siano diligentemente istruiti da chi ne ha il dovere, nei rudimenti della fede e in
ciò che riguarda l’obbedienza a Dio e ai genitori. Se sarà necessario
li costringeranno anche con le censure ecclesiastiche. Tutto ciò, non
ostante i privilegi e le consuetudini. Nelle altre cose, conservino la loro forza le disposizioni che sono state emanate sotto lo stesso Paolo
III sul dovere della predicazione6.
Nella fase iniziale del Concilio, si esorta il clero a svolgere una
predicazione limitata all’ambito morale, escludendo gli argomenti
prettamente dottrinali7. Al momento della conclusione, invece, la
predicazione è strettamente collegata all’insegnamento metodico dei
rudimenta fidei. Si insiste, particolarmente, sulla frequenza delle prediche, che devono essere svolte, non soltanto la domenica, nei giorni
di festa ma, anche, ed almeno, tre volte la settimana, nei periodi più
importanti dell’anno liturgico, specialmente, durante l’Avvento, la
Quaresima, le Quarantore. Al termine dei lavori della venticinquesima sessione i padri conciliari rimettono nelle mani del pontefice la
pubblicazione del catechismo8.
6
Sess. XXIV, can. 4, 763.
Cf. Sess. V, can. 2, 669; Cf. Sess. V, can. 11, 669; Cf. Sess. V, can. 15, 670.
8 «Nella seconda sessione – celebrata sotto il santissimo signore nostro Pio
IV –, il sacrosanto sinodo, scelti alcuni padri, li incaricò, perché pensassero cosa si sarebbe dovuto fare delle varie censure e dei libri sospetti o pericolosi, e ne
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A tre anni dalla conclusione del Concilio di Trento, è pubblicato
il testo ufficiale per la catechesi a cui, in seguito, si sono ispirate intere generazioni di vescovi e teologi per elaborare i sussidi di formazione per il gregge a loro affidato9. Il catechismo tridentino o “Catechismo Romano”10 era strutturato in quattro parti: la prima parte
trattava la fede e i dodici articoli del simbolo della fede (13 capitoli);
la seconda parte i sacramenti (8 capitoli); la terza parte, i precetti del
decalogo (10 capitoli); e l’ultima la preghiera e il commento al Pater
(17 capitoli).
Tutto l’impianto dottrinale del catechismo romano è in funzione
dell’azione pastorale dei parroci per formare i laici. Esso offriva ai pastori solamente gli elementi essenziali ed accessibili all’educazione
dei fedeli «lo scopo della dottrina è in definitiva conoscere con tutta
l’anima Cristo crocifisso, unico Salvatore; e questa scienza deve diventare imitazione e sequela, nella carità [...]. Quanto al metodo “si
deve tener conto dell’età, dell’intelligenza, del livello morale e della
condizione dei destinatari”»11.
Con il catechismo tridentino, i parroci hanno tra le mani uno
strumento pratico per poter snocciolare le verità di fede e di morale
ancorate al depositum fidei. Esso, in pratica, enuclea i criteri essenzia-
riferissero poi allo stesso santo concilio. Ora sente dire che essi hanno posto
fine a questo incarico. Ma per la grande diversità e per il gran numero dei libri, esso non può facilmente giudicarli, uno per uno. Comanda quindi, che
tutte le loro conclusioni siano presentate al romano pontefice, perché secondo il suo giudizio e la sua autorità quello che essi hanno fatto sia portato a termine e pubblicato. La stessa cosa comanda che facciano i padri, che hanno ricevuto l’incarico per il catechismo, per il messale e per il breviario» Cfr. Sess.
XXV, 797.
9 Cfr. Catechismus Romanus seu Catechismus ex decreto Concilii Tridentini ad parochos Pii Quinti Pont. Max. iussu editus, a cura di P. RODRIGUEZ – I. ADEVA – FDOMINGO – R. LANZETTI – M. MERINO, Libreria Editrice Vaticana, Città del
Vaticano 1989. Cfr. Angelo AMATO, Una lunga tradizione, dal «catechismus ad parochos» al catechismo della Chiesa Cattolica, in Seminarium, 2 (1993), 159-160.
10 Cfr. Luis RESINES, «Catechismo Romano» in Dizionario di catechetica,
125-126.
11 P. BRAIDO, Lineamenti di storia della catechesi, 74.
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li da seguire nella catechesi e, nel contempo, offre i canoni a cui si
ispirano una moltitudine di teologi cattolici nella stesura di ulteriori
catechismi12.
2. La dottrina cristiana alfonsiana
Tra l’abbondante produzione alfonsiana, i biografi segnalano tre
scritti inerenti al tema del catechismo13. Questi scritti vanno letti come lo sforzo del santo di sminuzzare le verità della fede cristiana nel
modo più semplice possibile sia per gli operatori pastorali, sia per i
fedeli da evangelizzare. In questo paragrafo, cercheremo di evidenziare il processo evolutivo della loro formazione, soffermandoci, unicamente, sui primi due scritti, in quanto il terzo richiede, per estensione e contenuti, una riflessione a parte.
Nel 1723, quando Alfonso de Liguori inizia il suo cammino formativo per accedere agli ordini sacri, vi è la prassi che i seminaristi,
la domenica pomeriggio, devono istruire nella fede i fanciulli attraverso il catechismo14. Vista l’utilità di questa esperienza anche attra-
12
Cfr. Pietro STELLA, “I catechismi in Italia e in Francia nell’età moderna.
Proliferazione tra analfabetismo e incredulità”, in Salesianum 49 (1987), 303-322.
13 Seguendo l’ordine cronologico i tre scritti alfonsiani, strettamente riguardanti la dottrina cristiana, sono: Compendio della Dottrina cristiana stampato in Napoli per ordine dell’Eminentissimo Signor Cardinale Spinelli nel 1744, allora Arcivescovo di Napoli, ed ora ristampato nella Stamperia di Alessio Pellecchia, Napoli 1758 (Cfr.
R. TELLERÍA, “De «Compendio doctrinae christianae» a S. Alfonso exarato atque olim bis in lucem edito”, in SHCSR 4 (1956), 259-279); “Breve dottrina cristiana”, in Opere di S. Alfonso Maria de Liguori, Ed. Giacinto Marietti, Torino
1887, vol. IX, 858-859; “Istruzione al popolo sovra i precetti del Decalogo per
ben osservarli, e sovra i Sagramenti per ben riceverli”, in Opere di S. Alfonso Maria de Liguori, Ed. Giacinto Marietti, Torino 1887, vol. IX, 897-976.
14 Cfr. Alfonso V. AMARANTE, Evoluzione e definizione del metodo missionario
Redentorista (1732-1764), = Copiosa Redemptio 1, Editrice San Gerardo, Materdomini 2003, 115. Il sacerdote napoletano Aniello Pacifico attesta con queste parole l’impegno del futuro santo nell’istruire i fanciulli «Fo fede come D.
Alfonso de Liguoro di mia parrocchia istruiti i figliuoli nella dottrina cristiana
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verso le Cappelle Serotine, la continua con altri sacerdoti: «si sminuzzavano ogni sera da Alfonso le verità più sublimi di nostra Santa
Fede; e siccome si metteva in orrore il vizio, così si mettevano in prospetto le virtù Cristiane»15.
Questa sua esperienza viva di catechesi lo porterà, una volta fondata la Congregazione del Santissimo Redentore, ad insistere con i
suoi confratelli sulla necessità ed utilità di svolgere questo ministero.
Infatti, nelle costituzioni del 1749 si fa esplicito riferimento alla catechesi «i fratelli di questa Congregazione [...] attenderanno in aiutare la gente sparsa per la campagna e paesetti rurali, più privi e destituti di spirituali soccorsi, con Missioni e con catechismi, e con spirituali esercizj»16.
2.1. Compendio della dottrina cristiana (1744)
Nella bibliografia alfonsiana viene riportato come primo testo di
catechismo il “Compendio della dottrina cristiana” edito, per la prima volta, nel 1744 e ristampato poi nel 1758. Nel 1744, la nascente
Congregazione del Santissimo Redentore è impegnata nella grande
missione detta dei Casali (zona periferica della città di Napoli) voluta dall’arcivescovo del capoluogo campano, Giuseppe Spinelli (16941763). È possibile che questo testo sia nato come strumento pratico
da adottare per la catechesi17.
con tutto zelo e fervore cominciando dal mese di ottobre 1723 [...] in tutte le
domeniche, con fare anche il circolo, ed ha anche istruito i detti figluoli a far bene il precetto pasqaule, con aver fatta una sola mancanza in una delle predette
domeniche». Per ulteriori approfondimenti cfr. Raimundo TELLERÍA, “De
«Compendio Doctrinae Christanae» a S. Alfonso exarato atque olim bis in lucem edito”, in SHCSR 4 (1956), 259-260.
15 Antonio TANNOIA, Della vita ed istituto del venerabile servo di Dio Alfonso
M.a Liguori, Vescovo di S. Agata e Fondatore della Congregazione de’ preti missionari del SS. Redentore, 3 voll., Presso Vincenzo Orsini, Napoli 1798-1802, 44.
16 ORESTE GREGORIO – ANDRÉ SAMPERS, “Regole e Costituzioni primitive
dei Missionari redentoristi”, in SHCSR 16 (1968), 413.
17 Anche se questo testo è inserito tra la produzione letteraria del Santo alcuni studiosi hanno sollevato dubbi sulla paternità alfonsiana dello scritto.
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Il Compendio si compone di 133 domande e risposte, degli “Atti
cristiani”, “Atti da farsi ogni mattina” ed una “Canzoncina”. Esso risponde alla caratteristica di un piccolo manuale didattico ad uso dei
sacerdoti per istruire i catecumeni, senza entrare in disquisizioni teologiche, per un uso pratico ed immediato.
La materia esposta può essere così suddivisa: le domande e le risposte che vanno da 1 a 48 illustrano il tema della fede; da 49 a 64
espongono la speranza e la preghiera; da 65 a 78 sviluppano i comandamenti e i precetti della Chiesa; da 79 a 92 analizzano il peccato; da 93 a 133 trattano i sacramenti18.
La struttura del compendio, anche se ispirata per contenuti al catechismo romano, non segue l’ordine degli argomenti. Alla successione del catechismo romano: credo, sacramenti, comandamenti e
preghiera, è proposta una sequenza che a partire dalla fede, speranza
e preghiera presenta poi i comandamenti, il peccato per concludere
con i sacramenti19.
La disposizione della materia, così formulata, risponde certamente ad un criterio di base per istruire coloro che si preparano a ricevere i sacramenti.
Cfr. Ciro SARNATARO, La catechesi a Napoli negli anni del card. Giuseppe Spinelli
(1734-1754), Valsele Tipografica, Materdomini (AV) 1989, 99-130. In questa
sede non entreremo in questo dibattito in quanto non siamo in grado di stabilire la veridicità. A noi interessa solo esaminare i contenuti per seguire l’evoluzione del pensiero del Santo su questo tema.
18 La numerazione nel testo non è presente quella proposta è nostra.
19 La disposizione della materia così concepita sembra ricalcare da vicino le
opere del Canisio e del Ledesma. Per maggiori approfondimento cfr. Pietro
Canisio, Catechismo catholico, molto necessario per ben ammaestrare la gioventù in
questi nostri tempi, composto pel r. p. Pietro Canisio dottor e theologo, & tradotto in
lingua italiana per il p. Angelo Dovitij della medesima compagnia, Per Michele Tramezzino, Venetia 1565. Pedro Ledesma, Doctrina Christiana compuesta y ordenada por el maestro fray Pedro de Ledesma... in Primera parte de la summa, en la qual
se cifra y summa todo lo que toca y pertenece a los sacramentos, con todos los casos y dudas morales resueltas y determinadas, en casa de Antonia Ramirez viuda, Salamanca 1602.
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Lo spazio maggiore è occupato dal discorso sulla fede e sui sacramenti ma è da notare l’insistenza circa il sacramento dell’eucaristia e,
di conseguenza, sul sacramento della confessione.
Al numero 81 del Compendio (sezione dedicata al peccato), infatti, si domanda: «Quante sorti di peccati vi sono?» e si risponde «due
sorti: Originale a Attuale», ai numeri successivi 82 e 83 segue la distinzione di questi due peccati, per poi domandare al numero 84 «Di
quante maniere è il peccato attuale» a cui si risponde «Di due maniere: mortale e veniale». Questa distinzione apre, poi, la sezione sui
sacramenti come mezzo per riacquistare la grazia. I sacramenti sono
sviluppati in questo ordine: battesimo, cresima, unzione degli infermi, ordine, matrimonio, confessione ed infine eucaristia.
È interessante notare il modo in cui sono collegati i sacramenti della confessione e dell’eucaristia. Dopo aver parlato del matrimonio come sacramento che dà la grazia per vivere cristianamente ed allevare figli secondo la legge di Dio, si introduce la confessione, indicando come si fa l’esame di coscienza e facendo la distinzione tra contrizione ed
attrizione, per poi introdurre la distinzione tra peccati veniali e mortali. Una volta esaminato questo sacramento si domanda: «Chi si è ben
confessato e va a comunicarsi, riceve un altro sacramento?», per poi
continuare sulla presenza reale di Cristo nell’eucaristia.
Alla penitenza e all’eucaristia viene riservato maggiore spazio rispetto agli altri sacramenti. Questo è spiegabile in quanto la catechesi è in funzione dei sacramenti di iniziazione cristiana. Per fugare
ogni dubbio sulla necessità dell’eucaristia come nutrimento della vita spirituale ed alimento della grazia, lo scrivente parlando dell’eucaristia domanda, al numero 118, «Che effetto fa tal sacramento?» a cui
segue la risposta «Accresce la Grazia di Dio, e così nutrisce la vita
spirituale dell’Anima».
Allo stesso tempo si può cogliere nell’intero Compendio come il
tema della libertà e della grazia è trattato con molta saggezza. Ad
esempio ai numeri 49-53 si domanda se è necessaria la grazia per salvarsi per poi chiedere al numero 53 «Quale è il mezzo più efficace
per ottenere da Dio gli aiuti de’ quali abbiamo bisogno?». Si risponde che il mezzo più adatto è la preghiera e particolarmente l’orazione del Padre nostro. Una scelta metodologica di tal tipo, in vir-
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tù di una catechesi mnemonica, sembra una chiara presa di posizione pratica per arginare il dilagare del giansenismo anche nel Regno
di Napoli20.
2.2. Breve dottrina cristiana (1762)
Le prime notizie che possiamo rintracciare circa la “Breve dottrina cristiana”21, risalgano ad una lettera del 30 agosto 1762 che monsignor de Liguori, nominato vescovo della diocesi di Sant’Agata dei
Goti proprio in quell’anno, scrive a vicari foranei:
Incarichiamo a’ RR. arcipreti, parrochi, sostituti e cappellani delle
parrocchiali chiese di detta nostra diocesi che rispettivamente recitino al popolo, nella messa mattinale e nella seconda messa ancora, in
ogni mattina de’ giorni festivi, le dottrinelle che si mandano coll’esibitore della presente a ciascuno di essi, nel modo che sta scritto nella
carta stampata, che si potrà da essi parrochi ed altri sostituti e da’ cappellani parimente delle chiese, delle cappelle e chiese separate, incollare sopra una tavoletta o un cartone, acciò si abbia sempre presente,
da riporsi in un luogo proprio, onde potersi avere con prontezza e facilmente leggere al menzionato popolo colla dovuta pausa per poterla intendere22.
20 Per i rapporti tra Sant’Alfonso e il giansenismo cfr. Giuseppe CACCIATORE,
S. Alfonso de’ Liguori e il giansenismo. Le ultime fortune del moto giansenista e la restituzione del pensiero cattolico nel secolo XVIII, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze
1944. Per uno studio analitico e dettagliato del giansenismo in Italia cfr. Pietro
STELLA, Il giansenismo in Italia, 3 voll., Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2006.
21 Breve dottrina cristiana. Nella bibliografia alfonsiana curata da FABRICIANO
FERRERO – SAMUEL J. BOLAND, “Las obras impresas por S. Alfonso María de Liguori”, in SHCSR 36-27 (1988-1989) 520, l’opera in esame risulta pubblicata
sempre da Marietti nel 1887 al volume IX ma alle pagini 853-859. Crediamo
che sia una svista dei curatori della bibliografia alfonsiana.
22 Lettere di S. Alfonso Maria De Liguori, a cura di [F. KUNTZ – F. PITOCCHI],
Società S. Giovanni, Desclée, Lefebvre e Cia, Editori Pontifici, Roma 18871890, vol. III, 555-556.
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Monsignor de Liguori, appena giunto in diocesi, si preoccupa di
rendere manifeste e chiare le disposizioni del concilio di Trento circa il catechismo da insegnare a tutti i fedeli. Un’ulteriore notizia circa questa “Breve dottrina cristiana”, la possiamo sempre ricavare dall’epistolario alfonsiano. Il Santo, trovandosi presso la comunità dei
Redentoristi di Pagani e scrivendo al suo segretario, il 13 agosto del
1763, afferma: «Domani andrò alla Cava a trattenermi per tre o quattro giorni, benché può essere che avessi d’andare in Napoli; perché
ho trovato un revisore, P. Capobianco, che a cinque sole pagine del
libretto, che ho fatto per la diocesi, ci ha fatte sei difficoltà»23.
In effetti, la “Breve dottrina cristiana” è un testo molto sintetico.
Non siamo in grado, però, di affermare cosa il revisore regio contestasse allo scritto del Santo. Il testo nasce come catechesi da leggere
la domenica e nei giorni festivi24. Il linguaggio ed i contenuti sono
accessibili al popolo incolto ed è scritto in prima persona in modo tale da dare l’impressione all’ascoltatore che ciò che sta udendo dalla
voce del sacerdote rappresenta la stessa parola del pastore.
La materia esposta è divisa in cinque punti, alcuni di essi, poi, sono divisi in sottopunti. Dopo l’iniziale esortazione che funge da introduzione, dove il Santo invita a “cantare” i precetti della chiesa in
modo tale da memorizzarli, ricorda che per la salvezza non basta il
solo battesimo ma è indispensabile conoscere e vivere i misteri della fede.
Nel primo punto, il de Liguori in sintesi spiega ed insegna il Simbolo della fede. Egli asserisce la necessità di credere in Dio, Padre
creatore del cielo e della terrà in quanto «Dio è giusto: punisce chi fa
male e premia chi fa bene: manda all’inferno chi muore in peccato
23
Ivi, vol. I, 505.
Il de Liguori così scrive nel 1764 «In primo luogo, rinnoviamo l’ordine,
dato da noi nell’anno 1762, in cui comandammo che si faccia recitare al popolo la breve Dottrina stampata in un foglio, in tutti i giorni festivi, dai parrochi e
sacerdoti che celebrano nelle parrocchie ed in tutte le altre chiese o siano cappelle, anche rurali, in due volte: cioè nella prima messa che ivi si dice, e nell’altra che si celebra allorché vi è maggior concorso di popolo» cfr. Lettere, vol. III,
584-585.
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mortale, e dà il paradiso a chi muore in grazia sua»25. Continua poi
spiegando la necessità di credere nella Trinità e in Gesù Cristo incarnato nel seno della Vergine Maria e che, attraverso la passione,
morte e risurrezione ha donato la salvezza eterna agli uomini ed ha
istituito i sacramenti come rimedio ai peccati. Conclude questo primo punto giustificando il perché credere alla verità di fede «E tutte
queste cose di fede le hai da credere fermamente, non perché te le insegna il sacerdote, ma perché Gesù Cristo le ha insegnate alla chiesa,
e poi la santa chiesa le insegna a noi»26.
Nel secondo punto, Alfonso spiega al suo ascoltatore in cosa consiste la vera speranza cristiana in cui credere «Hai da sperare il perdono de’ tuoi peccati, la grazia di Dio, la buona morte e la gloria del
paradiso»27. Questo piccolo paragrafo fa da corollario all’introduzione del punto successivo (terzo) in cui il catechizzando è stimolato all’osservanza dei dieci comandamenti come mezzo sicuro che conduce alla grazia di Dio. Lo stesso Alfonso, però, ricorda che tutti i precetti si riducono ai comandamenti dell’amore insegnati da Gesù:
amare Dio e amore il prossimo. Ed in essi è riposta la vera speranza:
«Io spero ogni bene perché Dio me l’ha promesso»28.
Con il quarto punto, il Santo introduce la necessità del sacramento della confessione come momento privilegiato per ritornare nella
grazia di Dio dopo aver peccato. Infatti egli scrive: «per mezzo del
quale [sacramento della riconciliazione], coll’assoluzione del confessore, Gesù Cristo applicando alle anime il suo prezioso sangue, perdona tutti i peccati a chi si confessa bene»29. Dopo aver ricordato in
sintesi cosa il Concilio tridentino insegna a tal proposito, enuclea
cinque brevi luoghi sul modo di confessarsi. Egli raccomanda l’esame di coscienza, il pentimento sincero, la promessa di non ricadere
nel peccato, il coraggio di non nascondere nessuna colpa ed in fine la
penitenza da fare.
25
Breve dottrina cristiana, 858.
Ivi.
27 Ivi.
28 Ivi.
29 Ivi, 859.
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Nel quinto ed ultimo punto, il de Liguori ricorda, al suo ipotetico ascoltatore, che dall’età di dieci anni è indispensabile nutrirsi dell’eucaristia la quale è fonte di grazia per la vita. Articola, poi, questo
punto in sette sottopunti dove enuclea i principi dogmatici, cardini
dell’eucaristia. L’articolazione dei sette sottopunti offre una rapida
catechesi dove è ricordato che l’eucaristia è uno dei sette sacramenti.
Nelle specie del pane e del vino consacrati vi è la presenza reale, in
anima, corpo e divinità, di nostro Signore Gesù Cristo. Per ricevere
degnamente il corpo di nostro Signore è indispensabile essere in grazia di Dio e essere digiuni. Poi ricorda che è atto sacrilego comunicarsi, sapendo che si è in peccato mortale e raccomanda, infine, la
preparazione spirituale da fare prima di ricevere l’eucaristia e il ringraziamento dopo averla ricevuta.
Da questa breve dottrina cristiana alfonsiana, emerge con chiarezza come essa è stata pensata ed articolata per una catechesi spicciola
da tenere in modo rapido e succinto prima della celebrazione eucaristica. In essa, il punto primo e il quinto, che rappresentano le parti
più corpose del testo, sono strettamente legati. Se nel primo punto è
enunciato, in modo semplice, la verità di fede intorno a Dio Uno e
Trino, nel punto quinto è spiegato il modo per vivere in Cristo attraverso l’eucaristia e quindi ritornare a Dio.
In questa breve opera, salta agli occhi del lettore la visione positiva che Alfonso ha dell’uomo. Infatti, già nell’introduzione, il Santo
scrive che seguire la legge di Dio, il quale si abbassa verso l’uomo per
amore, rappresenta il modo semplice per guadagnare il bene eterno
e ricevere, qui sulla terra, la riconoscenza degli uomini.
3. Alcune osservazioni
La riscoperta della figura del vescovo come pastore, operata dal
Concilio di Trento, permette la rinascita e l’organizzazione della vita cristiana nelle comunità come veri centri propulsori della pastoralità della Chiesa.
Dal Concilio in poi, i contenuti catechistici sono ordinati per argomenti e divulgati. Una ulteriore svolta per la catechesi si ha con
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papa Benedetto XIV il quale con la sua enciclica sulla catechesi “Etsi
minime”30 del 7 febbraio 1742, accelera l’insegnamento dei rudimenta fidei. Papa Lambertini esorta i vescovi ad insegnare la dottrina cristiana e a farla insegnare ai suoi delegati e a coloro che sono abilitati
a farlo, previo permesso, come ai chierici, i maestri di scuola e le pie
donne. I destinatari non sono solo coloro che devono ricevere i sacramenti di iniziazione cristiana ma tutti i fedeli, ignari della verità
salvifica. Esorta, infine, ad usare il catechismo del cardinale Bellarmino come testo di riferimento e dove non sia possibile occorre supplire con un altro testo ma «occorrerà prestare grande attenzione che
non contenga e non vi si insinui niente di discordante dalla Verità
cattolica. Occorre anche prestare attenzione che i dogmi della Fede
vi siano spiegati in modo semplice e chiaro [...]. Questo libretto deve
anche contenere gli Atti di Fede, di Speranza e di Carità, sicuramente composti in modo retto e competente».
Queste indicazioni di Benedetto XIV sono una chiave interpretativa dell’articolazione alfonsiana intorno alla “Dottrina cristiana”. I
due scritti esaminati rispondono, sostanzialmente, a queste indicazioni. Essi, infatti, seppur diversi per mole e destinatari, in quanto il
compendio è un cammino di catechesi mentre la breve dottrina contiene solo dei rudimenta, si preoccupano di seguire il ritmo della vita
cristiana scandito dai sacramenti.
Entrambi gli scritti, una volta chiarite le verità di fede, particolarmente quella intorno alla trinità e alle virtù, esplicano il peccato come rottura del rapporto di comunione tra Dio e l’uomo. Il rimedio a
tale stato è indicato, con fermezza, nei sacramenti della riconciliazione e dell’eucaristia come momento di grazia santificante.
È da sottolineare che, nella proposta alfonsiana, l’attenzione prestata ad alcune tappe fondamentali della vita sacramentale e correlata all’uso della ragione, mette in grado il fedele a comprendere il bene e il male. In quest’ottica, si comprende l’insistenza del Santo sulla necessità di accostarsi al sacramento della penitenza appena si ha
una sufficiente preparazione e si è in grado di esercitare l’uso della
30
Cfr. Bullarium Romanum, Benedetto XIV, tomo I, 110-114.
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ragione. Alla luce di questo, è possibile anche comprendere l’insistenza di Alfonso sulla necessità di accostarsi frequentemente al sacramento dell’eucaristia. La duplice questione dell’età e della frequenza è resa incandescente anche a causa del rigorismo morale proveniente dall’influenza giansenista.
Conclusione
L’aver seguito la nascita e lo sviluppo di questi due scritti alfonsiani ci ha permesso di cogliere il continuum ma anche l’evoluzione del
pensiero del Santo. Ancorati ai dati del Concilio tridentino entrambi
i testi offrono una catechesi dei rudimenta fidei essenziale ma allo
stesso tempo ricca e articolata.
Alfonso, infatti, già dalla giovinezza sceglie come campo prioritario l’evangelizzazione dei poveri. L’esperienza catechistica svolta da
chierico e l’azione pastorale intrapresa nei famigerati “quartieri spagnoli” di Napoli, attraverso le “Cappelle Serotine”, hanno contribuito a sviluppare nel Santo quella sensibilità per istruire nella fede i più
destituiti di aiuti spirituali.
Il contatto quotidiano con la fragilità dell’uomo, prima da missionario e poi da vescovo, lo ha condotto, di conseguenza, alla elaborazione di quei strumenti essenziali per la formazione cristiana. Possiamo dividere tali mezzi in opere teologiche, per la formazione degli
operatori pastorali, ed in opere catechetiche, per l’alfabetizzazione
del popolo di Dio nelle cose divine.
È interessante notare come in entrambi gli scritti egli insista sul
concetto che l’uomo è stato creato ad immagine e somiglianza di
Dio. Essa è un’immagine amata e perciò capace di amare. In questa
reciprocità di amore, l’uomo è reso partecipe della vita divina. L’iniziativa è sempre di Dio: anticipandoci il suo amore, fa sorgere in noi
il bisogno e la volontà di amarlo. Perché sia viva e costante in noi la
“memoria” del suo amore, Dio ci ha ricolmato e circondato di doni
per renderci felici.
In ambedue gli scritti, Alfonso insiste anche sul concetto di speranza. Essa è presentata in una duplice ottica: non basta solo sperare
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nella remissione dei peccati per ottenere la vita eterna ma è necessaria la testimonianza di vita per glorificare Dio, qui sulla terra.
Solo dopo queste due trattazioni, Alfonso inserisce l’argomentazione del peccato come malattia che indebolisce ed allontana da Dio.
Il peccato, anche se ferisce ed indebolisce il legame tra Dio e l’uomo,
non distrugge del tutto la dignità umana. Anche chi vive nella privazione volontaria di Dio avverte il desiderio della verità. A partire da
queste considerazioni, egli propone i sacramenti come rimedio al
peccato ma, al contempo, come medicina per ritornare ad amare Dio,
servendo il prossimo.
L’articolazione catechetica de Liguori, nella sua brevità, cerca di
far comprendere che solo in Cristo è possibile il cammino del bene
che conduce alla vera felicità, seppur imperfetta, nella storia del vivere quotidiano.
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DOTTRINA CRISTIANA ALFONSIANA
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SUMMARIES
In this study the author examines two booklets about the “Christian doctrine”.
The catechistic Afonsian proposal takes part in the period of the great
achievement of the catechistic instrument exhorted by the concrete indication
of the Council of Trent. De Liguori as a theologian elaborates both his moral
proposal through the research and the publication of a lot of studies, where
he improves and refines his moral proposal called “equiprobabilista”, that is
basically reserved to the employed to the works, and through some texts that
need to form lays and catechists for the Christian life. The author of the article
analyses the Alfonsian moral proposal, as we can deduce from the catechistic works, conscious that according to Saint Alfonso’s view it isn’t impossible
to divide the speculative aspect of the moral research from the practical life.
***
El autor examina en este estudio dos folletos alfonsianos sobre la “Doctrina
cristiana”. La propuesta catequética alfonsiana se insere en el período de la
gran afirmación del instrumento catequético exhortado por las indicaciones
concretas del Concilio de Trento. De Ligorio como teólogo elabora en el mismo tiempo su propuesta moral tan a través de la búsqueda y la publicación
de una gran cantitad de estudios, en los que perfecciona y mejora su propuesta moral equiprobabilista, destinada sobretodo a los interesados, como
a través algunos textos que sirven para formar laicos y catequistas para la vida cristiana. El autor del artículo analiza la propuesta moral alfonsiana tan como se deduce por los textos catequéticos, consciente que en la visión del
Santo no es posible dividir el aspecto especulativo de la búsqueda moral de
la vida práctica.
***
L’autore esamina in questo studio due opuscoli alfonsiani sulla “Dottrina cristiana”. La proposta catechetica alfonsiana si inserisce nel periodo della grande affermazione dello strumento catechistico, esortato dalle indicazioni concrete del Concilio di Trento. Il de Liguori come teologo elabora la sua proposta morale sia attraverso la ricerca e la pubblicazione di una notevole quantità di studi, nei quali perfeziona ed affina la sua proposta morale equiprobabilista, destinata principalmente agli addetti ai lavori, sia attraverso dei testi che
servono per formare laici e catechisti per la vita cristiana. L’autore dell’articolo
analizza la proposta morale alfonsiana così come si evince dai testi catechetici, consapevole che nella visione del Santo non è possibile dividere l’aspetto
speculativo della ricerca morale dalla vita pratica.
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PADRE BERNHARD HÄRING
UN TEOLOGO “CAPACE DI FUTURO”?
Giuseppe Quaranta, OFM Conv.*
Introduzione**
Nel contesto delle iniziative culturali organizzate per ricordare la
figura e la teologia di padre Bernhard Häring nel decimo anniversario della morte, avvenuta il 3 luglio 1998, con il presente articolo vorrei offrire non tanto uno sguardo retrospettivo alla sua opera, quanto piuttosto una “rilettura al futuro” delle sue principali intuizioni.
Sono convinto, infatti, che Häring non sia da considerare solamente
come un indubbio protagonista della stagione conciliare e postconciliare, ma debba essere valorizzato come un maestro in grado di ispirare anche nell’oggi il lavoro dei teologi impegnati nel processo di
rinnovamento della teologia morale auspicato dal Vaticano II.
In questa linea l’obiettivo principale che ha guidato le mie riflessioni è stato il seguente: verificare la possibilità o meno di indicare in
padre Häring un teologo che non solo ha contribuito a ripensare
l’impostazione di fondo della teologia morale cristiana e a divulgarne la nuova fisionomia più evangelica, ma che, al contempo, è riuscito a imprimere alla sua ricerca teologica quell’impronta di apertura al
* The author is professor at the Istituto Teologico sant’Antonio Dottore in Padova.
* El autor es profesor en el Istituto Teologico sant’Antonio Dottore en Padova.
** L’articolo riproduce l’intervento pronunciato dall’autore alla Tavola rotonda organizzata per martedì 22 aprile 2008 dagli studenti dell’Accademia Alfonsiana e dedicata alla figura e alla teologia morale di padre B. Häring nel decimo
anniversario della sua morte. La relazione di G. Quaranta è stata preceduta da
una presentazione del profilo biografico di padre Häring curata dal prof. B.
Hidber, C.Ss.R., e dal contributo del prof. R. Gallagher, C.Ss.R., sulla partecipazione di Häring al Vaticano II.
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GIUSEPPE QUARANTA
nuovo che definirei “capacità di futuro” e che rappresenta una possibile chiave di accesso al suo pensiero. Le brevi considerazioni che seguiranno sono allora articolate in tre momenti: nel primo cercherò di
chiarire il preciso significato dell’espressione “capacità di futuro”; nel
secondo presenterò un testo particolarmente significativo per comprendere come Häring ha interpretato la propria missione di teologo, soprattutto dopo aver partecipato al Concilio Vaticano II; nel terzo momento, infine, tenterò di declinare in precise prospettive di ricerca la più generica “capacità di futuro” riconosciuta all’opera häringhiana.
1. La “capacità di futuro” come chiave ermeneutica
“Capacità di futuro” (Zukunftfhäigkeit) è una parola composta coniata recentemente nell’ambito dell’etica sociale. Il mio testo di riferimento è un pregevole documento edito dalla Chiesa Evangelica in
Germania e dalla Conferenza episcopale tedesca e intitolato Per un futuro di solidarietà e di giustizia1. Lo scritto, che rappresenta il contributo delle due principali Chiese tedesche alla discussione circa «le regole della politica economica e sociale» dello Stato (n. 1), «pone in
primo piano due concetti: capacità di futuro e durata nel tempo» (n.
1). Quanto alla capacità di futuro, il testo sottolinea due qualità essenziali da mantenere in costante equilibrio: conservazione e riforma.
Come si legge al n. 32, infatti, «la condizione fondamentale per uno
sviluppo capace di futuro è la conservazione dei fondamenti naturali
della vita»; il tutto però – come il documento ricorda in diversi paragrafi – senza dimenticare che la capacità di futuro è possibile realizzando coraggiosamente le «riforme necessarie» (n. 1) e acconsentendo alle «modifiche dello stile di vita» (n. 32) richieste a tutti dall’attuale condizione storica.
1
CHIESA EVANGELICA IN GERMANIA – CONFERENZA EPISCOPALE TEDESCA,
“Per un futuro di solidarietà e di giustizia” (22 febbraio 1997), in RegDoc 9
(1997) 288-320.
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Entro questo sfondo ermeneutico, allora, si può comprendere meglio sia la ragione sia l’obiettivo della nostra domanda iniziale: chiederci se padre Häring sia stato o meno un teologo “capace di futuro”
dovrebbe orientare la nostra ricerca almeno in due direzioni: la prima – ed è l’aspetto di conservazione proprio della capacità di futuro –
non potrebbe che focalizzare la “bontà” della sua teologia morale in
genere, ossia l’aderenza il più possibile fedele alle dinamiche fondamentali della vita morale del cristiano e alla più genuina comprensione biblica e teologica delle medesime; la seconda direzione – l’aspetto cioè di riforma implicito nella capacità di futuro – dovrebbe invece mettere in evidenza il grado di sviluppo e di rinnovamento della disciplina, che padre Häring, senza alcun dubbio, avrebbe chiamato grado di “fedeltà e di libertà creative”.
Nel breve spazio di questo intervento non mi sarà possibile percorrere entrambi i sentieri indicati, sebbene abbia cercato di non perderli mai di vista nel formulare le riflessioni che seguiranno. Molto
più semplicemente tenterò di rispondere all’interrogativo di partenza, seguendo l’itinerario di ricerca che ho esposto nell’introduzione
dell’articolo.
2. Un testo ispirativo
Il breve testo a cui intendo riferirmi si trova nella Prefazione di Liberi e fedeli in Cristo, la seconda grande sintesi di teologia morale elaborata da padre Häring e pubblicata in tre volumi tra il 1978 e il
1981. Qui il nostro autore spiega ai suoi lettori perché egli abbia deciso di scrivere un secondo manuale. Tale sottolineatura potrebbe
sembrare piuttosto irrilevante ma, ad uno sguardo più attento, non lo
è affatto. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che Häring alla fine degli anni ’70 è ormai da tempo un teologo di fama internazionale, uno
degli autori “simbolo” del rinnovamento della nostra disciplina2. Ma
2
Cfr. M. VIDAL, Bernhard Häring un rinnovatore della morale cattolica, EDB,
Bologna 1999, 8.
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non solo. A lui si deve la stesura di un fortunatissimo manuale di teologia morale, La legge di Cristo3, un’opera considerata almeno per un
ventennio come la versione per antonomasia della “nuova teologia
morale”. Ecco, allora, perché le parole che introducono il nuovo manuale risuonano come una sorta di breve manifesto che sintetizza le
linee portanti della teologia morale rinnovata.
«Negli ultimi anni diversi editori de La legge di Cristo, che era stata
tradotta in quattordici lingue, mi chiesero che la rielaborassi tenendo
conto delle nuove esigenze. Ma dopo lunghe riflessioni mi convinsi
di non essere capace di farlo: malgrado la continuità profonda del
mio pensiero, oggi non posso più esprimermi e comporre il materiale come facevo venticinque anni fa. Abbiamo vissuto un’intera epoca:
la grande esperienza, la scuola del Vaticano II, l’inquieta ricerca e le
tensioni del decennio che lo ha seguito. Occorre un altro stile, una
nuova sintesi, una ricerca coraggiosa dell’equilibrio. Liberi e fedeli in
Cristo non è quindi una nuova edizione de la Legge di Cristo, e tuttavia non la rinnega. Spero anzi che tale opera mantenga il suo valore
storico e, in un certo senso, anche attuale. La mia questione di coscienza però non è se rimango fedele al mio passato, bensì se sono
completamente libero per Cristo, per gli uomini e per la Chiesa di
oggi, e fedele al Vangelo e ai segni dei tempi come li percepisco e conosco in questa appassionante ora di grazia».4
3
B. HÄRING, La legge di Cristo. Trattato di teologia morale, 3 voll., Traduzione italiana di A. Kovacev, B. Ragni, S. Raponi, Morcelliana, Brescia 1957 [orig.
ted.: 1954]. Cfr. R. GALLAGHER, “Bernhard Häring’s The Law of Christ. Reasessing its contribution to the renewal of moral theology in its era”, in StMor 44/2
(2006) 317-352; E. SCHOCKENHOFF, “Pater Bernhard Häring als Wegbereiter
einer konziliaren Moraltheologie. 50 Jahre: ‘Das Gesetz Christi’”, in A.
SCHMIED – J. RÖMELT (Hg), 50 Jahre: “Das Gesetz Christi”. Der Beitrag Bernhard
Härings zur Erneuerung der Moraltheologie, Lit Verlag, Münster 2005, 43-68.
4 B. HÄRING, Liberi e fedeli in Cristo. Teologia morale per preti e laici, I. Cristo
ci ha liberati perché restassimo liberi (Gal 5,1), Traduzione italiana di Renato Volante, Edizioni Paoline, Roma 1979, 7 [orig. ingl.: 1978].
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Non so se il valore di questo breve paragrafo sia risultato a tutti i
lettori particolarmente significativo, chiaro e convincente. Per me,
senza dubbio, si tratta di un passaggio molto istruttivo perché indica
almeno due linee direttrici lungo le quali rileggere al futuro il pensiero häringhiano.
La prima è quella che ci permette di ritenere sensato l’uso della
categoria menzionata fin dall’inizio, e cioè la capacità di futuro. Se la
capacità di futuro è data da un dinamico equilibrio tra conservazione e
riforma, alla luce delle affermazioni di Häring – peraltro pienamente
confermate, secondo me, da una lettura attenta dell’intera sua opera
– possiamo dire serenamente che in lui troviamo effettivamente la
volontà di elaborare un pensiero teologico capace di futuro; un pensiero, cioè, in grado di valorizzare al meglio la tensione tra fedeltà al
passato e ricerca coraggiosa di nuovi contenuti e di nuovi linguaggi5.
La seconda linea orientativa – che è certamente anche la più significativa – è rappresentata dall’appello che padre Häring sente provenirgli dalla sua stessa coscienza morale. Sentire di non poter semplicemente ritoccare il precedente manuale, La legge di Cristo, ma di
doversi spendere per dare vita ad una sintesi nuova è per lui non tanto l’ennesima opportunità editoriale di una lunga carriera, quanto
piuttosto, una questione di coscienza. Di conseguenza, veramente decisiva in questo frangente della sua vita non è una facile e comoda fedeltà ad un passato pur glorioso, ma la preoccupazione e il desiderio
“in coscienza” di essere «completamente libero per Cristo, per gli
uomini e per la Chiesa di oggi, e fedele al Vangelo e ai segni dei tempi come li percepisco e conosco in questa appassionante ora di grazia». Ecco la radice profonda di una teologia capace di futuro e, al
contempo, ecco il metodo per formulare un pensiero che sia all’al5
B. HÄRING, Problemi attuali di teologia morale e pastorale, Traduzione italiana
di A. Frioli, Edizioni Paoline, Roma 1965, 41 [orig. ted.: 1964] annota ancora:
«Il problema teologico delle generazioni si risolve e diviene fruttuoso in modo
ogni volta nuovo, se la teologia nella sua eterna giovinezza è aperta in egual misura alla tradizione ed alle questioni del presente. La teologia dev’essere in ogni
tempo proclamazione della verità eterna nel linguaggio del tempo e servizio alla
salvezza in piena apertura alle necessità ed alle forze positive dell’epoca».
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tezza del compito intravisto. Non a caso, parlando del Concilio, Häring è pienamente consapevole che un evento di tale portata non può
rappresentare solamente una sorta di statico punto di arrivo, bensì un
dinamico “processo di apprendimento”6, espressione che dice apertura al futuro pur senza comportare necessariamente un rinnegamento sbrigativo e acritico del passato. Del resto a conferma di questa indicazione, egli interpreta l’epoca conciliare come un tempo dove in gioco c’è «molto più che una serie di singoli problemi», quanto l’elaborazione di «una nuova sintesi, una nuova veduta d’insieme»7, di «una riflessione molto più profonda e radicale, che vada fino ai fondamenti della moralità cristiana»8.
3. Possibili declinazioni della “capacità di futuro”
Dopo aver giustificato la pertinenza della chiave ermeneutica utilizzata, rimane un ultimo passo da compiere e cioè declinare la capacità
di futuro riconosciuta al pensiero di Häring, mettendo in evidenza
quali sono le intuizioni che meritano di essere citate perché ancora stimolanti per la ricerca teologico-morale attuale. Anche in questo caso,
quest’ultimo paragrafo sarà articolato in due momenti: tenterò dapprima di ripresentare lo sguardo con cui lo stesso padre Häring, nei suoi
ultimi anni di vita, scrutava il futuro della teologia morale, mentre in
un secondo momento proporrò le mie riflessioni personali in merito.
Per svolgere questa prima parte, il punto di riferimento obbligato
sono gli ultimi e agili scritti del nostro teologo – il periodo è quello
compreso tra il 1993 e il 1997 – nei quali è evidente come egli, ormai
alla fine di una lunga vita di studio e di insegnamento, lasci spazio al
fluire dei ricordi e all’incalzare delle aspettative, dei sogni e delle preoccupazioni per il futuro della Chiesa e della teologia morale, in libertà di
pensiero e di espressione. Ripercorrendo queste pagine è facile capire
6
7
8
Cfr. B. HÄRING, Liberi e fedeli, I, 11.
B. HÄRING, Problemi attuali, 14.
B. HÄRING, Problemi attuali, 46.
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quali sono le questioni che a giudizio di Häring necessitano più di altre
di essere approfondite con speciale cura e lucidità intellettuale. Dal
quadro che emerge, si può subito notare come in primo piano compaiano le tematiche di morale speciale che Häring ha già trattato nei
suoi scritti ma che – sfiorato dal dubbio che i teologi della sua generazione abbiano spesso investito molte energie nella trattazione di problemi secondari – egli considera come meritevoli di ulteriore sviluppo
teorico-pratico. In concreto si tratta delle seguenti problematiche: in
primo luogo, padre Häring afferma che «dovrebbero assumere una posizione chiave in ogni teologia morale rinnovata» le tematiche «relative alla violenza e alla non violenza nel complesso della storia umana e,
in particolare, ai nostri giorni»9; in secondo luogo, la sensibilizzazione
delle coscienze circa l’ingiustizia che segna profondamente i rapporti
tra Nord e Sud del mondo e che incombe pesantemente sulle possibilità di una vita sana e pacifica per le generazioni future10; da ultimo, infine, lo sviluppo di un’«etica ecologica responsabilmente sostenibile»11,
9
B. HÄRING, È tutto in gioco. Svolta nella teologia morale e restaurazione, Queriniana, Brescia 1994, 75. Per completezza, cfr. B. HÄRING, Il coraggio di una
svolta nella Chiesa, Queriniana, Brescia 1997, 66-71, dove il nostro autore ripropone comunque le medesime considerazioni.
10 Cfr. B. HÄRING, È tutto in gioco, 77. Considerando la crescente attenzione
che la cosiddetta “etica delle generazioni future” ha acquistato nella letteratura
ecologica più recente, questa intuizione del nostro autore rivela una volta di più
la sua particolare sensibilità per i fenomeni e le tendenze culturali emergenti.
Cfr. E. AGIUS, “Un patto tra le generazioni”, in Etica per le professioni 2 (2000)
9-16; E. GREBLO, “Après nous le deluge. La questione della giustizia intergenerazionele”, in S. MORANDINI (a cura), Per la sostenibilità. Etica ambientale e antropologia, Fondazione Lanza-Gregoriana, Padova 2007, 191-205. Non a caso, S.
MORANDINI, Il lavoro che cambia. Un’esplorazione etico-teologica, EDB, Bologna
2000, nota 4, 43 nota come l’etica ecologica proposta da Häring in Liberi e fedeli in Cristo abbia rappresentato una tra le «due eccezioni di assoluto rilievo» nel
panorama della teologia morale italiana, che ha sostanzialmente ignorato le problematiche ecologiche almeno fino alla prima metà degli anni Ottanta.
11 B. HÄRING, È tutto in gioco, 78. L’espressione citata è senz’altro mutuata dal
lessico specifico del movimento ecumenico, che ha avuto un ruolo di primo piano nell’elaborazione di una prima riflessione etica sulla sostenibilità. Cfr. S. MORANDINI, “Teologia e sostenibilità”, in ID. (a cura), Per la sostenibilità, 207-234.
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da porre «al centro dell’attenzione della morale applicata»12, dal momento che la distruzione delle basi ecologiche della vita umana non
è più un lontano miraggio, ma è ormai alla portata dell’uomo.
Passando alla seconda parte di quest’ultimo paragrafo, vorrei indicare le prospettive del pensiero häringhiano che personalmente
ritengo maggiormente promettenti e degne di essere riprese e sviluppate dalla teologia morale contemporanea. In prima battuta partirei da lontano, e cioè dal 1950, l’anno in cui Häring pubblica la sua
dissertazione dottorale intitolata Il sacro e il bene. Rapporti tra etica e
religione13. In quel testo, infatti, in virtù di una scelta ponderata e
precisa, l’avvio della riflessione sui rapporti tra religione e morale
sviluppata nel corso dell’opera è la descrizione fenomenologica sia dei
principali fenomeni religiosi (preghiera, culto, fede, rivelazione) sia
dei costitutivi dell’esperienza morale (valore, dovere, libertà, coscienza). Häring è convinto che il metodo fenomenologico sia il più
rispettoso verso il proprio oggetto di studio, dal momento che non
si prefigge di determinare in linea di principio che cosa debba essere la religione – e di conseguenza la morale –, ma vuole percepire il
modo in cui essa intende sé medesima14. Certo, scorrendo l’intera
produzione teologica del nostro autore, si ha la sensazione che tale
opzione metodologica iniziale perda progressivamente di consistenza, soprattutto a motivo del fatto che Häring, a proposito dei rapporti tra religione/fede e morale, continuerà imperterrito a riproporre il medesimo impianto filosofico adottato nella dissertazione
12
B. HÄRING, È tutto in gioco, 79. In proposito, scrive ancora B. HÄRING, È
tutto in gioco, 81: «Non appena prendiamo coscienza della nostra responsabilità
planetaria, quale ci viene suggerita dalle odierne conoscenze sul destino del nostro pianeta e sui nostri comuni compiti ecologici, ci vediamo posti di fronte ad
una decisione fondamentale: o optiamo per la salvezza di tutti o optiamo per
l’invischiamento in una solidarietà abissale e illimitata della perdizione».
13 Cfr. B. HÄRING, Il sacro e il bene. Rapporti tra etica e religione, Traduzione
italiana a cura delle Benedettine di S. Magno, Morcelliana, Brescia 1968 [orig.
ted.: 1950]. La traduzione italiana del sottotitolo, così come appare nel frontespizio dell’opera, è imprecisa. Una migliore resa, per altro più rispettosa del
contenuto, suonerebbe così: Religione ed etica nel loro reciproco rapporto.
14 Cfr. B. HÄRING, Il sacro e il bene, 19.
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dottorale. La sua prima intuizione, comunque, rimane tuttora di
grande attualità, almeno a mio modo di vedere. Credo infatti che la
valorizzazione del metodo fenomenologico è una strada feconda e
in un certo senso obbligata per la teologia morale contemporanea.
Rinunciare in partenza ad una fenomenologia dell’esperienza morale, infatti, rischia di imprigionare il sapere teologico-morale all’interno di una visione riduttiva, a volte distorta e, altrettanto spesso,
parallela rispetto alle dinamiche dell’agire vissute dal cristiano e, in
definitiva, da ogni uomo, finendo così per alimentare rappresentazioni intellettualistiche, naturalistiche e apatiche dell’esperienza
morale stessa15.
In secondo luogo vorrei segnalare come elemento di grande interesse la valorizzazione dei fenomeni culturali che Häring riesce a realizzare nel corso di tutta la sua vicenda umana e intellettuale, dimostrandosi in grado di recepire quella “scoperta della cultura” iniziata
nei primi decenni del ’900 con la nascita dell’antropologia culturale
e fatta propria dall’autorevole magistero di Gaudium et spes. Credo di
avere sufficientemente dimostrato nella mia ricerca dottorale come
progressivamente il nostro autore maturi una feconda capacità di
correlazione tra gli impulsi provenienti dalla cultura del tempo e le
istanze proprie della più genuina tradizione teologica16. Anche a tale
proposito, però, l’impresa häringhiana è tutt’altro che conclusa. Rimango convinto, infatti, che di fronte alla cultura postmoderna non
si possa più pensare e operare con l’idea di cultura fatta propria dal
nostro teologo. Soprattutto, però, penso sia un compito tutto da realizzare quello di spingersi oltre la mera descrizione dei rapporti intercorrenti tra teologia e cultura per elaborare una teoria in grado di
15
Per quanto attiene a queste considerazioni, sono debitore del pensiero
teologico-morale di G. ANGELINI, in particolare del suo Teologia morale fondamentale. Tradizione, Scrittura e teoria, Glossa, Milano 1999, 3-53.
16 Cfr. G. QUARANTA, La cultura pieno sviluppo dell’umano. Il concetto e la funzione della cultura nel pensiero di Bernhard Häring, Editiones Accademiae Alfonsianae, Roma 2006. Cfr. B. HIDBER, “Der Bereich der Kultur in der Moraltheologie Bernhard Härings”, in A. SCHMIED-J. RÖMELT (Hg), 50 Jahre: “Das
Gesetz Christi”, 69-91.
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comprendere e di interpretare in profondità i complessi dinamismi
esistenti nell’interazione di cultura ed etica17.
In terzo luogo vorrei puntualizzare l’importanza riservata da Häring al dato relativo alla pluralità delle culture. Il nuovo orizzonte della teologia morale è infatti rappresentato da un mosaico composito e
variopinto di culture per molti versi profondamente differenti le une
dalle altre. Il nostro teologo è affascinato da questa sfida e, sospinto
da un interesse più pratico-pastorale che teorico, si impegna alacremente per riflettere sulle prospettive che il nuovo scenario apre all’evangelizzazione e all’inculturazione della morale cristiana. In questo
contesto l’elemento di maggiore interesse, a mio modo di vedere, è
la prudenza dimostrata da padre Häring nel tentativo di articolare dimensione universale e dimensione particolare di ogni cultura. Egli si lascia guidare nuovamente dall’insegnamento di Gaudium et spes, dove
si registra l’incipiente preparazione di «una forma più universale di
cultura umana», ma dove, al contempo, si precisa che tale cultura
«tanto più promuove ed esprime l’unità del genere umano, quanto
meglio rispetta la particolarità delle diverse culture» (n. 54). In questa linea mi sembra importante ribadire come anche padre Häring si
guardi bene dall’interpretare l’universalità richiamata nel segno di
un’unica super-cultura che riassuma in sé, annullandole, tutte le differenze; tale universalità, piuttosto, è da lui immaginata nel segno di
una convergenza di tutte le culture intorno ai valori fondamentali
della coscienza, dell’intelletto, della volontà e della fraternità. In questa direzione, il pluralismo culturale di fatto esistente riveste un significato positivo per la convivenza tra gli uomini e per la libertà del
Vangelo, che in forza della sua natura trascendente non si identifica
con alcuna cultura particolare, tanto meno con quella occidentale.18
17
Cfr. M. MCKEEVER, “Cultura e etica in Bernhard Häring”, in Segno
XXXIV 292 (2008) 26-27.
18 Come già ribadito negli scritti precedenti, B. HÄRING, Dinamismo della
chiesa in un mondo nuovo. Riflessioni sulla costituzione “La chiesa nel mondo contemporaneo”, Traduzione italiana di F. Spaduzzi, Cittadella, Assisi 1969, 121 [orig.
ingl.: 1968] scrive in linea con il magistero della Gaudium et spes: «La chiesa può
avvantaggiarsi enormemente della universalità della cultura moderna e del suo
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Certamente, assumendo una simile presa di posizione Häring, pur
nell’intento di relativizzare qualsiasi concretizzazione storica della
morale cristiana per non annullare, di fatto, l’eccedenza e il carattere
transculturale del Vangelo, insinua l’idea che il Vangelo stesso, così
come la fede e la morale cristiana potrebbero esistere – prima della
loro incarnazione in una cultura – in forma quasi sovra-culturale e
parimenti accessibile presso tutti i popoli, presso tutte le culture e in
tutti gli spazi geografici. Non possiamo dimenticare, tuttavia, che
quello del nostro teologo è soltanto il primo abbozzo di una riflessione tanto impegnativa quanto di cruciale importanza per l’attuale
configurazione multiculturale del nostro mondo ed è quindi da valutare in termini estremamente positivi nonostante i limiti teorici che
presenta. Tuttavia, come abbiamo potuto già presagire, la questione
rimane del tutto aperta e richiede senz’altro un supplemento di lavoro intellettuale sia sul versante del sapere antropologico sia sul versante di una rinnovata teologia dell’inculturazione e della missione.
Comunque sia, sono convinto che la bontà delle intuizioni di padre
Häring trovi ulteriori conferme se confrontata con le considerazioni
molto più recenti che J. Ratzinger ha formulato nel celebre dialogo
con J. Habermas (gennaio 2004)19. Per l’allora Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, infatti, il fenomeno dell’interculturalità dimostra non solo come «la discussione intorno alle questioni fondamentali sull’essere uomo [...] non può essere condotta né
solo all’interno del cristianesimo né solo nell’ambito della tradizione
occidentale della ragione»20. Anzi – continua Ratzinger – alla luce
dell’attuale situazione mondiale, si può senza dubbio affermare come
«un dato di fatto»:
pluralismo, a patto che essa stessa però, per quanto possibile, realizzi la sua universalità che abbraccia veramente tutto nel pieno riconoscimento della varietà.
Il vangelo ha bisogno della pluralità della cultura per salvare la sua stessa libertà, per il suo carattere specifico che trascende ogni cultura particolare».
19 Cfr. J. RATZINGER, “Ciò che tiene unito il mondo”, in J. RATZINGER-J.
HABERMAS, Etica, religione e Stato liberale, a cura di M. Nicoletti, Traduzione italiana di G. Colombi e O. Brino, Morcelliana, Brescia 2005, 41-57.
20 J. RATZINGER, “Ciò che tiene unito il mondo”, 52.
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GIUSEPPE QUARANTA
«che la nostra razionalità “secolare”, per quanto chiara appaia alla
nostra ragione formata secondo modalità occidentali, non è evidente
ad ogni ratio; è un dato di fatto che essa, nel suo sforzo di rendersi
evidente come razionalità, urta certi limiti. La sua evidenza è attualmente legata a determinati contesti culturali, e deve per necessità riconoscere di non essere, come tale, riproducibile nell’intera umanità
e quindi nemmeno operativa in toto. In altre parole, non esiste una
formula per tutto il mondo, una formula, razionale, etica o religiosa
che sia, sulla quale tutti siano concordi e che possa sostenere la totalità. Ad ogni modo, al presente una tale formula non la si può raggiungere. Per conseguenza il cosiddetto ethos del mondo rimane
un’astrazione»21.
In conclusione, se consideriamo come anche Häring, tornando
sull’argomento agli inizi degli anni Ottanta, ricorderà l’impossibilità
di una reductio ad unum dei diversi codici e linguaggi culturali e, di
conseguenza, l’improbabilità di una morale universale coerente e priva di tensioni22, possiamo ribadire come la capacità di futuro contraddistingua davvero il suo lavoro teologico. Di conseguenza, possiamo concludere auspicando che molti di coloro che direttamente o
indirettamente si sono formati alla scuola di padre Häring sentano la
responsabilità di prolungarne la memoria e di valorizzarne pienamente le intuizioni più promettenti in libertà e in fedeltà creative.
21
J. RATZINGER, “Ciò che tiene unito il mondo”, 54.
Cfr. B. HÄRING, Liberi e fedeli in Cristo. Teologia morale per preti e laici, III.
Voi siete la luce del mondo (Mt 5,14), Traduzione italiana di C. Danna, Edizioni
Paoline, Roma 1981, 314 [orig. ingl.: 1981].
22
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PADRE BERNHARD HÄRING. UN TEOLOGO “CAPACE DI FUTURO”?
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SUMMARIES
Ten years after Father Häring’s death, this article tries to interpret the future
prospects of his moral theology. The author of this paper uses the expression
“Zukunftfhäigkeit” as an hermeneutical key. This is a concept belonging to the
environmental ethics and it refers to all those individual and social choices that
can ensure a future to all forms of life on earth. The author shows how the
thought of the Redemptorist theologian really reflected his sensitivity to future
prospects without neglecting the most prolific elements of theological tradition. This contribution focuses at first on the issues that Father Häring himself
considered urgent, not only to provide a future to moral theology but also to
defend mankind and the environment: violence and non violence, the inequity
between the least developed countries and the developed ones, the development of a sustainable environmental ethics. Then it presents some of the matters that should be investigated by the contemporary ethical-theological reflection: the improvement of the phenomenological method, the relationship
between culture and morality, the right balance between the universal features
and the peculiarities of each culture and ethics.
***
A los diez años de la muerte de padre B. Häring, el artículo intenta ofrecer una
nueva lectura hacia el futuro de su teología moral. El autor, usando como llave hermenéutica la expresión “capacidad de futuro” – una categoría recavada
de la ética ecológica que indica las elecciones tanto de carácter individual como social en grado de asegurar un futuro a todas las forma de vida sobre la
tierra – demuestra como el pensamiento del teólogo redentorista refleja efectivamente una abertura hacia el futuro sin comportar la remoción de los elementos más fecundos de la tradición teológica. Desde esta prospectiva la
contribución individua desde el inicio las custiones que según el mismo Häring son las más urgentes que hay que afrontar no sólo para garantizar el futuro de la teología moral, sino para salvaguardar la vida misma de la humanidad y del ambiente: la violencia y la no violencia, la injuticia en las relaciones
entre el Norte y el Sur del mundo y el desarrollo de una ética ecológica sostenible. Por último, el autor presenta los temas que, según su manera de ver,
merecen ser retomados y profundizados a través de la reflexión ético-teológica contemporánea: la valoración del método fenomenológico, la elaboración
de una teoría de la relación entre cultura y moral, la articulación de la dimensión universal y particular de cada cultura y de cada ética.
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GIUSEPPE QUARANTA
***
A dieci anni dalla scomparsa di padre B. Häring, l’articolo tenta di offrire una
“rilettura al futuro” delle principali intuizioni disseminate nei suoi scritti, verificando la possibilità di definire la teologia morale häringhiana in termini di “capacità di futuro”. L’autore, dopo aver chiarito che la “capacità di futuro” implica un equilibrio dinamico tra conservazione e innovazione, dimostra come il
pensiero del teologo redentorista rifletta effettivamente un’apertura verso il futuro senza comportare una rimozione degli elementi più fecondi della tradizione teologica. In questa prospettiva il contributo individua dapprima le questioni ritenute dallo stesso Häring come le più urgenti da affrontare non solo per
garantire futuro alla teologia morale, ma per salvaguardare la vita stessa dell’umanità e dell’ambiente: la violenza e la non violenza, l’ingiustizia nei rapporti tra Nord e Sud del mondo e lo sviluppo di un’etica ecologica sostenibile. Da
ultimo, l’autore presenta le tematiche che, a suo modo di vedere, meritano di
essere riprese e approfondite dalla riflessione etico-teologica contemporanea:
la valorizzazione del metodo fenomenologico, l’elaborazione di una teoria del
rapporto tra cultura e morale, l’articolazione della dimensione universale e particolare di ogni cultura e di ogni etica.
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THE ORIGINALITY
OF ALASDAIR MACINTYRE’S READING
OF AQUINAS ON JUSTICE
Martin McKeever, C.Ss.R.*
It is said that the test of a classic is that it can be read over and over
again with profit. While this telling characteristic is certainly to be attributed primarily to the exceptional quality of the text, it also depends on the quality of the reading and thus on the ability of the reader. When a reader of the calibre of Alasdair MacIntyre reads a text as
rich as the Summa Theologiae we may expect to gain by the occasion.
At a time when so many books age quickly, it is noticeable how topical MacIntrye’s works remain decades after their publication.
The strictly limited purpose of this piece is to revise MacIntyre’s
reading of Aquinas on justice, paying particular attention to the question of historicity. This latter term is used here, for want of a better
word, to express the author’s ardent conviction that whatever we
mean by ‘justice’ we have no access to it other than through history1.
What makes MacIntyre particularly interesting, however, is that he
combines this conviction with an outright rejection of moral rela-
* The author is an extraordinary professor at the Alphonsian Academy.
* El autor es profesor extraordinario en la Academia Alfonsiana.
An oral version of this article was delivered by the author to the “Cristo Sapienza”
Community in Palermo in February, 2008.
1
“So rationality itself, whether theoretical or practical, is a concept with a
history: indeed, since there are a diversity of traditions of enquiry, with histories, there are, so it will turn out, rationalities rather than rationality, just as it
will turn out that there are justices rather than justice.” A. MACINTYRE, Whose
Justice? Which Rationality? (London: Duckworth,1988) 9. Hereafter, in these
footnotes, this work will be referred to as WJWR.
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MARTIN MCKEEVER
tivism2. So, for him, it is perfectly possible to acknowledge the historicity of a theory of justice, without falling into relativism. He finds
confirmation of this general conviction in the particular case of
Aquinas, which he presents as a kind of exemplification of the principle. All of this is of obvious importance for contemporary moral
theology not just in so far as Aquinas is a theologian with a deep interest in morality, but also because in our modern and postmodern
times questions about the implications of historicity for ethics are being posed with a certain vehemence3. In such a context, MacIntyre’s
attention to the historicity of Aquinas’ treatment of justice remains
an important resource in the on-going search for adequate responses to such questions.
By way of better appreciating just why and how MacIntyre comes
to dedicate his energies to the question of justice in Aquinas, and why
historicity is so central to his interpretation, we will begin with a brief
biographical and bibliographical note on the author. In a second section we will attempt to outline MacIntyre’s overall philosophical project, within which his reading of Aquinas on justice must be located if
it is to be understood. A third section will revise MacIntyre’s treatment of justice in Whose Justice? Which Rationality (= WJWR). With
the help of broader and deeper theoretical considerations fournished
by Three Rival Versions of Moral Enquiry, (= TRV) a fourth section will
explore the originality of MacIntyre’s reading. A final section will attempt to spell out briefly the key lessons which moral theology can
2
MacIntyre, in fact, not only rejects relativism, he sets out to refute it:
“What I have to do, then, is to provide an account of the rationality presupposed by and implicit in the practice of those enquiry-bearing traditions with whose history I have been concerned which will be adequate to meet the challenges
posed by relativism and perspectivism... Notice that the grounds for an answer
to relativism and perspectivism are to be found, not in any theory of rationality
as yet explicitly articulated and advanced within one or more of the traditions
with which we have been concerned, but rather with a theory embodied in and
presupposed by their practices of enquiry...” WJWR, 354.
3 For a selection of essays which defend, at times indeed glorify, relativism
see E. AMBROSI (a cura di), Il bello del relativismo. Quel che resta della filosofia nel
XXI secolo (Venezia: Marsilio Editore, 2005).
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learn from the philosophical approach of MacIntyre, especially with
regard to the question of the historicity of moral enquiry.
The Life and Work of Alasdair MacIntyre
MacIntyre4 was born in 1929 in Glasgow of a Presbyterian family. As is well known, he was attracted for some time to a vision of
Marxism as the most convincing philosophy of life5. Two other important influences stem from this early period: classical studies and
English linguistic philosophy. Classics, as a field of knowledge, pervades MacIntyre’s work, most of all in the form of his esteem for Plato and Aristotle. During his time at Oxford, MacIntyre had contact
with such philosophers as Ryle, Strawson, Hare and Ramsey. While
he is presumably indebted to them, at least in part, for his sensitivity
to questions of language and translation, it is significant that he never aspires to join this school, finding it too rareified an approach, particularly to ethical matters. These few biographical facts already go
some way to explaining certain key characertistics of this author: a
visceral attachment to the cause of justice, rare philosophical acumen
and an extraordinarily wide cultural background.
After a number of substantial and respected publications6, MacIntyre made his name in moral philosophy with After Virtue7 in 1981.
This work exposed him to a certain amount of criticism, in particu4
Italian readers can find a brief but informative “bio-biografia” of MacIntyre by Marco D’Avenia in A. MACINTYRE, Enciclopedia, genealogia e tradizione. Tre
versioni rivali di ricerca morale. Trad. Andrea Bochese e Marco D’Avenia. Presentazione di Vittorio Possenti. (Milano: Editrice Massimo, 1993) 328-333.
5 Cf. Introduction to A. MACINTYRE, Marxism and Christianity. Second Edition (London: Duckworth, 1995).
6 Most notably: A Brief History of Ethics (New York: MacMillan, 1966);
Against the Self-Images of the Age. (London: Duckworth, 1971).
7 After Virtue. A Study in Moral Theory, University of Notre Dame Press, Notre
Dame 1981. For a discussion of this work in the context of MacIntrye’s understanding of moral tradition see T. KENNEDY, “The Intelligibility of Moral Tradition in the Thought of Alasdair MacIntyre”, Studia Moralia 29 (1991) 305-321.
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lar with regard to certain alleged relativist implications of his
thought. Having at this stage established himself in the higher realms
of the university circuit in the United States, he set himself the task
of responding to the charge of moral relativism in an ongoing research project which issued eventually in the works with which we
will be here concerned WJWR and TRV.
A final point of some interest at a biographical level is the way the
author’s self-definition emerges: against a backdrop of Scottish Presbyterianism and Marxism, he moves from describing himself as an
“Augustinian Christian”8 in WJWR to declaring himself “a Thomist”9
in TRV. It is also worth noting, en passant, that, rather like Karl Marx
among the marxists, MacIntyre does not recognise himself as “a communitarian”, despite the wide-spread use of this label in his regard.
MacIntyre’s Philosophical Project
Behind the bare facts just noted in MacIntyre’s biography, there
lies a complex and arduous philosophical project. The breadth and
depth of this project are well beyond our present scope, but a general idea of it is necessary in order to set the scene for MacIntyre’s reading of Thomas on justice.
There is little doubt that After Virtue constitutes the flagship of
this project. As noted above, it was to some extent the partially critical reaction to this work which prompted him to undertake WJWR
and TRV. In these he takes up and refines lines of thought which are
already apparent in earlier works, particularly in After Virtue. One of
the central targets (and there is often something belligerent about his
style of writing!) of his thought in all these works is what he variously terms ‘modernity’ or ‘the Enlightenment’ or more specifically ‘the
Enlightenment project’. Writing, in 1993, the Preface to the Italian
translation of TRV, MacIntyre looks back on his project and usefully
8
9
WJWR, 10.
TRV, 20.
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lists three sets of theses which he was exploring in the ‘series’ of
books comprising After Virtue, WJWR and TRV. These theses may
be paraphrased as follows:
The aspiration of the Enlightenment to establish universal moral
precepts on the basis of reason without recourse to tradition and authority has proved to be illusory10.
Abandoning this Englightenment project, the task of philosophy now
is to revisit the classical tradition of virtue ethics and seek to perpetuate it in a manner suited to the new cultural context11.
The alternative to a postmodern, nihilistic critique of modernity is a
recuperation of the Thomistic moral tradition capable of refuting the
claims of liberal modernity and of postmodernity12.
What MacIntyre expresses briefly in this Preface he explains at
great length and in great detail in the course of the three books mentioned. It is helpful to notice, even at this general level, how deeply
the question of historicity is involved in the theses outlined above.
The first set of theses helps us to understand that MacIntyre is reacting to an ‘ahistorical’ position: he rejects the idea that moral philosophy can gain access to universal truths (including those of justice) by
10
“... il progetto elaborato dai filosofi morali dell’Illuminismo del diciottesimo secolo che mirava a identificare una serie di precetti morali universali, giustificabili razionalmente e accettabili da parte di ogni individuo razionale, era
fallito e fallito per una sorte di autoconfutazione.” TRV, 15.
11 “Una seconda serie di tesi cercava di ricostruire una tradizione più antica,
la cosiddetta tradizione della virtù, che traeva le sue origini dal pensiero e dalla
vita dell’antica polis greca, la cui trattazione classica più compiuta si legge in
Aristotele, e venne in seguito sviluppata da pensatori medievali.” Ibid., 16.
12 “O ci allineiamo con la formulazione critica più radicale del pensiero illuministico espressa dalla modernità, quella di Nietzche per intenderci, accettando evidentemente anche i suoi atteggiamenti antagonistici nei confronti della
religione e il rifiuto prospettivistico della verità e dell’oggettività, oppure possiamo ritornare a sostenere il punto di vista artistotelico, cercando di rimettere in
vigore in termini contemporanei la più antica tradizione delle virtù” Ibid., 16.
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prescinding from historical, social and cultural conditions. The second set of theses, more positive and constructive, is closely tied to the
question of historicity in that it poses the question of how the fruits of
moral enquiry are transmitted over time and how they can go lost in
the process. The third set of theses involves establishing the difference between historicity and relativism in that it aspires to make a
claim to truth from within the Thomistic moral tradition which has
application beyond that tradition. We will have reason to return to
these themes in our discussion of MacIntyre’s reading of Thomas on
justice, for the moment it is sufficient for our purposes to notice how
germane the question of historicity is to MacIntyre’s thought.
MacIntyre’s Reading of Thomas on Justice in Whose Justice?
Which Rationality?
Having thus outlined the broader context of MacIntyre’s thought
and noted the centrality of the theme of historicity, we turn now to
the specific task envisaged in this piece. In this regard there is a complex relationship between WJWR and TRV. MacIntyre’s reading of
Thomas on justice is primarily to be found in the earlier work, dedicated at least in part to the theme of justice. (Even in this case, however, it is important to notice that the author’s primary interest is not
in justice as such but in the traditions of enquiry which have sought
to understand justice, as they have sought to understand other moral
questions). TRV, however, provides valuable theoretical reflections
on the central themes of the former work, indeed there is a sort of
parallellism between the two to the extent that much of the same
ground is covered but in a more reflective and critical way in the latter work. In this section, therefore, we will examine the reading of
Aquinas on justice which we find in WJWR, leaving evaluative comment on its originality to the next section, in the light of MacIntyre’s
broader thought on moral theory as found in TRV.
Before turning to the two chapters of WJWR dedicated to the
theme of justice in Aquinas, it is important to take cognisance of a
number of features of this work as a whole.
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A first important consideration concerns its narrative nature.
MacIntyre understands himself to be narrating what he calls “traditions of enquiry”, indicating by this term a whole vision of how
moral practice and theory interact in given communities over time13.
This theory extends to the study of the interaction between rival traditions as they encounter each other in the course of history. In fact
by the time the author comes to narrate Aquinas’ understanding of
justice in WJWR, he has already told the story of Aristotle and of
Augustine on justice. His reading of Thomas on this theme is simply incomprehensibile without an appreciation of this narrative
background.
A second important consideration with regard to the overall project in WJWR is MacIntyre’s attention, intimated in the title, to the relationship between justice and practical rationality as it is exercised in
the different traditions. Fundamental to his understanding of traditions of enquiry, as noted earlier, is the claim that there is not just one
form of rationality but that rationality itself takes on different forms,
partly determined by the institutional structures of the community in
which it is being exercised14. If this is the case, it has obvious consequences for the interpretation of Aquinas on justice, particularly by
the reader immersed in the forms of rationality typical of modernity.
Aquinas does not share such forms of rationality, but rather operates
out of a vision of practical rationality which is integrated into his overall metaphysical theology. This is why, in the first of the two chapters
dealing with Thomas, MacIntyre feels the need to revise his
(Thomas’) theory of truth and reality as well as his underlying understanding of practical reason and natural law as expressed in the Prima
13
“When I speak of moral enquiry, I mean something wider than what is
conventionally, at least in American universities, understood as moral philosophy, since moral enquiry extends to historical, literary, anthropological, and
sociological questions.” TRV, 3. For a detailed account of MacIntyre’s understanding of this term see M. MCKEEVER, “God’s Justice? Right Reason? Justice
and rationality in Catholic Social Teaching in the light of Alasdair MacIntyre’s
conception of traditions of enquiry.” Studia Moralia 43/1 (2005) 297-317.
14 Cf. WJWR, 10.
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Secundae15. The link between forms of rationality and institutional
structures also explains the amount of time MacIntyre dedicates in the
two chapters on Aquinas to the depiction of institutional structures
such as the Church, the civitas, the university etc.
A third broad consideration concerns the dialectical nature of moral
enquiry both within specific traditions and most of all between these
traditions. A good deal of WJWR is dedicated to illustrating and
analysing the conflictual nature of moral enquiry in so far as in the
course of history new social conditions give rise to new traditions
which challenge the presuppositions of existing ones16. In this sense
it is important to note that the conflict which surrounds the emergence of the Thomistic tradition is typical of what happens when rival traditions encounter each other.
Keeping these three major features of WJWR in mind we can better appreciate Aquinas’ reading of Thomas on the specific theme of
justice. A striking feature of the two chapters dedicated to this theme
is that they contain relatively little direct reference to the tract on
justice in the Summa Theologiae. The direct commentary on the questions S.T. IIa-IIae 57-79 which is offered takes the form of a straightforward synthesis with some interesting observations. In the course
of a few pages17 the author covers what Aquinas has to say about ius,
distributive and commutative justice, positive law, usury and various
more specific themes. So what is MacIntyre doing the rest of the
time? The answer is that he is instructing the reader on the context
within which this treatment of the theme of justice occurs. Only if we
appreciate this context, he constantly insists, will we be able to interpret correctly the texts explicitly dedicated to justice.
15
See in particular WJWR 170-177, including the fundamental statement
“Similarly we apprehend good as the most fundamental concept in forming
practical activity and make explicit what we apprehend in the recognition which
our actions accord to the principle that good is to be done and evil to be avoided” (173).
16 MacIntyre outlines the two principal stages in such conflicts in WJWR,
166-167.
17 Cf. WJWR, 198-202.
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By ‘context’ here MacIntyre means, among others, the context of
the Summa, the context of Aquinas’ overall metaphysical theology
and the context of the interaction between Aquinas and the two rival
traditions of enquiry to which he adhered.
As regards the immediate context of the Summa, MacIntyre is insistent that only a holistic reading is legitimate, meaning by this that
the interpretation of any one part must keep in mind the rest, particularly what has already been established18. The reason why the Summa must be read holistically is because it is conceived of as a dialectical construction in which Aquinas seeks to pose questions systematically and provide the best possibile answers to them.
MacIntyre is equally insistent on the importance of the context of
Aquinas’ theology. Aquinas’ view of justice is intrinsically theological
in that he understands justice as being grounded in God19. So when
we read Thomas on justice in the Secunda Secundae, we must keep in
mind what has already been established about God in the Prima Pars.
This again helps explain the attention MacIntyre pays to earlier,
more theological, parts of the Summa prior to undertaking a reading
of the questions on justice.
The context which most interests and occupies MacIntyre is that
of the interactions between traditions of enquiry. Having narrated in
some detail both the Aristotelean and the Augustinan moral traditions on justice he is at pains to point out that the achievement of
Aquinas is to conceive of a theological stance capable of integrating
18
“It is therefore important when one treats of Aquinas’ developed views on
particular topics or issues, as I shall be doing in discussing his accounts of justice and of practical rationality, not to abstract these in piecemeal fashion and
treat them in too great isolation from the context supplied by his overall point
of view and method.” WJWR, 164.
19 “The right place to begin is not with Aquinas’ discussion of the virtues,
but with his metaphysical theology. For just as there is an inescapably theological dimension to prudence even as a natural virtue, so there is also such a dimension to justice... It is not of course that it is by reference to this divine exemplar that we acquire the concept of justice...But that there is such a timeless
standard of justice is a claim ultimately grounded on a theological understanding of the ordering of things...” WJWR, 198.
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the best of each of these. MacIntyre explains how this is possibile only through a method of enquiry such as that of dialectical construction in which Aquinas brings rival claims into direct confrontation
with each other and establishes their respective merits through dialectical argument20.
Having reviewed the treatment of justice in WJWR in this way we
may proceed to a consideration of its originality, drawing now also on
the more general philosophical reflections of TRV.
The Originality of MacIntyre’s Reading
When we consider the originality of a reading one important
question is “original with respect to what and to whom?” The originality of MacIntyre’s reading of Thomas on justice in WJWR, as presented in the previous section, consists primarily in his collocation of
Thomas in an on-going narrative which goes back to Aristotle and
Augustine. This originality does not consist in the simple assertion
that Thomas, on justice as on so many other questions, offers a synthesis of Aristotle and Augustine. So much would be more or less a
common-place. The originality consists rather in the form of the
narrative itself, shaped as it is by MacIntyre’s conception of the role
of practical rationality within traditions of enquiry. So in this work
MacIntyre can be seen to be original with respect to authors who
note the synthesis but do not narrate the story.
In TRV the originality of MacIntyre’s reading of Aquinas on justice emerges in a rather different light. In this work, written some
20
MacIntyre describes Aquinas’ project in the following terms “... that of developing the work of dialectical construction systematically, so as to integrate
the whole previous history of enquiry, so far as he was aware of it, into his own.
His counterposing of authority to authority was designed to exhibit what in
each could withstand dialectical testing from every standpoint so far developed,
with the aim of identifying both the limitations of each point of view and what
in each could not be impugned by even the most rigorous of such tests.”
WJWR, 206.
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years later and obviously after an intensive study of Thomism, the
author is concerned with the philosophical differences which underlie different “versions of moral enquiry”. As already evident in
WJWR21, it emerges that it is often precisely these broader and deeper philosophical differences which explain conflicting understandings
of justice. In this sense the originality of MacIntyre’s reading of
Thomas on justice can only be appreciated in the context of the originality of his overall reading of Thomas. Noting the different readings of Aquinas within “Thomism”, MacIntyre is very critical of
Thomist scholars who attempt to respond to the Enlightenment critique of traditional moral theories by accepting the terms of that critique and trying to present the thought of Aquinas in those same
terms22. He aspires to present an interpretation of Aquinas which
avoids this error by refusing the terms of the critique and finds allies
in this regard among some lines of Thomistic scholarship23. So his
reading of Thomas is original also with respect to certain readings of
Aquinas within the Thomistic tradition.
Apart from this preliminary consideration, the originality of MacIntyre’s reading of Thomas on justice may be examined under the
following headings: his fundamental conviction concerning the historicity of moral enquiry as expressed in his theory of traditions; his
consequent method of narrative reconstruction in which he narrates
the process by which Thomas combines elements from Aristotle and
from Augustine; his insistence on moral virtue as a prerequisite for
understanding Aquinas; his personal adherence to the Thomist tradition. All of these themes, with the exception of the last, having already been discussed extensively in WJWR, are taken up again in
TRV in the context of a broader theoretical discussion of the various
versions of moral enquiry. In this section we will consider how these
lines of thought, as expounded in parallel terms in both books, together constitute the originality of MacIntyre’s reading.
21
WJWR, 4.
TRV, 69-76.
23 TRV, 67, 77.
22
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As regards the historicity of moral enquiry, we must remember
what was said earlier about MacIntyre’s philosophical project having
its roots in a rejection of the Enlightenment aspiration to articulate
universal, rationally convincing truths, while prescinding from authority and tradition. The basis of such a claim, MacIntyre judges, is
a certain vision of the relationship between rationality, morality and
history. In TRV this view is called “Encyclopedia”24, using this term
to represent that form of Enlightenment rationality exemplified in
the Ninth Edition of the Encyclopedia Britannica25. Against such a
view, MacIntyre proposes “Tradition”, using this term to represent
the form of rationality operative in the classical, Thomistic tradition.
MacIntryre insists that it is only in and through traditions of enquiry
that we can gain access to universal truths, including those of justice26. The cornerstone of his theory of traditions of enquiry is the
relationship between practical reason and moral practices within the
institutional structures of given communities. In TRV MacIntyre
takes up the theme of education in the crafts27 as an analogue for the
24
“For the encyclopaedist this history [of philosophy] is one of the progress
of reason in which the limited conceptions of reasoning and practices of rational enquiry generated by Socrates, Plato, and Aristotle were enlarged by their
successors, albeit with new limitations, and then given definitive and indefinitely improvable form by Descartes.” TRV, 58.
25 TRV, 2.
26 “... just because at any particular moment the rationality of a craft is justified by its history so far, which has made it what it is in that specific time, place
and set of historical circumstances, such rationality is inseparable from the tradition through which it was achieved. The participant in a craft is rational qua
participant insofar as he or she conforms to the best standards of reason discovered so far, and the rationality in which he or she thus shares is always, therefore, unlike the rationality of the encyclopaedic mode, understood as a historically situated rationality, even if one which aims at a timeless formulation of its
own standards which would be the final and perfected form through a series of
successive reformulations, past and yet to come.” TRV, 65.
27 The theme of the crafts, which had been already prominent in WJWR, is
given even more weight in TRV, to the point of considering, with Aristotle, philosophy itself a craft. “In holding that to be committed to becoming philosophes
is to embark on a technē, Aristotle of course only restated what he had learned
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processes involved in education in justice within the polis. Just as the
standards of quality in, for example, art, rhetoric or poetry, are derived from evaluative reflection on the practice of these crafts as it is
undertaken in the course of time28, so too human beings learn the
standards of justice through critical reflection on the practice of justice, or, by way of contrast, on the practice of injustice. MacIntyre is
at pains to show that Thomas follows Aristotle in this view of justice
as a virtue which has to be acquired through practice.
This brings us to the question of method, certainly an original
feature of MacIntyre’s account. It is necessary to distinguish here between Thomas’ own method of dialectical construction as seen in the
previous section, and MacIntyre’s method of narrative reconstruction
(of traditions of enquiry). In TRV MacIntyre engages in a detailed
narration of how Thomas, within the university institutions of his
time, develops this method of dialectical construction29. He also insists that the only way to represent correctly Aquinas’ synthesis is to
narrate the story of how he combined the rival traditions. There can
be no question here of repeating, even synthetically, this narrative as
such, it must suffice to notice that MacIntyre’s method is narrative
because of the conviction about the historicity of moral enquiry both
within Thomas and since Thomas. In this sense, as mentioned above,
the whole story of Aquinas on justice is used by him in both books as
an extraordinary exemplification of this deeper conviction.
Without attempting to retell the story, it will be useful to briefly
note what, in terms of thematic content, Aquinas takes from Augusfrom Socrates and Plato. And when in the middle ages conceptions of craft were used to characterize enquiry (the word ‘ars’ as used in ‘ars liberalis’ means precisely what technē means; the liberal arts are the crafts of free persons), it was
upon either Plato or Aristotle that authors drew to inform that conception of
their practice.” TRV, 61. For a detailed study of the idea of craft in the Summa
Theologiae see M. MCKEEVER, “Health and Craft as Adumbrations of Justice:
Suggestive Analogies and Crucial Distinctions (Summa Theologiae, I-II, qq. 4667)” in Studia Moralia 43/2 (2005) 545-564.
28 TRV, 62-66; 127-130.
29 Cf. Chapter 5 of TRV “Aristotle an/or/against Augustine: Rival Traditions
of Enquiry” 105-126.
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tine and what he takes from Aristotle in the course of the narrative. It
would be hugely simplistic, in MacIntyre’s view, to find isolated statements on justice as a virtue in Augustine and similar phrases in
Thomas and conclude that there is a basic continuity. In concrete
terms MacIntyre explains that Thomas takes from Aristotle his model of the relationship between the supreme good and other goods, his
understanding of the process of deliberation which issues in moral action and his general theory of the human act30. A key aspect of MacIntyre’s interpretation is his acknowledgement that in his account of
justice Aquinas integrates Aristotle into a theological vision of Paul
and Augustine rather than vice-versa31. What Aquinas takes from Paul
and Augustine, apart from an overall theological metaphysical vision,
is the key concept of mala voluntas together with a doctrine of grace32.
The key point here is that Aquinas modifies the Aristotelean tradition
in order to preserve fundamental elements from St. Paul and St. Augustine. In this light we can understand better how absurd it would be
to extract specific statements on justice from the questions treated by
Aquinas and represent them as his theology of justice.
One of the most original aspects of MacIntyre’s reading of
Thomas, especially relative to contemporary liberal modes of understanding justice, is his acceptance of the Aristotelean principle that in
order to understand justice it is necessary to acquire the virtue of justice33. MacIntyre develops this idea in terms of practical rationality
and insists that only a person who has acquired the virtue will be able
to judge what is just. This leads on to a range of reflections concerning education in the virtues, the perfection of the virtues and so
forth, but the basic principle of virtue as a prerequisite of rational
judgement remains firm.
Even more original, and utterly at odds with contemporary tendencies, is MacIntyre’s declaration that he adheres to the Thomist tra-
30
WJWR, 189.
WJWR, 182.
32 WJWR, 181.
33 Cf. TRV, 130.
31
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dition. It is mostly in TRV that this position is explained. It is a logical consequence of what he has been saying in theoretical terms over
the period of composition of WJWR and TRV. If there is no neutral
rational ground over and beyond the actual traditions of moral enquiry, then when MacIntyre discusses justice he, like everyone else,
does so necessarily from within some such tradition. Only gradually
does MacIntyre realize this adherence in theory and practice.
All of this is also a corollary of what he has been saying all along
about the dialectial, indeed the conflictual, nature of moral enquiry. If
rival theories oppose each other on the undersanding of justice, then
anyone who wishes to enter the debate must assess the contending positions and then either adhere to what he/she considers the most convincing of the existing positions or propose a new one. Consistent
with such considerations, MacIntyre declares his conviction that the
tradition of moral enquiry which we find in Thomas is the most satisfactory available and so warrants adhesion34. At the same time, still
in line with the principles enunciated, if some new evidence or argument were to appear which put in question the Thomistic position,
MacIntyre would consider himself obliged to revise his judgement.
Moral theology after MacIntyre
If one were to judge by the amount of literature produced about
MacIntyre, the number of his works that have been translated into
various languages and the number of conferences dedicated to his
thought, one might be led to believe that this thought had been well
received in academic circles and beyond. No such conclusion can be
made in terms of moral theology as a discipline. There are no shortage of books, articles and theses in moral theology dedicated to his
thought both in English and increasingly in other languages. What is
34
“Ed è stato allora in gran parte perché mi sono convinto che le maggiori
tendenze nella filosofia moderna mancavano delle risorse necessarie per capire
la propria storia, nei propri termini, e che il tomismo può offrire quanto serva a
questo fine, che io sono diventato tomista.” TRV, 20.
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not at all apparent, particularly in moral theological discussions of justice, is that the underlying basis of his thought has been assimilated.
If it had been it would not be possibile to continue to discuss justice
as it it were an atemporal standard of action available to us through
reason or revelation, without taking cognisance of the historical and
dialectical processes through which we attain to such knowledge. It
seems to be closer to the truth to judge that the thought of MacIntyre
has such major implications for how we do moral theology, about justice and in general, that the discipline has not yet “caught up” with
this thinker. In this final section we will review some of the questions
opened up (and largely left open!) by his thought.
First among these could be the general question of the relationship between moral theology and philosophy. One of MacIntyre’s
critiques of certain trends in Thomism is that they uncritically accept
the terms of dispute set up by, for example, liberal thinkers. One suspects that this criticism might have wide application in moral theology. It is not easy in fact to find scholars either in fundamental or
special moral theology who declare and explain their philosophical
sources and orientation. Quite often, if pushed, authors would probably invoke Thomas as the philosophical foundation of their ethics.
In the light of MacIntyre’s work this is far from good enough, what
is needed is clarity on which version of Aquinas one is committed to,
particularly around themes such as epistemology and the functioning
of moral traditions.
A second open question concerns the relationship between moral
theology and liberal culture in the light of MacIntyre. While MacIntyre figures as a name in the on-going discussion of this theme, there
is reason to doubt that his thought on the matter has been adequately assimilated even by those who would be generally positively disposed to it. We can think, by way of example, of his denunciation of
certain understandings of human rights as being based in Thomas35.
35
“And so Maritain at a later date would formulate what he mistakenly took
to be a Thomistic defense of the doctrine of human rights enshrined in the
United Nations Declaration of Human Rights, a quixotic attempt to present
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A great deal of moral theological use of this category continues as if
nothing had been said: it is assumed that it is possible to articulate a
critique of injustices within liberal society using a conceptual instrument which is the product of that culture.
A more positive note can be sounded with regard to the theme of
virtue, so central to MacIntyre’s understanding of ethics in general
and of justice in particular. A range of scholars, some of them openly
under MacIntyre’s influence36, have taken up this theme. What is not
easy, of course, is to translate into terms of moral theological theory
what MacIntyre has said about virtue in essentially philosophical
terms. There is a rigour and authority in his writing on this theme
which is not parallelled in moral theological circles.
The most important question of all is how the Thomistic tradition
is to be carried forth in moral theological reflection. Here the contribution of MacIntyre could be decisive. He has very clearly taken a
position for and against certain ways of interpreting Thomas. This
position is characterized by the broad philosophical stance upon
which it is based, a stance which has the historicity of moral discourse
at its core. It is hoped that this brief examination of his study of the
specific theme of justice might have helped to elucidate the originality of his broader philosophical stance37.
Thomism as offering a rival and superior account of the same moral subject
matter as do other modern nontheological doctrines of universal rights alleged
to attach to individual persons.” TRV, 76
36 Cf. J. PORTER, The Recovery of Virtue. The Relevance of Aquinas for Christian
Ethics (Louisville: Westminster/John Knox Press, 1990). A sharply contrasting
and rather critical reading of Thomas, including his use of technē to illustrate the
acquisition of moral virtues, can be found in G. ANGELINI, Teologia Morale Fondamentale. Tradizione, Scrittura e teoria (Milano: Glossa, 1999), 122-171.
37 Interestingly, one of MacIntyre’s latest publications takes up at length the
theme of defining a philosophical position: A. MACINTYRE, The Tasks of Philosophy.
Selected Essays, Volume 1 (Cambridge: Cambridge University Press, 2006), 3-104.
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MARTIN MCKEEVER
SUMMARIES
Alasdair MacIntyre is broadly acknowledged as one of the foremost moral
philosophers in the contemporary world. It is also well known that he has
come to identify himself closely with the philosophical vision of Thomas
Aquinas. What is less often noticed is the originality of his interpretation of
Thomas. This article illustrates this originality by examining MacIntyre’s reading of Aquinas on the single theme of justice. It emerges that the key characteristic of this reading is its ‘historicity’ – a matter of some importance for theological interpretation of Aquinas on justice and in general.
***
Alasdair MacIntyre es ampliamente reconocido como uno de los principales
filósofos en el mundo contemporáneo. Se conoce también que él se identifica con la visión filosófica de Santo Tomás de Aquino. Lo que usualmente se
conoce poco es la originalidad de su interpretación del Doctor Angélico. Este
artículo ilustra esta originalidad examinando la lectura que MacIntyre hace de
Tomás de Aquino sobre el tema de la justicia solamente. Se descubre que la
característica clave de esta lectura es su “historicidad”, un hecho importante
para la interpretación de Santo Tomás sobre el tema de la justicia y sobre su
pensamiento en general.
***
Alasdair MacIntyre è ampiamente riconosciuto come uno dei principali filosofi
nel mondo contemporaneo. È anche ben noto che egli si identifica strettamente con la visione filosofica di Tommaso d’Aquino. Ciò che viene meno
spesso notata è l’originalità della sua interpretazione dell’Aquinate. Questo articolo illustra questa originalità esaminando la lettura che MacIntyre fa di Tommaso sul solo tema della giustizia. Emerge che la caratteristica chiave di questa lettura è la sua ‘storicità’ – un fatto di una certa importanza per l’interpretazione di Tommaso sulla giustizia e sul suo pensiero in generale.
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“DOCTRINA - VIDA”
UNA POSTURA DIALÉCTICA
DE FRENTE A LA HUMANAE VITAE
J. Silvio Botero Giraldo, C.Ss.R.*
Introducción
El 25 de Julio del 2008 se cumplían 40 años de la promulgación de
la encíclica Humanae vitae, de Pablo VI, sobre la regulación de la natalidad. Fue una encíclica que mereció la celebración de los 101, de
los veinte2, de los 253, y ahora de los 40 años4 de promulgación a través de diversas publicaciones y congresos. De otra parte, fue un pronunciamiento pontificio fuertemente ‘contestado’5 a nivel mundial,
dentro y fuera de la iglesia.
* The author is an invited professor at the Alphonsian Academy.
* El autor es profesor invitado en la Academia Alfonsiana.
1
Cfr. CHARLES G. VELA, a cura di, La coppia e l’amore. A dieci anni dalla ‘Humanae vitae, Libreria della Famiglia, Milano 1978; Lateranum 44/1 (1878) Número monográfico sobre la Humanae vitae.
2 Cfr. GIOVANNI PAOLO II, “A vent’anni dall’Humanae vitae”, Il Regno-Doc 1
(1989) 5-9; DIONIGI TETTAMANZI, Un’enciclica profetica. La ‘Humanae vitae’ vent’anni dopo, Ancora, Milano 1988.
3 Cfr. ALFONSO LÓPEZ T., ‘Humanae vitae’, servizio profetico per l’uomo. Atti
del Convegno di studio in occasione del XXV Anniversario della Enciclica ‘Humanae
vitae’ (Roma 24-26 Nov. 1993), AVE, Roma 1995.
4 Cfr. DIETMAR MIETH, “Humanae vitae compie quarant’anni. Un’occasione
per riflessioni che portano oltre la controversia sulla contraccezione”, Concilium
1 (2008) 156-162; MÁRCIO FABRI DOS ANJOS, “Humanae vitae: quarant’anni e le
sfide di attualizzazione”, Concilium 1 (2008) 163-171.
5 Cfr. ERNESTO BALDUCCI (Prefazione), L’enciclica contestata, G. Casini Editore, Roma 1969; CHARLES E. CURRAN – ROBERT E. HUNT, Edited by, Dissent
In and For the Church. Theologians and Humanae vitae, Sheed and Ward, New
York 1969; F. VITTORINO JOANNES, a cura di, ‘L’Humanae Vitae’ il più importante e discusso documento del pontificato di Paolo VI, Mondadori, Verona 1969.
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J. SILVIO BOTERO GIRALDO
Es quizás el pronunciamiento pontificio más controvertido en las
últimas décadas porque se trataba de un problema que afecta a una
buena parte de la humanidad. La opinión pública mostraba una gran
espectativa en torno al pronunciamiento del Papa; por esta razón al
conocer el texto de la encíclica manifestó desconcierto y una cierta
frustración.
Creemos que, en buena parte, la ‘contestación’ contra la Humanae
vitae se debió a una lectura parcializada, con una visión unilateral del
problema analizado en ella, olvidando que un documento pontificio
es una presentación de principios doctrinales que el Magisterio (episcopal) de la Iglesia se encargará posteriormente de traducir a la vida
concreta de las iglesias locales. De hecho, así sucedió con las Cartas
colectivas del episcopado mundial6.
Es ésta la razón del título de la presente reflexión: presentar un
análisis del contexto histórico-doctrinal de la enseñanza de la Humanae vitae en sintonía con la situación concreta de las parejas cristianas. Fue la pareja de esposos belgas- Hermann y Lena Buelens- quienes en representación de muchas otras parejas, hicieron sentir durante el Concilio Vaticano II la necesidad de conciliar la antinomia
‘doctrina-vida’: un modo distinto de considerar el problema de la fecundidad y de la regulación aparece si se parte directamente de la vida y no de las exigencias abstractas de la doctrina; la misma teología
considera hoy, desde la perspectiva metodológica, la realidad de la vida humana como punto de partida de su reflexión7.
Celebrando ahora el 40º aniversario conviene recordar el proceso
histórico de la preparación y maduración de esta encíclica, el núcleo
mismo del documento, la interpretación que de la encíclica hicieron
algunas de las Conferencias Episcopales del mundo y, finalmente, la
necesidad de formar la conciencia moral de las parejas para ‘el ejercicio responsable de la paternidad’.
6
Cfr. ‘Humanae vitae’ e Magistero episcopale, redazione e indice analitico a cura di L. Sandri, Dehoniane, Bologna 1969.
7 Cfr. HERMANN e LENA BUELENS, “Fecondità nell’amore. Per un superamento della tensione tra la realtà della vita e la dottrina”, en Diritti del sesso e del
matrimonio, Mondadori, Verona 1968, 78.
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1. Hitos de la historia de la Encíclica
Si se oberva con atención el Enchiridion Symbolorum, ya desde el
año 1822 (Denzinger 2715) comenzaron a llegar a la Curia Romana
(S. Penitenciaría y Sto. Oficio) preguntas diversas por parte de algunos obispos o teólogos acerca de cuestiones morales en torno al ‘uso
del matrimonio’ (uso onanístico, interrupción de la cópula, esterilización, atención a los períodos agenésicos, etc). Estas consultas explican por qué el Papa deseaba responder a un problema sentido en
la iglesia desde mucho tiempo antes.
Se comprende así el hecho de que Juan XXIII organizara un ‘Grupo de Estudio sobre la población’ (1963), que posteriormente Pablo
VI amplió con nuevos integrantes (teólogos, médicos, demógrafos,
parejas de esposos) de todos los continentes. En Julio del 1966 una
comisión restringida de cardenales, obispos y teólogos presentaba al
Papa el Dossier de Roma8 con los documentos, junto con toda la documentación elaborada desde el comienzo.
En realidad, el grupo mayoritario había elaborado dos documentos que llamaron ‘Documento de síntesis sobre la regulación de la
prole’ y un ‘Esquema de documento sobre la paternidad responsable’;
eran documentos de tipo pastoral; el grupo de la minoría, por su parte, presentó un único documento titulado ‘Estado de la cuestión’, con
un claro corte doctrinal. Los documentos de la mayoría se basaban
fundamentalmente en estos razonamientos: un cuestionamiento a los
argumentos de la ley natural (biológica), el bienestar de la persona y
de la sociedad está estrechamente ligado a la prosperidad de la comunidad conyugal (GS 50), el Magisterio de la iglesia ha evolucionado progresivamente.
El documento del grupo minoritario – ‘Estado de la cuestión’ –
argumentaba acerca de la doctrina de la iglesia y de su autoridad: la
anticoncepción ha sido considerada ‘siempre mala’ por el magisterio
8
Cfr. Controllo delle nascite. Il dossier di Roma, presentato da J. M. Paupert,
Queriniana, Brescia 1967; Control de la natalidad. Informe para expertos. Los documentos de Roma, Alameda, Madrid 1967; M. ROBERT, Rome et la contraception.
Histoire secrète de l’encyclique ‘Humanae vitae’, Atelier-Ouvrièrs, Paris 1998.
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de Pío XI (Casti connubii) y de Pío XII (‘Discurso a las parteras’, 29
Oct. 1951); no acepta que la doctrina moral a este respecto haya evolucionado y que la iglesia la pueda cambiar, porque esta doctrina es
sustancialmente verdadera.
Además de esta investigación preparatoria meramente consultiva,
Pablo VI por su cuenta había estudiado y consultado acerca del tema
de la natalidad. Para el 25 de Julio 1968 Pablo VI considera que la reflexión ha llegado a un punto de maduración suficiente que hace posible la promulgación de la encíclica; ninguna como ésta tan esperada por un gran público; sin embargo, muchos se sintieron sorprendidos, porque el Papa, de un lado planteaba algunos elementos novedosos como la nueva visión de los fines del matrimonio (unitivo y fecundo), mientras de otro lado mantenía la posición del Magisterio
precedente.
Leyendo con atención el texto de la encíclica, es posible detectar
algunos núcleos fundamentales:
• la concepción de la ‘paternidad responsable’ “comporta sobre
todo una vinculación más profunda con el orden moral objetivo, establecido por Dios, cuyo fiel intérprete es la recta conciencia. El ejercicio responsable de la paternidad exige que los
cónyuges reconozcan plenamente sus propios deberes para con
Dios, para consigo mismo, para con la familia y la sociedad, en
una justa jerarquía de valores” (n. 10).
• “Esta doctrina está fundada sobre la inseparable conexión que
Dios ha querido y que el hombre no puede romper por propia
iniciativa, entre los dos significados del acto conyugal: el significado unitivo y el significado procreador” (n. 12).
• “la iglesia no retiene de ningún modo ilícito el uso de medios
terapéuticos verdaderamente necesarios para curar enfermedades del organismo, a pesar de que se siguiese un impedimento,
aun previsto, para la procreación con tal que ese impedimento
no sea, por cualquier motivo, directamente querido” (n. 15).
• a los esposos cristianos el Papa exhorta a que “invoquen con
oración perseverante la ayuda divina; acudan, sobre todo, a la
fuente de gracia y de caridad en la Eucaristía. Y si el pecado les
sorprendiese todavía, no se desanimen, sino que recurran con
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humilde perseverancia a la misericordia de Dios, que se concede en el sacramento de la penitencia” (n. 25).
• a los sacerdotes recomienda “no menoscabar en nada la saludable doctrina de Cristo que es una forma de caridad eminente
hacia las almas. Pero esto debe ir acompañado siempre de la paciencia y de la bondad de que el mismo Señor dio ejemplo en su
trato con los hombres. (...) Él fue ciertamente intransigente con
el mal, pero misericordioso con las personas” (n. 28).
• a las autoridades públicas, a los hombres de ciencia, a los seglares, médicos y personal sanitario, el Papa pone de presente que
también todos ellos tienen una responsabilidad en la creación de
condiciones que favorezcan el servicio a la vida humana (nn. 2324 y 26-27).
Estos seis núcleos, que creemos centrales, ponen de presente una
línea especial: el principio doctrinal de la paternidad responsable, la
doble dimensión de la relación conyugal, una posible excepción a la
prohibición del uso de anticonceptivos, y tres exhortaciones pastorales (a los esposos, a los sacerdotes y a las autoridades públicas).
Una primera cuestión que surgió entre los teólogos en torno a la
Humanae vitae fue preguntarse acerca de la nota teológica a darle: es
doctrina irreformable?, es Magisterio ordinario?. L. Sartori, despues
de hacer diversas consideraciones sobre el carácter pastoral del Magisterio, sobre los condicionamientos culturales, sobre el modo de
proceder de la jerarquía a propósito de pronunciamientos magisteriales, afirma que la doctrina de la encíclica ‘no es absolutamente
irreformable’9.
Dejando de lado las diversas interpretaciones de la encíclica, por
parte del gran público (unas de crítica severa, otras de pleno consenso), optamos por dar una información sintética acerca de la acogida
por parte de algunas de las 80 conferencias episcopales de toda la
iglesia que se pronunciaron respecto de la Humanae vitae. Una nota
9
Cfr. LUIGI SARTORI, “La Humanae vitae è irreformabile?”, en La coppia e l’amore a dieci anni dalla ‘Humanae vitae..., 207-216.
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constante en estas declaraciones fue el apoyo solidario y decidido a la
enseñanza de Pablo VI en su encíclica como una defensa del amor y
de la vida, como una declaración que deriva de una visión global del
hombre, como una denuncia del mal objetivo de la anticoncepción.
Otra nota constante es el intento concreto que cada conferencia
hace de traducir la enseñanza pontificia para aplicarla al contexto histórico-situacional de cada iglesia local. Un ejemplo concreto de esta
actitud fue el episcopado latinoamericano que, un mes después de la
promulgación de la Humanae vitae, celebraba la II Conferencia General del CELAM (Medellín 1968); en ella este episcopado puso de
presente las circunstancias difíciles que vive la familia en el continente latinoamericano, una situación que hace problemática la aplicación
de la encíclica; los obispos latinoamericanos son conscientes del magisterio claro e inequívoco del Papa, pero comprenden también que
la norma pontificia no constituye una carrera ciega hacia la superpoblación ni disminuye la responsabilidad y la libertad de los cónyuges
a los cuales no se les prohibe una honesta y razonable limitación de
los nacimientos, ni se impiden las legítimas medidas terapéuticas, ni
tampoco el progreso de la investigación científica10.
Hay un elemento común, poco conocido, que emerge de este conjunto de declaraciones episcopales. Se trata de una sintonía particular
entre tres declaraciones dadas en momentos diferentes: la Conferencia Episcopal USA (15 Nov. 1968), la Congregación del Clero que actúa de frente al llamado ‘Caso Washington’ (Abril 1972) y una declaración aparecida en L’Osservatore Romano (16 Febr. 1989) cuando se
celebraban los veinte años de la promulgación de la Humanae vitae.
Las tres declaraciones coinciden prácticamente en señalar un criterio doctrinal y pastoral a vez, a propósito de una interpretación dialética de la Humanae vitae: “si bien las circunstancias que rodean un
acto en sí mismo malo (como es el caso de anticoncepción), éstas no
pueden hacer del acto malo un acto honesto y virtuoso, pero sí pue-
10
Cfr. CONFERENZA GENERALE DELL’EPISCOPATO LATINOAMERICANO (Medellín 6 Sept. 1968), en ‘Humanae vitae’ e Magistero episcopale, redazione e indice analitico a cura di L. Sandri, Dehoniane, Bologna 1969, 235-245.
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den hacer que dicho acto sea menos culpable, disculpable o subjetivamente defendible’11.
Hablamos de una sintonía en los tres documentos aludidos; pero
se debe afirmar que dicha sintonía se puede hallar también en muchas
de las declaraciones de los episcopados en una forma más amplia,
aunque no tan precisa. Un ejemplo, entre otros, la declaración colectiva de los obispos franceses: puede suceder que algunos esposos cristianos se reconozcan culpables por no responder a las exigencias de
la encíclica; que la fe y la humildad les ayuden a no descorazonarse;
que estén convencidos de que las faltas de los esposos, por otros aspectos generosos en la vida personal y apostólica, no son de una gravedad comparable a la de quienes desprecian la enseñanza de la iglesia y se dejan dominar por el egoismo.
Añaden todavía: la anticoncepción no puede ser un bien, siempre
será un desorden; pero este desorden no siempre es culpable. De hecho sucede que los esposos se encuentren de frente a un verdadero
conflicto de deberes: de una parte, son conscientes del deber de respetar la apertura del acto conyugal a la vida; pero, de otra parte, sienten la necesidad de evitar o distanciar la llegada de un nuevo hijo y
no pueden atenerse a los períodos agenésicos; comprenden también
que no pueden renunciar a la expresión sexual de amor que puede
amenazar la estabilidad de la vida de pareja.
A este propósito, los obispos franceses recuerdan la enseñanza tradicional de la moral: cuando alguien se halla en la alternativa de deberes, de tal forma que cualquier decisión que se tome es mala, la sabiduría tradicional prevé que delante de Dios se opte por el bien mayor12. Basten estas pocas pero sugestivas anotaciones, para comprobar una postura dialéctica de las conferencias episcopales en relación
11
Cfr. “Lettera Pastorale collettiva del’Episcopato Statunitense”, en ‘Humanae vitae’ e Magistero episcopale...., 247-280; CONGREGATION FOR THE CLERGY,
“Washington Case” (26 April 1971), en Enchiridion Vaticanum vol. IV, EDB, Bologna 1978, 412-429; “La norma morale di Humanae vitae e il compito pastorale”, L’Osservatore Romano 16 Febbr. 1989, 1-2.
12 Cfr. “Nota pastorale dell’episcopato francese (8 Nov. 1968)”, en ‘Humanae vitae’ e Magistero episcopale...., 163-177.
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a la Humanae vitae; los obispos, sin citar explícitamente al ‘Doctor
Angélico’, están aplicando un principio suyo: la norma ha sido hecha
para la mayoría de los casos (‘ut in pluribus’), pero puede haber excepciones en algunos casos (‘ut in paucioribus’) por razón de las cosas corruptibles (Cfr. S.Th. I-II, q. 94, a. 4).
2. Un mensaje entre dos fuegos
La enseñanza de la Humanae vitae se halla entre dos fuegos ciertamente, como se ha podido intuir ya en la misma comisión consultiva: una minoría que está de parte de un pronunciamiento tradicional
que abona una postura intransigente que califica la anticoncepción
como ‘intrínsecamente mala’. Pío XI en la Casti connubii y Pío XII en
el discurso a las parteras (29 Oct. 1951), citando casi textualmente a
su predecesor afirmaba:
Todo atentado de los cónyuges en la realización del acto conyugal o
en el desarrollo de sus consecuencias naturales, que tenga por objeto privarlo de la fuerza que le es inherente e impedir la procreación
de una nueva vida es inmoral; ninguna causa o necesidad, por grave
que sea, podrá mudar una acción intrínsecamente mala en un acto
moral lícito13.
La mayoría de la Comisión consultiva pensaba en una actitud más
moderada: como se anotó anteriormente, veía posible la evolución
del Magisterio en materia sexual, como de hecho aparece en los documentos del Concilio Vaticano II; dentro de la perspectiva de una
visión dinámica de la realidad humana concebía que es propio del
hombre perfeccionar la naturaleza; por tanto, no puede sostenerse la
intangibilidad absoluta del período fecundo; de ahí que cuando el
13
PÍO XII, “Allocuzione alle ostetriche” (29 Oct. 1951), en Matrimonio e famiglia nel Magistero della chiesa, a cura di P. Barberi e D. Tettamanzi, Massimo,
Milano 1986, 192. La traducción es mia.
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hombre interviene en el proceso procreativo, lo hará con la intención
de regular, no de excluir la fecundidad.
Todavía hoy, a cuarenta años de distancia de la promulgación de la
Humanae vitae, la enseñanza de Pablo VI continúa entre dos fuegos:
de una parte están los llamados ‘deontologistas’ que sostienen la moralidad del acto humano en sí mismo (‘opus operis’), desconectado de
la realidad existencial de la persona en situación. Uno de estos teólogos escribe:
Esto consiente el estudio de la moralidad de los actos según el objeto, haciendo abstracción de la intención del sujeto; así se hace la delimitación de los actos intrínsecamente desordenados por razón del
objeto; tales actos no pueden ser realizados con voluntad recta, cualquiera que sea la intención del sujeto14.
De frente a la postura ‘deontologista’ se coloca la ‘teleologista’
que atiende sobre todo a la intención del sujeto (‘opus operantis’), a
las circunstancias en que se desarrolla la acción. La acción no es otra
cosa que expresión de toda la persona; no se considera al hombre en
abstracto, sino como ‘tal hombre’, como una persona determinada
por la edad, la raza, la cultura, las circunstancias, etc. Los teleologistas pueden pecar de cierta unilateralización reduciendo el hombre a
simple circunstancia; no se trata de elaborar una moral del acto o de
la circunstancia, sino de la ‘persona humana en situación’.
Una postura dialéctica pide saber conciliar en su justa medida el
objetivismo que caracteriza a los ‘deontologistas’ y el subjetivismo de
los teleologistas; la verdad moral se halla entre uno y otro, escribe J.
Fuchs15. Tradicionalmente ha prevalecido el deontologismo objetivista; M. Vidal afirma que “toda dimensión de la realidad humana ética tiene que tener las dos polaridades de lo objetivo y de lo subjetivo;
14
Ramón GARCÍA DE HARO, La vita cristiana. Corso di Teología morale fondamentale, Ares, Milano 1995, 251.
15 Cfr. Josef FUCHS, Etica cristiana in una società secolarizzata, Piemme, Casale Monferrato 1989, 39-47.
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de ahí que la moral ha de ser objetiva y subjetiva si quiere tener la racionalidad o la criticidad propia de lo real”16.
La encíclica Humanae vitae puede ser contemplada en la perspectiva de una sana dialéctica: en ella encontramos elementos para afirmar una actitud dialéctica. En primer lugar, en el n. 7 admite que ya
el Concilio Vaticano II había reconocido un tipo de dialéctica entre
‘amor conyugal’ y la ‘paternidad responsable’ (GS 51). Igualmente,
en el mismo numeral, aparece que no debe contraponerse ‘la vocación natural y terrena del hombre’ con ‘la vocación sobrenatural y
eterna’.
Un segundo elemento es la referencia a la ‘paternidad responsable’ que reconoce ‘el orden moral objetivo’ establecido por Dios y la
capacidad de los cónyuges de sistemar una ‘justa escala de valores’ (n.
10). Un tercer elemento en plan dialéctico es la referencia al ‘principio de totalidad’, propuesto ya antes por Pío XII, de frente a la postura tradicional de atender sólo a cada acto conyugal en singular.
Mientras el ‘Documentum syntheticum’ de la Minoría urgía la
atención a cada acto conyugal en particular, el ‘Schema documenti
de responsabili paternitate’ de la Mayoría subrayaba, en sintonía con
el principio de totalidad, que “es propio del hombre, creado a imagen de Dios, usar los dones de la naturaleza física para dirigirlos a
una significación plena en beneficio de toda la persona. (...) La paternidad generosa y prudente, por tanto, no depende de la fecundidad directa de cada relación sexual en particular”17. Una postura correcta de frente a la Humanae vitae urge estar atento a salvar los dos
polos de la dialéctica: la vocación natural-terrena y la vocación sobrenatural-eterna de los esposos, el orden moral objetivo y la justa
escala de valores que los cónyuges elaboran según la recta conciencia, el bien total de la pareja humana y el respeto prudente a las funciones orgánicas.
16
MARCIANO VIDAL, El nuevo rostro de la moral, Paulinas, Madrid 1976, 159.
“Segundo Documento de la Mayoría: Esquema de documento sobre la paternidad responsable”, en Control de la natalidad. Informe para expertos. Los documentos de Roma, Alameda, Madrid 1967, 176-177.
17
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Las declaraciones de las distintas conferencias episcopales que se
pronunciaron en torno a la Humanae vitae tuvieron en cuenta la formulación dialéctica: salvar la autoridad del Papa y de su enseñanza y
salvar igualmente a las parejas humanas que se hallan en situaciones
conflictivas a causa de distintas y variadas circunstancias. Es posible
observar en las diversas declaraciones el empleo implícito que hacen
de la ‘ley de la espiral’ y de un lenguaje ‘conyuntivo’ (incluyente, no
excluyente).
3. Formación de la pareja humana para una postura
3. dialéctica en relación a la Humanae vitae
El Concilio Vaticano II, en la Gaudium et Spes apuntó a un tema
que comienza a abrirse espacio dentro de la teología de la pareja humana: la conciencia de ser un ‘nosotros conyugal’, un ‘nosotros de
pareja’: “los cónyuges se esforzarán ambos de común acuerdo y común esfuerzo por formarse un juicio recto” (GS 50). En el n. 52 los
exhorta a que “vivan unidos, con el mismo cariño, modo de pensar
idéntico y mutua santidad”; en el n. 87 torna a hacer una alusión al
respecto: “la decisión sobre el número de hijos depende del recto juicio de los padres... (...) El juicio de los padres requiere como presupuesto una conciencia rectamente formada”.
Posteriormente, Juan Pablo II también había pensado en esta categoría de la conciencia conyugal: “conviene también tener presente
que en la intimidad conyugal están implicadas las voluntades de dos
personas, llamadas sin embargo a una armonía de mentalidad y de
comportamiento. Esto exige no poca paciencia, simpatía y tiempo”
(Familiaris consortio 34). Juan Pablo II volverá a aludir a esta categoría en la Carta Apostólica Mulieris dignitatem al hacer mención a la
‘unidad de dos’ (nn. 6-7), y en la Carta a las familias al referirse al matrimonio como “una singular comunión de personas” (n. 19).
El tema de la ‘conciencia conyugal’ no es una novedad en el sentido pleno de la palabra; los filósofos del ‘personalismo’ ya la habían
intuido; P. Laín Entralgo, G. Madinier, M. Buber, y sobre todo M.
Nédoncelle quien se refirió a ella como a un ‘nosotros que se cons-
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truye mediante el amor’18. Estos filósofos dan relieve a la especie de
alquimia que se realiza mediante el justo encuentro del Yo – Tú que
llegan a crear un Nosotros19.
Pero si se quiere agotar el camino en búsqueda del origen más remoto de la conciencia de pareja, se deberá llegar al momento de la
creación de la primera pareja humana. El Génesis en su primer relato
de la creación del hombre (2, 18-24) presenta al primer hombre con
una nostalgia especial del ‘otro’; ha visto a todos los seres creados en
pareja y él se halla solo y no encuentra sentido a su soledad.
El hecho de sentir nostalgia es muy explicable: creado “a imagen y
semejanza de Dios”, una Comunidad de personas, una Comunidad de
amor y de vida, es comprensible que experimente el deseo de sentise
también un ‘nosotros’. Es esto lo que sucede en el momento en que
Yahvé le presenta la compañera que le ha formado de una de sus costillas: Adán prorumpe en un grito de júbilo exclamando: “ésta sí que
es carne de mi carne, hueso de mis huesos” (Gn. 2,23). El autor sagrado completa el relato escribiendo: “por eso el hombre deja a su padre y a su madre, se une a su mujer y se harán los dos una sola carne”.
Los exegetas han intuido que la expresión “se harán los dos una
sola carne” conlleva reminiscencias a una unión interpersonal muy
singular20. A partir de estas pistas (bíblica, filosófica y teológica) es
posible elaborar una reflexión en vista a hacer tomar conciencia a la
pareja humana de ser un auténtico ‘nosotros’. La cultura del ‘UNO’21
(machismo), y hoy a la inversa, del ‘Feminismo’ ha impedido recuperar lo que ya estaba en el pensamiento del Creador22: hacer del hombre y de la mujer una ‘persona conyugal’.
18
Cfr. MAURICE NÉDONCELLE, Vers une philosophie de l’amour et de la personne, Aubier, Paris 1957, 145-155 y 242-248.
19 Cfr. PEDRO LAÍN ENTRALGO, Teoría y realidad del otro, vol. II, Revista de
Occidente, Madrid 1961, 94-113.
20 Cfr. MAURICE GILBERT, “Une seule chair (Gn. 2,24)”, Nouvelle Revue Théologique 100 (1978) 66-89.
21 Cfr. J. SILVIO BOTERO G., Una nuova morale matrimoniale, Logos, Roma
2007, 23-30.
22 Cfr. J. SILVIO BOTERO G., “La conciencia del ‘nosotros conyugal’: raíces
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La teología de la pareja del post-concilio ha ido progresivamente
enriqueciendo con elementos nuevos esta categoría de la conciencia
de pareja. Entre otros, vale la pena citar el ‘perfeccionamiento de la
pareja’, el ‘bonum conjugum’, y el principio de ‘totalidad’. Son elementos que refuerzan la realidad de la ‘conciencia del nosotros conyugal’.
El ‘perfeccionamiento de la pareja’ es un elemento al que la Gaudium et Spes alude cinco veces (48ª, 48b, 49ª, 50b, 50c); la insistencia
en este elemento hace pensar en el relieve que el concilio le reconoce. Sin duda que el texto más significativo y explícito es éste: “el marido y la mujer (...) con la unión íntima de sus personas y actividades
se ayudan y se sostienen mutuamente, adquieren conciencia de su
unidad y la logran cada vez más plenamente” (48ª). Los textos emplean generalmente verbos en tiempo futuro (‘plenius in diem adipiscuntur’, ‘pervaditur magis ad magis ad propriam suam perfectionem’, ‘perficitur et crescit’, ‘humanam perfectionem impellit’), como
si quisiera reafirmar el processo de crecimiento progresivo en que se
inscribe la vida de pareja.
Las referencias de la Gaudium et Spes hacen expresa relación a la
perfección de la pareja, no a la perfección de él o de ella por separado. Se trata de perfeccionar la condición de ser ‘una sola carne’, y esto dentro de un proceso: con razón que el texto bíblico emplee la expresión en futuro: “se harán los dos una sola carne”. Esta condición
progresiva de crecimiento de la conciencia de ser un ‘nosotros conyugal’ pone de presente que no es algo mágico, mécanico, automático. Es la misma pareja la que debe cultivar y alimentar este proceso.
Es significativo que la Gaudium et Spes, refiriéndose al ‘bien de los
esposos’ y al ‘bien de la prole’ dé la prioridad al ‘bonum conjugum’,
cambiando de este modo una tradición de varios siglos que había
abonado fuertemente la prole como ‘fin primario del matrimonio’.
Uno de los textos conciliares afirma: “la propia naturaleza del víncu-
en el pasado y perspectivas de futuro”, Laurentianum 42/1-3 (2002) 397-415;
ID., La conciencia de pareja. De la rivalidad a la comunicación interpersonal, San Pablo, Bogotá 2006.
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lo entre las personas y el bien de la prole requieren que también el
amor mutuo de los esposos se manifieste, progrese y vaya madurando ordenadamente” (50c). Parece que el concilio quisiera decir que
una buena realización del bien de la pareja contribuye eficazmente al
bien de la prole.
Es posible relacionar el perfeccionamiento de la pareja con el bien
de los esposos; más aún: es posible identificarlos. Perfeccionar la vocación conyugal mediante el desarrollo de la donación mutua, total y
contínua de los esposos es conquistar, asegurar el bien de la pareja.
Para unos esposos cristianos el bien de la pareja tiene un sentido muy
particular: es realizar aquello que Yahvé tenía en mente al momento
de crearlos como pareja.
La mente del Creador se descubre en el mismo texto bíblico:
cuando el autor sagrado escribe que “el hombre se unirá a su mujer...”, emplea el verbo hebreo (dabaq) que tuvo una evolución especial hasta llegar a adquirir un profundo sentido religioso: el israelita
al unirse a su esposa tenía muy claro en su mente que de este modo
estaba haciendo también alianza con Yahvé23.
Unirse al ‘aliado’ de Dios (‘Ezer kegnedo’) que el Creador daba a
uno y otra como garantía de la presencia divina junto a ellos es afirmar que la vida de pareja en cristiano es ‘participar’ del ser de DiosTrino, Comunidad de personas, Comunidad de amor. Y no sólo participar, también ‘significar’, es decir, manifestar esta unión con DiosTrino a la comunidad eclesial y humana24. ‘Participar’ y ‘significar’ la
unión de Dios con la humanidad, de Cristo con la iglesia, ésta es la realización auténtica de una pareja cristiana; ésta es la vocación a la que
la pareja cristiana está llamada. La Constitución dogmática Lumen
Gentium lo ha puesto en claro: “los cónyuges cristianos, en virtud del
sacramento del matrimonio, por el cual significan y participan el misterio de unidad y de amor fecundo entre Cristo y la iglesia...” (11).
23
Cfr. LUIS ALONSO SCHÖKEL, “Dabaq”, en Diccionario bíblico hebreo-español,
Trotta, Madrid 1994, 167.
24 Cfr. J. SILVIO BOTERO G., Chiamati alla perfezione come coppia umana, Logos, Roma 2006, 64-68; ID., La famiglia: dalla realtà al mistero, Logos, Roma
2005, 59-83.
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El tercer elemento de la conciencia conyugal al que se hizo alusión anteriormente es la noción de ‘totalidad’. Fue Pío XII quien introdujo dentro de la teología católica el concepto de ‘totalidad’25. El
Concilio Vaticano II aludió a totalidad refiriéndose a la unidad integral del hombre: “es la persona del hombre la que hay que salvar (...);
pero el hombre todo entero, cuerpo y alma, corazón y conciencia, inteligencia y voluntad” (GS 3).
También la unidad de varón y mujer en “una sola carne” constituye una ‘totalidad’26. Juan Pablo II en la Carta Apostólica Mulieris dignitatem emplea la expresión de H. Doms27 – ‘uni-dualidad’ – para referirse a la unión de varón-mujer que “es signo de la comunión interpersonal” (n. 7). El hecho de haber sido convocados a formar “una
sola carne” sugiere la totalidad de la persona conyugal, del ‘yo conyugal’, a que aludía K. Wojtyla.
Pablo VI era consciente de que la totalidad tenía que ver con la vida de pareja; en la Humanae vitae se refirió a esta totalidad (nn. 3, 7,
14, 17). En el n. 3 se preguntaba:
No se podría admitir que la intención de una fecundidad menos exuberante pero más racional, transformase la intervención esterilizadora en un control lícito y prudente de los naciminentos?. No se podría
admitir que la finalidad procreadora pertenezca al conjunto de la vida conyugal más bien que a cada uno de los actos?
En el n. 14 parece responder a estos interrogantes: “es un error
pensar que un acto conyugal, hecho voluntariamente infecundo, y
por tanto intrínsecamente deshonesto, pueda ser cohonestado por el
conjunto de una vida conyugal fecunda”. Sin embargo, al n. 7 había
afirmado:
25
Cfr. J. SILVIO BOTERO G., De la norma a la vida. Evolución de los principios
morales, P.S., Madrid 2002, 69-77.
26 Cfr. J. SILVIO BOTERO G., “La pareja conyugal, una totalidad. Implicaciones éticas”, Compostellanum 50/1-4 (2005) 291-306.
27 Cfr. HERBERT DOMS, Significato e scopo del matrimonio, Cathedra, Roma1946, 58, 78, 90, 92.
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El problema de la natalidad, como cualquiera otro referente a la vida
humana, hay que considerarlo, por encima de las perspectivas parciales de orden biológico o psicológico, demográfico o sociológico, a la
luz de una visión integral del hombre y de su vocación, no sólo natural y terrena, sino también sobrenatural y eterna.
López Millán se refiere al principio de totalidad, aplicado a la pareja humana: “no se puede hablar de una inviolabilidad absoluta de
los procesos naturales cuando es en beneficio del todo personal, cuidando de no perjudicar la unión física personal de los esposos, enraizada en el amor y orientada al crecimiento de su comunión en él”. Y
añade: “la totalidad conyugal y familiar se concretiza como criterio o
norma reguladora de los diversos valores que la integran”28. Quiere
decir que, en adelante, no es la ley fría y absolutista la que regula la
conducta del ser humano, sino que es la persona humana la que se
convierte en parámetro de guía y orientación de la actividad humana.
Häring afirma algo que puede aplicarse al contexto presente:
En la medida en que la ciencia moderna y una gran parte de la cultura de nuestros días tienden a dar la primacía a sectores específicos de
la vida, prefiriéndolos a la significación de totalidad, las personas se
incapacitan más aún para ver en todos los acontecimientos la totalidad de la significación, el cuadro completo29.
La Gaudium et Spes plantea la posibilidad de solución en una perspectiva de integración: “el concilio sabe que los esposos, al ordenar
armoniosamente su vida conyugal, con frecuencia se encuentran impedidos por algunas circunstancias actuales de la vida, y pueden hallarse en situaciones en las que el número de hijos, al menos por cierto tiempo, no puede aumentarse, y el cultivo del amor fiel y la plena
28
VICENTE LÓPEZ MILLÁN, “Anticoncepción: conflictos de deberes, imposibilidad moral y mal menor”, Miscelánea Comillas 33/62 (1975) 8 y 10.
29 BERNHARD HÄRING, Libertad y fidelidad en Cristo. Teología moral para sacerdotes y seglares, vol. II, Herder, Barcelona 1982, 382.
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intimidad de vida tienen sus dificultades para mantenerse. Cuando la
intimidad conyugal se interrumpe, puede no raras veces correr riesgos la fidelidad y quedar comprometido el bien de la prole” (51).
Implícitamente, el concilio está planteando una solución dialéctica con esta sentencia: el orden moral objetivo sí, pero sin perder de
vista el amor conyugal que, en última instancia, acaba por favorecer
y defender el mismo orden objetivo.
La dialéctica moral entre ‘doctrina y vida’ habría que relacionarla
con el principio de la ‘tensión dinámica’30: la persona, y en especial la
pareja humana, vive la experiencia de ‘tensión’ entre una serie de
aporías o antinomias: eterno-temporal, interno-externo, objetivosubjetivo, ideal-realidad, verdad-amor, ley-excepción, etc. Algunos
teólogos protestantes han visto en el principio del ‘compromiso ético’31 una vía de solución a la ‘tensión’ o conflicto de deberes morales; también algunos teólogos católicos admiten la validez de este
principio32; B. Häring afirmó a este propósito:
Necesitamos una estrategia para lograr una cabal reconciliación que
exprese la auténtica justicia y el amor. Forma parte de esta estrategia
una ética de compromiso que rechace cualquier componenda insensata pero que promueva concesiones dinámicas que faciliten la posibilidad de dar un paso más hacia una situación menos inhumana y
menos injusta. Se acepta la concesión como un mal menor mientras
continúa la lucha contra el mal33.
El Pontificio Consejo para la Familia, con el Vademecum para confesores sobre algunos temas de moral conyugal (1997) reconoció la com30
Cfr. J. SILVIO BOTERO G., “La tensión dinámica: un elemento de encuentro en el Diálogo Ecuménico”, Studia Moralia 42 (2005) 281-296.
31 Cfr. ROBERT GRIMM, L’Institution du mariage. Essai d’éthique fondamentale,
Cerf, París 1984, 257-258; Helmut WEBER, “Il compromesso etico”, en Problemi e prospettive di Teologia Morale, Queriniana, Brescia 1996, 199-219.
32 Cfr. COENRAAD OUWERKERK. “Gospel Morality and human Compromis”,
Concilium 1 (1965) 5-12.
33 BERNHARD HÄRING, Libertad y fidelidad en Cristo, vol. II, Herder, Barcelona 1983, 282.
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petencia de las parejas para actuar con sabiduría y libertad en la vida
conyugal; al mismo tiempo recomendó ‘la formación de la conciencia’ de los cónyuges:
Compete a los esposos deliberar, en modo ponderado y con espíritu
de fe, acerca de la dimensión de su familia y decidir el modo concreto de realizarla respetando los criterios morales de la vida conyugal34.
Benedicto XVI clausuraba en Roma el Congreso Internacional (10
Mayo 2008) con que la Universidad de Letrán conmemoraba los 40
años de la promulgación de la Humanae vitae; en esta ocasión el Papa subrayó varios binomios que hacen referencia a una postura dialéctica de frente al mensaje de la encíclica de Pablo VI: amor y libertad, amor y dignidad de la persona, razón y amor35. Mons. R. Fisichella, en la audiencia concedida por Benedicto XVI a los participantes a este Congreso, afirmó que la Humanae vitae “había logrado
conjugar y salvaguardar en modo coherente la ley natural y la libertad de los esposos”36.
Conclusión
Una semana después de la promulgación de la Humanae vitae (31
Julio 1968) Pablo VI volvía a referirse a su encíclica:
El contenido esencial de la Humanae vitae no es la declaración de una
ley negativa que excluye cualquier acción que intente hacer imposible la procreación, sino que es la presentación positiva de la moralidad conyugal en orden a su misión de amor y de fecundidad dentro
34
PONTIFICIO CONSEJO PARA LA FAMILIA, Vademecum para los confesores sobre
algunos temas de moral conyugal (12 Febr. 1997), n. 2,3.
35 Cfr. BENEDICTO XVI, “Un insegnamento vero e lungimirante”, L’Osservatore Romano 11 Maggio 2008, 1.
36 RINO FISICHELLA, “Coerenza tra legge naturale e libertà dei coniugi”,
L’Osservatore Romano 11 Maggio 2008, 8.
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de la visión integral del hombre y de su vocación no solo natural sino también sobrenatural y eterna37.
Este pronunciamiento del Papa pone en claro los dos aspectos de
la dialéctica que se ha intentado subrayar a lo largo de esta reflexión:
amor y fecundidad, vocación natural y sobrenatural del hombre. En
este mismo discurso aludía Pablo VI al binomio ‘verdad-amor’ que
comporta también el sentido dialéctico.
Pocos días después (4 Agosto 1968) tornaba a poner de presente
que la norma que impartía en la encíclica no ignoraba las condiciones
sociológicas y demográficas de nuestro tiempo; la encíclica no es contraria -afirmaba Pablo VI- a una razonable limitación de la natalidad,
ni a la investigación científica, ni a la cura terapéutica y mucho menos
a una paternidad verdaderamente responsable, como tampoco a la paz
y armonía familiar38. Que el Papa acogiera los diversos polos, que en
un principio, parecían contrapuestos, es señal de una genuina postura
dialéctica: fidelidad a la tradición y apertura a la renovación.
A 40 años de distancia, se continúa subrayando la presencia de diversas aporías latentes en la Humanae vitae que la reflexión de estas
cuatro décadas ha iluminado doctrinalmente y concretizado pastoralmente. De este modo se verifica la sentencia que Benedicto XVI reportaba en su mensaje con ocasión de la celebración de los 8 lustros
de la Humanae vitae: “si la razón instruye al amor y éste ilumina la razón, si la razón se convierte en amor y el amor se deja ubicar dentro
de los límites de la razón, entonces razón y amor pueden hacer algo
grande”39; este ‘algo grande’ que prevé el Papa es el “surgir de la responsabilidad de frente a la vida que hace fecundo el don que cada uno
de los esposos hace de sí al otro”.
37
PAULO VI, “Le indicazioni del Sto. Padre per meglio comprendere l’enciclica, (Discorso del 31 Luglio 1968)”, Presenza Pastorale 39/1 (1969) 114. La traducción es mía.
38 Cfr. PAULO VI, “Saluto del 4 Agosto 1968”, Presenza Pastorale 39/1 (1969)
117.
39 BENEDICTO XVI, “Un insegnamento vero e lungimirante”, L’Osservatore
Romano 11 Maggio 2008, 1. La traducción es mía.
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SUMMARIES
This year was the commemoration of the 40th Anniversary of Humanae vitae
(25 July 1968) of Paul VI. This Celebration offers us the opportunity to underline the ‘dialectical Structure’ of this Encyclical: Doctrine in contrast with concrete Situations, Fidelity to moral Norms in contrast with Flexibility, Totality in
contrast with Singularity. The Episcopal Conferences of the World have been
Exemplary in this dialectical Comprehension. And also, the married Laity is invited to assume this Conduct.
***
La celebración del 40º aniversario de la promulgación de la Humanae vitae ha
sido la ocasión para poner de presente el marco ‘dialéctico’ en que se inscribe esta encíclica de Pablo VI. Han sido, en especial, las Conferencias Episcopales las que han hecho el paso de la doctrina pontificia a la vida de la comunidad local, conjugando sabiamente el principio ètico con la situación concreta, la firmeza con la flexibilidad, la visión global con el caso particular. El relieve dado en el post-concilio al laicado pide que las parejas humanas asuman
esta tarea de actuar siempre en forma dialéctica en su vida conyugal.
***
Quest’anno si è commemorato il 40º Anniversario della Humanae vitae (25 Luglio 1968). Avvenimento che ha fornito l’occasione per scoprire nell’insegnamento di Paolo VI la cornice ‘dialettica’ per la conciliazione della dottrina con
la vita concreta, della fermezza con la flessibilità, della totalità con la singolarità. Sono state le Conferenze Episcopali a mettere in rilievo il bisogno di conciliare queste antinomie. Anche i laici sposati sono chiamati ad assumere questo atteggiamento dialettico in ordine alla vita coniugale.
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FRATTICCI WALTER, Il bivio di Parmenide ovvero la gratuità della verità. Modalità di ricerca filosofica di inizio millennio, Edizioni Cantagalli, Siena 2008, 191 p.
There is a revival of interest in Parmenides in the last 30 years,
witness to which is the extensive bibliography at the end of this book
(pp. 181-190). The fact that major philosophers of the last century –
Heidegger, Popper, Gadamer, Lévinas and Jaspers, to name some –
have returned to the study of the philosopher of Elea (modern Velia
in the southeast of Italy) has been a stimulus to this renewal of interest. Parmenides was always considered important for his formal notion of being, which was passed on through Aristotle and Neo-Platonism and had a notable influence on the development of scholastic
metaphysics, with the interesting exception of St. Thomas Aquinas.
Intriguing in this revival of interest is the fact that the corpus of Parmenides writing is miniscule, not more than a couple of hundred
lines of poetry, and scholars are still divided on the exact transcription of the poem, not to mention the interpretation of its highly allegorical form. Parmenides doctrine of being, abstracted from its poetic form, has been variously regarded as an abstract dialectic, a mystical experience, a philosophical monotone or even the sedimentary
remains of previous but now unknown philosophers.
A return to Parmenides is, therefore, not easy to interpret. The key
to understanding the book of Fratticci is implied in the sub-title. The
author posits that we are in a period of cultural crisis where the dominance of the heirs of the Übermensch mentality has left the philosophical cupboard empty, in the sense that there is no content, formally speaking, to the project of nihilism. Philosophers may, indeed,
be called upon for a sound-bite on every issue of the day (p. 11) but
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this seeming popularity hides the crisis of philosophical thinking. In
the author’s view, the heart of the crisis is the emergence of a metaphysical philosophy with a minimal content, which he links to the
dominance of the rational and technical sciences which have little to
do with the project of philosophical thinking, in its pure sense (pp. 1416). To resolve the crisis, and this is the main proposal of the book, it
is necessary to return to the origins of philosophical speculation (in
this case, Parmenides) so that we may recover the primacy of the original myth over the subsequent logic that, trying to explain the myth,
in fact destroyed it. It is a daring project which Fratticci embarks on.
That there are problems with the philosophical content of technical
efficiency or a juridical affirmation of rights will be generally admitted: Fratticci pushes this analysis further. Parmenides is preoccupied
with one key question – why is there something rather than nothing.
Where Fratticci makes his contribution is in his effort to explain modern nihilism in terms of the Eleatic fragmentary philosophic poem
and, more specifically, by interpreting the philosophy of Parmenides
in terms of the gratuity of being. The book is, therefore, a contribution to the theory of philosophy, in the light of Parmenides certainly,
but without going into the technical questions of the text of the original poem. The author accepts the generally accepted interpretations
on this (p. 17) and does not pursue this aspect of the question.
The book presumes a technical knowledge of philosophy and the
argument is structured in three stages. In a first move (pp. 23-58)
Fratticci argues that there has been a metamorphosis within philosophy’s self-understanding. Etymologically, Filosofi/a seems rather
straightforward (love of wisdom): Fratticci argues, with conviction,
that sofi/a has been replaced by the narrower concept of ÂpistËmh:
instead of being consumed with the love of wisdom, philosophy has
degenerated into a type of technical knowledge. This may have its
uses, but when the force of the wisdom of the originating mëqoj is replaced by the conventional phrases of the lãgoj, then there is a
metamorphosis within the history of strict philosophical thinking
(pp. 37-39). I have only given the outlines of a technical argument in
the book, but hopefully indicated enough to show why Fratticci justifies his choice of Parmenides as the best route to recover the orig-
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inal sense of philosophy as ‘love of wisdom’ rather than ‘love of
knowledge’ to which it has been reduced by later historical forces.
The second move of the book’s argument (pp. 59-91) is an examination of Parmenides original thought. As noted, and accepted by all
commentators, the primary concern of Parmenides is with the idea
of being: why there is something rather than nothing. Being is understood in terms of the myth that creates it, not of the logic that
tries to explain it (pp. 62-63). The betrayal of Parmenides by his successors, in Fratticci’s view, is a direct consequence of this: the gift of
existence has been jettisoned for the poorer fare of logically explained essences. The author praises those who have tried to make
Parmenides better known for our generation, and he particularly appreciates the work of Emanuele Severino (p. 75 and following). But,
for Fratticci, this textual recovery of Parmenides will not be sufficient
if it does not go a step further: the widespread acceptance of nihilism
as a plausible philosophical position is a nonsense, in the author’s
view, and will only be properly addressed if the roots of nihilism,
which Fratticci locates in the failure of classic metaphysics to ask the
proper questions, are forced to wither away in the light of the truth
of being itself.
In his third move (pp. 93-169) Fratticci gives the core of his argument, largely through an exegesis of the poem of Parmenides. There
is a choice to be made, indicated by the title of this third chapter: Il
bivio di Parmenide. The fork in the road of philosophic thought imposes a decision, and one must choose one of the roads, much as in
Robert Frost’s poem on such choices. Fratticci admits that affirming
that there has to be something rather than nothing could appear a
meaningless tautology (p. 99). He faces this possibility with honesty
by a careful reading of the meaning of the original principle of existence (a/ rcË) which Fratticci interprets as a sense of wonder before
the myth that creates something rather than nothing. The method of
argument here is unusual: Fratticci insists on the possibility of conviction through fascination with a truth that imposes itself by the
power of its own myth (p. 101 and following). The junction (il bivio)
is reached (p. 123 and following). The Goddess leads Parmenides to
truth, not by a series of logical deductions more typical of post-So-
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cratic thought, but by a revelation of a/ lËqei/a as truth. Once again, it
is the power of the revealed myth of existence that has precedence
over the logical explanations of any essences that may be identified at
a second stage.
The book concludes with a short chapter (pp. 171-179) which is
best read as an apologia by Fratticci for what he has argued in the previous three chapters. The book is an invitation to go on a journey
with Parmenides as our companion. Given the temper of the age,
dominated by pragmatism and technical utility and ending with the
vacuity of nihilism, Parmenides will not be well understood by our
contemporaries who, in Fratticci’s view, have abandoned the heroic
search for the true and the good for lesser formulae of what is practical and useful. As the Goddess led Parmenides, by the hand, into
the mystery of being so, Fratticci suggests, a true philosopher will be
humble in allowing the truth be revealed to her rather than he imposing finite answers on a question that is, by affirmation of its being, an infinite search. This is the gift promised by Fratticci in his
sub-title: truth as something gratuitously revealed, not the exchange
of human presents which are handed over in the expectation of getting an even nicer present in return.
There are a number of levels at which moral theologians can benefit from this book. We are familiar with the injunction of Optatam
totius 16 to develop a moral theology more thoroughly based on Sacred Scripture: have we forgotten an even more fundamental orientation of that Conciliar Decree, just two paragraphs previously? “In
the revision of ecclesiastical studies the main object to be kept in mind is a
more effective coordination of philosophy and theology so that they supplement one another in revealing to the minds of students with ever increasing
clarity the Mystery of Christ...”. (OT 14). A fundamentalist approach to
Scripture has been happily eliminated from moral theology. Can the
same be said of our approach to philosophy? I fear not. Too many
moral theology books are still using philosophy in a proof-text way:
a reference to St. Thomas here, a quote from Kant there. Fratticci’s
book is a model of rigorous philosophical thinking, and it could be
instructive for moral theologians to see how the autonomous science
of philosophy constructs arguments in a painstaking way.
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Given the particular interpretation which the book offers on Parmenides notion of truth (as a gratuitous gift), Fratticci’s book may be
of particular interest to those moral theologians, like Brian V. Johnstone and Aristide Gnada, who are exploring seriously the importance of gift as a foundational category for moral reflection. In doing
this, these theologians rely heavily on other researchers like JeanLuc Marion and Claude Bruaire. Fratticci may encourage them to
look at the possibilities of Parmenides, as well.
The premises of this book include the current challenge of nihilism and utilitarian scientism, which encourage genuine seekers of
the true and the good to return to the sources of philosophy. While
appreciating the meticulous way in which Fratticci does this, his
book will not replace the analogous historical investigations of these
general problems done from a wider canvas by Alisdair MacIntyre,
Charles Taylor and others. Fratticci will stimulate an interest in Parmenides, and this is to be welcomed. Moral theologians should supplement this interest with already established investigations into similar problems, while appreciating the company of Parmenides in the
mode suggested by Fratticci.
RAPHAEL GALLAGHER, C.Ss.R.
JAN PAWEŁ II, Encyklopedia nauczania moralnego (JOHN PAUL II,
Encyclopedia of Moral Teaching), Ed. J. Nagórny, K. Jez· yna,
Polskie Wydawnictwo Encyklopedyczne (Polish Encyclopedic
Distributor) Polwen, Radom 2005, 636 p.
For over a quarter of a century, Christ and the Church spoke to
the world of today through the voice of John Paul II. For many, his
steadfast and clearly proclaimed Christian message continues to stand
as a point of reference. At the turn of the millennium, in the wake of
the crises and the fall of many falsely created moral authorities, the
Pope always spoke as a guardian of values and a defender of truth and
good. On the other hand, in Catholic Church circles and among
some Catholic theologians, there is some disagreement with his
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teaching and a tendency to just simply pass over his teaching in silence. Attitudes like these are particularly manifested towards the
moral teaching of the Pope. It seems that apart from instances of
completely bad will, one of the reasons for lack of acceptance of his
teaching is knowing it superficially or even a complete ignorance of it.
The moral issue encompasses one of the most essential areas of
the Pope’s teachings. It resounds in many documents, among which
the most important ought to be considered the encyclical “Veritatis
splendor” directly dedicated to Christian morality; the documents in
the field of the Church’s social teaching, especially the encyclical
“Evangelium vitae”; the documents dedicated to marriage and family
and the particular vocation in the Church; as well as the numerous
addresses delivered on various occasions. Without a doubt they
typify his teaching which is not easy to grasp and they need to be read
and interpreted correctly. This brings up the need for a certain kind
of guide through the moral message of John Paul II intends to fulfill
such a function.
The project arose through the initiative of the Polish Encyclopedic Distributor (Polskie Wydawnictwo Encyklopedyczne) POLWEN. It is a series of four encyclopedias a encompassing the person
and teaching of John Paul II. Besides the Encyclopedia of Moral Teaching, it contains the Encyclopedia of Social Teaching, the Encyclopedia of
Dialogue and Ecumenism and the Encyclopedas of the Pontificate (19782005). Academic supervision of the project was taken up by the Institute of Moral Theology of the John Paul II Catholic University of
Lublin, which for several years has done research work on the contemporary moral message of the Church. Editorship was done by Fr.
Professor Janusz Nagórny, the then director of the Society of Polish
Moral Theologians (Stowarzyszenie Polskich Teologów Moralistów)
along with Fr. Professor Krzysztof Jeżyna.
The Encyclopedia contains 165 entries by 34 moral theologians
from the most important theological centers in Poland. They discuss
the important moral issues, that were the subject of the teaching of
John Paul II.
The structure of every entry encompasses four parts. In the first
place, the definition and short description of a given issue are pre-
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sented, paying attention to how a given problem was grasped in the
tradition of ethics, primarily Christian, particularly taking into account the teachings of the Second Vatican Council and the immediate predecessors of John Paul II in Peter’s Chair. Next, a wide presentation of issues based on the teaching of John Paul II is done. It
ought to be noted that with some issues, in order to better understand Papal teaching, it was essential to have a broader reference to
his teaching on philosophy and ethics from the time of his academic-didactic work at the Catholic University of Lublin. For this, the
most important documents and speeches of John Paul II were referred to, which dealt with the discussed issue and select literature on
the subject in the Polish language, which can help in a more broader and deeper reading of the Papal message.
Apart from the cognitive function, it is the intention of the authors that the encyclopedia fulfills the role of a certain type of guide
through the moral teaching of John Paul II, which encourages one to
a personal reading of the Papal message and does not attempt to replace it. The nature of the encyclopedia causes that it undertakes
everything according to its aspect, striving at the same time to show
the mutual ties of particular issues. Therefore, the encyclopedia has
some entries which are characteristic of reviews, giving a greater
chance for getting to know the fundamental assumptions upon which
are based decisions that are more detailed and concrete.
The Encyclopedia is directed to a broad group of recipients, not
only for priests, students of theology and catechists, but to all who
desire to better understand the contemporary moral message of the
Church and make it the basis of forming one’s life and for the moral
upbringing of younger generations. One ought to express the conviction and hope that the person and teaching of John Paul II will for
a long time illumine the search for the truth and the true goal of life
by people of good will.
JERZY GOCKO, SDB
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MELINA LIVIO – NORIEGA JOSÉ – PÉREZ-SOBA JUAN JOSÉ, Camminare nella Luce dell’Amore. I fondamenti della morale cristiana, Edizioni Cantagalli, Siena 2008, 678 p.
Il libro pur essere considerato uno strumento di approfondimento in materia di teologia morale, esso raccoglie studi sui argomenti
decisivi per il rinnovamento della teologia morale, quali: la prospettiva teologica dell’agire e la dimora ecclesiale della vita morale cristiana. Queste sono anche le questioni a cui intende dare risposta
questo manuale, pensato per offrire, un’introduzione organica e sistematica alla materia, sia agli studenti che agli studiosi di Teologia
morale.
Questo libro rappresenta il tentativo di ripresentare scientificamente ed esporre sistematicamente la Rivelazione, negli aspetti riguardanti la vita morale dell’uomo preso nella sua storicità, chiamato da Dio a vivere come figlio nel Figlio in comunione di vita con
Lui. L’impostazione cristologica della morale cristiana invita a rileggere i diversi parametri dell’agire morale dell’uomo partendo dal suo
fondamento cristologico.
Dopo l’Introduzione Generale segue la parte Preliminare, ed i
suoi tre capitoli illustrano alcuni aspetti introduttivi della teologia
morale. Il capitolo primo (L’annuncio del regno, l’appello alla conversione e la rilevanza salvifica dell’agire umano, pp. 17-24) parla
dell’orizzonte ermeneutico dell’agire umano che ha luogo all’interno
della storia della salvezza, nella quale Dio è il protagonista principale. Già all’inizio viene offerta la prospettiva teologico-cristiana sull’agire umano dentro della chiamata alla conversione con cui Gesù annuncia il Regno. Parallelamente viene sottolineata la rilevanza salvifica dell’agire umano con lo scopo di illuminare il legame tra fede e
morale che trova il suo significato nella costruzione di una vita buona. All’agire umano è affidata la responsabilità di compiere l’azione
salvifica in Gesù Cristo. Ogni azione ha una dimensione eterna, attraverso di essa l’uomo può salvarsi o perdersi perché essa è rivolta a
Cristo che è Dio fatto uomo. Egli si identifica con ogni uomo, soprattutto coi più piccoli, bisognosi e abbandonati (Mt 25, 40). L’azione di Dio nel mondo, che culmina nella missione di Gesù Cristo dà
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il senso all’azione umana nel suo contesto storico. Il capitolo secondo (La tradizione come orizzonte ermeneutica dell’agire cristiano,
pp. 25-80) mette in rilievo l’importanza della comprensione ecclesiale della prospettiva morale. Si sottolinea la relazione interna tra morale e tradizione mettendo in rilievo proprio la tradizione cristiana e
il suo valore normativo. La relazione esistente tra le diverse formulazioni morali e la situazione culturale nelle vicende storiche dimostra
che la scienza morale è aperta e in dialogo con un referente magisteriale. E infine il terzo capitolo della parte Preliminare (Fonti e metodo della teologia morale, pp. 81-97) tenta di proporre una definizione della teologia morale e coglierne le fonti e il metodo.
La parte centrale del libro è suddivisa in tre parti secondo l’itinerario della divina comunione trinitaria. Nella prima parte (Per la gloria del Padre. La vocazione originaria all’amore) gli autori valutano
l’importanza della ricerca della comprensione della vocazione originaria, che scaturisce dall’amore del Padre verso l’uomo. L’esperienza
morale comincia dalla ricerca da parte dell’uomo del senso del suo
agire. Lo fa il giovane ricco (Primo capitolo, pp. 101-134) cercando
il senso della vita. Egli aspira a dare una risposta definitiva ed ideale
su come condurre la vita buona (Secondo capitolo, pp. 135-179).
Guardando alla struttura dell’agire, l’amore si rivela come il principio di ogni azione. Ma sulla via verso la risposta definitiva all’amore
divino si trova il peccato; incapacità di realizzare la vita nell’agire e
dramma della libertà umana. L’uomo essendo un essere creato con
una libertà finita è capace di peccare. La realtà del peccato ci porta
all’esperienza della colpa illuminata della Rivelazione. Soltanto la misericordia divina dà la speranza di una vera liberazione attraverso la
croce. Un grande aiuto al discernimento della giusta via nell’agire è
la legge naturale che ci ricorda la nostra chiamata originaria. Il tema
della legge naturale viene analizzato in chiave teologica (storia della
salvezza) e personalistica. Il capitolo terzo (pp. 181-211) parla del
peccato come il dramma della libertà umana. E il capitolo quarto (pp.
213-235) si occupa della legge naturale come memoria della chiamata all’amore.
La seconda parte del libro (Figli nel Figlio. Il costituirsi del soggetto morale cristiano. “Se vuoi essere perfetto... seguimi”) è suddivisa in
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sei capitoli. In essi si analizza la costituzione del soggetto cristiano in
Cristo e il dinamismo del suo agire morale. La morale si basa sull’incontro personale con Cristo in cui si scopre la rivelazione della propria vocazione all’amore, il significato di una chiamata personale a
cui bisogna rispondere con libera responsabilità. Di fronte alla chiamata di Dio la risposta dell’uomo presuppone una pienezza di vita insospettabile. Alla chiamata divina l’uomo risponde con la conversione a Cristo (Capitolo primo, pp. 239-265). Il soggetto morale cristiano si costituisce nel suo incontro con Cristo: nell’azione temporale che rivela all’uomo la complessità dei suoi dinamismi e nel fatto
della singolare l’amicizia con Cristo, che dà unità a tutti questi dinamismi (Capitolo secondo, pp. 267-306). La libertà umana è segnata
dal dono dell’amore che la risveglia e conduce alla pienezza di una
comunione. Così possiamo comprendere il ruolo e la necessità delle
virtù morali (Capitolo terzo, pp. 307-378). La Chiesa è la dimora e il
cammino dell’agire morale del cristiano, come educazione alle virtù.
(Capitolo quarto, pp. 379-400). Il cristiano come “figlio nel Figlio” è
chiamato a vivere la legge in riferimento alla verità sul bene che la
fonda, e all’amore, che è il fine cui sta in servizio. La legge mantiene
il suo valore obbligatorio, ma è collocata in una nuova economia salvifica, che permette di viverla come un cammino di libertà e di verità nell’amore (Capitolo quinto, pp. 401-434). Nella realtà della vita
cristiana hanno luogo atti morali cattivi chiamati peccati. La coscienza di questi peccati viene dalla rivelazione divina, nella quale Dio mostra la gravità del peccato nella misura in cui rivela la sua esistenza e
il suo piano all’uomo. Il centro di questa rivelazione si trova nell’Alleanza e nel Mistero Pasquale di Cristo (Capitolo sesto, pp. 435-477).
Nella terza parte del libro (Guidati dallo Spirito. Il realizzarsi della comunione nell’agire. “Se rimarrete nel mio amore, porterete molto
frutto”) si osserva come l’uomo realizza se stesso per mezzo delle sue
azioni, in quella relazione unica, sinergica e misteriosa che esiste nella Chiesa tra l’uomo e Dio. Il protagonista dell’azione interna di Dio
nell’uomo, che lo configura a Cristo è lo Spirito Santo. La comprensione e ricezione del dono di sé che Dio fa nello Spirito Santo comporta tre mediazioni in relazione tra loro: Cristo, la Chiesa e i sacramenti che alla luce dell’azione di Cristo, per opera dello Spirito San-
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to hanno un particolare valore morale (Capitolo primo, pp. 481-517).
L’uomo introdotto nella ricezione del dono divino si trova di fronte
al mistero dell’azione personale che influirà nel suo destino. Ogni sua
azione comprende una somma di dinamismi nei quali la persona si
esprime e si realizza in quanto tale. Gli autori sottolineano il vincolo
che esiste tra la persona e la sua azione. Questo è uno degli aspetti
più importanti del rinnovamento degli studi morali che pone l’accento su un metodo specifico di conoscenza dell’azione (Capitolo secondo, pp. 519-560). L’agire cristiano non è solo frutto dell’iniziativa dell’uomo, ma sulla sua origine sta una dimensione impulsiva dell’azione dello Spirito. I suoi doni rendono possibile una sinergia dell’azione divina con l’azione umana (Capitolo terzo, pp. 561-586). La
presenza dello Spirito Santo nell’uomo corrisponde anche una dimensione normativa, poiché ordina e regola il movimento della creatura razionale affinché raggiunga Dio. Questa categoria normativa è
chiamata “legge nuova” che è la pienezza della legge antica. Grazie a
questa legge nuova la persona può essere liberata dalla schiavitù della legge mosaica e inaugurare una vita nuova in Cristo (Capitolo
quarto, pp. 587-596). Il tema della legge nuova scritta nel cuore, ci
conduce al tema della coscienza definita come il giudizio riflesso della ragione pratica sulla moralità di un atto concreto. La formazione
della coscienza si basa sull’apertura alla verità e fa riferimento alla
partecipazione alla coscienza filiale di Gesù, in quella perfetta obbedienza alla volontà del Padre, che lo Spirito assicura. Essa ha la sua
dimora nella Chiesa, comunione umano-divina (Capitolo quinto, pp.
597-628). Nel capitolo sesto (pp. 629-640) e conclusivo, la vita morale è vista come vocazione in Cristo, sia nel suo aspetto fondamentale, sia nella distinzione dei diversi stati di Vita. Inoltre è esaminata
la missione del cristiano nel mondo vista tanto nel suo aspetto di efficacia quanto in quello di testimonianza al Padre.
La Conclusione Generale dell’opera sottolinea due aspetti specifici dell’agire cristiano: la testimonianza e il martirio nell’orizzonte
dell’evangelizzazione.
Il volume è stato scritto in una forma scorrevole e ci offre un’esposizione chiara dei fondamenti della morale cristiana visti nella
prospettiva trinitaria. Essa è un’opera preziosa in quanto espone i
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principi dell’agire morale del cristiano. Mette in risalto le fonti da cui
si alimenta il suo dinamismo di crescita, fino a raggiungere la perfezione del dono di sé. E alla fine pone la domanda, quale è il suo significato nel tempo della Chiesa, per la vita del mondo. Gli autori di
questa opera hanno cercato di seguire le linee di rinnovamento indicate dall’enciclica Veritatis splendor, in particolare quelle che urgono a
ritrovare i nessi costitutivi tra libertà e verità e tra fede e morale. Seguendo tali indicazioni hanno superato il legalismo sul piano filosofico e l’estrinsecismo su quello teologico che caratterizzavano la tradizione manualistica postridentina. Gli autori hanno posto in risalto
la prospettiva fondamentale dell’amore trattando il fondamento della morale cristiana. In primo luogo hanno posto il soggetto cristiano
che agisce sottolineando nello stesso tempo tanto l’originalità dell’azione umana, quanto il dinamismo umano-divino implicito nel suo
svolgersi. La caratteristica della morale cristiana è seguire Cristo. Gli
autori del libro fanno riferimento anche all’orizzonte dell’amore, secondo l’Enciclica Deus caritas est. Il contenuto dell’incontro con Cristo è proprio un’esperienza di amore che spiega più radicalmente il
dinamismo dell’agire e apre l’azione all’orizzonte ulteriore della comunione con Dio.
L’opera strutturata in questa maniera guida il lettore alla riscoperta della sinergia di fondo tra l’azione divina e quella umana. Il cardinale Joseph Ratzinger ha scritto che il filo conduttore di tutta la morale cristiana è “la collaborazione dell’agire umano e dell’agire divino nella realizzazione piena dell’uomo” (J. RATZINGER, “Genesi e
contenuti essenziali dell’enciclica Veritatis splendor”, in La vita della
fede. Saggi sull’etica cristiana nell’epoca presente, Edizioni Ares, Milano
1996, 96).
È un libro che lascia soddisfatti dal punto di vista teologico di aver
dedicato molte pagine alla teologia biblica. Il dato scritturistico non
è trattato come materiale grezzo ma plasmato e interpretato all’interno di un orizzonte cristologico sul cui sfondo risaltano le linee essenziali della rilevanza morale della Rivelazione.
GABRIEL WITASZEK, C.Ss.R.
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SCHALLENBERG PETER, Jenseits des Paradieses. Ethische Anstöße für den Alltag, Aschendorff Verlag, Münster 2007, 144 p.
„Und dann werden wir trachten, unser Leben weiterhin zu ertragen, ein jeder nach seiner Weise. Denn dies wird ja von uns gefordert.” Die letzten Worte in Werner Bergengruens Roman von 1935
„Der Großtyrann und das Gericht”, dessen Thema, die „Versuchungen der Mächtigen und der Leichtverführbarkeit der Unmächtigen
und Bedrohten”, zeitlos und je neu aktuell ist, gehören dem Großtyrannen selbst.
Das Gericht, das er, der Mächtige von Cassano, eigentlich über
die Bewohner seiner Stadt hatte sprechen wollen, wird zuletzt aus
dem Mund des Paters Don Luca über ihn selbst gehalten. Der Mord
nämlich, dessen Aufklärung er innerhalb von drei Tagen befohlen
hatte und infolge dessen fast alle Menschen zu Lüge, Verbrechen
und Verrat verleitet wurden, war von ihm selbst begangen worden.
Er wollte so das Verhalten und die Herzen seiner Untergebenen prüfen – jetzt, am Ende, aber muss er erkennen, nicht sie an ihm, sondern er an ihnen war schuldig geworden.
Gleichwohl unser Leben meist auf etwas weniger verschlungen
Pfaden abläuft, als es in der Stadt Cassano der Fall war, ist doch überdeutlich: „Die Schuld war uns gemeinsam, und so bedürfen wir einer
gleichen Vergebung.” Was sich hier Romanfiguren rückblickend
gegenseitig eingestehen müssen, spiegelt eine existentielle Erfahrung
der Menschen als solche wider. Die Wirklichkeit, in die sie gestellt
sind, trägt das Prädikat „Jenseits der Paradieses”. So lautet auch der
von Peter Schallenberg, Professor für Moraltheologie und Christliche Sozialwissenschaft an der Theologischen Fakultät Fulda, gewählte Titel seines 2007 beim Verlag Aschendorff in Münster erschienenen Buches. Sein Untertitel („Ethische Anstöße für den Alltag”) zeigt ein Zweifaches auf:
Einerseits geht es geht dem Autor auf 144 Seiten darum, ausgehend
vom christlichen Menschenbild, in dem weiten Feld der Ethik Orientierungspunke zu setzen und Leitlinien aufzuzeigen, die Anstöße für
ein gelingendes und geglücktes Leben sein wollen. Gleichzeitig können sie im Hinblick auf aktuelle gesellschaftliche Fragen als Grenz-
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steine verstanden werden: Wie weit kann und darf der Mensch gehen,
ohne Personalität und Würde zu verletzen? – die der anderen Menschen sowie auch die eigene! Im Blick sind hier etwa Fragen der Bioethik am Lebensanfang und Lebensende. Was ist ferner zu vermeiden
oder geradezu not-wendig, soll der Anspruch und die Verantwortung
des Christentums innerhalb und für die Gesellschaft nicht aufweichen? Peter Schallenberg markiert hier einige unhintergehbare Referenzpunkte. Als vor- und nachgängige Reflexion über (moralisches)
Handeln fordert Ethik den Bezug eigener Positionen, die das Verhalten dann nachhaltig bestimmen. Nach der Lektüre, die am liebsten in
einem Zug geschieht, kommt der Leser auch gar nicht umhin, die
vom Autor in gewohnt heiterer Weise vorgetragenen Gedanken auf
ihre Bedeutung für den Alltag hin zu durchdenken und umzusetzen:
die ethische Reflexion mündet in eine Spiritualität des Alltags.
Andererseits könnte der Untertitel eigentlich auch entfallen. Keineswegs ist er überflüssig, aber (idealerweise) selbstverständlich – bei
Licht besehen: welche Bedeutung sollte eine Ethik haben, die nicht
tauglich für den Alltag ist? Oder welchen Alltag gibt es, der uns nicht
zugleich ethisch-moralisches Handeln abverlangt (auch wenn wir
nicht wie die Bewohner von Cassano immer nur absichtlich auf die
Probe gestellt werden)?
Die Notwendigkeit von Ethik ist Folge der Vertreibung des Menschen aus dem Paradies. Dort war die Sorge um das richtige Verhalten gleichsam nicht an der Tagesordnung. Der Mensch lebte im Wissen um das Gute und im Einklang mit dem Guten, das personal gedacht wird und Gott selbst ist. Im Horizont diesen guten Anfangs
macht Peter Schallenberg eindrucksvoll deutlich, wie es dem Menschen – bei aller Schwäche – gelingen und verständlicher werden
kann, dass „der Mensch nicht am Menschen verzweifeln muß.... Was
wäre, wenn ein ursprünglich guter Anfang und parallel dazu auch ein
endzeitlich gutes und vollkommenes Ende... gedacht würde?... Und
was, wenn solcher Anfang und solche Vollendung personal gedacht
würden, also nicht einfach als das Beste, sondern als der Beste, mithin als Gott? Was würde sich, wiederum gefragt und jetzt zugespitzt,
ändern, wenn Gott gedacht würde?” Garant dafür, nicht an sich und
an den Mitmenschen verzweifeln zu müssen, ist ebendieser Gott, der
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sich als Gipfelpunkt aller Möglichkeiten in Jesus Christus offenbart
und so den Menschen als Geschöpft vollendet und aus der Verzweiflung befreit hat, die ohne Hoffnung ist. Eine Lebensweise, die im
Sinne Gottes gelungenes Leben ermöglicht sowie eine adäquate, in
den Alltag hineinreichende Ethik, ist dann gleichsam Ausdruck und
Folge eines vorgreifenden Bekenntnisses: Ernst machen damit, dass
Gott ist! So heißt es bereits im Vorwort.
Spätestens seit Thomas von Aquin und dessen Prolog zum zweiten Teil der theologischen Summe ist klar, dass das Gottes- und Menschenbild untrennbar miteinander verbunden sind. Die immer drängenden Fragen „Was ist gut? Was ist das Ziel meines Lebens?”
drücken viel von der menschlichen Sehnsucht aus, anzukommen;
dort sein zu können, wo ich einfach bin und wo es gut ist, dass ich bin.
Entsprechend des thomistischen exitus-reditus Schemas – es steht
auch im Hintergrund des Buches – kommt der Mensch dann zu sich
selbst, wenn er zu Gott gelangt ist, wenn er ihn als Erfüllung aller
Sehnsucht ergriffen hat.
Wie gesagt, wer Gott und wer der Mensch sei, ist ganz eng miteinander verbunden. Dennoch greift Gott dem Menschen dabei
nicht vor. Er lässt ihn als Eigenständigen unbedingt gelten, auf dass
er aus freien Stücken zu ihm gelange, wie es Romano Guardini einmal im Hinblick auf die Vollkommenheit ausgedrückt hat: „Ich will
zu Gott, aber auf meinem Weg und auf meinen Füßen. Dann erst beginnt das eigentliche Ringen.” Gott lässt uns unsere Füße und trägt,
wenn sie im Ringen schwach geworden sind.
In seiner Diktion vermittelt diese gute Nachricht auch der Autor,
wenn er den Leser mit auf eine Reise durch Wesen und Bedeutung
des christlichen Menschenbildes nimmt. Angesichts des persönlichen
An-Spruchs ist sie freilich nicht immer nur bequem. Anhand dieses
„Fahrplans” wird auch deutlich, dass viele Aspekte immer wieder zu
hörender Religionskritik am Christentum eigentlich fehl gehen. Und
das ist hilfreich für so manche leidvolle aber wichtige Diskussion.
Die Kritik stellt nämlich zumeist auf das Christentums als Moralinstanz, als Ethik ab. Diese ist es aber erst in einem zweiten Schritt. Es
fragt nicht zuerst, „Was soll ich tun?”, sondern „Wer will ich sein?”
(Wer bin ich?). An erster Stelle ist es Ontologie, Seinslehre!
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Die Ausführungen sind an drei einschneidenden Fragen oder
Mahnungen aus dem Alten Testament orientiert, die den Text zugleich sinnvoll gliedern.
„Adam, wo bist du?” (Gen 3, 9): die nach dem Sündenfall von Gott
an den Menschen gerichtete Frage verweist auf fundamentalmoralische Grundlegungen, dieser erste Teil ist mit „Ethik des Individuums” überschrieben. Peter Schallenberg greift hier die schon angeklungene grundlegendste aller Fragen des Menschen auf: „Wie kann
ich leben?” Mehr noch: „Wie kann ich geglückt und nicht nur überlebend leben?” Eine Antwort vermag der Mensch, so die Überzeugung, nur zu finden, wenn er das wirkliche Gute von den scheinbaren Gütern zu unterscheiden vermag. Völlig umfassen könne alle
Möglichkeiten des Seins jedoch nur Gott selbst, der Schöpfer aller
Dinge. Für den Menschen bedeute dies, dass er bei seinem Unternehmen auf die Verbindung zu Gott, dem Sein an sich, nicht verzichten dürfe, diese vielmehr noch fördern solle (wofür das Gebet
stehe). Der Mensch könne als Wesen der Freiheit, das bedeutet für
Schallenberg, ausgestattet mit einer doppelten Freiheit, „positiv”
und existentiell zum Guten hin und „negativ” als vergleichende und
auswählende Freiheit, ganz auf Gott hin leben. Auf der anderen Seite sei es ihm jedoch auch möglich, sich von Gott zu trennen. Darin
finde sich die Wurzel aller Sünde: Schuld und Sünde als Trennung
vom Schöpfer, als „Abwendung von Gott und Hinwendung zum Geschaffenen”, wie es Thomas von Aquin formuliert habe. In diesem
Sinn durchschneidet die Sünde quasi immer mehr die das Leben garantierende „Nabelschnurverbindung” zu Gott. Sie trennt den Menschen wesentlich von seiner geistigen Nahrung, von seinem Sinn.
Die Folge ist der Tod der Seele: Der Schwerpunkt, so weiter, sei gelegt auf „eine innere Entscheidung des Menschen für das Gott-Widrige und für eine äußere Tat.” Dies stelle sich als „schlummernde(n)
und alles mit dem erstickenden Ölfilm des Desinteresses überziehende(n) Lieblosigkeit” dem Anderen gegenüber dar.
Ut anima sanetur – die von Augustinus so bezeichnete „Mission”
Christi und des Christentums wird sodann mit Sören Kierkegaard
eindrucksvoll aufgegriffen, denn: „Alles Christliche muß in der Darstellung Ähnlichkeit haben mit dem Vortrag eines Arztes am Kran-
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kenbett!” Nun bringt der Arzt bringt nicht immer nur gute Neuigkeiten, er ist aber stets bemüht um die Gesundung des Patienten – an
Leib und Seele! – und ist getragen von einer positiven Grundhaltung
ihm gegenüber. Orientiert an dem Begriffspaar Gnade und Freiheit
vermag es Peter Schallenberg daraufhin klug zwischen evangelischer
und katholischer Ethik zu vermitteln und greift aus auf einen „ökumenischen Konsens”, in dessen Mitte menschliche Personalität, die
Person als Ebenbild Gottes, steht.
Von dem antiken Konzept als Habitus, als zum geglückten Leben
befähigende Haltung, ausgehend, werden dann die verschiedenen
Formen der Tugenden (Kardinaltugenden und göttliche Tugenden)
benannt und erklärt. Ebenso präzise gelingt die Auseinandersetzung
mit Fragen der Moderne, etwa auf dem bio-technischen Problemfeld. Hier mangele es im Hinblick auf das zuvor Dargelegte besonders der Beachtung ontologischer Kategorien – was will das das
Naturrecht und wie ist es (neu) zu verstehen und zu vermitteln? –,
und einem rechten Verständnis von Vernunft. Dem in Moderne und
Postmoderne immer größer werdenden Verlust an Letztorientierung
und Sinn für Wahrheit müsse (wieder) der Sinn für die Bedeutung
von Heil und Heiligkeit des Menschen Lebens gegenübergestellt
werden: Wo bricht Gott in die Unsicherheiten und den Dschungel
selbstgemachter Unklarheiten ein? Wo lassen wir ihn einbrechen?
Ihre sozial-gesellschaftlich relevante Realisierung finden die fundamentalmoralischen Überlegungen innerhalb des anthropologischen Konzepts im zweiten Teil des Buches.
Es entfaltet sich die mit der Frage „Kain, wo ist dein Bruder Abel”
(Gen 4, 9) überschriebene „Ethik des Sozialen”. Hier wird der geschärfte Blick wesentlich auf Fragen der Christlichen Soziallehre gerichtet, denn spätestens mit dieser Gottes-Frage nach dem Brudermord sei die Sorge um den Nächsten dem Menschen als Aufgabe gegeben. Von dem Kern zwischenmenschlicher Solidarität ausgehend –
Gerechtigkeit und Sorge für den Nächsten findet ihren Höhenpunkt
und bündelt sich brennglasartig in der Familie, die idealerweise
zweckfreie Liebe verbürgt –, gewinne christliche Sozialethik eine
umfassende Bedeutung: „Wie muß das Fundament einer Gesellschaft gebaut sein, die als Kirche Gemeinschaft sein will?... Wie muß
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eine Gesellschaft von Menschen organisiert und aufgebaut werden,
die wenigstens die Idee eines Besten als dauerhaften Zustand... nicht
ausschließt und dennoch lebt unter der Bedingung „als gäbe es Gott
nicht?” Den Herausforderungen und Aufgaben des Christlichen
innerhalb eines säkularen Staates und für ihn widmet sich der Autor
– augustinisch vermittelt – mit dem Blick auf die Verhältnisse Kirche
und Staat, Politik und Kirche oder Mensch und Welt. Dabei finden
auch solche Fragen Beachtung, die möglicherweise näher liegen, als
das große, oft unverständliche, Staatsgebilde. Peter Schallenberg
wendet sich auch zunächst scheinbar kleinen Dingen zu und fragt,
wie es dem Menschen damit geht und gehen kann. Wie etwa vermag
er es, seine Arbeit nicht nur als Broterwerb, sondern auch als Berufung zu verstehen? Nach welchem Maßstab entscheide und handle
ich, auch im Kleinen; anders: dürfte und sollte ich nicht so leben, als
hätte ich möglichst viele Talente erhalten?
„Bedenke, was ich an dir getan habe!” Die aus 1Kön 19 genommene
Mahnung überschreibt zugleich den letzten Teil: „Spiritualität im
Alltag”. Sie wird vom Autor aber weniger als eine drohende und lähmende Mahnung verstanden, sondern als Evangelium, als eine frohe
Botschaft, vorgestellt. Peter Schallenberg vermag es, dem Leser
überzeugend zu vermitteln, dass das Christentum inklusive auch erhobener Forderungen keine Wege verbaut, sondern neue Möglichkeiten eröffnet, wie es einmal Klaus Demmer sagte. Die uns von Gott
angebotenen Möglichkeiten sind aber groß, ja immer die größeren;
das wird am Ende sehr deutlich. Kinder erlernen von ihren Eltern
mit dem, was sie erhalten haben, verantwortungsvoll und dankbar
umzugehen. Als Kinder Gottes haben wir das Leben als ein Gewinn
und Geschenk erhalten. Freilich, so die richtige Feststellung, erscheine es oft als ein Paradoxon – das das Christentum aber biete
Antwort. Der christliche Glaube sei „vom Wesen her Erklärung dieses Widerspruchs, den jeder Mensch im eigenen Leben erlebt und
doch keiner letztgültig mit den Kategorien dieser Welt erklären
kann: Wer sein Leben bewahren will, verliert es; wer es hingibt, wird
es gewinnen.” Wie aber lautet für den Autor, der dabei für den Christen als solchen (und eigentlich für jeden Menschen) spricht, die Antwort auf die Frage nach dem Letztgültigen des Lebens? „Die Antwort
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ist immer und überall: Liebe! Liebe aber schärfer zugespitzt als hingebende und zunächst von sich selbst weggebende Liebe.” Im Angesicht der Liebe könne deshalb ein Verzicht, wie ihn das Leben oft fordere, als sinn-voll verstanden werden. Mit Romano Guardini gesprochen soll hier m.A.n. ausgedrückt werden, dass es um die Annahme
meiner selbst geht. Den Sinn meiner Existenz hat Gott gegeben,
Dingen, mit denen der Mensch von der Welt her konfrontiert wird,
gibt jedoch der Mensch Sinn. Sinn werde, so Peter Schallenberg,
eben nicht gefunden, sondern erfunden.
Einen großen Schatz an Möglichkeiten zur Einübung in das
Letztgültige des Lebens, die Liebe, bieten die dichten hinteren Seiten des Buches. Hier erhält man ebenso Anregungen zur Achtsamkeit und Freundschaft mit Gott und dem Nächsten, wie zur Begleitung anderer in Not und Trauer und (auch für sich selbst) die Zusage des unbedingten „Ja” Gottes zu jedem Menschen angesichts etwa
von Leid und Sterben. Oder aber dazu – auch das ist Einübung in
Liebe –, einen Menschen von der Schönheit einer Stadt und des Lebens begeistern. So sei es vielleicht angesichts der gedanklichen
Romreise gesagt, die am Ende des Buches begonnen wird und so für
den Leser zum (neuen) Anfang eigener „Fahrt” werden kann. By the
way: sinn-voll ist die Buchlektüre unbedingt – nicht nur bei der
nächsten Fahrt in die Ewige Stadt.
MANUEL WLUKA
VENDEMIATI ALDO, Universalismo e relativismo nell’etica contemporanea, Marietti, Genova-Milano 2007, 200 p.
Aldo Vendemiati è docente di Filosofia morale e dal 2007 è Decano della Facoltà di Filosofia della Pontificia Università Urbaniana
(Roma). La sua opera che qui presentiamo è composta da quattro capitoli di natura squisitamente filosofica intorno al problema della ragione e dell’universalismo nell’etica. Di primo acchito potrebbe sembrare un po’ anacronistico tentare una tale via, ma come l’autore stesso ci indica, viste le conseguenze che il sapere scientifico insieme agli
interessi economici provocano nel mondo, oggi non solo è possibile
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fare filosofia, ma vige l’imperativo morale che i filosofi riprendano il
loro ruolo nel contesto sociale e politico contemporaneo, per rielevare l’uomo ormai faber ad essere nuovamente sapiens.
Dopo l’avvento del post-modernismo e del nichilismo, l’autore si
interroga se sia ancora possibile fare filosofia. Per questo nel primo
capitolo, armato solo degli strumenti della riflessione logica, Vendemiati affronta la “disintegrazione” teorizzata da J.F. Lyotard, lo
“smembramento” di R. Rorty e, infine, “l’autosuperamento” di J. Derrida. In ognuno di questi autori, secondo prospettive diverse, l’impossibilità di fare filosofia dipenderebbe dalla inesorabile frattura tra
la verità della scienza e la verità etica. Essendoci ormai molti saperi,
ciascuno dotato di proprie “verità” sembrerebbe impossibile approdare ad un unico sapere-linguaggio in grado di giungere alla Verità.
Una realtà così frammentata non può più essere ricondotta ad un
principio universale, e pertanto l’istanza metafisica viene rigettata.
Vendemiati obbietta che, se fosse effettivamente così, Lyotard stesso
non potrebbe asserire in modo universale e quasi dogmatico ciò che
afferma. Infatti, se non esiste alcuna metanarrazione, non è neppure
legittimo parlarne. Ma se la ragione non è più lo strumento per giungere a scelte etiche, rimarrà solo la volontà dei più forti che imporranno le loro decisioni.
Il discorso procede similmente anche per Rorty e Derrida che cadono nella stessa incoerenza nell’uso del linguaggio. Al contrario, le
conclusioni di questa prima parte rivelano che «la verità è possibile:
difficile, parziale, incompleta, “povera e nuda” – come la filosofia nel
noto sonetto di Petrarca – ma possibile» (pp. 48-49).
Nel secondo capitolo: “Globalizzazione e universalismo”, l’autore
delimita l’inizio della globalizzazione con la caduta dei regimi comunisti dell’Europa orientale nel 1989. Non essendoci più i blocchi divisi dalla cortina di ferro, il mondo si apre ad una nuova epoca culturale ed economica. Se i nichilisti sottolineano che la frammentarietà
delle culture impedisce alla ragione di giungere ad una universalizzazione dell’etica, in realtà la globalizzazione, come fenomeno mondiale, richiede in se stessa un approccio universale. Da qui Vendemiati presenta le posizioni politico-etiche di F. Fukuyama e di S.P.
Huntington, le prime di tipo escatologico-utopico, le seconde apoca-
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littico-conflittuali. Fukuyama, in uno sguardo globale, sostiene che
«la fine della guerra fredda avrebbe segnato la fine dei grandi conflitti internazionali e la nascita di un mondo relativamente armonioso» (p. 57) decretando così una possibile fine della storia. Huntington invece profetizza uno scontro tra civiltà e in particolare tra l’Occidente e il resto del mondo, che considera i diritti umani un prodotto dell’imperialismo occidentale. Di fronte a ciò M. Walzer e H.
Küng propongono una soluzione etica mondiale ricorrendo ad un
minimalismo morale. In ogni cultura ci sono valori comuni come il diritto alla vita o il diritto ad essere trattati in modo giusto, sebbene
ogni cultura articoli in maniera differenziata le applicazioni pratiche
di tali valori, secondo la propria tradizione. Le due istanze risultano
però insufficienti: Walzer si preoccupa solo di tracciare una procedura corretta che permetta di giungere ad un etica globale senza fondare il minimum morale comune; mentre Küng fonda l’etica mondiale
su una sorta di consenso morale sui valori condivisi, senza dare una
risposta alla domanda sul perchè essi debbano essere condivisi.
Il contesto pluralistico delle culture coinvolte nella riflessione etica porta l’autore ad affrontare il centro del problema nel terzo capitolo intitolato “Relativismo”. Oggi, in Occidente, gli uomini di cultura usano un linguaggio politically correct ripetendo spesso che una
cultura non è né peggiore né migliore delle altre, esse sono solo diverse. Perciò, dai dibattiti vengono banditi i giudizi di valore, interpretando l’uguaglianza delle persone come un dogma che impedisce
ogni forma di valutazione etica.
L’autore analizza, allora, le forme di relativismo più conosciute, da
quello politico del multiculturalismo, a quello antropologico scientista, dall’ermeneutica di Gadamer, alle aporie epistemologiche di Feyerabend, per concludere con il relativismo etico non-cognitivista. Il
mondo del relativismo etico appare come un vero arcipelago che si
diversifica a partire dall’antropologia ispirata al mero determinismo
biologico, alle etiche eteronome giuridiste e volontariste, al pragmatismo anglosassone fondato sull’accordo e il contratto, di cui H.T.
Engelhardt in bioetica è il più noto. In ultimo troviamo i tentativi decostruzionisti di H. Albert che vuole applicare, con il “trilemma di
Münchhausen”, la teoria della falsificabilità di K. Popper alla morale
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e alla fondazione della norma. L’autore sottolinea con acutezza che le
falle di queste impostazioni si trovano nella dicotomia teorizzata da
Hume tra la verità dell’essere e la verità etica, e nell’ansia cartesiana
del dubbio metodico, valido per la ricerca scientifica, ma non adatto
per la fondazione etica. L’autore riconosce alcuni spunti originali e
profondi provenienti da alcune posizione relativiste, quali l’attenzione al singolo individuo come essere originale e irripetibile; alla sua
autorealizzazione, al valore dell’autenticità e del riconoscimento.
Il quarto capitolo intitolato “Figure di razionalità pratica” presenta quattro tentativi per superare la crisi relativista: l’utilitarismo, il
contestualismo, l’etica del discorso e l’etica della relazione. L’utilitarismo cerca di mettere al centro della riflessione etica il fine del benessere della maggioranza degli individui, utilizzando come confine
la libertà di ciascuno. I suoi sviluppi hanno cercato di sopperire alle
inevitabili conflittualità che questa impostazione porta con sé, segnando il passaggio dall’utilitarismo dell’atto a quello della norma, in
cui le scelte personali devono comunque far riferimento alle conseguenze che provocano sulla maggioranza, rappresentate da un insieme di norme comunque soggette ad eccezioni. L’utilitarismo, con i
suoi numerosi correttivi, rimane comunque a livello formale, non indagando sulla bontà morale del benessere desiderabile da parte del
singolo, ma valutandone solo le conseguenze.
Il contestualismo cerca di recuperare tre dimensioni dell’etica aristotelica: la phrónesis, la prâxis e l’ethos, rispettivamente ad opera di
Gadamer, R. Bubner e A. MacIntyre. La ricontestualizzazione dell’etica nella storia e, in particolare, nella storia di una cultura secondo
Vendemiati risulta positiva, sebbene egli si interroghi sulla legittimità di una rilettura di queste categorie aristoteliche attraverso un filtro che in ultima analisi è sempre di stampo relativista e senza considerare necessaria una fondazione del fine ultimo della vita morale.
J. Habermas e K.O. Apel sono i rappresentanti dell’etica del discorso che parte da un presupposto fondamentale: per superare la crisi relativista è necessario fondare l’etica sulle regole universalmente
riconosciute della comunicazione. Il pregio di tale impostazione assicura la possibilità di condurre discussioni etiche corrette da un punto di vista procedurale della formulazione della norma. Tali autori,
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però, non affrontano il problema della fondazione dei contenuti, generando un’etica “in terza persona”, in cui l’agire etico è oggettivato
e ricondotto solo ai termini della giustizia. In Habermas questo valore evidenzia il dovere fondamentale della persona di proteggere la
vulnerabilità del debole.
In un ultimo Vendemiati prende in esame l’etica della relazione di
M. Buber e di E. Lévinas, secondo i quali vi sono due atteggiamenti
fondamentali dell’uomo: la rappresentazione e la relazione. Il primo
descrive il soggetto in un atto di conoscenza della realtà in modo oggettivante e rappresentativo, tipico del conoscere scientifico; la relazione, invece, è un evento in cui il soggetto entra in rapporto con un
altro soggetto, un Io di fronte a un Tu, in cui c’è una conoscenza profonda, un incontro con una totalità. La relazione non è da fondare filosoficamente, perchè farebbe parte dell’a-priori di ogni individuo.
Dall’incontro dei volti nasce il comandamento fondamentale del rispetto reciproco. Riconosciuto il fascino dell’etica della relazione,
per l’autore rimane comunque necessaria la fondazione teoretica della dimensione costitutiva della relazione.
In conclusione Vendemiati offre una “Postilla” che in sintesi presenta la sua posizione umanistico-scientifica. È evidente che le etiche
moderne hanno ristretto il loro campo visivo a causa dell’ansia cartesiana e hanno acquisito un metodo scientifico-empirista che le ha
portate a proclamare l’impossibilità fondativa di un’etica universale.
Vendemiati illustra sinteticamente come l’esclusione a-priori della
dimensione metafisica – senza distinguere tra una metafisica classica
(non per forza religiosa) e una metafisica idealista-totalizzante –, abbia tolto il senso ultimo alla domanda fondamentale sul perchè si
debba essere buoni. Svuotare il significato ultimo della morale ha solo reso impossibile universalizzare il discorso etico. Per questo l’autore, con la consapevolezza della precarietà della riflessione indica
nella vita buona-virtuosa il fine dell’etica e la realizzazione della persona. I diritti umani non sono che un espressione della strada da percorrere per realizzare l’uomo. In questa riflessione Vendemiati sottolinea la necessità di recuperare la finalità della natura razionale dell’uomo e di coniugare le istanze dei diritti con quelle dei doveri, le
aspirazioni della libertà con l’impegno della responsabilità. Implici-
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tamente l’autore ci rimanda ai suoi studi sull’etica “in prima persona”
dove si approfondisce proprio la fondazione dell’etica filosofica1.
“Universalismo e relativismo nell’etica contemporanea” è un libro
complesso, ma necessario per affrontare i temi etici legati alla bioetica e all’economia in un contesto globalizzato. Vendemiati indica una
strada possibile per risolvere il problema della fondazione di un’etica
globale. Uno dei pregi di quest’opera è sicuramente rimettere al centro del dibattito etico l’importanza della ragione e del suo insostituibile ruolo nella fondazione etica.
Certamente il quadro offerto dal capitolo sul relativismo, non del
tutto negativo, evidenzia la necessità di una riflessione onesta, che non
esca dal sentiero, a volte scosceso, di una logica serrata e coerente. In
questo l’autore si dimostra all’altezza di un dialogo che non lascia nulla all’opinione e alle geralizzazioni. Forse è questa la peculiarità che lo
rende originale e che lo spinge a proporre strade di riflessione “un po’
antiche e un po’ nuove”, smontando con lucidità le obiezioni “deboli” di alcuni filosofi contemporanei. In tal modo Vendemiati ridona
respiro alla facoltà che più ci rende umani: la ragione.
ALBERTO ONOFRI
WETTACH-ZEITZ TANIA, Ethnopolitische Konflikte und interreligiöser Dialog. Die Effektivität interreligiöser Konfliktmediationsprojekte analysiert am Beispiel der World Conference on
Religion and Peace-Initiative in Bosnien-Herzegowina (= Theologie und Frieden, Band 33), Kohlhammer, Stuttgart 2008,
284 p.
Dal 1986 l’Institut für Theologie und Frieden (Istituto per la teologia
e la pace) di Amburgo (Germania) pubblica con l’editrice Kohlhammer una collana di notevole pregio, intitolata “Theologie und Frieden”.
Essa raccoglie dei contributi (spesso lavori di giovani studiosi) che
1
Cfr. VENDEMIATI A., In prima persona. Lineamenti di etica generale, Manuali
Filosofia 21, Urbaniana University Press, Roma 20083.
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ruotano attorno alle due aree di ricerca dell’Istituto, fondato nel 1978
dalla Chiesa cattolica in Germania con il sostegno dell’Ordinariato
militare: (a) i temi dell’etica della pace alla luce delle sfide attuali delle
politiche in materia di pace e sicurezza; (b) i temi che riguardano l’elaborazione della tradizione di pensiero relativa all’etica della pace.
Il volume della giovane studiosa Tania Wettach-Zeitz appartiene
alla prima area di ricerca, in quanto intende indagare l’effettività della cooperazione interreligiosa in Bosnia-Erzegovina nell’ambito delle iniziative per la pace promosse dalla “World Conference on Religion
and Peace” (WCRP) e poi dal Consiglio interreligioso della BosniaErzegovina (IRC), all’indomani della cessazione del conflitto armato
(1995) in quella terra dei Balcani occidentali che fino ad oggi non è
riuscita a chiudere le sue ferite.
Proprio lì sul campo e poi anche presso la sede centrale della
WCRP, accreditata presso l’ONU a New York, si è recata T. WettachZeitz per raccogliere buona parte delle interviste che poi sono state
poste alla base della sua ricerca, presentata nel 2006 come tesi dottorale alla Facoltà di teologia protestante della Humboldt-Universität di
Berlino sotto la guida del professor Andreas Feldtkeller. La ricerca è
un’interessante «Fallstudie»: cioè l’analisi di «un caso concreto» per
tentare di rispondere alla domanda cruciale se «il dialogo interreligioso
riesce effettivamente ad ottenere ciò che si promette per il raggiungimento
della pace» (p. 12), specialmente laddove, come in Bosnia-Erzegovina,
le religioni assumono la caratteristica di «identity-makers» (produttori
di identità) per le diverse parti in conflitto tra di loro.
Sullo sfondo di questa domanda, l’Autrice suddivide il suo lavoro
in tre parti e undici capitoletti, che si sviluppano in maniera coerente: dapprima si offrono al lettore i fondamenti teoretici della cooperazione interreligiosa e della trasformazione sociale e culturale dei
conflitti (pp. 17-60). Questi capitoli introduttivi ci sembrano un passaggio obbligatorio specialmente per il lettore teologo o non addentro al linguaggio delle scienze politiche e sociali, in quanto chiariscono i termini ricorrenti nell’intera indagine. Così ad esempio viene
determinato il concetto di «conflitto etnopolitico» che sembra caratterizzarsi per la speciale combinazione di due conflitti, quello degli
interessi a livello economico-politico e quello delle identità a livello psico-
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sociale. Come anche i concetti di «etno-nazionalismo» e di «etno-religioni/clericalismo» focalizzati tra le diverse definizioni ricorrenti
nella letteratura scientifica.
La prima parte si conclude con un panorama sulle varie teorie di
mediazione dei conflitti sociali e politici (pp. 48-60). In particolare
viene illustrato il «peacebuilding»-modello di uno dei più noti e stimati peace-researcher del panorama internazionale, John Paul Lederach, professore dell’Università cattolica di Notre Dame (Indiana,
USA) e dell’Eastern Mennonite University (Virginia, USA). L’approccio di Lederach, sviluppato sullo sfondo della tradizione cristiana (mennonita), è anche alla base dei programmi di «conflict-transformation» adottati dalla WCRP. Esso si distingue per il suo carattere
olistico, in quanto considera i conflitti come «costruzione sociale, cioè
strettamente connessi con la realtà complessiva della società» (p. 53) e non
riducibili solo all’aspetto dei beni oggettivi contestati. Pertanto i conflitti non sono «risolvibili» con l’uso del potere che vorrebbe «imporre» la pace o ottenerla solo con i trattati internazionali, quanto
piuttosto «trasformabili» (questo è il termine preferito da Lederach)
in una situazione sociale complessiva, che tiene conto degli aspetti
culturali, psico-sociali, cognitivi e relazionali delle rivalità. La pace,
più che una «condizione cronologicamente determinabile», è piuttosto un
«processo sociale complessivo e dinamico, che occorre costruire e sostenere continuamente» (p. 55), attraverso una riformulazione delle «strutture relazionali» di tutti gli attori coinvolti, dai vertici alla base («grass-rootleadership»), in vista della «riconciliazione che unisce in sè i diversi aspetti della verità, della misericordia, della giustizia e della pace» (pp. 55-56).
La seconda parte (capitoli 3-6), entra nell’analisi del conflitto sanguinoso verificatosi in Bosnia-Erzegovina tra il 1992-1995 e del ruolo che vi hanno assunto le tre principali correnti religiose direttamente coinvolte (islamica, cattolica, serbo-ortodossa). Un piccolo capitolo introduttivo chiarisce la metodologia adottata per le interviste,
nonché i criteri per la valutazione dei programmi di pace (pp. 61-77):
il riferimento teoretico è dato dalla cosiddetta «sociologia qualitativa» (più interpretativa e olistica di quella «quantitativa» di matrice
positivista) e dal pensiero di Lederach che funge come «base metodica» (p. 75) per la valutazione.
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Diventa chiaro in questa seconda parte che la guerra in BosniaErzegovina «non può essere definita una guerra di religione» (p. 95), ma
un «conflitto etnopolitico» (p. 79), dove le comunità religiose hanno
avuto un peso non indifferente, aggravato dal fatto che già prima della guerra (a parte le forme di convivenza a livello locale) «le religioni,
specialmente le due confessioni cristiane, hanno perso l’occasione di raggiungere una profonda pacificazione e riconciliazione tramite il riconoscimento
reciproco delle colpe del passato e la richiesta di perdono» (p. 115).
La terza ed ultima parte (pp. 117-252), si apre con un’esauriente
informazione sulle origini del movimento mondiale e interreligioso
della WCRP, sulle sue radici spirituali e sulle iniziative di pace realizzate col sostegno delle Nazioni Unite. I programmi della WCRP
si reggono sull’idea che tutte le religioni possono contribuire per la
pacificazione del mondo, in quanto dispongono degli «standards etici»
utili per il superamento pacifico dei conflitti. In Bosnia-Erzegovina
la WCRP ha tentato di realizzare il suo obiettivo proprio attraverso
l’istituzione di un “Consiglio interreligioso” (IRC) formato dai più
alti rappresenti religiosi della zona.
In questa parte emerge anche lo spessore più teologico della ricerca. Infatti, l’Autrice tenta di cogliere in che modo i rappresentanti delle diverse religioni presenti nel territorio (giudaismo, islam, ortodossia e cattolicesimo) interpretano e applicano nella loro particolare
situazione i concetti di «giustizia», di «verità» e di «convivenza»
(pp. 179-226), particolarmente carichi di significato religioso e determinanti per la pacificazione. L’analisi delle interviste, viene preceduta da una sintetica ricostruzione dei riferimenti teologici che si
trovano alla base delle diverse tradizioni religiose circa la concezione
dell’uomo, l’idea della giustizia e le sue implicazioni etiche (pp. 143-178).
Le interviste mettono purtroppo in luce che «tutti i rappresentanti ufficiali delle istituzioni religiose [coinvolte nel conflitto] considerano se stessi
e il proprio gruppo etnico come vittima più grande della guerra in Bosnia,
sviluppando scenari di attuale e futura minaccia. Come colpevoli vengono
percepiti quasi sempre solamente gli altri [...]; l’autocritica manca quasi del
tutto» (p. 226).
In conclusione si arriva alla valutazione dell’iniziativa di pace promossa dalla WCRP in Bosnia-Erzegovina e ad alcune pregnanti ri-
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flessioni sintetiche (pp. 227-255). Il bilancio, anche se ancora provvisorio, è piuttosto negativo e i motivi sono molteplici: anzitutto si sottolinea un «deficit strutturale» insito alla stessa prassi della WCRP
che sembra concentrarsi troppo sui rappresentanti della medio-alta
gerarchia religiosa, trascurando il cosiddetto livello «grass-root», cioè
della base popolare e del clero locale. Pieno di insidie è stato anche il
lavoro del Consiglio interreligioso, segnato dalla ripetuta interruzione dei lavori e da un certo «lobbismo politico» che lo ha trasformato
spesso in «un forum per la difesa di interessi di potere da parte dell’élite
religiosa» (p.230). Non ha giovato poi, secondo la studiosa, la prassi
della WCRP di glissare preferibilmente sui contenuti dei conflitti, ricercando solo gli interessi e i punti in comune, secondo la «presupposizione di un consenso transreligioso e transculturale sui valori [...] che però, nel caso dello studio sulla Bosnia, non è stato possibile rintracciare né in
senso religioso né in senso politico» (p. 251). La concentrazione sugli interessi meramente politici e l’assenza di un consenso a livello di valori etici o di una visione comune del futuro, «impediscono di fatto un
opportuno processo di elaborazione dei conflitti che invece potrebbe ottenere
una sostanziale trasformazione degli schemi conflittuali e di relazione reciproca» (p. 251).
Un importante risultato positivo del Consiglio, accanto ad una
probabile «funzione simbolica e morale», è stato invece raggiunto
con la proposta comune del principio di uguaglianza tra i cittadini di
diverse religioni e del principio di libertà religiosa, entrambi recepiti nel recente ordinamento giuridico. Ma rimane, per l’Autrice, la
convinzione finale che nel caso specifico della Bosnia-Erzegovina «la
cooperazione interreligiosa [promossa dalla WCRP] a livello degli alti rappresentanti religiosi ha avuto un effetto piuttosto limitato e scarsamente incisivo sul resto della società, potendo così contribuire solo indirettamente all’elaborazione dei conflitti tuttora esistenti» (pp. 253-254).
La ricerca empirica ha messo poi in rilievo che un concetto essenzialistico delle religioni, come anche una visione ingenua di un presunto codice morale transreligioso o della stessa idea di pace conducono facilmente a dimenticare il contesto reale di tali situazioni. In
questi casi, i modelli di cooperazione interreligiosa rischiano di fallire, anche perché non si affrontano realmente i contenuti conflittuali
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e il ruolo del clero. Alcuni concetti inoltre, tipicamente cristiani e
messi al centro della teoria di Lederach, come quelli di «riconciliazione», «giustizia» e «grazia» possono assumere in questi contesti
locali significati piuttosto variabili, rendendoli difficilmente assumibili come concetti-guida senza un’adeguata contestualizzazione.
Le conclusioni apparentemente severe della Wettach-Zeitz, non
devono però trarre in inganno: la cooperazione interreligiosa può dare effettivamente il suo contributo alla pace, ma non senza un’adeguata considerazione dello specifico contesto in cui un programma di
trasformazione dei conflitti si intende realizzare. Questa lezione, di
aderenza alla realtà, ci sembra poi anche salutare per la ricerca teologica nel suo complesso. Il presente lavoro è un bel esempio di una riflessione interdisciplinare, che spinge la teologia a mettersi in ascolto dei risultati che sono venuti fuori da un’indagine fatta direttamente «sul campo». Meno apprezzabili, in quanto peraltro non bene argomentati, ci sono sembrati invece alcuni giudizi nella parte del libro
che ricostruisce in senso generale il ruolo delle religioni nel conflitto bosniaco (forse il capitolo meno felice e più vago): specialmente il
giudizio sulle commemorazioni ecclesiali del cardinale martire A.
Stepinac (1898-1960), viste dall’Autrice come «mistificazione» (p.
102) della sua figura, sembra essere messo lì in modo più preconcetto che ragionato. Un indice per autori e una tabella per le numerose
sigle utilizzate nel testo, avrebbero poi aiutato la lettura che già di per
sé richiede un certo impegno, trattandosi ovviamente di un lavoro di
tesi. Resta però il merito di un libro che stimola non solo il teologo
a riflettere sull’etica della pace, a partire dall’analisi empirica di un
caso specifico, ma l’intera comunità ecclesiale che è chiamata a farsi
operatrice di pace, rivedendo autocriticamente la propria prassi
quando di mezzo a queste tragedie del nostro tempo vi è la religione
che si presta facilmente ad essere strumentalizzata.
VINCENZO VIVA
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WOODS THOMAS E. JR., Come la Chiesa cattolica ha costruito
la civiltà occidentale, prefazione di Lucetta Scaraffia, Cantagalli, Siena 2007, 270 p. (orig.: How the catholic Church built
western civilization, Regnery Publishing, Washington DC 2001,
traduzione italiana di Laura Orsi).
Agli uomini di oggi che hanno smarrito o vedono in pericolo la
coltivazione e la conservazione del sapere perché indotti da fonti storiche parziali e non sempre corrette provenienti da ambienti culturali pregiudizialmente ideologici nel trasmettere quanto pur rientrerebbe nelle loro competenze, il testo dello storico americano T. E.
Woods, Jr. giunge quanto mai opportuno perché consegna al lettore
attento e non superficiale in cerca di verità quanto la Chiesa cattolica
ha realmente operato e promosso attraverso il suo plurisecolare impegno nel favorire, costruire e difendere la civiltà occidentale. Nel
suo sforzo di edificare e plasmare ciò che su ogni fronte del vivere
umano ha consentito un autentico sviluppo a quei popoli che nel continente occidentale si sono insediati, la Chiesa cattolica e con essa tutti coloro che hanno a cuore l’educazione umana e la cura per la formazione intellettuale, in particolare delle giovani generazioni, sanno
che il rischio di far dimenticare ogni legame con la tradizione cristiana è quanto mai serio e reale. Basta soffermarsi a dialogare con uno
studente di scuola media superiore o universitario e domandargli cosa conosce della Chiesa cattolica: non sarebbe difficile ascoltare che
Essa e la sua stessa storia sarebbe intessuta di “ignoranza, repressione
e stagnazione” (p. 9). In realtà ciò, se e quando emerge, è notevolmente sbagliato proprio in virtù di una corretta e seria disamina storica, possibilmente non ‘di parte’, dei fatti ed avvenimenti che hanno
costruito la civiltà, nel caso di specie, quella occidentale. Ma, visto che
nessuno può dichiararsi di essere non ‘di qualche parte’, crediamo –
dopo la lettura di questo avvincente e appassionato excursus storico
che, basandosi su una bibliografia di provenienza americana e apertamente cattolica, una volta tanto aiuta a riequilibrare con una certa verità quanto storicamente accaduto – che la parola più adatta a spiegare il ruolo realmente svolto dalla Chiesa cattolica dovrebbe essere:
‘costruttrice di civiltà’. Come ha potuto realizzarsi ciò?
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In ognuno dei capitoli del testo l’Autore si sofferma a esporre in
maniera semplice e con uno stile divulgativo – quasi a convincere –
attraverso il reperimento di dati non comuni, il lettore (specialmente quello non specialista) proprio su ‘come’ questo sia potuto avvenire storicamente, grazie all’opera di tutti coloro che – in nome della
propria fede cristiana: gerarchia, religiosi o laici che fossero – hanno
saputo porre nei vari ambiti del sapere le basi e i pilastri della civiltà
occidentale. In particolare, è noto che la civiltà occidentale ha inventato: i miracoli della scienza moderna, la ricchezza dell’economia del
libero mercato, la sicurezza della norma di legge, un senso unico dei
diritti dell’uomo e del valore della libertà umana, la carità come virtù, la bellezza dell’arte e della musica, una filosofia sapiente e razionale, ed altri elementi che in genere diamo per scontato e senza soffermarci adeguatamente su ciò che ha potuto costituire l’ambiente
idoneo alla loro maturazione e sviluppo, tanto che quella occidentale può ben essere additata come una delle più ricche e potenti civiltà
mai esistite.
Nel testo in questione, il giovane professor Woods aiuta a svelare
con una intenzione dichiaratamente apologetica – a prima vista forse
un po’ troppo spinta – proprio le radici cristiane della nostra cultura.
Infatti, il testo fa risaltare alcuni dei diversi settori da cui emerge in maniera più chiara ed evidente il contributo ampiamente inosservato o
sconosciuto della Chiesa cattolica allo sviluppo culturale occidentale.
Riprendendo allora l’avverbio posto come incipit al titolo del libro
e chiave di lettura di tutto il percorso tracciato, esplicitiamo in sintesi alcuni di questi ambiti, così che il lettore interessato potrà imparare: ‘come’ lontano da ogni ostilità o chiusura allo sviluppo della
scienza, la Chiesa ha svolto un ruolo indispensabile nella sua promozione; ‘come’ l’idea di un universo razionale e ordinato – fondamento del punto di vista cattolico, ma diversamente inteso nelle culture
non cristiane – abbia reso possibile la fioritura della scienza in Occidente; ‘come’ nel Medio Evo il sistema universitario europeo, si sia
sviluppato sotto il patrocinio del Papato; ‘come’ l’impegno e la ricerca delle università con metodo rigoroso e razionale ha fornito la
struttura per le rivoluzioni scientifiche e culturali successive; ‘come’
il contributo cattolico alla scienza moderna è andato ben oltre le idee
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degli scienziati, tra i quali molti erano religiosi; ‘come’ i contributi
della Chiesa cattolica in astronomia e geologia eccedono quelli di
qualunque altra istituzione; ‘come’ siano stati i teologi cattolici del
sedicesimo secolo in Spagna – e non Adam Smith due secoli dopo –
a fondare le basi dell’economia moderna; ‘come’ l’idea occidentale di
diritto internazionale provenga dai grandi teologi-giuristi del Cinquecento; ‘come’ l’idea dei diritti umani universali non derivi da
John Locke e da Thomas Jefferson, ma sia di chiara matrice cattolica, al punto che molti dei princìpi più importanti della tradizione
giuridico-morale occidentale derivano dal concetto propriamente
cattolico della sacralità della vita umana; ‘come’ la pratica delle opere di carità si sia evoluta ben presto nella storia ispirandosi direttamente all’esempio e allo spirito di Gesù Cristo; ‘come’ forse prima
di ogni altro contributo, si debba situare il ruolo molto attivo dei
monaci – particolarmente benedettini – tra i padri della civilizzazione europea.
Queste alcune tra le principali verità recuperate dal testo in questione.
Se è vero che un dialogo onesto e qualificato può avvenire soltanto attraverso “l’esaltazione della ragione umana e delle sue capacità,
l’impegno in un dibattito rigoroso e razionale, una promozione dell’indagine intellettuale e dello scambio di idee – tutti elementi promossi dalla Chiesa –” (pp. 11-12), l’analisi che il testo recensito offre
si rivela indubbiamente interessante. Il rimandare buona parte di
quanto esiste di positivo nella civiltà occidentale anche al Cattolicesimo è quanto mai essenziale per comprendere quello che ancora oggi manca nelle odierne discussioni nutrite troppo spesso di magro e
asciutto secolarismo, inadatto da sé soltanto a modellare e plasmare
la vita di un Continente (quello europeo) che, se vuole affrontare seriamente la sua crisi di identità da più parti problematizzata, ha certo bisogno di recuperare – a fianco e insieme alle altre Tradizioni su
di esso esistenti – almeno quel sostanziale ed essenziale contributo
che anche la Chiesa cattolica ha potuto offrire in merito. Ci auguriamo che sulla scia del prof. Woods altri scienziati, non solo americani, ma anche e preferibilmente del vecchio Continente, nei diversi ambiti del sapere possano compiere indagini accurate per sviscera-
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re (sforzandosi di essere il meno ‘di parte’ possibile) ciò che in troppi settori culturali è oggi tenuto ai margini e che invece merita di essere portato alla luce: si, è proprio vero che “la civiltà occidentale deve alla Chiesa cattolica molto più di quanto la maggior parte delle
persone – cattolici inclusi – spesso siano consapevoli: la Chiesa, si
può dire, ha edificato la civiltà occidentale” (p. 9). Ribadiamolo: oltre la forma, il messaggio è forte, ma adatto ad un continente oggi
un po’ troppo debole.
DOMENICO SANTANGELO
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Book Presentation / Presentación del libro
Presentazione del libro
TREMBLAY RÉAL – ZAMBONI STEFANO (a cura di),
Figli nel Figlio. Una teologia morale fondamentale,
EDB, Bologna 2008, 432 p.
Relazioni tenute in occasione della presentazione del libro
Accademia Alfonsiana, 17 aprile 2008
L’USO DELLA SACRA SCRITTURA
Klemens Stock, S.J.*
Il mio compito è quello di valutare l’uso della sacra Scrittura nel
volume ‘Figli nel Figlio’, se esso corrisponde a ciò che il Concilio Vaticano Secondo ha desiderato e determinato per l’esposizione scientifica della teologia morale. Il Concilio si occupa della formazione sacerdotale nel suo decreto “Optatam totius”. Ivi dichiara: “Si ponga
speciale cura nel perfezionare la teologia morale in modo che la sua
esposizione scientifica maggiormente fondata sulla sacra Scrittura, illustri l’altezza della vocazione dei fedeli in Cristo e il loro obbligo di
apportare frutto nella carità per la vita del mondo” (n. 16). Il Concilio chiede quindi l’esposizione dell’alta vocazione dei fedeli in Cristo
determinando così più o meno l’oggetto della teologia morale fondamentale, e pure l’esposizione dell’agire che ne segue indicando l’oggetto della teologia morale speciale. E tutto deve essere fondato sulla Sacra Scrittura. La nostra domanda è se il volume che si presenta
oggi corrisponda alla richiesta del Concilio e sia, nelle sue esposizioni, veramente fondato sulla Sacra Scrittura.
* Segretario della Pontificia Commissione Biblica; Professore emerito di Esegesi del
Nuovo Testamento presso il Pontificio Istituto Biblico (Roma).
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Divido il mio contributo in due parti. Nella prima parte mi occupo del modo e della misura in cui il nostro volume fa uso della S.
Scrittura. Aggiungo poi nella seconda parte alcune osservazioni.
Prima parte. L’uso della Sacra Scrittura
La fondazione sulla S. Scrittura si manifesta già nel titolo dell’opera: Figli nel Figlio. L’uso della Bibbia è specialmente ampio ed essenziale nella prima e seconda parte, ma ne partecipano anche la terza e quarta parte che esprimono le conseguenze per le categorie morali fondamentali e per la vita dei fedeli nella Chiesa.
L’espressione ‘figli nel Figlio’ che serve come titolo del volume
non si trova letteralmente in un testo del NT. Ma ci sono alcuni passi paolini nei quali essa è ben fondata e dei quali può essere considerata come una specie di sintesi. In Rm 8, 29 Paolo scrive: “Poiché
quelli che egli da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli”. Figlio di Dio in modo originale e fondamentale è Gesù. Ma i credenti e giustificati sono figli di Dio secondo
l’immagine del Figlio di Dio, Gesù, e sono glorificati per mezzo di lui
e in lui. Nella lettera ai Galati Paolo presenta la nostra adozione a figli direttamente come scopo dell’invio del Figlio di Dio da parte del
Padre. Egli dice: “Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge, per riscattare
quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli”
(Gal 4, 4-5). Gesù è il primogenito, naturale ed eterno Figlio di Dio.
Mediante il suo invio e il riscatto da lui realizzato noi diventiamo figli adottivi di Dio. Ciò viene provato dal fatto “che Dio mandò nei
nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida: Abbà! Padre!”
(Gal 4, 6). Come figli di Dio partecipiamo dello Spirito del Figlio e
come il Figlio siamo autorizzati a chiamare Dio Padre! E siamo chiamati a lasciarci guidare dal suo Spirito (Gal 5, 25). Un altro testo significativo è l’assicurazione con la quale Paolo conclude l’esordio della prima lettera ai Corinzi: “Fedele è Dio, dal quale siete stati chiamati alla comunione con il Figlio suo Gesù Cristo, Signore nostro”
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(1, 9). Paolo parla del Figlio di Dio piuttosto raramente. Lo fa nella
prima lettera ai Corinzi solo due volte (ancora in 15, 28). Ma qui ove
menziona la loro fondamentale vocazione da parte di Dio, chiama
Gesù esplicitamente “il Figlio suo”. La comunione alla quale sono
chiamati è quella con il Figlio di Dio e attraverso di lui con lo stesso
Dio Padre. Sono chiamati ad essere figli con il Figlio. Non si può dubitare: il titolo del volume esprime in linguaggio biblico questa alta
“vocazione dei fedeli in Cristo” nella quale è interessato il Concilio.
La prima parte del volume viene presentata come “una specie di
giustificazione biblica e storica dell’opzione filiale” (p. 21). Il primo
capitolo si occupa dell’AT e descrive il rapporto fra Dio e il popolo
d’Israele come un rapporto fra padre e figlio e usa spesso il termine
“il popolo-figlio” (pp. 27-43). Si appoggia su testi importanti e impressionanti e sulla loro esegesi. Si constata chiaramente la differenza fra l’AT e il NT in quanto solo “con l’avvenimento di Gesù il rapporto filiale non è più solo estrinseco, giuridico e morale, ma «reale»,
«ontologico»” (p. 43). Giustamente si mette in rilievo che alla base
della morale è il rapporto personale fra Dio e il suo popolo; il popolo vive nel rapporto con il Dio vivente e non si riferisce, in un rapporto impersonale, a degli elenchi di leggi, virtù, ideali. Ma ci si può
domandare se questo rapporto personale venga nell’AT compreso
principalmente come un rapporto filiale. Vogliamo prescindere dal
dato esterno statistico che solo una decina di testi dell’AT parlano del
rapporto Dio-popolo nei termini di padre-figlio. Un concetto fondamentale dell’AT per questo rapporto è quello di ‘alleanza’. L’alleanza
però non viene stipulata fra padre e figlio bensì fra sovrani o fra un
sovrano e il suo vassallo. È anche indicativo che nel libro dei salmi nel
quale assistiamo allo scambio più vivo e personale fra la persona umana e Dio, non si parla nei termini di ‘padre’ e ‘figlio’ (Sal 2; 89; 27-28
sono riferiti al re davidico) ma in quelli di ‘Signore’ e ‘servo’. È certamente legittimo mettere in rilievo gli aspetti dell’AT nei quali si
preparano e adombrano delle realtà che sono più chiare e centrali nel
NT. Ma dobbiamo anche notare il contesto nel quale Israele utilizza
raramente i termini ‘padre’ e ‘figlio’ per il rapporto fra Dio e l’uomo.
Israele è circondato da popoli i cui dèi sono molto simili agli uomini,
vengono generati e generano e si comportano in maniere poco degne.
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In questo contesto Israele mette in rilievo la santità, la maestà e la trascendenza di Dio, cerca di evitare ogni malinteso e intende il rapporto fra Dio e l’uomo come quello fra Creatore e creatura. Tale insistenza rimane sempre valida e costituisce anche lo sfondo per comprendere giustamente la rivelazione neotestamentaria di Dio Padre e
del Figlio di Dio in un senso reale e ontologico.
Il secondo capitolo della prima parte (pp. 45-60) espone in modo
riassuntivo e chiaro ciò che il NT, nei suoi diversi scritti, dice su Gesù Figlio di Dio e sulla sua rivelazione di Dio Padre. Non c’è dubbio
che questa rivelazione costituisce il vero centro del NT ed anche la
differenza più incisiva fra NT e AT. Ed è il più grande dono di Dio
che egli ci assume come figli adottivi nel suo Figlio. Giustamente si
menziona che gli scritti del NT in modo diversamente esplicito parlano di questa rivelazione e di questo dono. Possiamo chiamare Matteo il vangelo del Padre perché più spesso di ogni altro scritto menziona Dio come Padre degli uomini (20 volte) e Dio come Padre di
Gesù (25 volte), sempre in chiara distinzione. Ancora più frequente è
la menzione di Dio come Padre in Giovanni, ma sempre come Padre
di Gesù (117 volte) e solo una volta come Padre dei discepoli (Gv 20,
17); la netta distinzione si manifesta anche nel fatto che solo Gesù viene chiamato figlio (‘hyios’) mentre si usa il termine ‘fanciulli’ (‘tekna’)
per gli altri (anche in 1 Gv). Il fatto che gli scritti del NT parlino di
questo rapporto con relativa rarezza, può essere interpretato come indizio di quanto sia non comune e non scontato questo rapporto di figliolanza e di quanto sia assolutamente straordinario e inaspettato
questo dono. Non in modo indipendente, autonomo ma solo in Gesù
il Figlio possiamo essere figli, abbiamo accesso al Padre. Ed appartiene alla stessa natura e costituzione del Figlio – e dei figli nel Figlio –
di essere orientati verso il Padre, di essere in comunione con il Padre.
I due capitoli seguenti della prima parte, che presentano ‘la giustificazione storica’ (p. 21), hanno come criterio la Sacra Scrittura. Il
terzo (pp. 61-85) valuta alcune tappe dello sviluppo della teologia
morale secondo la loro fedeltà alla Sacra Scrittura. Mostra come essa fosse dominante nel tempo patristico e come più tardi altri fattori
(giudizio sui peccati, obbligatorietà delle leggi) siano diventati prevalenti. Il quarto capitolo (pp. 87-103) espone poi come il Concilio Va-
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ticano Secondo si orienti completamente secondo la Sacra Scrittura
e come chieda la stessa cosa per tutta la formazione teologica, inclusa la teologia morale.
La seconda parte (pp. 107-180) con i suoi quattro capitoli appare
come la parte veramente centrale e fondamentale. In essa viene chiaramente e profondamente mostrato chi è il Figlio e chi sono, rivelati attraverso di lui e radicati in lui, i figli. Tutta l’esposizione è basata
sul mistero pasquale (“la croce gloriosa”) nel quale si manifesta secondo la sua vera e piena realtà il Figlio. In un amore sconfinato reciproco Gesù si rivela proprio come il Figlio che è stato mandato da
Dio Padre, che ha ricevuto e riceve tutto dal Padre e che dona se stesso completamente e perfettamente al Padre. La rivelazione del Figlio
è allo stesso tempo, e non separatamente ma in se stessa, la rivelazione dei figli. È il mistero pasquale che attesta lo smisurato amore di
Dio Padre e di Gesù Figlio di Dio per noi uomini, ed è proprio questo amore che ci fa diventare figli di Dio e fratelli e sorelle del Figlio.
Al centro è il Figlio e noi uomini siamo figli di Dio mai in un modo
separato, indipendente, autonomo, ma solo e sempre in comunione
con lui. Si intende da sé che questa comunione nell’essere deve attuarsi in una comunione nell’agire.
Questa seconda parte è una vera esposizione di ciò che dice il NT.
È basata principalmente sugli scritti giovannei e paolini che presentano la riflessione più approfondita ed esplicita sul mistero pasquale,
ma si riferisce anche al vangelo di Marco e agli altri vangeli. L’esposizione è caratterizzata da un’ampia e precisa informazione sulla letteratura esegetica e da una profonda e fruttuosa riflessione su ciò che
ci dicono i testimoni biblici. Non si cercano ‘dicta probantia’ per un
sistema preconcepito, ma si cerca, con grande attenzione e apertura,
di ascoltare e comprendere ciò che dicono gli scritti e si cerca di presentarlo in un modo fedele e organico. Non si può negare ma solo
constatare un esemplare adempimento del desiderio espresso dal
Concilio Vaticano Secondo.
La terza parte “Il dinamismo etico dell’antropologia filiale” (pp.
181-318) e la quarta parte “La vita filiale” (pp. 319-413) sono basate
sul fondamento appena descritto e partecipano al suo radicamento
nel NT. Sviluppano poi le loro tematiche in un continuo riferimen-
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to alla Sacra Scrittura. Perciò possiamo dire che tutta l’opera alla cui
presentazione assistiamo, è, secondo la richiesta del Concilio, “fondata sulla sacra Scrittura” (OT 16).
Seconda parte. Qualche osservazione conclusiva
Vorrei notare ancora che gli autori dell’opera sono molto gentili
verso i loro lettori in quanto presentano le loro considerazioni in maniera veramente chiara e ordinata. Per me sono state specialmente utili le quattro introduzioni alle quattro parti. Mostrano nettamente la
logica, ‘il filo rosso’ che connette le parti e i capitoli. Servono non solo come introduzioni ma anche durante la lettura si può tornare ad esse per orientarsi di nuovo e rendersi conto delle connessioni logiche.
Riguardo poi al contenuto fa impressione il coraggio con cui si
ascolta apertamente il messaggio biblico. È un ascolto vero e semplice, non storto e non condizionato e quasi assordito dalla preoccupazione: ma, i nostri destinatari, la generazione odierna cosa vogliono
sentire, cosa sono disposti ad accettare? Non si tiene conto delle tante tendenze e desideri che sono orientati verso l’autarchia, l’autonomia, l’autodeterminazione, l’indipendenza, verso una libertà totale e
assoluta. Ma si espone francamente la comprensione dell’essere e agire umani che è completamente determinata dalla persona del Figlio,
da tutte le caratteristiche del suo rapporto con Dio Padre. Questa è
una vita non in autarchia e in isolamento, ma in comunione, è una vita da figli nel Figlio. La comunione è ispirata dall’amore che Dio ha
rivelato nel suo Figlio e viene vissuta nell’amore del prossimo.
Si intende da sé che questa comprensione della vita umana è una
sfida per la nostra fede. Con la grazia di Dio ci vuole il coraggio di
ascoltare e seguire Gesù e di dare poi testimonianza della gioia e felicità che si sperimenta nella comunione con lui e con Dio Padre.
In uno dei contributi dell’opera si dice: “Atanasio è affascinato dal
rinnovamento che il Verbo ha portato nell’uomo e nel cosmo” (p.
65). Abbiamo bisogno di tale fascino ed entusiasmo. Ciò che presenta il volume può essere un vero aiuto su questo cammino, si offre come acqua fresca attinta alla stessa sorgente.
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ASPETTI ETICI
Angel Rodríguez Luño *
Si deve notare innanzitutto che il volume “Figli nel Figlio. Una
teologia morale fondamentale” intende offrire una trattazione rigorosamente cristiana e quindi teologica dell’etica. Si tratta di una scelta
sostanziale di fondo che viene mantenuta coerentemente e senza
tentennamenti lungo tutto il volume, dalla prima pagina fino all’ultima. Nella questione che apre tutta la Summa Theologiae, dice san
Tommaso d’Aquino che la teologia (la «sacra doctrina») è un sapere
che procede a partire dai principi conosciuti mediante la luce di una
scienza superiore, cioè quella di Dio e dei beati1, e perciò si può affermare di seguito che la teologia è «velut quaedam impressio divinae
scientiae»2. Una considerazione veramente teologica dell’etica deve
essere imperniata per forza su ciò che la persona umana, il soggetto
morale, è secondo la scienza divina comunicataci tramite la Rivelazione, e non solo su ciò che è, ma su ciò che dall’eterno è sempre stata, secondo quanto affermato dalla Lettera agli Efesini: prima della
creazione del mondo il Padre ci ha scelti in Cristo «per essere santi
e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci a essere
suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo»3. L’uomo è stato creato
per essere figlio nel Figlio, avendo questo “essere figlio” una valenza innanzitutto ontologica, e non solo morale. Certamente possiede
anche una valenza morale, ma si tratta sempre, come detto più volte nel volume che presentiamo, di un agire che segue all’essere sul
quale si fonda (per esempio pp. 183. 187). La più intima essenza di
tale agire consiste nell’assumere consapevolmente la filiazione e
quindi nel porsi di fronte al Padre, insieme con Cristo e lasciandosi
* Professore stabile di teologia morale alla Facoltà di Teologia
* della Pontificia Università della Santa Croce (Roma).
1
Cf. Summa Theologiae, I, q. 1, a. 2 co.
Ibid., I, q. 1, a. 3, ad 2.
3 Ef 1, 4-5.
2
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trascinare dallo Spirito, con una disposizione totale di lode, obbedienza e amore.
Di questa scelta fondamentale si sono già occupati gli altri interventi. Ma era necessario riprenderla brevemente, perché altrimenti
non si potrebbe comprendere l’intenzionalità profonda della parte
etica, che consiste nel far sì che la fondazione cristologica informi e
sia operante in tutte le tematiche etiche, e quindi nell’evitare accuratamente che essa finisca per essere una semplice prefazione o una
considerazione giustapposta a una morale elaborata secondo altri criteri. Qui sta, a mio avviso, la maggiore originalità e l’intento principale della teologia morale fondamentale che ora ci viene proposta.
Gli Autori del libro dimostrano coraggio e semplicità evangelica.
Coraggio, perché non hanno paura di offrirsi come facile bersaglio a
quanti potrebbero obiettare che procedendo in questo modo viene
meno la comunicabilità e l’universalità dell’etica cristiana. Semplicità evangelica perché agiscono coerentemente con la loro convinzione che l’eterna predestinazione a essere figli nel Figlio, e a comportarsi come tali, rappresenti la più profonda verità e la regola morale ultima dell’uomo, di tutti e ciascuno degli uomini, qualunque sia
la razza o la cultura umana alla quale appartengano. E così offrono
direttamente un’etica teologica cristiana che, attendendo alla struttura profonda della persona umana e non alle regole pragmatiche per
ottenere il consenso, è intrinsecamente umana, e perciò universale e
riconoscibile. Per gli Autori di questo volume lo scopo della teologia
morale fondamentale non è quello di rendere le norme etiche accettabili per coloro che non conoscono o che non accolgono Cristo, ma
piuttosto quello di annunciare Cristo che, lungi da alterare o mortificare l’humanum, rappresenta la salvezza, la felicità e la vita di ogni
uomo. Non è necessario avere una conoscenza molto profonda della
prospettiva giovannea o di quella paolina per capire che dell’accoglienza del Figlio da parte dell’uomo non si può fare astrazione.
Alla luce dell’impostazione teologica ora brevemente richiamata,
la Parte Terza del libro affronta, lungo 7 capitoli (capp. 9-15), le tematiche più propriamente etiche della teologia morale fondamentale: l’agire morale filiale (cap. 9); la libertà filiale, corrispondenza nello Spirito all’amore del Padre (cap. 10); la coscienza morale filiale
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(cap. 11); i doni dello Spirito per l’agire filiale (cap. 12); le virtù per
l’agire filiale (cap. 13); la legge di Dio per i figli (cap. 14); e l’allontanamento e ritorno alla casa del Padre: peccato e conversione (cap.
15). La sola lettura dei titoli di questi capitoli mette in evidenza il
proposito di offrire un trattamento delle diverse tematiche che sia
unitario e coerente con l’antropologia filiale che sorregge tutto il libro. Nell’impossibilità di ripercorrere qui il contenuto dei 7 capitoli,
mi soffermerò su alcuni aspetti tra i più significativi.
Lo studio dell’agire morale filiale prende atto di quanto i tentativi di rinnovamento della teologia morale hanno detto sulla sequela
Christi e sulla necessità di una mediazione antropologica (p. 185). Ma
anche ne rileva i limiti, in quanto il legame dell’agire morale con Cristo non si può ridurre alla sola imitazione e neppure alla partecipazione all’autocoscienza di Gesù. «Il modello filiale [...] offre la possibilità di radicare la morale nella persona stessa del Figlio di Dio. È in
lui, con lui e per lui che l’uomo filializzato può entrare nella perfezione del Padre, chiave di volta dell’agire morale cristiano. Cristo risorto esercita una potenza attrattiva, non solo mimetica, ma ontologica che tocca l’uomo nel suo cuore e lo porta a entrare, in lui e con
lui, nella vita filiale e a manifestarla nel suo agire» (p. 185). Il dinamismo di fondo che orienta l’uomo «nel senso della gloria del Padre»
(p. 189), e che fa sì che la vita morale «prima di essere una morale
della perfezione di sé che dona la felicità», sia «una morale della glorificazione di Dio Padre» (p. 190), «è chiamato a manifestarsi nella
concretezza delle scelte particolari dell’uomo, che lo portano a porre
atti ben precisi degni del suo essere filiale» (p. 190). Lontani da ogni
considerazione atomistica degli atti singolari, questi ultimi «hanno
una valenza rivelatrice della dimensione filiale e, insieme, hanno il
compito di portare a maturità l’icona filiale» (p. 190). «Il compimento di un atto significa la realizzazione o meno della persona filiale»
(p. 191). Da questa prospettiva viene messo efficacemente in luce il
carattere personalista della dottrina sulla specificazione morale delle
azioni umane riproposta dall’enciclica Veritatis splendor (pp. 190-192).
Nello stesso capitolo nono c’è un primo cenno al ruolo delle virtù.
Intendo sottolineare unicamente che è veramente azzeccato far entrare in gioco subito il ruolo delle virtù teologali – fede, speranza e
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carità –, cosa che per disgrazia non sempre avviene nei manuali di
teologia morale.
Il tema delle virtù viene ampiamente ripreso nel capitolo 13. Le
virtù vengono studiate prima di aver proceduto allo studio della legge, che avviene nel capitolo 14. Ciò non è una novità assoluta. Così
lo fa san Tommaso nella Prima secundae, e così lo fanno altri autori,
non molti comunque. Ma il fatto mi sembra importante, perché rivela consapevolezza del ruolo delle virtù nella vita e nella riflessione etica, ed evita ogni visione normativista o legalistica della regola morale. Ugualmente importante è l’avviso secondo il quale, andando oltre
la sistematica classica delle virtù cardinali e delle sue parti, viene evidenziato il ruolo di primo piano svolto dalla mitezza e dall’umiltà,
«virtù morali fondamentali dei figli del Padre» (p. 260), perché costituiscono l’atteggiamento di fondo di Gesù. La scelta viene giustificata in modo soddisfacente svolgendo la prospettiva relazionale articolata nei «quattro grandi orizzonti dell’umiltà filiale» (pp. 263-265).
Il capitolo 10 affronta il difficile problema della libertà. La prospettiva dell’antropologia filiale consente di superare l’autoreferenzialità chiusa di certe concezioni moderne (p. 201), senza tuttavia venir
meno a ciò che di irrinunciabile c’è nel concetto di autonomia. La libertà umana è un dono che viene dal Padre e a Lui deve tornare (pp.
210. 215), ma questo essenziale riferimento scaturisce dall’essere stesso dell’uomo, che nella sua verità più profonda è figlio.
Forse è il delicatissimo tema della coscienza dove l’approccio teologico di quest’opera dimostra tutta la sua fecondità. Le riflessioni
iniziali sulla coscienza come presenza incoativa di Cristo nell’uomo
(pp. 221-224) sono veramente suggestive. Alla luce del Vangelo e delle più belle pagine di Newman sulla coscienza il capitolo 11 si sofferma sulla corrispondenza tra il Figlio e la coscienza dell’uomo (pp.
225-231) e sulla presenza dello Spirito Santo. Lo studio si conclude
affrontando il problema della formazione della coscienza all’interno
della Chiesa (pp. 236-239). Pregevoli sono le considerazioni finali
sull’apertura della coscienza cristiana alla storia (pp. 239-240).
Il capitolo 14, dedicato allo studio della legge, parte dalla convinzione che alla luce dell’antropologia filiale il trattato sulla legge «può
essere recuperato in un senso scritturistico e personalista, superando
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una concezione “astratta” e “negativa” della legge» (p. 275). Mi sembra che sia molto importante che la legge eterna venga presentata come «ordinatio universale alla filiazione» (p. 277). Sono infatti convinto che non esista migliore espressione del centro dell’eterno disegno
di Dio che le parole della Lettera agli Efesini prima citate. Come affermò Giovanni Paolo II: «la predestinazione precede “la fondazione del mondo”, cioè la creazione, giacché questa si realizza nella prospettiva della predestinazione dell’uomo. Applicando alla vita divina le
analogie temporali del linguaggio umano, possiamo dire che Dio [...]
“prima” elegge [l’uomo], nel Figlio eterno e consostanziale, a partecipare alla sua figliolanza (mediante la grazia), e solo “dopo” (“a sua
volta”) vuole la creazione, vuole il mondo, al quale l’uomo appartiene. In questo modo il mistero della predestinazione entra in un certo
senso “organicamente” in tutto il piano della Divina Provvidenza»4.
A partire da questa prospettiva non è teologicamente illegittimo
parlare della legge naturale in prospettiva filiale (p. 279), in quanto
che l’intelligenza umana coglie la legge eterna, che è stata definita prima come un «ordinatio filiale» (p. 277). Così si evita certamente che
l’affermazione della giusta autonomia dell’ordine naturale porti ad un
estrinsecismo con l’ordine soprannaturale (p. 279) e non si toglie nulla alla gratuità della filiazione effettiva (p. 282). D’altra parte – si aggiunge nel testo – questa prospettiva non dimentica «lo schema tradizionale secondo il quale si afferma la capacità naturale della ragione di
accedere alla verità» (p. 282). Ciò che si fa è muovere «dal Cristo
all’humanum e dunque alla ragione. Con ciò si tenta una fondazione
ancora più forte della dignità della ragione, messa in pericolo dal pensiero debole» (p. 282). La enciclica Veritatis splendor, si afferma ancora nel testo, presenta la legge naturale come «riflesso nell’uomo dello
splendore del volto di Dio» (VS 42), e «giustifica la legge naturale
teologicamente (VS 45), rimandando al progetto unico voluto dall’amore del Padre: fare dell’uomo l’icona del Figlio» (p. 282). Tale progetto implica che vi sia nell’humanum «come un decalco, una traccia,
4
GIOVANNI PAOLO II, Discorso 28-V-1986, n. 4: Insegnamenti, IX-1 (1986)
1699. Si veda anche Discorso 5-III-1986, n. 3: Insegnamenti, IX-1 (1986) 614-615.
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un’impronta di questa filiazione, impronta che è riconoscibile nell’essere persona o nell’essere-in-relazione-con-l’Altro» (p. 282).
L’espressione «legge naturale “filiale”» (p. 281), anche se filiale
viene messo tra virgolette, è certamente audace e poco convenzionale. Tuttavia penso che sia teologicamente legittima, nel senso che andando alla verità profonda delle cose, così come può essere vista compiutamente alla luce della Rivelazione, la legge morale naturale è un
ordinamento oggettivamente cristocentrico, nel senso indicato sopra:
la ragione è in grado di cogliere e di elaborare, in virtù delle sue forze naturali, un ordine che oggettivamente è un frammento di un ordine divino più ampio che ha il suo centro nella destinazione di ogni
uomo alla filiazione adottiva in Cristo.
Mi permetterei tuttavia di proporre due suggerimenti. Il primo è
che se il concetto di legge morale naturale deve avere un suo senso
specifico, si deve sostenere con uguale forza una sua relativa autonomia gnoseologica, nel senso che dal punto di vista dell’acquisizione
del nostro sapere la legge morale naturale continua a possedere
un’intelligibilità propria in termini di ragionevolezza morale (recta
ratio). L’enciclica Veritatis splendor parla a questo proposito di una
«giusta autonomia della ragione pratica» (VS 40), e ciò significa che
esiste un livello di conoscenze etiche fondamentali che si muove all’interno di una metodologia razionale specifica, che in linea di principio non ha bisogno della metodologia teologica, anche se attraverso questa riceverà certamente un’ulteriore e più solida fondazione.
Così l’ambito della legge morale naturale è per eccellenza l’ambito in
cui è sempre possibile il dialogo con i non credenti, ed è anche l’ambito in cui è determinante – anche per motivi teologici – usare la ragione con rigore, facendo il massimo sforzo per adeguare gli schemi
interpretativi a ciò che veramente è l’attività morale umana.
Il secondo suggerimento parte da una riflessione sul testo di Rm 2,
14-15, dal quale prende giustamente le mosse il paragrafo dedicato
alla legge naturale. San Paolo richiama la legge scritta nel cuore in
rapporto ai pagani, per mostrare che essi, pur non avendo ricevuto la
legge di Mosè, sono ugualmente inescusabili, perché avevano un’altra legge alla quale però non hanno dato ascolto. Riguardo agli ebrei
il richiamo alla legge scritta nel cuore sarebbe stato inutile, appunto
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perché loro conoscevano i precetti morali in forma più immediata
mediante la legge di Mosè. Con questo intendo dire che se è vero che
la fondazione teologica della legge morale naturale a partire dalla
prospettiva filiale è oggettivamente vera e ne costituisce un valido
rafforzamento, è anche vero che la legge naturale dovrebbe essere un
aiuto soprattutto per coloro che la prospettiva teologica filiale non la
raggiungono o non l’hanno raggiunta ancora. Attraverso un dialogo
sulla legge naturale queste persone dovrebbero essere portate a scoprire la traccia, l’impronta che la destinazione alla filiazione adottiva
lascia negli strati più profondi del cuore umano.
Questi due miei suggerimenti intendono contestualizzare, e non
certo criticare, l’impostazione teologica sviluppata lungo il libro. Se
non ho capito male, il presente volume non ha la pretesa di dire tutto ciò che potrebbe essere detto, e che già altri hanno detto, sulle tematiche studiate. Piuttosto intende colmare una lacuna che certamente c’è in non pochi tentativi di rinnovamento della teologia morale postconciliare. Di fronte ad alcune di queste proposte ci si trova
spesso come di fronte ad un uomo zoppicante, perché ha una gamba
più lunga dell’altra: una delle gambe, la ragione, è ben più lunga dell’altra, la fede, dato che l’approccio propriamente teologico viene ingiustamente relegato all’ambito dell’intenzionalità e delle motivazioni interne. A me sembra che il rapporto ragione-fede in teologia morale deve essere concepito, sulla base di una cristologia adeguata, secondo uno schema non dialettico, ma «sponsale», come diceva
Scheeben, in modo che si può considerare Cristo, «l’Uomo-Dio quale
risulta dai due principi di attività, quello della natura divina e quello
della natura umana, come tipo della relazione tra la ragione e la fede in
quanto sono due principi di conoscenza»5. Così si prende sul serio la logica dell’Incarnazione. In questo senso, il libro che oggi presentiamo
rappresenta, a mio avviso, un contributo la cui necessità si faceva sentire vivamente, e che è da ricevere con gioia e sentito ringraziamento verso gli Autori.
5
M. J. SCHEEBEN, I misteri del Cristianesimo, Morcelliana, Brescia 19603, 797.
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L’IMPOSTAZIONE FILIALE
Ignazio Sanna *
1. La prima domanda spontanea dinanzi al volume Figli nel Figlio:
Una teologia morale fondamentale è: perché un altro testo di morale
fondamentale? Dopo tutto, un testo di morale fondamentale si concentra sui contenuti di base della morale e questi non cambiano da
una stagione culturale all’altra. Le contingenze storiche e le stagioni
culturali possono spingere i teologi ad occuparsi di problematiche
speciali. Ma i fondamenti sono sempre gli stessi. C’era, dunque, bisogno di un testo nuovo, e soprattutto di un testo con questa impostazione particolare? Ora, siccome una risposta è valida se incrocia
una domanda giusta, la domanda giusta, a mio parere, è questa: una
morale filiale è richiesta dallo spirito del tempo? Risponde alle attese della gente e ai problemi dei fedeli? Per venire incontro a queste
domande, il mio intervento, di conseguenza, si divide in due parti: la
prima vuole rispondere alla domanda se la richiesta di filialità sia veramente urgente e attuale; la seconda risponde alla domanda se il volume presenti di fatto una vera indole filiale, che venga incontro al bisogno esistenziale del tempo.
2. Per quanto riguarda la prima domanda, mi pare che non si possa negare che la richiesta di filialità sia oggi più urgente che mai e
che tale urgenza sia determinata dalla crisi della figura e del ruolo
del padre. Dal punto di vista sociale, il padre è molto spesso assente
dalla famiglia, intesa, questa, ovviamente, come istituzione sociale e
non solo come casa paterna e materna. L’organizzazione sociale costringe spesso l’uomo fuori dalla famiglia. Esiste come una forza
centrifuga che lo allontana dalla famiglia, lo porta lontano dall’esercizio della paternità. Dal punto di vista biologico, poi, fenomeni temuti come la clonazione umana, che produce più fotocopie di genitori che figli, o fenomeni attuali come la procreazione eterologa,
* Arcivescovo Metropolita di Oristano, Sardegna.
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che, in quanto tale, dà la vita a nuovi esseri umani ma non a dei figli, ne minacciano la scomparsa della stessa origine per così dire naturale. La famiglia in quanto comunione di persone e coppia di uomo e donna è trasformata in un laboratorio chimico e i genitori naturali sono trasformati in semplici committenti esterni. In ultima
analisi, società e biologia, cultura e natura sembrano rendere difficile sia l’esercizio che la stessa origine della paternità. In realtà, il padre, se è solo considerato come genitore, è ridotto al ruolo di un
soggetto di diritti e doveri davanti alla legge, perché proprietario di
un seme che dà l’esistenza ad un altro individuo diverso da sé. Ma
nei confronti di questo individuo altro da sé egli non diventa un interlocutore carico di affetto e di amore. Il rapporto di paternità, speculare a quello di filialità, si stabilisce solo tra due persone e non tra
due cellule. Il padre, in quanto tale, non è di per sé il genitore, perché esiste la figura del padre adottivo, del padre spirituale, che non
implica la generazione fisica. Ma anche il genitore, di per sé, non è
il padre, perché non basta generare un figlio per avere con esso un
rapporto di paternità. Per generare basta l’unione di due cellule. Per
essere padre è necessario l’incontro di due volontà e di due libertà.
Possiamo dire che basta un istante per diventare genitore, mentre è
necessaria una vita intera per essere padre. Se il genitore non diventa padre, rimane solo sul piano puramente biologico. Se invece il genitore diventa padre, allora passa dal piano biologico a quello più
propriamente umano.
Questa constatazione della realtà sociale e biologica della paternità aiuta a capire meglio ed interpretare correttamente la realtà soprannaturale della medesima. Se, infatti, dall’ordine della natura passiamo a quello della grazia, dall’ordine della storia, cioè, a quello della fede, il problema genitore-padre si pone anche nei confronti di come noi viviamo il nostro rapporto con Dio e di come concepiamo il
rapporto di Dio con noi. Non è difficile constatare, a mio giudizio,
che Dio, talvolta o anche spesso, viene da molti considerato più come un genitore che come un padre. Molti cristiani vivono il loro rapporto con Dio solo come il genitore della loro vita fisica, il creatore
della loro esistenza terrena, l’orologiaio che ha dato la carica iniziale
al corso della loro esistenza, ma non come un padre che si cura di lo-
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ro e che vive con loro e per loro. Dio sarebbe un Dio dell’inizio del
tempo, ma non un Dio della vita presente e futura.
Ora, data questa situazione, si ha bisogno di una idea pura di Dio
e questa, a mio parere, la si ottiene soprattutto se Dio viene concepito come padre. Infatti, il vero nome di Dio è: “padre”. È questo il nome che Gesù stesso ha dato a Dio. Non per nulla, la prima verità e,
forse, anche la più importante del simbolo apostolico, in diretta derivazione dall’evento del Cristo, è la paternità di Dio. Già il Canto di
Mosè, nel Deuteronomio, proclama che il Dio che si è preso cura di
Israele è “il padre che vi ha dato la vita, che vi ha creati e resi sicuri”
(Dt 32, 6). Ma è soprattutto nel NT che Gesù benedice il Signore del
cielo e della terra, perché è Padre (Mt 11, 25); che diventa egli stesso
Signore dell’universo, “a gloria di Dio Padre” (Fil 2, 11). Il Padre crea
nel Figlio, perché tutte le cose sono state create per mezzo di Lui ed
in Lui (Col 1, 16).
La preghiera cristiana per eccellenza chiama Dio padre. In tutte
le formule dei simboli primitivi di fede battesimale e in tutte le varianti del simbolo apostolico Dio è affermato come padre, anche
quando non è affermato come creatore. Il concetto di creatore è assorbito da quello di padre. Il pantocràtor è il Deus pater omnipotens.
Il Dio cristiano, dunque, è un Dio Padre, non il Dio di Parmenide,
ma il Dio di Gesù Cristo. Il Dio Padre di Gesù, colui che lo Spirito
ci suggerisce di chiamare Abbà, Padre, è ridiventato, con il tempo, il
Dio onnipotente, il Signore degli eserciti, l’espressione d’un volere
arbitrario, che sta alla base di tante alienazioni esistenziali e sociali
dell’uomo. Il volto di Dio che è stato percepito per primo dall’esperienza cristiana è, però, quello di padre. In esso sta l’originalità e la
specificità della concezione cristiana della creazione. Gesù ha rivelato che l’onnipotenza di Dio si identifica con la sua paternità e si
esercita generando. Egli, nella sua preghiera di lode, chiama “Padre”
il “Signore del cielo e della terra”, il Signore dell’universo (Lc 10,
21). Il rapporto delle creature con Dio creatore è percepito come un
rapporto interpersonale, e non come un rapporto di causalità, in dipendenza da un principio di onnipotenza, da un primo motore immobile, o da un demiurgo. È necessario, allora, nel nostro rapporto
con Dio, una specie di ritorno alle origini, e concepire il Dio crea-
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tore più che in termini di onnipotenza, in termini di paternità. Bisogna ritornare dal principio di causalità filosofico aristotelico al
principio di paternità provvidente dei primi simboli di fede. Bisogna
recuperare la valenza provvidenziale, amorosa, paterna dell’idea di
pantokràtor, perché solo questa permette una migliore valorizzazione della dimensione comunionale e relazionale di cui è intessuta
l’intera esistenza umana.
Si può anche non essere d’accordo con la tesi difesa dai postnietzschiani, secondo cui la comprensione dell’essere come volontà di potenza avrebbe origine nell’idea del Dio biblico creatore dal nulla, la
quale sarebbe alla base anche della concezione del dio orologiaio e
architetto del deismo. Ma si può senz’altro sostenere che una sorgente dell’ateismo moderno in Occidente sia stata la progressiva degradazione cui l’idea di Dio è andata soggetta in larghi settori della
cultura dal XVII al XIX secolo. Il dio orologiaio, il dio grande e indifferente architetto dell’universo sono raffigurazioni instabili di un
essere che, sempre più lontano e silenzioso negli infiniti spazi del cosmo, prima o dopo non dà più segni di vita e sfocia quasi inevitabilmente nell’ateismo.
A mio avviso, uno dei meriti principali di questo volume sta nel
fatto che aiuta fortemente a concepire Dio come padre e vivere il
rapporto filiale con Lui più come padre che come genitore. La preghiera cristiana per eccellenza, di fatto, chiama Dio padre e non genitore. Penso, però, che sia possibile e anche doveroso concepire Dio
come padre, a condizione che si segua come via privilegiata per giungere ad un tale concetto non la comprensione ma l’esperienza di Dio
come padre. Dio lo si trova nell’esperienza di un incontro, come è attestato dalla stessa Scrittura, la quale, più che fare un discorso su Dio,
racconta la storia di una presenza e di un’opera di Dio e di una sua
relativa esperienza. Conseguentemente, Dio non è un concetto da
capire, ma una realtà da vivere ed un’esperienza da fare.
Se è vero, ora, che si arriva al concetto di Dio padre attraverso la
via privilegiata dell’esperienza, dobbiamo tener presente il fatto che
il primo che ha sperimentato e pregato Dio come padre è stato il suo
figlio Gesù. Egli era il Figlio. È stato generato da Dio Padre. In un
certo senso, solo lui sarebbe autorizzato a pregare Dio come padre,
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anche se i testi biblici che ci descrivono Gesù che prega Dio come
padre non sono molti e si raggruppano sostanzialmente in Gv 17,
cioè nella preghiera per la conservazione dell’unità dei discepoli. Sono molto più numerosi i testi in cui Gesù più che parlare in prima
persona al Padre parla in terza persona del Padre, e, ciò facendo, indica Dio come padre ai discepoli. Questo fatto fa capire che Gesù ha
dato sì un esempio di esperienza concreta di Dio come padre, ma ha
anche fornito una indicazione ai discepoli, perché anch’essi facciano
lo stesso e provino la stessa esperienza. Già nella sua esistenza storica Gesù aveva coscienza della sua verità, cioè di essere veramente il
Figlio di Dio. Giovanni lo sottolinea a tal punto da affermare che fu,
in definitiva, per questo, che fu respinto e condannato: infatti “i Giudei cercavano di ucciderlo, perché non solo violava il sabato, ma anche chiamava Dio suo Padre, facendosi uguale a Dio” (Gv 5, 18). Negli eventi dell’orto del Getsemani e del Calvario, la coscienza umana
di Gesù sarà sottoposta alla prova più dura. Tuttavia neanche la tragedia della passione e della morte potrà intaccare la sua tranquilla
certezza di essere il Figlio del Padre celeste.”
Il cristiano, allora, può sentire e pregare Dio come padre, seguendo l’esempio di Gesù. Ma se egli segue l’esempio di Gesù, vede che
questi ha pregato Dio come padre soprattutto nel momento della
preparazione alla sua passione e in quello dell’abbandono supremo
sulla croce. Sulla croce, Gesù ha pregato sia con le parole del Salmo
21 che chiama Dio “Signore” e non padre, nel vangelo di Matteo, sia
con le parole del suo cuore, che hanno espresso l’affidamento totale
alle mani del Padre, nel vangelo di Luca. Il Dio Signore che abbandona il figlio al suo destino di morte è anche il Dio Padre che accoglie l’abbandonato e la consegna della vita del figlio. Questa duplice
preghiera di grido, di abbandono, e di manifestazione di fiducia
esprime molto bene tutta la distanza drammatica tra il genitore e il
padre, tutta la lotta tra il sentirsi abbandonato ed il sentirsi amato, tra
la solitudine che porta alla morte e la fiducia che porta alla vita. In essa c’è il grido disperato per un Dio che sembra scomparso come padre e viene percepito solo come genitore. Ma c’è anche l’abbandono
fiducioso a un Dio che è padre, proprio perché è genitore. Penso che
la distanza drammatica vissuta da Gesù tra Dio concepito come ge-
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nitore e Dio concepito come padre dia ragioni di conforto e di coraggio a tutti coloro che vivono momenti di disperazione e di abbandono. Quante volte, infatti, il credente vede in Dio il Signore della
vita e della storia, il Creatore dell’universo, l’Onnipotente, ma non il
Dio Padre che ascolta e perdona! Il dinamismo della morale filiale,
prospettato dal volume curato da R. Tremblay e S. Zamboni, offre
una via maestra per vivere l’identità cristiana non come un insieme di
doveri ma come una risposta di gratitudine.
3. Per dare una risposta alla seconda domanda, relativa alla documentazione dell’indole filiale del presente volume di morale fondamentale, si può partire dalla constatazione che il nucleo dell’antropologia cristiana e della pedagogia è stato costituito finora dalla categoria dell’uomo “immagine di Dio”, mentre il volume presenta un
nuovo indirizzo: la dignità dell’uomo è centrata nel suo essere “figlio di Dio”. Questo fatto costituisce, di per sé, una novità e una specificità nell’impostazione dell’antropologia cristiana. Perché, finché
si prende come paradigma antropologico l’immagine, si rimane ancora nell’area semantica della cultura classica, nella quale Platone e
Plotino, nel descrivere la natura dell’uomo, ne hanno tematizzato la
parentela divina, la syn-ghéneia. La morale filiale, invece, propone
qualcosa di scandaloso e di nuovo: la figliolanza divina. Figlio di Dio
non è l’imperatore, il faraone, ma l’uomo creato da Dio e redento
dal Figlio di Dio. Ogni uomo è figlio di Dio, perché Dio è Padre di
tutti. L’antropologia dell’immagine si evolve nell’antropologia filiale. In questo modo, il rapporto tra cristologia e antropologia è previo a quello tra cristologia e morale. L’essere cristologico determina
l’agire cristologico. La categoria della filiazione è determinante sia
per comprendere l’identità di Gesù di Nazareth (figlio di Dio, Unigenito, Primogenito) sia l’identità dell’essere umano (figlio nel Figlio). Certamente, come osserva Luigi Lorenzetti, l’antropologia filiale non è l’unica né l’esclusiva negli scritti del NT, ma delinea un
tratto fondamentale per la comprensione dell’uomo, analogamente
al posto che occupa il titolo cristologico Figlio di Dio, rispetto ad altri titoli (p. 13).
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3.1. Il volume “Figli nel figlio”, nella prima parte dedicata alla rilettura della tradizione morale cristiana in prospettiva filiale, fa vedere che già nell’AT la morale dell’alleanza possiede una struttura filiale fondata sulla relazione che esiste tra Dio e il suo popolo-figlio. Infatti, secondo F. X. Durrwell, “l’alleanza tra questo popolo e Dio è
quella della paternità e della filiazione, quella di un padre che dona
l’essere e di un figlio che lo riceve”1, senza tuttavia raggiungere il tipo di relazione che i profeti possono solo intravedere con l’avvento
del Messia. A. M. Jerumanis osserva che senza l’idea del popolo-figlio
e della morale dell’alleanza, alla morale filiale del NT mancherebbe
un fondamento che permetta di cogliere tutta la sua importanza. Tra
la struttura filiale della morale dell’alleanza nell’AT e la morale filiale del NT esiste una continuità nella discontinuità, poiché con l’avvenimento di Gesù il rapporto filiale non è più solo estrinseco, giuridico e morale, ma reale, ontologico (p. 42-43). Nel NT, la struttura filiale morale si fonda sulla persona di Cristo, che introduce in una
nuova alleanza Dio e l’umanità e porta a compimento la promessa
fatta ai profeti rendendo l’uomo realmente partecipe, mediante il dono dello Spirito filiale, della sua figliolanza.
Gesù distingue tra la sua figliolanza e quella dei discepoli quando
parla del Padre mio e del Padre vostro (Mt 5, 45; 25, 34; Lc 24, 49).
Questa differenza ha un fondamento ontologico; la singolarità della
relazione filiale di Gesù dipende dal suo essere nel Padre. La paternità di Dio si manifesta nell’arco di tutta la vita di Gesù: all’origine
(Lc 1, 32-35; 2, 49), nella sua missione (Mt 3, 17) e nella sua passione (Mt 26, 26-29; Lc 23, 34).
L’alleanza che faceva del popolo il figlio primogenito viene portata a compimento escatologico da Gesù, lui, il primogenito fra molti
fratelli (Rm 8, 29). L’alleanza nuova non avviene per mezzo dei riti sacrificali esterni, ma in virtù dell’essere di Gesù Cristo che offre se
stesso al Padre nello Spirito (Eb 9, 14). La morale filiale è così intrinsecamente morale eucaristica, perché morale della nuova alleanza, istituita nel sangue di Cristo (Mt 26, 28; Lc 22, 20; 1Cor 11, 25),
1
F. X. DURRWELL, Il Padre. Dio nel suo mistero, Città Nuova, Roma 19884, 40.
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la cui legge è il comandamento nuovo che scaturisce da un cuore rinnovato dallo Spirito (p. 59).
3.2. Dopo un rapido esame delle tappe significative della Tradizione, dal periodo patristico alla teologia morale del postconcilio, la
seconda parte prende in esame i fondamenti cristologici dell’antropologia filiale. Si lancia uno sguardo in alto e ci si porta al livello della decisione eterna di Dio di introdurre l’uomo nella sua intimità. Da
questo punto di osservazione si constata che il disegno di Dio costituisce una priorità ontologica e ci si rende conto che la creazione è
già inclusa in questo disegno come condizione della sua realizzazione. Essa, perciò, è “seconda” rispetto alla priorità assoluta dell’amore di Dio. Già Karl Barth aveva espresso questa convinzione asserendo che l’alleanza è il fine interno della creazione, mentre la creazione è il presupposto esterno dell’alleanza2.
In questo stretto rapporto di alleanza e creazione, di amore e libertà, la croce di Gesù non è uno strumento di castigo divino inflitto in un secondo tempo, ma è la teofania dell’amore del Figlio incarnato, tanto che si può affermare che “la croce è piantata nel cuore
dell’eternità”, come scrive R. Tremblay (p. 141). Il cuore del sacrificio di Gesù, che porta a compimento eccedente l’intenzione originaria del Padre, e cioè il generare il Figlio nel vinculum caritatis dello
Spirito Santo, sta precisamente in questa dedizione libera, assoluta,
incondizionata, filiale (p. 138).
Lo studio di A. Chendi sulla croce gloriosa, rivelazione del Dio
che è amore, dimostra che la paternità e la filiazione e la reciprocità
del donarsi e dell’accogliersi come donato definiscono l’essere stesso
di Dio come Amore. Il primo amato come Altro da Dio e in Dio è il
Figlio, nel quale la stessa creazione e in particolare l’uomo sono da
sempre eletti per essere resi partecipi della relazione filiale, a immagine del Figlio eterno di Dio. Si costituisce, così, una precedenza ontologica secondo la quale, se l’uomo è stato creato nella e per la li-
2
K. BARTH, Die kirchliche Dogmatik, vol. III, Die Lehre von der Schoepfung,
Zürich 1972, 44.
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bertà filiale, per essere assimilato al Figlio eterno, non potrà essere
l’uso distorto di tale libertà, e cioè il peccato, a condizionare il disegno di Dio nella sua attuazione. È il Figlio, invece, ad avere questa
priorità. È lui che l’ha avuta, quando è andato fino al limite infimo al
quale può giungere la libertà dell’uomo peccatore, per ricondurlo così nell’abbraccio paterno (p. 140).
Nel descrivere la realizzazione e il fondamento del disegno divino
di filiazione, R. Tremblay distingue anzitutto il fondamento immediato dell’agire morale, che è il credente, dal fondamento ultimo, che
è il Cristo. Il Cristo modella il credente, perfeziona, cioè, quel processo di assimilazione divina iniziato con il battesimo, nella misura in
cui gli dona la filiazione adottiva. Il dono della filiazione si inserisce
negli elementi costitutivi dell’essere del credente al punto da poter
dire che i figli prolungano la relazione del Figlio con il Padre in questo mondo e nell’altro. Passando, poi, alla descrizione del modo con
cui il Cristo determina la costituzione stessa dell’uomo, Tremblay
elenca quattro forme di solidarietà con l’uomo implicate nella sua incarnazione, nella sua morte e nella sua risurrezione. Gesù è solidale
con l’umanità per somiglianza, perché la sua umanità è del tutto reale; per ricapitolazione, perché in lui si trovano ricapitolati il peccato
di Adamo e i peccati di tutta l’umanità; per eccellenza, che è salvifica
in quanto, mediante essa, il Figlio ci riconduce nell’intimità del mistero del Padre dopo averci purificato dal peccato che ne bloccava
l’accesso; per naturale rapporto tra autore ed opera, in quanto nel mistero pasquale che fa di Gesù l’Uomo per eccellenza, l’eschatos, si costituisce una compatta unità del come noi, con noi e più che noi. Il Cristo in se stesso, nella sua identità di Redentore, di eschatos, e, per questo, di Creatore, di protos, raggiunge, tocca l’essere dell’uomo concreto e storico determinandone la consistenza (p. 141-163).
Per il fatto che Gesù, in realtà, entra a far parte della definizione
ontologica dell’uomo, può a buon diritto essere considerato come il
fondamento ultimo dell’agire morale dei cristiani. Va precisato, comunque, che la trasformazione dell’uomo è l’opera delle tre persone
della Trinità impegnate nel mistero pasquale. È tramite lo Spirito del
Figlio – Figlio che il Padre invia nel mondo – che il credente riceve
la sua dignità filiale. Se si prende in considerazione il dono della fi-
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liazione divina oltre che dall’alto o dal punto di vista della sua sorgente divina, dal basso, cioè dal punto di vista di ciò che produce nell’uomo, grazie alla venuta nella nostra carne del Verbo-Figlio inviato
dal Padre, il dono dell’adozione filiale, fa del credente un dio, lo rende capace come uomo di comprendere e di vedere Dio, di entrare in
comunione con l’essere stesso del Figlio e del Padre, di condividere
l’immortalità e l’incorruttibilità propria di Dio e di vivere secondo gli
atteggiamenti del Figlio morto e risorto, l’obbedienza al Padre. Questo dono è mediato dallo Spirito del Figlio concesso in caparra prima
e in pienezza poi. La presenza del Cristo ai credenti, infine, si perfeziona nel sacramento dell’eucaristia. In questo modo la cristologia
determina l’antropologia (p. 165-180).
In sintesi, la condizione nuova nella quale si trova l’essere umano
in seguito alla venuta di Gesù è ontologicamente la filialità. Questa
consiste nel dono di grazia attraverso il quale l’uomo è chiamato a
partecipare alla dignità del Figlio di Dio incarnato, crocifisso e risorto, che si rivela come l’Unigenito e Primogenito di molti fratelli. Alla luce della condizione di figlio del Verbo Incarnato, la condizione
umana va considerata come una condizione di filialità, perché partecipa alla filiazione del Figlio nello Spirito: il cristiano è un figlio nel
Figlio. Proprio perché partecipe della filiazione di Cristo, il cristiano
può chiamare Dio suo Padre. Dio è Padre di Gesù perché lo ha generato, e padre del cristiano perché lo ha adottato come figlio. Poiché, ora, coloro che partecipano di un’unica natura umana hanno una
specie di legame ontologico tra di loro, ne segue che, nell’assunzione della natura umana da parte del Verbo, si stabilisce un rapporto di
Cristo con tutti gli uomini e un loro accesso, in Cristo, alla comunione con il Padre (1 Gv 5, 1; Ef 3, 14).
3.3. La terza parte descrive il dinamismo etico dell’antropologia
filiale, esaminandone l’agire morale (A. M. Jerumanis), la libertà (P.
Laird), la coscienza (F. Maceri), i doni dello Spirito e le virtù per l’agire filiale (A. M. Z. Igirukwayo), la legge (A. M. Jerumanis), il peccato e la conversione (S. Zamboni). La quarta parte prende in esame
la vita filiale scandita dai sacramenti del battesimo e della cresima,
come i sacramenti che costituiscono la porta d’entrata nella filiazio-
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ne (C. Cannizzaro), l’eucaristia descritta come approfondimento e
sviluppo della vita filiale (R. Tremblay), la vita ecclesiale intesa come
fratellanza, sponsalità e maternità dei figli (J. Mimeault). I tratti della vita filiale sono descritti dallo Zamboni come diakonia, koinonia e
martyria, e Maria, la madre di Gesù, è presentata come icona della vita filiale (p. 387-403). La filiazione adottiva è una realtà che dipende
dal Crocifisso risorto tanto nella sua genesi come nel suo sviluppo e
nel suo compimento, e rimane e progredisce anche nell’aldilà.
3.4. Vorrei, ora, richiamare l’attenzione, in modo particolare, sulla conseguenza più immediata della filialità in senso verticale, e cioè
la condizione di fraternità in senso orizzontale. S. Giovanni indica
come risposta del cristiano all’amore di Dio non l’amore per Dio ma
l’amore per il fratello. E come è reale la filialità nei confronti di Dio
così è altrettanto reale la fraternità nei confronti del prossimo. E come si va dall’essere all’operare così si va dal principio ontologico della fraternità all’imperativo etico della medesima. Il cristiano si comporta da fratello, perché è fratello di quanti sono uniti al Cristo e a
lui appartengono.
L’etica della fraternità ha in Gesù Cristo, il Figlio di Dio, che è
l’Unigenito e il Primogenito di molti fratelli, il modello e archetipo
normativo. Se si è fratelli e si vive sul serio la fraternità, uno si spende per l’altro, ciascuno è per sé nella misura in cui è per l’altro. I Padri della Chiesa hanno fondato l’etica privata e pubblica, personale e
sociale, nella categoria teologica della fraternità cristiana. Certamente, vivere da fratello è un ideale altissimo e tra la fraternità voluta e la
fraternità vissuta c’è la realtà del limite umano, del peccato, della
provvisorietà della storia. Forse per questo la fraternità vissuta, come
forma di vita e come messaggio da trasmettere all’umanità, nonostante sia la logica conseguenza della confessione della paternità di
Dio, è stata relegata nelle comunità della vita religiosa. La stessa rivoluzione francese dei suoi tre ideali programmatici: libertà, uguaglianza, fraternità, ha conservato i primi due e ha messo da parte la
fraternità sin dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del
1789. Il Corano parla di fraternità, ma la restringe agli appartenenti
all’islam, considerando i non musulmani come infedeli, contraria-
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mente alla fraternità cristiana che è estesa a tutti gli uomini ed è quindi universale.
Il Concilio Vaticano II insegna che la fraternità qualifica l’essere e
l’agire del cristiano in quanto tale. Dei ventisei usi che fa del termine
fraternità, scrive Vidal, dodici hanno un significato ecclesiale, nel senso che designano la Chiesa in quanto comunità e descrivono la natura del legame tra i cristiani, e quattordici hanno un significato sociale, nel senso che designano l’ideale della convivenza umana. Il Concilio, nella consapevolezza di proporre un ideale cristiano a un mondo pluralista, ha opportunamente formulato questa dinamica esteriore e universalizzante della fraternità cristiana con la categoria di segno e con l’immagine evangelica di fermento3. Esso assume di volta
in volta la fraternità come categoria teologica e, insieme, etica; come
dono e, nello stesso tempo, compito; come condizione reale (ontologica) e, ugualmente, realtà da costruire nella storia fino al pieno compimento oltre la storia. In breve, quello che è accaduto da parte di
Dio, essere fratelli, è anche quello che deve accadere da parte dell’uomo con la forza dello Spirito: “Dio, che ha cura paterna di tutti,
ha voluto che gli uomini formassero una sola famiglia e si trattassero
tra loro con animo di fratelli” (GS 24); “Essendo Dio Padre e principio e fine di tutti, siamo tutti chiamati ad essere fratelli. Perciò, chiamati a questa stessa vocazione umana e divina senza violenza e senza
inganno, possiamo e dobbiamo lavorare insieme alla costruzione del
mondo nella vera pace” (GS 92). Il Concilio precisa che la fraternità
non può chiudersi nemmeno entro i confini della comunità cristiana,
perché “il Padre vuole che in tutti gli uomini noi riconosciamo ed efficacemente amiamo Cristo nostro fratello con la parola e con l’azione, rendendo così testimonianza alla verità e comunicando agli altri il
mistero dell’amore del Padre celeste” (GS 93). Questo stile di vita dei
cristiani deve essere adottato soprattutto verso coloro che seguono altre religioni, in quanto non si può invocare Dio Padre di tutti se ci si
rifiuta di comportarsi da fratelli verso alcuni tra tutti gli uomini che
3
M. VIDAL GARCÍA, Nuova morale fondamentale. La dimora teologica dell’etica,
EDB, Bologna 2004, 97-98.
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sono creati ad immagine di Dio (NAe 5). Il Concilio, infine, “proclamando la grandezza somma della vocazione dell’uomo e affermando
la presenza in lui di un germe divino, offre all’umanità la cooperazione sincera della Chiesa al fine di stabilire quella fraternità universale
che corrisponde a tale vocazione” (GS 3). In definitiva, la dottrina del
Concilio Vaticano II stabilisce le basi di una teologia della fraternità,
che viene elaborata in base alla distinzione, da un lato, e alla stretta
correlazione, dall’altro, tra la fraternità, la filialità e la paternità: la
fraternità presuppone la filialità e questa a sua volta la paternità4.
L’orizzonte sociale laico ha sostituito il termine di fraternità con
quello di solidarietà, perché ritiene il primo troppo idilliaco e irrealizzabile ed il secondo più adatto a descrivere la condizione di conflittualità sociale attraverso la quale si passa necessariamente per arrivare al cambiamento della società. A questo proposito, il sociologo
E. Morin osserva che la presa di coscienza correlativa dell’ambivalenza relazionale tra fratelli costringe ad ammettere che non basta essere fratelli per vivere da fratelli. La fraternità, infatti, porta con sé
paradossalmente la morte del fratello, come insegnano i casi di Caino e Romolo, e i partiti nei quali ci si chiama fratello e compagno.
Per realizzare l’ideale d’una vita veramente fraterna, allora, si richiede non solo il ritorno alle origini della fraternità fondatrice, ma una
nuova fraternità, che, dal suo canto, deve risolvere un duplice problema. Si tratta, da un lato, di superare continuamente l’ineluttabile
processo rivalitario che, continuamente, distrugge dall’interno questa fraternità (e conduce alla dominazione/sfruttamento all’interno
del gruppo stesso). Dall’altro, e correlativamente, si tratta di aprire la
fraternità, cioè di superare la fraternità chiusa, che si fonda e si alimenta nel e grazie al rigetto immunologico dell’estraneo, in una fraternità al contrario fondata sull’inclusione dell’estraneo5.
Sul paradigma di riferimento della fraternità è doveroso rilevare
l’esistenza di un problema oggi particolarmente attuale. Si tratta,
4
L. LORENZETTI, “Fraternità o solidarietà?”, in Rivista di Teologia Morale,
142 (2004) 219-220.
5 E. MORIN, La vita della vita, II, Il metodo, Raffaello Cortina, Milano 2004.
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cioè, della possibilità o meno di coniugare in piena armonia il principio sin qui esposto della fraternità universale, fondata sul dato della
paternità del Dio cristiano e il pluralismo religioso. Infatti, la paternità di Dio, per un verso, si deve estendere a tutte le creature, ma, per
un altro verso, essa è basata almeno indirettamente sul dato della sola religione cristiana, che si ritiene la vera religione. Questa divaricazione tra un fondamento in una religione specifica, in questo caso
nella religione cristiana, e l’estensione dell’applicazione di questo
fondamento a tutte le altre religioni, rende problematica una fraternità interumana che sia paritaria e simmetrica. Lo stesso concilio Vaticano II, da un lato, ha precisato che “non possiamo, però, invocare
Dio come Padre di tutti, se ci rifiutiamo di comportarci da fratelli
verso alcuni uomini creati a immagine di Dio. L’atteggiamento dell’uomo verso Dio Padre e quello dell’uomo verso gli altri uomini fratelli sono così connessi che la Scrittura dice: “Chi non ama non ha
conosciuto Dio” (1Gv 4, 8)” (NAe 5). Su queste basi vengono rigettati razzismo e discriminazioni condotte per motivi sociali o religiosi. Dall’altro lato, tuttavia, lo stesso Concilio, come abbiamo già rilevato, chiamando a sostegno la prima lettera di Pietro (1 Pt 2, 12),
scongiura i cristiani di mantenere una condotta irreprensibile in mezzo alle genti, e questa esortazione, di per sé, giustifica una distinzione tra gli appartenenti alla Chiesa e gli altri. Uguale posizione asimmetrica viene ribadita anche nelle parole che chiudono il documento, le quali invitano con insistenza i cristiani “per quanto dipende da
loro, di stare in pace con tutti gli uomini, per essere realmente figli
del Padre che è nei cieli” (Mt 5, 45). La figliolanza qui è, dunque, riservata in modo particolare ai credenti.
È senz’altro vero che il Dio che ama ha caratteri universali, cioè
ama tutto e ama tutti. Ma è altrettanto vero che non si possono amare tutti allo stesso modo, e neppure Dio può amare tutti allo stesso
modo. Non è la stessa cosa, per esempio, amare la vittima e il carnefice. L’amore, infatti, è una relazione interpersonale e implica, perciò,
anche la conoscenza e la risposta di chi è amato. Se si confronta la posizione del cristiano con quella di un membro di un’altra religione si
deve onestamente dedurre che c’è chi, come il cristiano, sa di essere
amato dal Padre, perché lo conosce, e chi, come il non cristiano, non
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lo sa, perché non lo conosce. Non si può mettere sullo stesso piano di
verità la impossibilità di amare Dio senza amare il prossimo, e la possibilità di amare il prossimo senza amare Dio. Non per nulla, nella
prima lettera di Giovanni, ci si chiede retoricamente come si faccia ad
amare Dio che non si vede, se non si ama il fratello che si vede (1Gv
4, 20), mentre non ci si pone la domanda inversa, vale a dire come si
faccia ad amare il fratello che si vede, qualora non si ami Dio che non
si vede. Ci troviamo chiaramente davanti a una asimmetria.
In ultima analisi, bisogna riconoscere che il dialogo interreligioso è
sempre e comunque asimmetrico. Il che non vuol dire né che non possa essere svolto, né tanto meno che ai membri delle varie comunità religiose sia precluso l’accesso a un terreno laico su cui tutti possono trovarsi su un piano di parità. Il dialogo però va condotto in modo tale da
mantenere uno statuto diverso da quello della semplice fraternità simmetrica. In un contesto interreligioso, l’incontro con l’altro può anche
essere sorretto dalla fiducia che vi sarà un tempo in cui tutti si riconosceranno reciprocamente in modo pienamente paritario; si tratta, però, di una speranza che va collocata in un orizzonte escatologico. Una
piena e paritetica uguaglianza reciproca si avrà solo oltre il velo della
morte, quando i raggi confluiranno tutti verso un unico centro6. Nel
frattempo, però, essa può essere sempre proposta a tutti gli uomini di
buona volontà secondo le indicazioni del Concilio, e, cioè, come un segno di testimonianza ed un fermento di possibile realtà.
6
P. STEFANI, “Paternità di Dio, fraternità umana”, in Il Regno, 2 (2005) 52-62.
K. Rahner, nel suo saggio sul problema del cristiano anonimo, si chiede a quali
condizioni il cristiano possa affermare, non in senso genericamente umanitario,
ma in un senso precisamente cristiano, “ogni uomo è mio fratello.” “Occorre una
teoria cristiana a tale scopo, scrive egli, secondo cui ognuno, che in fondo non
resiste alla propria coscienza, può dire e dice a Dio “Abba” nel suo spirito, credendo, sperando e amando, ed è quindi in tutta verità fratello dei cristiani davanti
a lui”: K. Rahner, “Osservazioni sul problema del “cristiano anonimo”, in Nuovi
Saggi, V, Paoline, Roma 1975, 697. In fondo, ciò che il cristiano in senso stretto
può riconoscere anche mediante una riflessione esplicita, non è precluso a chi
non è battezzato. La grazia si estende tanto quanto si estende la possibilità di accogliere la rivelazione del nome “Abba” come nome proprio di Dio e di fare
esperienza anche orante della paternità di Dio e della fraternità umana.
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EPILOGO
“Un Figlio ci è stato dato” (Is 9, 5)
Réal Tremblay*
Questo oracolo del profeta Isaia che leggiamo durante la messa
della notte del Natale del Signore sarebbe potuto servire da titolo al
libro presentato stasera.
Infatti, il cuore che batte al centro di quest’opera e che ne irriga
tutte le ramificazioni è – come si è detto, e detto bene – il dono incommensurabile che l’“amore invincibile” del Signore ha fatto all’umanità: il Bambino di Betlemme destinato a divenire, come dicono
gli Atti degli Apostoli, il Figlio della risurrezione (At 13, 33). È dunque
per rispetto, per attenzione, meglio ancora per riverenza verso l’opera del Padre pro nobis che i miei collaboratori e io abbiamo creduto
non solamente opportuno, ma necessario porre il “Figlio dato” al
centro di questo libro e cercare di trarne tutte le conseguenze per la
vita morale dei cristiani, che include l’antropologia, il dinamismo etico di questa e l’agire morale propriamente detto.
A questo motivo di ordine teologico, se ne aggiunge un altro di
ordine esegetico riconosciuto da numerosi esegeti e teologi di rango,
secondo cui il pilastro centrale, il punto di convergenza della sessantina di titoli cristologici enumerati nel Nuovo Testamento è proprio
il titolo di Figlio. Per farla breve, pensiamo al posto che occupa questo
titolo negli scritti più tardivi del Nuovo Testamento come la letteratura giovannea e la Lettera agli Ebrei.
Ponendo al centro di questo libro la figura del Figlio di Dio fatto
uomo per manifestare la sua doxa lasciandosi aprire il Cuore sulla
Croce – apertura che fa passare questa Croce dall’ignominia più totale alla dignità di un trono regale (Gv 18, 37; 19, 19), da albero della morte (Gn 2, 9) ad albero della Vita (Ez 47, 12; Ap 22, 2) –, noi crediamo fermamente che la morale diviene per i credenti e anche per i
poco credenti o i non credenti una realtà attraente, affascinante. In-
* Professore ordinario all’Accademia Alfonsiana (Roma).
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fatti, fatto dall’amore e per l’amore, quale uomo può resistere a lungo ad un amore così estremo e destinato ad una così grande felicità,
quella di partecipare alla pericoresi agapica dei Tre? La ragione può
tentare di aggirarlo, addirittura di rifiutarlo, ma alla fine dei conti,
come dice così profondamente Pascal, il cuore ha le sue ragioni che
la ragione non conosce (Pensées, fr. 91: Éd. Brunschwig).
È in quest’ottica che il R. P. Stefano Zamboni ed io, appoggiati dal
gruppo di ricerca Hypsosis, abbiamo lavorato e offriamo ora ai credenti in generale, e alla comunità dei moralisti (professori e studenti) in particolare, i frutti della nostra fatica. Speriamo che essi troveranno accoglienza benevola e trasformante nel senso precisato sopra.
In conclusione a questo breve epilogo, vorrei, a nome mio personale, a quello di P. Zamboni e a quello dei miei collaboratori del
gruppo di ricerca Hypsosis, ringraziare prima di tutto il R. P. Alfio Filippi, direttore delle Edizioni Dehoniane di Bologna, che ha accettato
con grandissima prontezza di pubblicare il nostro progetto editoriale e il Prof. Luigi Lorenzetti, direttore della Rivista di Teologia Morale, che ha voluto appoggiarlo tramite il testo suo di “presentazione”.
Vorrei poi ringraziare S. E. R. Mons. Ignazio Sanna e i Professori
Klemens Stock, S. J. e Angel Rodríguez Luño che hanno accettato
ben volentieri di essere presenti qui questa sera con le loro riflessioni più che pertinenti e illuminanti sulla concezione, il contenuto, il
significato e il metodo di quest’opera. Con i loro interventi autorevoli, aiuteranno certamente al decollo di questo nostro Figli nel Figlio. Una teologia morale fondamentale.
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Memorial Event on the Tenth Anniversary
of the Death of Fr. Bernhard Häring
(Gars am Inn, July 5th 2008)
Martin McKeever, C.Ss.R.
In July 2008 the Munich Province of the Redemptorists organized a memorial event in Gars am Inn to mark the tenth anniversary
of the death of Fr. Bernhard Häring. The event consisted in a liturgical celebration presided over by the present Provincial, V. Rev. Edmund Hipp C.Ss.R. In the homily Fr. Hipp emphasized the openness of Fr. Häring to the world of today and his dedication to the renewal of moral theology. The event included three commemorative
lectures which focused in turn on Häring’s life in Böttingen, in Gars
and in Rome.
The first stage in Häring’s life-journey was depicted by Dr. Erwin
Teufel, former President of Baden-Württemberg in Southern Germany. The prominent politician, who is also a former Mayor of nearby Spaichingen, emphasised how attached Fr. Häring was to his place
of birth Böttingen. At the time of Häring’s childhood this small town
did not enjoy the prosperity it knows today. Eleventh of twelve children, Häring grew up in a family marked by faith and prayer. Dr.
Teufel went on to recount the contact he had with Fr. Häring when
this latter came to Böttingen during the summer months. In a series
of conversations, Dr. Teufel got to know directly Häring’s character
and his views on many theological and social subjects. Most of all he
was impressed by Häring’s intense commitment to the renewal of
moral theology. “I bow my head in respect before Bernhard Häring”
concluded Dr. Teufel, visibly moved.
The second speaker was Dr. Augustin Schmied, a Redemptorist
priest and former student of Fr. Häring. In his inimitable laconic
style, Fr. Schmied depicted the life of Häring in Gars after the Second World War. The characteristic which most impressed the students at this time was the extraordinary dilegence of Häring. This is
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the period in which he wrote The Law of Christ, a work which was to
have a major influence in the renewal of moral theology in the 20th
century. It is fascinating to hear the story of how many people at
Gars were involved in the production of this book. Seen through the
eyes of the students of the time the figure of Häring emerges in all
its humanity.
Häring’s life in Rome was described by Prof. Dr. Bruno Hidber
C.Ss.R., a former President of the Alphonsian Academy, who knew
Häring as a colleague. Fr. Hidber traced the life of Häring before and
during the Second Vatican Council. Explaining the complicated
process involved in the production of the Council documents, Hidber illustrated how Häring had a key influence on certain texts, particularly on the Constitution on the Church in the Modern World,
Gaudium et spes. At the same time Häring worked with students from
all over the world, directing 74 Doctoral Theses and 103 Licentiate
Theses. In the second part of his talk, Hidber analysed the major lines
of thought in Häring’s many writings (his bibliography contains more
than 100 books and 1000 articles). From the beginning to the end,
the figure of Christ was central to Häring’s moral theology, particularly the figure of Christ the Redeemer and Healer. Having recovered
from cancer of the throat, Häring continued his many academic and
pastoral activities, even during his years of retirement in Gars.
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“Carità e giustizia per il bene comune”
Cronaca del XXII congresso nazionale
dell’Associazione Teologica Italiana per lo Studio della Morale
(Pescara, 8-11 settembre 2008)
Giuseppe Quaranta – Giovanni Del Missier
Dall’8 all’11 settembre si è tenuto, presso l’Oasi dello Spirito di
Montesilvano (Pescara), il XXII Congresso nazionale dell’Associazione Teologica Italiana per lo Studio della Morale (ATISM) dedicato all’approfondimento critico di alcuni temi fondamentali della morale sociale sotto il titolo Carità e giustizia per il bene comune.
La riflessione è stata inaugurata da una tavola rotonda a quattro voci moderata da Dino Boffo, direttore del quotidiano Avvenire, e volta
a individuare Il contributo della Chiesa per una società giusta. Gianni
Manzone (Pontificia Università Lateranense – Roma), nel tentativo di
precisare lo specifico apporto della missione sociale della Chiesa entro le dinamiche dell’attuale società complessa, ha insistito sulla necessità che il pensiero e l’agire delle comunità cristiane rendano manifesta la possibilità di intessere rapporti di autentica prossimità con
l’altro, come occasione per realizzare la libertà del singolo nelle diverse forme del vivere sociale, senza ridurre la convivenza a necessità,
a funzione o a contratto. Sebbene le modalità storiche dell’agire ecclesiale siano orientate unicamente a rendere testimonianza all’amore
di Dio tra gli uomini, esse possono assumere rilevanza pubblica nella
misura in cui informano la convivenza della consapevolezza del valore delle relazioni e concorrono a favorire la piena umanizzazione dei
soggetti coinvolti. In tal modo, anche a una comunità cristiana che si
trovasse in posizione di minoranza non mancherebbero le opportunità per arricchire il tessuto civile della società, per esercitare una funzione critica nei confronti di ogni forma di potere svincolata dall’etica, per proporsi come forza plasmatrice di una cultura ispirata alla solidarietà e al rispetto incondizionato della vita umana. Il successivo intervento di Michele Cascavilla (Università di Pescara-Chieti) ha con-
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tribuito a chiarire in chiave filosofica il significato dei termini diritto,
giustizia e carità e a illustrare la loro reciproca interconnessione. A
giudizio del relatore, la conservazione dell’ordine sociale fonda ed esige come conditio sine qua non solamente l’obbligazione mediante la
quale si impongono i doveri di giustizia comuni a tutti i cittadini,
mentre l’ambito della carità – pur auspicabile per il perfezionamento
della vita sociale – risulta strettamente legato alla particolare visione
del bene veicolata dalle diverse tradizioni presenti nel tessuto sociale
e, di conseguenza, difficilmente condivisibile al di fuori dello spazio
comunitario e della testimonianza personale. Di fronte a questa visione piuttosto dicotomica del binomio giustizia e carità, l’economista
Luigino Bruni (Università di Milano-Bicocca) ha mostrato, invece, le
possibilità di una feconda conciliazione degli opposti nelle emergenti
esperienze economiche di tipo comunitario e agapico (mercato equo
e solidale, microcredito, movimento cooperativo, economia di comunione) intese non riduttivamente «come esperienze marginali nate
per rimediare e supplire ai fallimenti dello Stato e del mercato, ma al
contrario come semi di un nuovo (e antico) umanesimo del bene comune e della fraternità». Ciò suppone, però, una rivisitazione delle
categorie fondamentali utilizzate dalla scienza economica, tradizionalmente estranea ai concetti di giustizia, bene comune e agape, superando una impostazione esclusivamente individualistica attraverso il recupero di nuove categorie teoriche quali “bene relazionale”, “prossimità interpersonale”, “reciprocità incondizionale”. Infine, Bruno Frediani (Caritas di Lucca) ha richiamato l’esigenza che la comunità cristiana rinnovi e incrementi la consapevolezza di essere soggetto della
testimonianza della carità, dell’impegno per la giustizia e per la pace,
quali dimensioni qualificanti della sequela Christi che trovano origine
nella vita intratrinitaria e nell’evento della Croce, e che si esprimono
preferenzialmente nell’amore per i poveri e verso i nemici. La teologia morale, pertanto, è chiamata a individuare le multiformi declinazioni teorico-pratiche di questo impegno, ad approfondire le modalità concrete per servire Cristo nei fratelli e per contrastare le conseguenze del peccato personale e strutturale.
La prima sessione si è aperta con la relazione magistrale L’orizzonte di agape, l’umano che è comune: prospettiva teologica, nella quale
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Pierangelo Sequeri (Facoltà Teologica dell’Italia settentrionale – Milano) ha inteso offrire le basi antropologiche e teologiche per l’elaborazione dei temi del congresso, a partire dal recupero della matrice semantica originaria del termine greco agape «che si riferisce ad un
atteggiamento di ospitalità-condivisione, che iscrive in un contesto di
familiarità domestica chi non appartiene alla propria carne e al proprio sangue». Evitata così l’enfasi erotica che contraddistingue la traduzione del termine con “amore” e la riduttiva denotazione pietistica di “carità”, l’agape, definita come l’«invenzione teologica per eccellenza del Nuovo Testamento», consente di maturare una rinnovata comprensione della giustizia umana (relazioni interpersonali improntate all’ospitalità-prossimità), della giustizia divina (giudizio ultimo basato sulla pratica concreta di agape) e di quella che il teologo
milanese ha chiamato «metafisica degli affetti». Tale ripensamento
radicale dovrebbe agire da correttivo nei confronti della deriva antropologica individualista, della concezione legalistica della giustizia
e della riduzione sociologica della carità, favorendo il recupero della
nozione di umano-che-è-comune capace di costituire un presupposto
interculturale per l’incondizionato riconoscimento reciproco di tutti
gli individui, compresi coloro che versano in situazione di limite:
handicap, conflitto, povertà, condizionamento, rivendicazione... Tra
le possibili attuazioni di questa prospettiva, Sequeri ha evidenziato la
necessità di sottolineare il rilievo sociale della donazione come esperienza relazionale non confinabile nel ristretto perimetro dei rapporti di reciprocità; di dare spazio al sacrificio volontario del bene possibile,
cioè al recupero del senso del limite come antidoto alla logica della
saturazione del desiderio; alla cura dell’umano anonimo del bene comune, assicurato non per sommatoria di interessi individuali, ma attraverso l’impiego di beni privati posti a servizio della società.
Sono seguite due relazioni complementari. Nella prima Carità e
giustizia: saggio di lettura neo-testamentaria, Giuseppe De Virgilio
(Istituto Teologico Abruzzese-Molisano – Chieti) ha proposto come
esempi paradigmatici del superamento della logica meramente retributiva e legalistica della giustizia la parabola evangelica degli operai
mandati nella vigna (Mt 20, 1-16) e l’istruzione paolina riguardante
la questione degli idolotiti (1 Cor 8, 1-13), brani che suggeriscono
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un’articolazione dei binomi giustizia-carità e libertà-carità assai dissonanti con la visione contemporanea dei rapporti sociali. Nel secondo contributo Bene comune: spunti per una storia del concetto, Giorgio Campanini (Università di Parma) ha offerto una sintetica panoramica dello sviluppo dell’idea di bene comune nel pensiero politico
occidentale, individuando le cause del suo eclissarsi nel trasferimento del centro del potere dalla persona e dalla società allo Stato (N.
Machiavelli), nella trasformazione del concetto di “bene” in quello di
“interesse” (T. Hobbes, A. Smith), nella riduzione consumistica di
entrambi a mero “benessere” ottenuto per accumulo di risorse disponibili. Tuttavia – ha sottolineato il relatore nella parte conclusiva
del suo intervento – nel senso contrario di un recupero almeno ideale, se non terminologico, del concetto di bene comune sembrano
orientarsi sia diverse voci critiche della modernità (H. Jonas, Ch.
Taylor) sia autori cattolici (J. Maritain in particolare) accomunati dal
tentativo di accentuare il senso soggettivo e relazionale della communitas in opposizione all’impersonalità della societas.
La seconda sessione del convegno si è aperta con la relazione Il bene comune e la giustizia dell’amore: una prospettiva filosofica, nella quale
Roberto Mancini (Università di Macerata) ha presentato la fisionomia
della “costellazione bene-giustiza-amore” a partire dalla situazione attuale di pensabilità, segnata dalla falsa promessa della globalizzazione
e dalla crescente consapevolezza dell’interdipendenza, dall’angoscia di
morte e dalla logica del dominio, da ampi fraintendimenti dei contenuti del bene in senso individualistico e astratto, della giustizia in senso rigidamente retributivo e perfino vendicativo, dell’amore in senso
sentimentalista e irrazionale. La svolta relazionale della filosofia contemporanea sembra, invece, suggerire una direzione alternativa che
dischiuda all’uomo la possibilità di umanizzarsi pienamente attraverso il dono di sé nel rapporto con il bene. Esso si concretizza nelle dinamiche della reciprocità e nelle esperienze di comunione, possibili
anche all’interno della società e sotto la tutela della giustizia, misura
universale e forma permanente della condivisone del bene.
Sono seguite due relazioni complementari. Originale e molto articolato si è rivelato il contributo di Martin M. Lintner (Facoltà Teologica “Marianum” – Roma) su Rilevanza teologico-morale dell’etica del do-
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no nel quale, a partire dall’elaborazione filosofica di E. Lévinas, J. Derrida e J.-L. Marion si è cercato di mostrare un nuovo modo di comprendere la soggettività, la relazione e la responsabilità a partire dall’irruzione nell’esperienza personale del dono come «evento inappropriabile dell’alterità assoluta», capace di rompere il ciclo economico-mercantile dei rapporti e di aprirlo alla gratuità e alla gratitudine. Sebbene
il percorso indicato appaia concettualmente molto impegnativo per
non dire assai arduo, questa prospettiva, ben compresa e assimilata,
sembra offrire interessanti prospettive di approfondimento: una chiave
di lettura della crisi epistemologica che affligge l’etica contemporanea,
una critica radicale della deriva autoreferenziale dell’individualismo,
una via originale per ripensare l’interdipendenza sociale e, infine,
un’opportunità per ricondurre la riflessione morale alla sua radice teologica, in particolare alla cristologia e alla dottrina della grazia. Successivamente Giuseppe Trentin (Facoltà Teologica del Triveneto – Padova), sotto il titolo Etica e diritti umani: nuovi scenari?, ha offerto una trattazione sistematica della questione dei diritti sullo sfondo dell’attuale
scenario globale e locale. Partendo da una considerazione di tre fatti accaduti nella città di Padova, ma rimbalzati sulle cronache giornalistiche
di tutto il Paese per il loro valore paradigmatico – stiamo parlando del
“muro” di via Anelli, della moschea di via Longhin e della circoncisione di Evidence –, il relatore ha cercato di enucleare i problemi e i nodi
teorici correlati allo spiccato pluralismo etico, culturale e religioso delle attuali società occidentali che ha frantumato la certezza di avere a disposizione un’interpretazione univoca del contenuto dei diritti medesimi e che, al contempo, invoca una formulazione più precisa della qualità cristiana che deve caratterizzare la riflessione teologica sul tema.
La terza sessione è stata inaugurata dalla relazione magistrale La
relazione amore-giustizia: chiave ermeneutica della morale cristiana, nella quale E. Schockenhoff (Università di Freiburg – Germania) ha
evidenziato nel duplice comandamento dell’amore il centro interno e
il principio ermeneutico di tutta l’etica cristiana. Considerando, però, come già nel Nuovo Testamento si ritrova una tensione tra amore e giustizia riscontrabile nel duplice tentativo di relativizzare il decalogo in nome della giustizia superiore del Regno o, alternativamente, di confermarlo come sviluppo concreto dell’amore stesso nel-
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l’ordine fondamentale della giustizia, il relatore ha evidenziato il perdurare di tale antitesi nella storia della teologia. Essa, infatti, sembra
offrire due modelli ermeneutici divergenti: da un lato, la riflessione
agostiniana articola la coppia amore-giustizia secondo uno schema
tendenzialmente oppositivo e dualista; dall’altro, l’impostazione di
Tommaso d’Aquino riesce a correlare i due concetti analogamente a
quelli di grazia-libertà e rivelazione-ragione. Secondo quest’ultimo
modello, approfondito sistematicamente nella relazione, i doveri di
giustizia precedono quelli di carità; al contempo, però, i doveri di carità permettono di superare e di portare al suo vero compimento una
morale altrimenti basata solo sui precetti negativi. Inoltre, a livello
teologico, la reciproca coordinazione dei termini permette di comprendere meglio l’amore e la giustizia di Dio nella prospettiva dei poveri e delle vittime della storia (cfr. J.B. Metz), senza indulgere in una
visone religiosa sentimentalista e banalizzante della misericordia divina (cfr. Benedetto XVI, enciclica Spe salvi, nn. 43; 47).
Nella prima delle relazioni complementari che sono seguite, Andrea Vicini (Facoltà Teologica dell’Italia meridionale – Napoli) ha
approfondito il tema della Giustizia sanitaria e allocazione delle risorse,
all’interno di una visione della società che ritiene possibile il bene
comune. Il relatore ha così sottolineato la necessità di non accettare
passivamente la tendenziale riorganizzazione di sistema sanitari “discriminanti” in quanto costruiti quasi esclusivamente sul criterio delle condizioni economiche di partenza e la conseguente proposta etica centrata sulla promozione di diritti intesi in maniera individualistica. Al contrario, Vicini ha indicato come categoria etica fondamentale l’opzione preferenziale per gli ultimi, istanza in grado di
ispirare una dinamica etica che valorizzi e metta a disposizione della
collettività le risorse disponibili nel contesto di una gestione responsabile delle medesime. Nella seconda relazione, Sabino Frigato (Pontificia Università Salesiana – Torino) ha affrontato Il rapporto giustizia-carità nello sviluppo dell’insegnamento sociale ecclesiale attraverso una
lettura critica dei contenuti e dell’evoluzione della dottrina sociale
della Chiesa dalla Rerum novarum alla Deus caritas est.
A concludere il congresso, infine, è stato invitato Giannino Piana
(Università di Urbino) che ha tenuto la relazione magistrale intitola-
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ta Il bene comune come compito e virtù politica. Il noto teologo italiano
ha focalizzato le possibilità oggi esistenti per un recupero della categoria di “bene comune” e i connotati che può e deve assumere per inserirsi efficacemente nei processi sociali in corso. In particolare, la ripresa post-conciliare del concetto secondo una prospettiva non individualista – non semplice somma di beni particolari, ma correlazione
tra esigenze dei singoli e della collettività, perseguibile con il concorso di tutti – offre la possibilità di una rinnovata comprensione del
rapporto tra “personale” e “sociale” che valorizzi i principi di sussidiarietà e di solidarietà sociale; di un’apertura in senso universalistico che consideri il bene di tutto l’uomo e di tutti gli uomini, in senso sincronico e diacronico; di un’equilibrata mediazione tra le diverse concezioni culturali presenti nella società pluralista e multietnica.
Una simile concezione del bene comune, pertanto, si offre alla politica come criterio etico orientativo e prescrittivo, un antidoto efficace contro la sua tendenziale riduzione a mera ricerca e conservazione del potere; per i politici di professione, invece, il bene comune assume la fisionomia di habitus virtuoso, disposizione personale a elaborare scelte orientate all’autentica promozione sociale, con competenza, trasparenza e responsabilità. Il tutto in sintonia con il recente
appello del Santo Padre a «evangelizzare il mondo del lavoro, dell’economia, della politica, che necessita di una nuova generazione di laici cristiani impegnati, capaci di cercare con competenza e rigore morale soluzioni di sviluppo sostenibile»1.
1
BENEDETTO XVI, omelia Lo spettacolo più bello (7 settembre 2008) Celebrazione Eucaristica sul sagrato del santuario di Nostra Signora di Bonaria, in
http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/homilies/2008/documents/hf_
ben-xvi_hom_20080907_cagliari_it.html.
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ACCADEMIA ALFONSIANA
Cronaca relativa all’anno accademico 2007-2008
Danielle Gros*
1. Eventi principali
1.1. Inaugurazione dell’anno accademico
L’anno accademico 2007-2008 è stato inaugurato l’8 ottobre 2007,
con l’eucaristia celebrata nella Chiesa di S. Alfonso.
La liturgia è stata presieduta da S.E.R. Mons. Gianfranco Agostino Gardin, Segretario della Congregazione per gli Istituti di Vita
Consacrata e le Società di Vita Apostolica, che ha anche tenuto l’omelia (Cf Inaugurazione dell’anno accademico 2007-2008, Roma, Edacalf, 2007, pp. 7-9). La messa solenne è stata concelebrata dal R.P. Jacek Dembek, in rappresentanza del Rev.mo P. Joseph W. Tobin, Moderatore Generale dell’Accademia Alfonsiana, nonché Superiore Generale della Congregazione del Santissimo Redentore, dal Preside,
Prof. Martin McKeever, dal Vicepreside, Prof. Seán Cannon, dal
Rettore della Comunità Redentorista, R. P. Darci José Nicioli e da
numerosi professori e studenti.
Al termine della celebrazione, nell’aula magna dell’Accademia si è
svolto l’atto inaugurale articolato in due momenti:
• il primo, sostanziatosi nella Relazione del Preside sull’anno accademico 2006-2007 (Cf Ibidem, pp. 11-19), durante il quale sono
stati richiamati gli avvenimenti più significativi avvenuti durante lo scorso anno accademico;
• il secondo, marcato dalla prolusione La vocazione del teologo moralista cattolico formato nella tradizione alfonsiana, tenuta dal Prof.
* Segretaria Generale dell’Accademia Alfonsiana.
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Dennis Billy, Professore Ordinario dell’Accademia Alfonsiana
(Cf Ibidem, pp.21-31).
Come ogni anno, l’atto accademico, conclusosi con un rinfresco,
è stato occasione per uno scambio di idee tra professori, ufficiali e
studenti.
Il 25 ottobre 2007, nella Basilica di San Pietro, il Preside dell’Accademia, Prof. Martin McKeever, e numerosi studenti, hanno partecipato alla messa d’inaugurazione dell’anno accademico di tutti gli
atenei ecclesiastici romani, presieduta dal Prefetto della Congregazione per l’Educazione Cattolica, Em.mo e Rev.mo Sig. Card. Zenon
Grocholewski. Al termine della celebrazione, il Santo Padre Benedetto XVI è sceso nella Basilica Vaticana per rivolgere la Sua parola
ai presenti.
1.2. Nomine
Quest’anno accademico ha fatto registrare alcune nuove nomine
da parte:
• del Gran Cancelliere della Pontificia Università Lateranense,
Em.mo e Rev.mo Sig. Card. Camillo Ruini, che con decreto del
27 settembre 2007 ha nominato professori straordinari dell’Accademia Alfonsiana i Professori Gabriel Witaszek e Andrzej
Wodka, e professore consociato il Prof. Alfonso Amarante;
• del Moderatore Generale dell’Accademia Alfonsiana, Rev.mo
P. Joseph Tobin, che il 22 ottobre 2007, su designazione espressa dal Consiglio dei Professori, ha nominato Vicepreside dell’Accademia Alfonsiana il Prof. Bruno Hidber;
• ancora del Moderatore Generale dell’Accademia Alfonsiana il
quale, in data 14 gennaio 2008, su designazione del Consiglio
dei Professori, ha riconfermato la nomina della Sig.ra Danielle
Gros quale Segretario Generale dell’Accademia Alfonsiana;
• del Santo Padre Benedetto XVI che, in data 17 giugno 2008,
dopo aver accolto la rinunzia dell’Ecc.mo Mons. Elio Sgreccia,
per raggiunti limiti di età, all’ufficio di Presidente della Pontificia Accademia per la Vita, ha chiamato a succedergli nel medesimo incarico S.E. Mons. Rino Fisichella, Vescovo titolare di
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Voghenza, Rettore Magnifico della Pontificia Università Lateranense, finora Ausiliare della Diocesi di Roma, elevandolo in
pari tempo alla dignità di Arcivescovo;
• ancora del Santo Padre che, in data 27 giugno 2008, dopo aver
accolto la rinunzia del Gran Cancelliere della Pontificia Università Lateranense, Em.mo e Rev.mo Sig. Card. Camillo Ruini, per
raggiunti limiti di età, agli incarichi di Vicario Generale di Sua
Santità per la Diocesi di Roma e di Arciprete della Papale Arcibasilica Lateranense, ha chiamato a succedergli nei medesimi incarichi l’Em.mo e Rev.mo Sig. Card. Agostino Vallini, finora
Prefetto del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica.
1.3. Attività accademiche, avvenimenti ed incontri
1.3.1. Incontro Preside/Studenti
Il 10 ottobre 2007, durante il consueto incontro d’inizio anno tra
il Preside, la Segretaria Generale ed i nuovi studenti, questi ultimi
sono stati informati su diversi aspetti riguardanti la struttura dell’Accademia e la vita accademica in generale. Al termine dell’incontro, i Consulenti accademici hanno ricevuto i nuovi studenti appartenenti ai rispettivi gruppi linguistici, per poterli orientare verso una
programmazione sistematica dei corsi e seminari del biennio per la
licenza.
1.3.2. Inaugurazione dell’anno accademico
1.3.2. alla Pontificia Università Lateranense
Il 24 ottobre 2007, il Preside, il Prof. Réal Tremblay e la Segretaria Generale, Sig.ra Danielle Gros, hanno rappresentato l’Accademia
all’atto d’inaugurazione dell’anno accademico della Pontificia Università Lateranense, svoltosi, come ogni anno, alla presenza di numerose autorità ecclesiali e civili.
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1.3.3. Presentazione del 3° volume della Collana
1.3.3. Tesi Accademia Alfonsiana
Il 7 novembre 2007, è stato presentato il terzo volume della Collana Tesi Accademia Alfonsiana. Si tratta della tesi di dottorato dello
studente Michael Patrick Cullinan, intitolata Victor Paul Furnish’s
Theology of Ethics in Saint Paul. An Ethic of Trasforming Grace. Relatore: il Prof. Prosper Grech, o.s.a., Professore ordinario del Pontificio
Istituto Patristico Augustinianum di Roma.
1.3.4. Elezione dei Rappresentanti degli Studenti
Il 13 novembre 2007 l’assemblea degli studenti, presieduta dal Vicepreside, Prof. Bruno Hidber, ha eletto, quali propri rappresentanti, P. Hugo Ariel Elias Stang, c.ss.r. e P. Bernard Jalkh, c.m. entrambi studenti del primo anno di licenza. Questi rappresentanti, con la
loro elezione, diventano membri del Consiglio Accademico, e fungono da portavoce degli studenti presso le autorità accademiche ed
amministrative dell’Accademia.
1.3.5. Presentazione del libro “Classics with Commentary series”
1.3.5. del Prof. Dennis Billy
Il libro in titolo è stato presentato il 22 novembre 2007 nell’aula
delle difese dell’Accademia.
1.3.6. Postazione Internet per gli studenti
Su richiesta degli studenti, nel mese di novembre 2007 sono state
installate 4 postazioni Internet a loro destinate.
1.3.7. Messa commemorativa per il Prof. Lorenzo Alvarez
Il 7 dicembre 2007 è stata celebrata una messa commemorativa
per il Prof. Alvarez, deceduto il 1 novembre 2007. La celebrazione
eucaristica è stata presieduta dal Moderatore Generale dell’Accademia, Rev.mo P. Joseph W. Tobin, mentre il Prof. Francisco Lage ha
tenuto l’omelia.
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1.3.8. Presentazione del X volume dell’Opera Omnia
1.3.8. del B. Giovanni Duns Scoto
L’11 gennaio 2008, l’Accademia Alfonsiana e la Commissione
Scotista hanno collaborato alla presentazione del volume in titolo.
L’opera è stata presentata dal R.P. Barnaba Hechich, o.f.m., Presidente della Commissione Scotista. Ha fatto seguito una relazione del
Prof. Leonardo Sileo, o.f.m., della Pontificia Università Urbaniana,
intitolata Ente ordinato e ordinabilità delle virtù umane. Introduzione alla teoria etica di Giovanni Duns Scoto.
1.3.9. Assemblea degli Studenti
Gli studenti si sono riuniti in assemblea ordinaria il 19 febbraio
2008. L’incontro è stato presieduto dai due Rappresentanti degli studenti ed ha permesso ai partecipanti di formulare alcune proposte da
sottoporre al Consiglio Accademico.
1.3.10. Incontro del Santo Padre con gli Universitari
Sabato 1 marzo 2008, nell’Aula Paolo VI in Vaticano, numerosi
studenti dell’Accademia hanno partecipato all’incontro con il Santo
Padre in occasione della Quaresima, che si è svolto al termine della
veglia mariana e della recita del Santo Rosario.
1.3.11. Riunione annuale dell’ATISM
Il 15 aprile 2008 si è tenuta, nei locali dell’Accademia, la riunione
annuale dell’ATISM (Associazione Teologica Italiana per lo Studio
della Morale), sezione centro.
Argomento dell’incontro: Riflessione sull’Enciclica “Spe Salvi”. Relatore: Prof. Jürgen Moltmann.
1.3.12. Festa di S. Alfonso
Come ogni anno, il Preside ha invitato le autorità della Pontificia
Università Lateranense, dell’Accademia Alfonsiana ed i Rettori dei
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collegi, seminari e convitti che affidano i loro studenti al nostro Istituto, ad un pranzo festivo che si è tenuto il 16 aprile 2008. In questo
giorno, come segno di ringraziamento, l’Accademia invita tutti coloro che, in vari modi, le sono vicini condividendo l’impegno per la formazione teologico-morale dei giovani.
1.3.13. Presentazione del volume
1.3.13. “Figli nel Figlio. Una teologia morale fondamentale”
Il 17 aprile è stato presentato, nell’aula magna dell’Accademia, il
volume in titolo, a cura del Prof. Réal Tremblay, c.ss.r., professore
ordinario dell’Accademia Alfonsiana, e del Dott. Stefano Zamboni,
s.c.i., ex-studente della stessa Accademia. Relatori: Prof. Klemens
Stock del Pontificio Istituto Biblico (Roma), il Prof. Ángel Rodríguez
Luño della Pontificia Università della Santa Croce (Roma) e S.E.R.
Mons. Prof. Ignazio Sanna della Pontificia Università Lateranense
(Roma), Arcivescovo Metropolita di Oristano.
1.3.14. Tavola Rotonda
Il 22 aprile 2008, nell’aula magna dell’Accademia, gli studenti
hanno organizzato una tavola rotonda sul tema La figura di B. Häring
a dieci anni dalla sua morte (1998-2008): Suo contributo al Concilio Vaticano II e proiezione del suo pensiero teologico. I relatori hanno trattato i
seguenti temi:
• Introduzione biografica (Prof. Bruno Hidber, c.ss.r., professore
ordinario dell’Accademia Alfonsiana);
• Il contributo di B. Häring al Concilio (Prof. Raphael Gallagher,
c.ss.r., professore invitato dell’Accademia Alfonsiana);
• B. Häring: un teologo “capace” di futuro (Prof. Giuseppe Quaranta, o.f.m.conv., docente della Facoltà Teologica del Triveneto
ed ex-studente dell’Accademia Alfonsiana).
1.3.15. Gita a Pompei
Il 25 aprile 2008 gli studenti hanno organizzato una gita al Santuario e agli scavi di Pompei. Anche quest’anno, la partecipazione è
stata numerosissima.
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1.3.16. Workshop
Il 3 maggio 2008 è stato organizzato, per la prima volta, un workshop sulla teologia fondamentale con studenti ed ex-studenti dell’Accademia Alfonsiana.
1.3.17. Presentazione dei volumi “Praticare la Parola”
1.3.17. del Prof. Terence Kennedy
Il 14 maggio 2008, nell’aula magna dell’Accademia, sono stati presentati i volumi Praticare la Parola, Vol.1 – L’ascesa dell’uomo al Dio vivente e Praticare la Parola, Vol.2 – Luce per le nazioni che rende la vita
umana degna del Vangelo del Prof. Terence Kennedy, c.ss.r., professore ordinario dell’Accademia Alfonsiana. Relatori: Prof. Mauro Cozzoli della Pontificia Università Lateranense, nonché professore invitato dell’Accademia Alfonsiana e Prof. Philipp Schmitz della Pontificia Università Gregoriana.
2. Consiglio dei Professori
I professori invitati si sono riuniti l’11 ottobre 2007 per eleggere i
loro Rappresentanti per il Consiglio dei Professori e per il Consiglio
Accademico. Sono stati eletti: i Professori Silvio Botero e Alvaro
Córdoba, per il Consiglio dei Professori, ed i Professori Mauro Cozzoli e Giovanni Del Missier, per il Consiglio Accademico.
Durante l’anno accademico 2007-2008, il Preside ha convocato 5
volte il Consiglio dei Professori, che ha potuto così deliberare su numerosi temi attinenti alla vita dell’Accademia: preventivo, varie questioni accademiche, programmazione per l’anno 2008-2009, promozione dei docenti, relazioni annuali delle commissioni permanenti,
valutazione dell’anno accademico, ecc.
3. Consiglio Accademico
Il Preside ha convocato il Consiglio Accademico in data 28 febbraio 2008 e 3 aprile 2008.
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Entrambe le riunioni hanno avuto come temi principali la discussione sulla programmazione accademica e il riordino del sistema di
crediti su proposta della Commissione per il Programma.
4. Consiglio di amministrazione
Dal 15 al 17 gennaio 2008 si è riunito il Consiglio di Amministrazione dell’Accademia Alfonsiana, convocato dal Moderatore Generale che lo ha anche presieduto.
A questo incontro hanno preso parte tra gli altri:
• il Preside, Prof. Martin McKeever, che ha svolto un rapporto
sulla situazione accademica;
• la Segretaria Generale, Sig.ra Danielle Gros, che ha relazionato sulla situazione amministrativa e su vari aspetti attinenti
agli studenti;
• il Delegato del Consiglio dei Professori, Prof. Seán Cannon,
per descrivere la situazione del corpo docente;
• l’Economo, R.P. Alfeo Prandel, per esporre la situazione finanziaria;
• l’Executive Director for Development, R.P. John Vargas, per informare sullo status delle pubbliche relazioni.
Dopo aver esaminato i vari rapporti con grande attenzione, il
C.d.A. ha constatato con soddisfazione il lavoro svolto per rinnovare
e rafforzare le strutture dell’Accademia Alfonsiana, in modo da poter
espandere le sue risorse, ed ha espresso il proprio apprezzamento per
l’attività sviluppata dai singoli uffici.
Il C.d.A. ha inoltre formulato alcune raccomandazioni, grazie alle
quali potranno essere potenziati sia l’aspetto amministrativo che
quello accademico.
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5. Corpo docente
5.1. Stato attuale
In questo anno accademico, l’Accademia Alfonsiana si è avvalsa
della collaborazione di 36 professori, di cui 7 ordinari, 6 straordinari, 2 associati, 18 abitualmente invitati e 3 emeriti.
Tra questi, 30 hanno svolto 32 corsi e diretto 23 seminari e numerose tesi di licenza e di dottorato. Altri ancora, in qualità di professori invitati, hanno anche insegnato presso diversi centri ecclesiastici romani, partecipando a numerosi convegni e congressi.
5.2. In memoriam
Il 1 novembre 2007 è deceduto il Prof. Lorenzo Alvarez, c.ss.r.,
professore emerito dell’Accademia Alfonsiana. Il Prof. Alvarez era
nato il 28 gennaio 1934 ed ha insegnato all’Accademia dal 1975 al
2005 nel campo della morale biblica.
5.3. Pubblicazioni dei Professori
Da evidenziare che molti docenti, oltre alla loro principale attività didattica e di assistenza agli studenti, hanno anche pubblicato diverse opere, offrendo in tal modo un utile contributo alla ricerca
scientifica (Cfr. Inaugurazione dell’anno accademico 2008-2009, Roma,
Edacalf, 2008).
6. Studia Moralia
L’impegno della Commissione per Studia Moralia e la collaborazione dei Professori interni ed esterni, hanno permesso la regolare
pubblicazione dei due fascicoli della rivista Studia Moralia, per l’anno
2007.
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7. Studenti
Nell’anno accademico 2007-2008, gli studenti sono stati 328 (295
uomini e 33 donne), di cui 305 ordinari (130 del secondo ciclo, 174
del terzo ciclo ed 1 iscritto al programma per il diploma) che si sono
preparati a conseguire i gradi accademici, 13 straordinari e 10 ospiti.
La provenienza degli studenti è riferita a quasi tutti i continenti:
142 dall’Europa, 61 dall’Asia, 89 dall’America (Nord, Centro e Sud),
34 dall’Africa e 2 dall’Australia.
Divisi per appartenenza religiosa, 172 sono del clero secolare, 125
tra religiosi e religiose appartengono a 50 diversi ordini, mentre 31
sono i laici.
Durante l’anno accademico 2007-2008 sono state difese con successo 16 tesi di dottorato e 23 studenti, dopo la pubblicazione delle loro rispettive tesi, sono stati proclamati dottori in teologia della Pontificia Università Lateranense, con specializzazione in teologia morale.
Inoltre, 45 studenti hanno conseguito la licenza in teologia morale.
Da segnalare i numerosi incontri avvenuti tra il Preside ed i Rappresentanti degli Studenti, che hanno consentito di deliberare su varie questioni riguardanti gli studenti stessi.
8. Informazioni sugli ex-studenti
Durante l’anno accademico 2007-2008, 10 ex-studenti dell’Accademia Alfonsiana sono stati elevati alla dignità episcopale (o, se già
Vescovi, hanno ottenuto incarichi superiori):
• S.E.R. Mons. Jorge Alves Bezerra, s.s.s., finora Vice-Provinciale dei Sacramentini e Maestro dei Novizi presso il Noviziato
dei Sacramentini situato nella diocesi di Três Lagoas, nominato Vescovo di Jardim (Brasile). È stato studente dell’Accademia
dal 1996 al 1998;
• S.E.R. Mons. James Douglas Conley, finora Parroco della
“Blessed Sacrament Parish” a Wichita, nominato Vescovo Ausiliare dell’Arcidiocesi di Denver (U.S.A.). È stato studente dell’Accademia dal 1989 al 1991;
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• S.E.R. Mons. Fernando José Monteiro Guimarães, c.ss.r., finora Capo Ufficio della Congregazione per il Clero, nominato
Vescovo di Garanhuns (Brasile). È stato studente dell’Accademia dal 1981 al 1983 e dal 1986 al 1989;
• S.E.R. Mons. Edward Hiiboro Kussala, finora Professore di
teologia morale al “St. Paul’s Seminary” di Khartoum, nominato Vescovo di Tombura-Yambio (Sudan). È stato studente dell’Accademia dal 2001 al 2005;
• S.E.R. Mons. Gerald John Mathias, finora Vescovo di Simla
and Chandigarth, nominato Vescovo di Lucknow (India). È
stato studente dell’Accademia dal 1982 al 1987;
• S.E.R. Mons. John Neinstedt, finora Coadiutore dell’Arcidiocesi di St. Paul-Minneapolis (U.S.A.), nominato Arivescovo
della stessa. È stato studente dell’Accademia dal 1975 al 1977 e
nel 1985;
• S.E.R. Mons. Enrico Solmi, finora Responsabile diocesano
della Pastorale Familiare e Direttore dell’Ufficio Regionale di
Pastorale Familiare dell’Emilia Romagna, nominato Vescovo
di Parma (Italia). È stato studente dell’Accademia dal 1983 al
1990;
• S.E.R. Mons. Marin Srakiċ, finora Vescovo di Djakovo e Srijem, nominato primo Arcivescovo metropolita di Djakovo-Osijek (Croazia). È stato studente dell’Accademia dal 1967 al 1972;
• S.E.R. Mons. Józef Wróbel, s.c.i., finora Vescovo di Helsinki
(Finlandia), nominato Vescovo titolare di Suas ed Ausiliare di
Lublin (Polonia). È stato studente dell’Accademia dall’1980 al
1985;
• S.E.R. Mons. Patrick James Zurek, finora Vescovo titolare di
Tamugadi ed Ausiliare di San Antonio, nominato Vescovo di
Amarillo (U.S.A.). È stato studente dell’Accademia dal 1974 al
1976.
Inoltre, nel mese di marzo 2008, il R.P. Varghese Manjaly, c.s.t., è
stato eletto Superiore Generale del suo ordine. Padre Manjaly è stato studente dell’Accademia dal 2000 al 2006.
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9. Gradi accademici conferiti
9.1. Dottori designati
Nel corso dell’anno accademico 2007-2008, 16 studenti hanno difeso pubblicamente la loro dissertazione dottorale:
BIZIMANA, Georges (Burundi – diocesi di Ngozi): La pastorale des
communautés ecclésiales de base comme voie d’éducation à la justice et au
pardon en vue de la réconciliation du peuple burundais – 16 giugno 2008;
Moderatore: Prof. Gallagher
Depuis son accession à l’indépendance en 1962, le Burundi connaît des cycles de guerres civiles à caractère politique et ethnique.
Comme l’origine de ces guerres est liée à une structure d’injustices
entretenue depuis longtemps, la voie principale pour en sortir est celle de la justice et du pardon, valeurs chrétiennes fondées sur la loi de
l’amour. Dans une culture où le sens de la famille est fort, la pastorale des communautés ecclésiales de base est la mieux indiquée pour incarner et inculquer ces valeurs. Dès lors, la réconciliation et la paix
seront fondées sur des bases solides.
CIUPA, Wiesław Piotr (Polonia – o.f.m.): Il dibattito sulla GIFT tra i
moralisti cattolici – 11 ottobre 2007; Moderatore: Prof. Faggioni
In questa dissertazione sono presentate le argomentazioni utilizzate nel dibattito sulla GIFT, lo stato attuale della riflessione teologica
relativo a questa tecnica e, successivamente, la sua valutazione eticomorale. Il metodo GIFT è stato messo a punto nel 1984 dal Prof. Richard Asch. Benché siano ormai trascorsi più di venti anni dal momento della prima descrizione della tecnica, era interessante fare uno
studio, che mostrasse in modo completo le argomentazioni e le conclusioni espresse da molti moralisti nella loro produzione scientifica.
La tesi è costituita da tre capitoli, dei quali il primo è dedicato alla presentazione delle questioni bio-mediche, il secondo approfondisce il tema della procreazione assistita mediante un’analisi teologico-morale,
mentre nella terza parte è presentata la valutazione etica della GIFT.
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CONSORTE, Alfredo (Italia – o.f.m.cap.): Attività professionale e coscienza morale: Il contributo del Magistero della Conferenza Episcopale Italiana alla luce dell’insegnamento del Concilio Vaticano II – 5 aprile 2008;
Moderatore: Prof. Majorano
L’attività lavorativa costituisce da sempre una dimensione fondamentale della vita umana. Alla luce delle innovazioni tecnologiche e
del ruolo assunto dall’economia nelle vicende internazionali, essa si
connota sempre più come “questione antropologica” e come ambito
prevalente di questioni etiche e di trasformazione dei valori del mondo contemporaneo. Poiché nella responsabilità verso il mondo del lavoro è in gioco non solo l’esercizio dell’attività professionale ma la
stessa dignità delle persone, la morale deve assumere la sfida di divenire la guida dei processi in atto. La dissertazione intende presentare il contributo offerto dal magistero della Conferenza episcopale italiana all’attuale dibattito sul tema del lavoro: sottolineando soprattutto i valori personali coinvolti, tale magistero propone un modello
di coscienza professionale che valorizza le persone e le relazioni di tipo cooperativo e solidale.
CORBELLA, Carla (Italia – s.a.): La proposta della fedeltà in un mondo
che cambia: Un percorso dialogico tra magistero e psicologia – 3 marzo
2008; Moderatore: Prof. Majorano
La ricerca è partita da due domande: la fedeltà è categoria essenziale dell’identità umana o una forzatura esterna? La crisi della fedeltà negli stati di vita è imputabile a presunte fragilità del soggetto, ad
una comprensione inadeguata del valore, ad entrambe insieme? L’analisi della proposta teologica e magisteriale sulla fedeltà è stata confrontata con quanto la psicologia del profondo è in grado di dire circa l’identità mostrando come la fedeltà sia in stretto legame con quest’ultima. Ciò ha introdotto la questione antropologica: è a questo livello che si è scoperto porsi la questione fondativa della possibilità,
nel contesto attuale, del vivere fedele della persona umana. Solo se al
centro dell’antropologia si colloca la figura del Cristo agganciandola
all’identità della persona la fedeltà per sempre all’Altro/altro diviene
sinonimo di vita buona, sì, ma anche bella.
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ĆURKOVIĆ, Jasna (Croazia – diocesi di Zagreb): Etica della memoria. Una proposta sull’esercizio della memoria – 19 giugno 2008; Moderatore: Prof. Kowalski
Lo scopo che si prefigge questa ricerca, articolata in cinque capitoli, è di esaminare la facoltà di memoria, estrapolandone i messaggi
etici. Il primo capitolo chiarisce cosa è la memoria, quali sono le sue
funzioni, e come essa si afferma nel postmoderno. Il secondo capitolo approfondisce i contributi biblico-teologici sulla memoria, nonché
l’agire di alcune Chiese locali.
Per rendere più comprensiva una valutazione etica, il terzo capitolo approfondisce i presupposti antropologici della memoria (emozioni, identità). Per la natura selettiva e perciò ambigua della memoria si sono spesso verificati gli abusi della memoria a livello individuale e collettivo, di cui tratta il quarto capitolo. L’ultimo capitolo invece, che ha lo scopo di porre la memoria come l’oggetto dell’analisi etica, cerca di chiarire i criteri che deve rispettare nella sua prassi
affinché protegga dagli usi strumentali della memoria e contribuisca
alla migliore convivenza umana.
DUMA, Bernadin (Romania – o.f.m.conv.): La coscienza e la reciprocità delle coscienze nel discernimento morale. Il significato del contributo di
Bernhard Häring – 8 marzo 2008; Moderatore: Prof. Johnstone
La nostra ricerca sulla proposta della reciprocità delle coscienze
del teologo Bernhard Häring ha voluto sondare e rilevare il suo significato per il rinnovamento della teologia morale, la sua autenticità e validità attuale. L’idea della reciprocità delle coscienze ha delle
radici profonde ritrovabili all’interno della storia della teologia morale, fino ad oggi. Essa riguarda pienamente il duplice rapporto più
profondo della persona con Dio e con l’altro che si riferisce alla coscienza personale impegnata nel discernimento morale. La sua applicazione risulta non solo possibile ma anche efficiente nella ricerca comune del vero e del bene specialmente nell’ambito personale, sociale ed ecclesiale.
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FERNANDES, Earl Kenneth M. (U.S.A. – diocesi di Cincinnati):
Marital Sexual Communion and the Challenge of AIDS: A Critical Inquiry into the Responses of the Scientific and Political Communities and of
the Catholic Church to the Crisis of HIV and AIDS – 15 novembre 2007;
Moderatore: Prof. Cannon
HIV has infected 60 million people, of whom 20 million have died
of AIDS-related illness. HIV infection continues to spread and a cure for AIDS has yet to be found. AIDS affects nearly every part of society, including married persons and the institution of marriage. This
thesis examines the challenge of AIDS for marital sexual communion. This thesis proposes that the understandings of sexuality and
marriage by each community engaged in the fight against AIDS shape and drive the respective approaches to HIV prevention. The purpose of this thesis is to illuminate these differences in the hope of improving the collective response to AIDS. The thesis examines and
critiques the scientific response (largely biomedical); the political response (condom-promotion and the ABC approach); and the ecclesial response to the crisis (at the level of charity, teaching of values,
and prevention). The thesis includes an examination of the recent
debate within Catholic circles regarding the use of the condom to
prevent HIV. The thesis also examines the possibility of using the Alphonsian moral system of equiprobabilism to find a practical solution
to the problem.
GIORDANO, Bernardino (Italia – diocesi di Saluzzo): La relazione
uomo donna nell’attuale cammino della Chiesa italiana: Paradigma di ogni
relazione – 18 aprile 2008; Moderatore: Prof. Majorano
La ricerca promette di offrire un contributo all’approfondimento
del significato antropologico e teologico del rapporto uomo-donna e
delle sue più dirette implicazioni etiche a partire dalle coordinate di
un progetto, chiamato Progetto Parrocchia Famiglia, ordinato dalla
Conferenza Episcopale Italiana. La ricerca muove dal riconoscimento che la relazione uomo-donna è il nodo fondamentale dell’umano
ed è quindi giusto e a pieno titolo riservarle e assegnarle una dignità
ontologica come studiarne la portata teologica. La prospettiva di fon-
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do è quella che la riflessione uomo-donna, considerata nei propri ambiti concreti, naturali e rivelati, pur nella loro differenza è un fattore
decisivo di rinnovamento delle categorie di pensiero e di giudizio con
cui l’uomo riflette sulla sua realtà e sul suo fondamento. La riflessione uomo-donna sarà di primaria importanza perché tenteremo di dimostrare che può essere posta a paradigma di ogni relazione.
HANSON, Donald W. (U.S.A. – diocesi di San Angelo): The Concept
of “Restorative Justice” in relationship to the Current Judicial System of the
U.S.A.: A Moral Theological Evaluation – 14 dicembre 2007; Moderatore: Prof. Johnstone
The object of this study is to critically examine the present federal criminal justice system in the United States from a moral theological perspective. The just response of society towards criminal behavior in a country which incarcerates more of its citizens than any
other country in the world is built upon the theories of retributive
and utilitarian justices. A searched for solution to the problems of widespread incarceration and the crippling effects of punishment is
found in restorative justice. Using the ideas of restorative justice, the
Church, as a moral witness to these ideas, can enter the debate of legal justice and hopefully engage thoughtfully in transforming the criminal justice system in the United States.
HERTZFELD, Adam (U.S.A. – diocesi di Toledo): The Role of Spiritual Affectivity in Religious Conversion: A Study in the Life and Work of
Dietrich von Hildebrand – 21 maggio 2008; Moderatore: Prof. Hidber
This thesis focuses on the role of affectivity in religious conversion.
It does so through an exploration and assessment of the various interconnections between the anthropology, value philosophy, and spiritual
and moral theories of the philosopher Dietrich von Hildebrand (18891977). In particular, this thesis raises the questions of whether affectivity plays a necessary role in conversion, and whether it gives conversion its plenitude. With respect to the question of plenitude, this thesis also explores the question of what, according to von Hildebrand,
serves as the legitimate motivation for the affections in conversion.
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LOPES RICCI, Luiz Antonio (Brasile – diocesi di Bauru): Mistanásia Infantil e Pastoral da Criança: avaliação ético-teológica da Pastoral da
Criança no Brasil enquanto potencialização da cultura da vida – 17 dicembre 2007; Moderatore: Prof. Majorano
Mistanásia, para designar a morte precoce e evitável, é um conceito
que nesta pesquisa aplica-se ao tipo de mortalidade na infância encontrado no contexto brasileiro, diante da qual a Pastoral da Criança, um Organismo de ação social da Igreja do Brasil, apresenta-se como
resistência e alternativa. Ao ler a Pastoral da Criança pelo viés da mistanásia, enfatiza-se o caráter injusto da mortalidade na infância e,
correspondentemente, o alcance da contribuição ética desta Pastoral.
Para tanto, assume-se nesta reflexão ético-teológica uma metodologia que parte da concretude da vida, sobretudo dos mais pobres e vulneráveis, e propõe-se, ao final, um deslocamento de acento e alargamento da reflexão bioética para as questões quotidianas que afligem
a maioria da população. Trata-se de refletir a respeito da sobrevivência e conservação da vida com dignidade na ótica da responsabilidade moral pela vida que é sempre confiada a outrem com perspectiva
de futuro.
MORUMBWA, Lawrence Mandere (Kenya – diocesi di Kisii): Abortion, a Threat to Human Life: A Moral Reflection in Connection to Kenya
– 18 giugno 2008; Moderatore: Prof. Kowalski
Medical practice, born through science and technology for the sake of health services in society, guided by the principle of Hippocratic
Oath, is taking a different direction. In modern bioethics, it seems,
nothing is valuable or inviolable, except utility. Pregnancies by extramarital sex, biological, and other socio-economic and political are
“unwanted.” Private and autonomous morality claims that women
should have a right to abortion. The pressure to have legal abortions
in Kenya to curb maternal death, by “unwanted” pregnancies is false. While the Scriptures, indirectly, condemn abortion, the Church’s
Magisterium and the Bantu (Abagusii) tradition teach and believe
that a person is present in the human embryo from the moment of
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conception, and this life is sacred. Constitutionally, in Kenya abortion is a crime. In Abagusii, the purpose of existence is to transmit life. Legal abortion in Kenya will mean breaking chimuma (taboos)
against killing of innocent persons.
MURZINSKI, Pawel (Polonia – diocesi di Bialostocka): Il fenomeno
New Age come una nuova sfida culturale e spirituale. Le caratteristiche
principali nel confronto con la fede della Chiesa – 29 ottobre 2007; Moderatore: Prof. Kowalski
Il fenomeno New Age è particolarmente importante a causa della
sua presenza nei numerosi aspetti della cultura e della spiritualità
contemporanee, che lo rende ben diverso dalle altre sette e nuovi
movimenti religiosi che esistono e operano spesso al margine della
società. Riguardo all’ampiezza del tema volevo, comunque, limitarmi
ad argomenti a quanto pare particolarmente rilevanti: il fenomeno
New Age sullo sfondo del mutamento dinamico della cultura, una
percezione della realtà radicalmente nuova, un nuovo stile di vita e le
sue radici e una nuova sensibilità religiosa.
A partire da questi presupposti basilari si pretende di rendere
comprensibile il fenomeno New Age e di ricavarne le idee fondamentali per poterle confrontare con la fede della Chiesa, che comprende
la visione cristiana della realtà, l’ethos della vita cristiana e la sua gerarchia dei valori e, infine, la risposta pastorale della Chiesa adeguata alla sfida della New Age nella nostra cultura, soprattutto europea.
MWANDANJI, Valerius Andrew (Tanzania – diocesi di Mbeya):
Communal Ethics in the Political Thought of Nyerere – 9 giugno 2008;
Moderatore: Prof. McKeever
This dissertation studies the moral thought of J. K. Nyerere under the following aspects; the scandal of human suffering, injustice,
poverty and the widening gap between the poor and the rich as well
as the cry of the oppressed for justice, equality and liberation. This
situation indicates that certain values that could maintain harmonious life among the people in society have been lost. There is a
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need of conversion of heart and mind, change of personal and social
structures. We are convinced that the lost of values of solidarity and
fraternity can be recuparated fighting against individualism and egoistic ideologies which are the key obstacles to an authentic human
community. The thesis proposes African community ethics enlighted
by the Catholic social thought as a solution to cure wounds of the nation so as to create avenues for the promotion of greater justice, solidarity and love among the Tanzanian citizens.
NDREMANDINY, Christophe (Madagascar – c.s.g.b.p.): Fihavanana e solidarietà cristiana nella società globalizzata in Madagascar – 2
maggio 2008; Moderatore: Prof. Majorano
Questa tesi è il frutto di una ricerca dottrinale e scientifica in vista
di uno speciale approfondimento nell’ambito della Teologia Morale.
La globalizzazione è un argomento molto attuale che sta al centro di
un ampio dibattito. È un grande segno del nostro tempo e una vera
sfida morale. È necessario non lasciar prevalere la complessità che
questo fenomeno porta dentro di sé, bensì fare luce in esso per capire
e risolvere le problematiche. Questa tesi si propone di studiare il fenomeno della globalizzazione emerso nel Madagascar, e vi è in essa un
tentativo di risolvere i problemi della povertà in questo Paese.
OFODUM, Anselm Ifeanyichukwu (Nigeria – diocesi di Onitsha): The
Hermeneutics of Human Freedom as the Basic Attribute of Moral Responsibility. Moral Responsibility as the Ethical Implication of an Adequate Concept
of Human Freedom – 22 maggio 2008; Moderatore: Prof. Rehrauer
This doctoral thesis underscores the moral truth that human freedom is the primary attribute of moral responsibility. It is impossible
to talk about (moral) responsibility without a primary reference to
the freedom of the human person.
The issue of human freedom speaks of conscience which has a juridical function towards our use of freedom. Conscience makes our
freedom responsible. Hence we have a moral obligation for adequate and authentic conscience. An adequate conscience needs a forma-
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tion of conscience. This study therefore has a target of establishing
that an authentic morality requires interplay of freedom, conscience
and a strong sense of responsibility.
For a morally credible society there is need for a good harmony of
these moral attributes in the individual persons in the society. The
lack of such harmony creates anarchy in the society.
9.2. Dottori proclamati
Durante l’anno accademico 2007-2008, 23 studenti, ai quali è stato conferito il titolo di dottore in teologia con specializzazione in
teologia morale, hanno pubblicato, alcuni in versione integrale, la loro tesi dottorale:
BACCELLIERE, Domenico, La responsabilità e la sua rilevanza etica.
Presentazione e attualità della proposta di Hans Jonas. Roma 2007,
331 pp.
BROWN, Grattan Taylor, Institutional Conscience in Catholic Health
Care in the United States: Opening a Discussion. Excerpta, Roma
2007, 168 pp.
CHENDI, Augusto, La morte del Figlio. Il mistero del Crocifisso ed il suo
significato per la fondazione della teologia morale nella riflessione teologica di Hans Urs von Balthasar. Excerpta, Roma 2008, 202 pp.
CIUPA, Wieslaw Piotr, Il dibattito sulla GIFT tra i moralisti cattolici.
Excerpta, Roma 2008, 154 pp.
CONSORTE, Alfredo, Attività professionale e coscienza morale: Il contributo del Magistero della Conferenza Episcopale Italiana alla luce dell’insegnamento del Concilio Vaticano II. Excerpta, Napoli 2008, 139 pp.
CORBELLA, Carla, La proposta della fedeltà in un mondo che cambia:
Un percorso dialogico tra magistero e psicologia. Excerpta, Roma 2008,
82 pp.
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CULLINAN, Michael Patrick, Victor Paul Furnish’s Theology of Ethics
in Saint Paul. An Ethic of Transforming Grace. Roma 2007, 406 pp.
DE STEFANO, Dario, Morale cristiana e servizio ai “più piccoli”. Per
la difesa dell’embrione e degli ammalati di fine vita. Excerpta, Roma
2007, 228 pp.
DUMA, Bernadin, La coscienza e la reciprocità delle coscienze nel discernimento morale. Il significato del contributo di Bernhard Häring. Excerpta, Roma 2008, 128 pp.
FERNANDES, Earl Kenneth M., Marital Sexual Communion and the
Challenge of AIDS: A Critical Inquiry into the Responses of the Scientific and Political Communities and of the Catholic Church to the Crisis
of HIV and AIDS. Roma 2007, 421 pp.
GAVALDÀ RIBOT, Josep Maria, Cultura y homosexualidad. Consideraciones socioculturales, teológico-morales y pastorales del fenómeno en el
mundo occidental. Tarracone 2008, 280 pp.
GIORDANO, Bernardino, La relazione uomo donna nell’attuale cammino della Chiesa italiana: Paradigma di ogni relazione. Excerpta,
Roma 2008, 85 pp.
HANSON, Donald W., The Concept of “Restorative Justice” in relationship to the Current Judicial System of the U.S.A.: A Moral Theological Evaluation. Excerpta, San Antonio 2008, 185 pp.
HERTZFELD, Adam, The Role of Spiritual Affectivity in Religious
Conversion: A Study in the Life and Work of Dietrich von Hildebrand.
Roma 2008, 267 pp.
KIRUPANANTHAN, Alfred M., The Moral and Social Necessity for
Redemptive Peace through Forgiveness and Reconciliation: The Need for
Human Promotion and Inter-Ethnic Living in Sri Lanka. Excerpta,
Roma 2007, 332 pp.
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DANIELLE GROS
LOPES RICCI, Luiz Antonio, Mistanásia Infantil e Pastoral da Criança: avaliação ético-teológica da Pastoral da Criança no Brasil enquanto
potencialização da cultura da vida. Excerpta, Roma 2008, 167 pp.
MELEKU, Haile Gabriel, Monogamous Marriage: Among Wolaita
Christians of Ethiopia (1894-2004). Roma 2007, 347 pp.
MORUMBWA, Lawrence Mandere, Abortion, a Threat to Human Life: A Moral Reflection in Connection to Kenya. Excerpta, Roma 2008,
202 pp.
MURZINSKI, Pawel, Il fenomeno new age come una nuova sfida culturale e spirituale. Le caratteristiche principali nel confronto con la fede
della Chiesa. Excerpta, Roma 2007, 72 pp.
MWANDANJI, Valerius Andrew, Communal Ethics in the Political
Thought of Nyerere. Excerpta, Roma 2008, 79 pp.
TELLEZ VILLAMIL, Raul N., La Espiritualidad Conyugal en Perspectiva Latino americana a la Luz del Magisterio Conciliar y Pontificio mas reciente. Evolución Doctrinal, Fundamentación y Perspectivas
Pastorales. Roma 2008, 385 pp.
TRAN, Quoc-Bao, Ultimate end, intention and consequences of human
action. A critical reflection on Jeremy Bentham’s Utilitarian Ethics of
Happiness in the light of St. Thomas Aquinas’s teaching. Roma 2008,
289 pp.
VIZO, Visosieo Solomon, Children Should be Conceived and Born in
and Through Marriage. A Study of Human Procreation in the Light of
Relevant Church Documents – 1930 to 2005. Excerpta, Roma 2007,
106 pp.
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9.3. Licenziati in teologia morale
Durante l’anno accademico 2007-2008, 45 studenti hanno ottenuto la licenza in teologia morale:
AGUAYO VIRGEN, José de Jesus (Messico – diocesi di Guadalajara): Hacia una antropología de la sexualidad en una perspectiva teológico moral.
ANELLI, Silvia (Italia – diocesi di Roma): Libertà creativa nel dialogo
tra B. Häring e E. Erikson.
BARRERA PINZON, Alvaro (Messico – diocesi di Campeche): El
binomio verdad y amor en tensión dinamica. Una perspectiva teológica,
moral y pastoral.
BERARD, Wedner (Haiti – o.m.i.): La démocratie avec ses exigences
morales pour la politique selon Paul Valadier.
BEZERRA DE LIMA, Gilvan (Brasile – diocesi di Afogados Da Ingazeira): Ética comunitária nos empobrecidos do nordeste do Brasil a
partir do pensamento de Enrique Dussel.
BEZERRA DE QUEIROZ, Francisco Eliano (Brasile – s.d.b.): La
carità come fulcro nella formazione della coscienza. Una rilettura delle
indicazioni della Gaudium et Spes alla luce di Deus Caritas Est.
BILOUS, Viktor (Ucraina – diocesi di Kamyanets-Podilskiy): La formazione della coscienza nella luce di Deus Caritas est.
BORGES, Alexandre (Brasile – diocesi di Criciuma): O progresso da
biotecnologia e a promoçao da dignidade da pessoa – A proposta ético-teológica de Antônio Moser.
BORRELLI, Anna Paola (Italia – diocesi di Nocera-Sarno): Amore
coniugale e procreazione responsabile nell’Humanae vitae.
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CHAVEZ CORDERO, José Felix (Messico – diocesi di Chihuahua):
Las técnicas de reproducción humana: una alternativa digna de la misión de servicio a la vida?
CIUCIUI, Florian (Romania – diocesi di Oradea): I cristiani di fronte
alle leggi ingiuste.
DALENG, Edward Daniang (Nigeria – o.s.a.): Contradiction in the
Abortion Question: The Irreconcilable Claim that the Human Embryo
is a Human Being but not a Human Person.
DE SIMONE, Fiorenzo (Italia – diocesi di Rossano-Cariati): Il nuovo codice morale del cristiano nato dalla croce di Cristo. Un caso specifico: il matrimonio in Efesini 5,21-33.
EPHREM, Shinto (India – c.r.m.): Catholic Youth in Kerala and Globalization: Towards an Adequate Itinerary of Moral Formation for the
Catholic Youth in Kerala in the Era of Globalisation.
FERRARI, Vittorio (Italia – o.f.m.conv.): Verso un’etica trinitaria. Il
contributo di Chiara Lubich.
GATERA, Emmanuel (Rwanda – diocesi di Kibungo): De la “culture
de la mort” à la “culture de la vie”. Pour une lecture morale du génocide rwandais de 1994 à la lumière de l’Encyclique “Evangelium vitae”.
GENTILE, Elisa (Italia – diocesi di Cassano Ionio): Rapporto tra spiritualità e morale in Santa Teresa di Lisieux.
GONZALEZ, Rolando Danilo (Argentina – diocesi di Reconquista):
Libertad fundamental y responsabilidad moral: El desafío de la decisión
que “realiza” la persona en el amor.
GRIGOLETO, Sérgio (Brasile – diocesi di Umuarama): A saúde e a
pobreza no Brasil: um desafio ético-moral à luz da doutrina social da
Igreja.
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JOSEPH, Elsy (India – f.c.c.): Role of the Religious in the Moral Formation of the Youth towards Christian Maturity.
KARRER, Roman Franz (Svizzera – diocesi di St. Gallen): Der Beichtvater: Zeichen und Werkzeug der Werkzeug der Barmherzigen Liebe
Gottes zum Sünder.
KOSTYK, Taras (Ucraina – diocesi di Stryj): Virtues in the works of
Saint Maximus the Confessor.
LAVILLA, Reginaldo (Filippine – m.s.p.): A Free Response to Ordained
Priesthood and its Moral Implications in Seminary Education.
LÉAL-LUNA, Claudia (Cile – diocesi di Santiago): Moral Social en
Dialogo: Justicia Social en la Teoria de las Capacidades y en la Constitucion Gaudium et spes.
MALDUCA, Angelo (Italia – diocesi di Ozieri): La sintesi morale della Summa contra Gentiles di San Tommaso d’Aquino.
MANUEL, José Juma (Mozambico – o.f.m.): Impacto do mercado livre
no sistema económico dos países africanos à luz da doutrina social da Igreja: o caso particular de Moçambique.
MCTAVISH, James (Scozia – f.m.v.d.): Persuasion Through Character
in Ancient Rhetoric.
NJIRU, Angelus Njagi (Kenya – c.m.): The Moral Perspectives of Ethnic Violence in the Republic of Kenya.
NSOYUNI, Bertha Yurika (Camerun – s.m.f.): Human Sexuality and
the Call to Consecrated Life. A Case Study of Bamenda Ecclesiastical
Province (Cameroon – West Africa).
PAICKATTU, Thomas Joseph (India – c.m.i.): Religious Fanaticism
and Terrorism: An Appraisal in the Light of Catholic Social Teaching.
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DANIELLE GROS
PEREIRA RODRIGUES, Gilvan (Brasile – diocesi di Caetite): Eutanásia e mistanásia: um confronto ético-teológico a partir do nordeste
brasileiro.
PIERRE, Arlain (Haiti – c.s.): La giustizia verso i migranti nell’insegnamento sociale della Chiesa.
RADATTI, Michele (Italia – diocesi di Foggia-Bovino): L’uomo: creatura di Dio o prodotto delle biotecnologie?
RANAIVOJAONA, Salomon T. F. (Madagascar – o.s.s.t.): Revalorisation de la personne humaine face à la dégradation des conditions carcérales à Madagascar.
RUDAHIGWA CIZA, Louis Pasteur (Repubblica Democratica del
Congo – diocesi di Bukavu): Réflexion sur les causes et les conséquences de la guerre pour une paix perenne. Cas de la République Démocratique du Congo. Étude critique à la lumière de la Doctrine Sociale de
l’Église.
SAW MYAING THAN, Philip (Myanmar – diocesi di Yangon): Promotion of Human Rights: A Moral Study in the Context of Myanmar
(Burma).
SEQUINO, Sebastiano (Italia – diocesi di Aversa): La dimensione cristocentrica della vita morale. Alla luce di Veritatis Splendor e Deus
Caritas est.
SESAY, Francis (Sierra Leone – diocesi di Makeni): Treading the Path
to Fulfilment. The Response of Gaudium et spes to the Notion of the
Common Good in Christian Ethics.
STASHKIV, Iryna (Ucraina – diocesi di Buchach): La visione biblica
dell’atteggiamento dei genitori verso i figli. Elementi di valutazione morale.
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CHRONICLE / CRÓNICA / CRONACA
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TAMEZ VILLARREAL, Oscar Efrain (Messico – diocesi di Monterrey): Hacia el final de la vida. Propuesta cristiana para una adecuada atención médico-pastoral de los enfermos terminales.
THOMAS PARUVANANI, Shaini (India – s.a.b.s.): Formation of Self
Identity in Religious Life.
TIN WAI, Peter (Myanmar – diocesi di Pyay): Promotion of Human
Dignity: A Moral-Theological Question in the Contemporary Society of
Myanmar.
VEGA GERALDO, Tomas (Messico – diocesi di La Paz): La sociedad
moderna en conflicto entre la cultura de la vida y la cultura de la muerte.
VILELA DA SILVA, Mauro (Brasile – c.ss.r.): Violenza contemporanea: un intento di una risposta morale.
ZHANG, Siqian (Cina – c.d.d.): Population, Civil Law and Abortion. A
Moral Evaluation of the Birth Planning Policy in China.
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Books Received / Libros recibidos
Libri ricevuti
ALBARELLO Duilio, La libertà e l’evento. Percorsi di teologia filosofica dopo
Heidegger, “QUODLIBET” 19, Edizioni Glossa, Milano 2008, 328 p.
ALIOTTA M. P. – CONSOLI S. – LONGHITANO A. – ZITO G., Studio
Teologico S. Paolo, istituzione, persone, attività 1969-2008, Klimax Edizioni, San Gregorio di Catania 2008, 318 p.
BENNÀSSAR BARTOMEU, Des de la finestra del càncer. Diari d’un Sézary
(2005-2007). Pròleg: Dr. Damià Pons i Pons (Maregassa 12), Lleonard Muntaner Editor, Palma (Mallorca) 2008, 392 p.
BENTO LUIS ANTONIO, Bioética. Desafios éticos no debite contemporâneo,
Paulinas, São Paulo 2008, 462 p.
BIANCARDI GIUSEPPE (a cura di), Pluralità di linguaggi e cammino di fede (Associazione Italiana Catecheti), ELLEDICI, Leumann (Torino)
2008, 264 p.
BORGONOVO G. – PETROSINO S. – SEGALLA G. – VIGNOLO R., Scrittura e memoria canonica. All’incrocio tra ontologia, storia e teologia (Atti
del VII Seminario Biblico in onore di Mons. Giuseppe Segalla Milano, 22 maggio 2006), Edizioni Glossa, Milano 2007, 120 p.
CONIGLIARO FRANCESCO, Proceduralità e trascendentalità in J. Habermas. Una tensione non-contemporanea e il suo significato antropologico, etico e politico, Giunti, Studio Teologico S. Paolo, Catania 2007, 352 p.
CONSOLI SALVATORE E ROCCA VITTORIO (a cura di), Embrioni, cellule e persona: biomedicina, giurisprudenza ed etica a confronto (Quaderni di
Synaxis 21, Synaxis XXV/3 – 2007), Giunti, Studio Teologico S. Paolo, Catania 2008, 178 p.
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BOOKS RECEIVED / LIBROS RECIBIDOS / LIBRI RICEVUTI
CRAIG STEVEN TITUS (edited by), On wings of faith and reason. The
Christian Difference in Culture and Science (The John Henry Cardinal
Newman Lectures, vol. 2, The Institute for the Psychological Sciences Press), Arlington, Virginia 2008, 155 p.
CURRAN E. CHARLES, Catholic Moral Theology in The United States. A
History, Georgetown University Press, Washington D. C. 2008, 353 p.
ELSNER THOMAS R., Josua und seine Kriege in jüdischer und christlicher
Rezeptionsgeschichte, Theologie un Frieden, Bd. 37, Verlag W. Kohlhammer GmbH, Stuttagrt 2008, 336 p.
GRUPPO ITALIANO DOCENTI DI DIRITTO CANONICO (a cura di), Libertà religiosa e rapporti Chiesa – società politiche (XXXIII Incontro di
Studio Hotel Planibel di La Thuile (AO) 3-7 luglio 2006, Associazione Canonistica Italiana), Edizioni Glossa, Milano 2007, 251 p.
GUIDO GATTI, Etica della comunicazione, LAS, Roma 2008, 208 p.
HOLLENBACH DAVID (ed.), Refugee rights. Ethics, advocacy, and Africa,
Georgetown University Press, Washington, D. C. 2008, 264 p.
KREMER MARKUS, Den Frieden verantworten. Politische Ethik bei Francisco Suárez (1548-1617) (Theologie und Frieden 35), Verlag W.
Kohlhammer, Stuttgart 2008, 291.
LIEVENS THIERRY, L’éthique comme vocation. Se laisser choisir pour
choisir. Préface de Jean-Marie Hennaux, Éditions Lessius, Bruxelles
2007, 282 p.
MATTISON III WILLIAM C., Introducing Moral Theology. True Happiness and the Virtues, Brazos Press a division of Baker Publishing
Group, Grand Rapids (Michigan) 2008, 429 p.
NAICKANPARAMPIL MICHAEL, Following Jesus. The Vision of Christian
Discipleship in the Gospels, Asian Trading Corporation, Bangalore
2007, 253 p.
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BOOKS RECEIVED / LIBROS RECIBIDOS / LIBRI RICEVUTI
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PARNOFIELLO GIULIO, Azione comunicativa e teologia morale. La rilevanza etica della teoria di J. Habermas, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani
2008, 256 p.
REPOLE ROBERTO (a cura di), Il corpo alla prova dell’antropologia cristiana (Associazione Teologica Italiana), Edizioni Glossa, Milano 2007,
196 p.
RICHTER PAUL, Der Beginn des Menschenlebens bei Thomas von Aquin,
Studien der Moraltheologie, Band 38, LIT Verlag, Berlin 2008, 234 p.
RUGGIERI GIUSEPPE (a cura di), Io sono l’altro degli altri. L’ebraismo e il
destino dell’Occidente (Quaderni di Synaxis 19, Quaderni del CeSIFeR
4), Giunti, Studio Teologico S. Paolo, Catania 2006, 309 p.
RUSSO GIOVANNI (a cura di), La speranza: attesa di un eterno già donato. Commenti all’Enciclica “Spe salvi” di Benedetto XVI, Editrice
Coop. S. Tom., Messina 2008, 199 p.
SAPUPPO ANTONIO, Le cellule staminali e la terapia genetica. Aspetti
scientifici, antropologici ed etici, Giunti, Studio Teologico S. Paolo, Catania 2007, 152 p.
SARACENO LUCA, La vertigine della libertà. L’angoscia in Sören
Kierkegaard, Giunti, Studio Teologico S. Paolo, Catania 2007, 216 p.
SARTORI LUIGI, Il gusto della verità. Scritti lasciati in eredità all’Istituto
di Studi Ecumenici S. Bernardino – Venezia, Quaderni di Studi Ecumenici 16, I. S. E. “San Bernardino”, Venezia 2008, 610 p.
SAUNDERS CICELY, Vegliate con me. Hospice: un’ispirazione per la cura
della vita, EDB, Bologna 2008, 106 p.
SORAVITO LUCIO – BRESSAN LUCA (a cura di), Il rinnovamento della
parrocchia in una società che cambia, Edizioni Messaggero Padova, Padova 2007, 158 p.
VICINI ANDREA, Genetica umana e bene comune, Edizioni San Paolo,
Cinisello Balsamo (Milano) 2008, 578 p.
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INDEX OF VOLUME 46 (2008)
ÍNDICE DEL VOLUMEN 46 (2008)
INDICE DEL VOLUME 46 (2008)
In Memoriam
LAGE Francisco, Omelia per il funerale del Padre Lorenzo Alvarez Verdes . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
LAGE Francisco (a cura di), Pubblicazioni del Professore Lorenzo Alvarez Verdes . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
7-13
15-19
Articles / Artículos /Articoli
AMARANTE Alfonso V., Dottrina cristiana alfonsiana . . . . . . .
BILLY Dennis J., Contemplating the Life and Ministry of
Christ. Emerging Guidelines for Christian Living . . . . . .
BILLY Dennis J., The Vocation of the Catholic Moral Theologian Formed in the Alphonsian Tradition . . . . . . . . . . . .
BOTERO J. Silvio Giraldo, “Doctrina – vida”: una postura dialéctica de frente a la Humanae vitae . . . . . . . . . . . . . . . . . .
BOTERO J. Silvio Giraldo, La teología del matrimonio cristiano en el pensamiento de Benedicto XVI. Nuevas perspectivas . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
GROCHOLEWSKI Zenon, La legge naturale nella dottrina della
Chiesa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
JAKOVLJEVIĆ Dragan, Poppers Vorstoss zum “negativen Utilitarismus”? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
KOWALSKI Edmund, Quale “qualità” della vita umana? Approccio antropologico-etico al concetto di vita nella discussione bioetica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
MCKEEVER Martin, The Originality of Alasdair MacIntyre’s
Reading of Aquinas on Justice . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
PETRÀ Basilio, Costituzione ecclesiale del cristiano e formazione del giudizio della coscienza. Un saggio tra Oriente e Occidente . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
469-485
433-453
105-114
519-538
115-145
383-412
203-232
233-259
501-518
51-79
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INDEX OF VOLUME 46 (2008)
QUARANTA Giuseppe, Padre Bernhard Häring. Un teologo
“capace di futuro”? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
ROSSETTI Carlo L., “Filialità” e vita cristiana. Saggio sul fondamento antropologico della morale: coscienza filiale e solidarietà fraterna . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
SCHALLENBERG Peter, „Der Mensch wird ein Wesen, das es
nicht gibt“. Zur theologischen Ethik als Bewegung der
Konversion bei Romano Guardini . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
SCOLA Angelo, La luce della “Moral Insight” . . . . . . . . . . . . .
TREMBLAY Réal, Sequela et radicalisme . . . . . . . . . . . . . . . . . .
WITASZEK Gabriel, La sapienza della sofferenza di Giobbe. La
morale “non premiata” . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
ŽÁK Lubomir, L’alternativa dell’azione cristiana di Max Josef
Metzger al messianismo del Terzo Reich. Aspetto sociale,
pacifista ed ecumenico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
645
487-500
21-49
147-164
413-432
455-468
81-103
165-201
Reviews / Recensiones / Recensioni
ALCAMO Giuseppe, La catechesi in Sicilia: tra il Concilio Vaticano
II e il Giubileo del 2000 (Alfonso V. Amarante) . . . . . . . . . .
ASTI Francesco, Dire Dio. Linguaggio sponsale e materno nella
mistica medioevale (Alfonso V. Amarante) . . . . . . . . . . . . . .
CANTELMI Tonino – BARCHIESI Rachele, Amori difficili. La crisi della relazione interpersonale e il trionfo dell’ambiguità (J. Silvio Botero Giraldo) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
CIATTINI Carlo, Presbitero e dottrina sociale della Chiesa (Domenico Santangelo) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
CHIAVACCI Enrico, Teologia morale fondamentale (Henryk
Ćmiel) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
D’AGOSTINO Francesco – PALAZZANI Laura, Bioetica. Nozioni
fondamentali (Maurizio P. Faggioni) . . . . . . . . . . . . . . . . . .
FRATTICCI Walter, Il bivio di Parmenide ovvero la gratuità della
verità. Modalità di ricerca filosofica di inizio millennio (Raphael
Gallagher) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
JAN PAWEŁ II, Encyklopedia nauczania moralnego ( JOHN PAUL II,
Encyclopedia of Moral Teaching) ( Jerzy Gocko) . . . . . . . . . . .
MELINA Livio – NORIEGA José – PÉREZ-SOBA Juan José, Camminare nella Luce dell’Amore. I fondamenti della morale cristiana (Gabriel Witaszek) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
293-296
297-301
301-304
304-312
312-317
318-321
539-543
543-545
546-550
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INDEX OF VOLUME 46 (2008)
NEBEL Matthias, La catégorie morale de péché structurel. Essai de
systématique (Aristide Gnada) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
RUIZ ALDAZ Juan Ignacio, El concepto de Dios en la teología del
siglo II. Reflexiones de J. Ratzinger, W. Pannenberg y otros
(Czesław Rychlicki) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
SCHALLENBERG Peter, Jenseits des Paradieses. Ethische Anstöße für
den Alltag (Manuel Wluka) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
VENDEMIATI ALDO, Universalismo e relativismo nell’etica contemporanea (Alberto Onofri) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
WETTACH-ZEITZ TANIA, Ethnopolitische Konflikte und interreligiöser Dialog. Die Effektivität interreligiöser Konfliktmediationsprojekte analysiert am Beispiel der World Conference on Religion and Peace-Initiative in Bosnien-Herzegowina (Vincenzo
Viva) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
WOODS Thomas E. JR., Come la Chiesa cattolica ha costruito la
civiltà occidentale (Domenico Santangelo) . . . . . . . . . . . . . .
ZAMBONI Stefano, «Chiamati a seguire l’Agnello». Il martirio,
compimento della vita morale ( Jules Mimeault) . . . . . . . . . . .
321-324
324-330
551-557
557-562
562-567
568-571
330-335
Book Presentation / Presentación del libro /
Presentazione del libro
CULLINAN Michael Patrick, Victor Paul Furnish’s Theology of
Ethics in Saint Paul. An Ethic of Transforming Grace.
Relazione di Prosper GRECH . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
TREMBLAY Réal – ZAMBONI Stefano (a cura di), Figli nel Figlio.
Una teologia morale fondamentale.
STOCK Klemens, L’uso della Sacra Scrittura . . . . . . . . . . .
LUÑO Angel Rodríguez, Aspetti etici . . . . . . . . . . . . . . . . .
SANNA Ignazio, L’impostazione filiale . . . . . . . . . . . . . . . . .
TREMBLAY Réal, Epilogo. “Un Figlio ci è stato dato”
(Is 9, 5) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
337-346
xxx-xxx
573-578
579-585
586-600
601-602
Tesi Accademia Alfonsiana
CULLINAN Michael Patrick, Victor Paul Furnish’s Theology of
Ethics in Saint Paul. An Ethic of Transforming Grace . . . . . . 261-291
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International Conference / Congresso Internacional /
Congresso Internazionale
DEL MISSIER Giovanni, Cronaca del congresso internazionale
della Pontificia Academia pro Vita “Accanto al malato inguaribile e al morente: orientamenti etici ed operativi” (Città
del Vaticano, 25-26 febbraio 2008) . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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Index of volume 46 (2008) / Índice del volumen 46 (2008)
/ Indice del volume 46 (2008) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 644-647
Studia_Moralia_46/2_2008
4-11-2008
18:36
Pagina 648
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Tipografia Mancini s.a.s. - 2008
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