Vittorino Andreoli
L’educazione
(im)possibile
Rizzoli
Proprietà letteraria riservata
© 2014 RCS Libri S.p.A., Milano
ISBN 978-88-17-07217-5
Prima edizione: gennaio 2014
Realizzazione editoriale: studio pym / Milano
Premessa
Educazione e educare sono ormai parole vuote, ridotte
a recipienti destinati a contenere qualsiasi cosa: oggetti
ancora buoni, e poi tanti rifiuti.
Eppure risuonano come fossero parole sacre.
Mi ricordano il folle della Gaia scienza di Friedrich
Nietzsche, che gira per il mercato gridando: «Dio è morto, noi l’abbiamo ucciso, io e voi».
Dio non può morire, ma è come non esistesse affatto.
Educazione: un termine di grande lignaggio, che ora è
morto ma continua a essere nominato come si fa anche
per le persone care che non ci sono più. Ci si aggira alla
ricerca di segni per farle rivivere, evocarle, anche se sono
ridotte a spettri, quegli spettri che Amleto scorgeva tra
la nebbia della propria mente e con cui farneticava. Ora
vedeva delle persone, dopo un poco un’altra cosa.
«Come posso fare il padre con mio figlio che mi sfugge navigando per il nuovo mondo di Internet che io a
malapena conosco?»
«Sono terrorizzata dall’idea che mia figlia possa buttare il proprio corpo alle ortiche, perdersi sotto i miei occhi
che però non vedono. Lei non parla, è muta di fronte
anche alla mia angoscia.»
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L’educazione (im)possibile
«Non so se essere severo di fronte ai comportamenti
di mio figlio che mi si presenta nelle vesti di un nemico.
Cosa mi suggerisce di fare?»
Educare vuol dire insegnare a vivere in un mondo così
vasto, così mutevole da ridursi a mistero.
Educare un figlio misterioso a vivere dentro un mondo incomprensibile.
E intanto ascolto gli adolescenti, figli dei genitori smarriti che mi chiedono che fare, li vedo anche se non mi
chiamano, anche se la loro voce è afona.
Mi pare che vogliano dirmi di essere stanchi di un padre che urla, di una madre che piange. Vorrebbero essere
senza padre, quando ce l’hanno, e quando è lontano o
non c’è, lo sognano.
Padre e figlio, una combinazione impronunciabile, la
e che unisce è diventata una o di opposizione: padre o
figlio.
Nella famiglia domina il principio della lotta e, nel migliore dei casi, non si spara e si cerca la via di un armistizio: dalla guerra calda, quella della violenza, alla guerra
fredda.
«Come posso insegnare l’algebra in mezzo al rumore
di una classe che ritiene la mia materia un’inutile decorazione per il tempo presente? Come faccio a punire, quando sento che questo atteggiamento incita una opposizione ancora maggiore? Vengo a scuola e sono avvolto dalla
paura dei miei stessi allievi. Mi fanno paura.»
La mia mente è bombardata da queste domande a cui
non so dare una risposta. Quando mi pare di poter sostenere con chiarezza una posizione, poco dopo sono preso
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Premessa
dal dubbio che la mia visione sia legata a un passato. Un
passato che rimanda solo a un anno fa, eppure è roba
defunta, arcaica.
Ho iniziato a scrivere queste pagine partendo dal dubbio, per dare un senso all’educazione, per salvare questa
parola dall’oblio e dalla banalità.
La banalità dei significati.
E ho sognato che l’educazione, che oggi mi appare
impossibile, possa diventare possibile.
Scrivendo ho capito che per questa metamorfosi non
basta un professore, serve un’intera società, una società
che abbia la forza di cambiare rotta. Io e ciascuno di voi.
Intanto io tento di fare la mia parte, con passione.
L’educazione mancata
L’educazione imperativa:
quando educare significa sottomettere
Fare la storia dell’educazione significa ripercorrere al
contempo quella del potere all’interno della famiglia, delle scuole e delle piccole società.
La macrostoria, la Storia maiuscola, che concentra la
sua analisi sulle azioni dei governi e degli Stati, dedicando capitoli e capitoli alle guerre, per la quale Marc
Bloch coniò la definizione di “histoire bataille”, si contrappone alla microstoria, che comprende anche le vicende legate ai diversi sistemi educativi. È interessante
notare che lo storico francese, delineando il suo nuovo
approccio di studio, concentrò la sua attenzione proprio
sul matrimonio, un’istituzione che, tra l’altro, permette
di esaminare il potere dell’uomo sulla donna, del marito
sulla moglie.
Non ho mai nascosto di condividere il pensiero di Thomas Hobbes, secondo il quale la storia umana è il racconto della pulsione che egli aveva chiamato dell’“homo
homini lupus”. È innegabile che il potere è la forza dominante in tutte le specie animali, eppure nel caso dell’uomo, considerato all’apice dell’evoluzione, si è quasi sempre relativizzato questo istinto in nome della supremazia
della ragione. Una presunzione che spinge a dimenticare
la sua sconvolgente violenza.
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L’educazione (im)possibile
Per parlare di educazione si deve partire dal ritmo
delle generazioni e, in modo particolare, dal tempo necessario per passare dalla condizione di figlio a quella di
genitore. L’educazione del resto è effetto del bisogno primario di prolungamento della specie, che si lega all’imperativo biblico del multiplicamini.
I termini padre e madre sono molto più recenti rispetto a quello di genitore (che accomuna le due figure) e
delineano una separazione che ha come fondamento la
supremazia dell’uomo sulla donna: da pater deriva infatti patrimonium (la ricchezza), da mater, matrimonium (il
dovere di essere legata). E questo è in fondo l’esito di
una battaglia, poiché la figura materna e quella paterna
si sono per un lungo periodo contese la predominanza
nell’educazione dei figli.
Una contrapposizione che si era già rivelata in ambito
religioso, dove la Dea Madre e il Dio Padre hanno avuto
in fasi diverse il sopravvento l’una sull’altro.
Il diritto paterno al ruolo educativo si affermò all’incirca diecimila anni fa, in corrispondenza con un grande
cambiamento della struttura sociale, quando l’uomo, sino ad allora cacciatore o semplice raccoglitore dei prodotti della terra, scopre l’agricoltura.
Il primo effetto fu la transizione dal nomadismo alla stabilitas loci, alla stanzialità, che prevedeva l’insediamento permanente in una casa per la famiglia e in un
villaggio per la comunità. L’uomo viveva non più di ciò
che la terra dava spontaneamente, ma di quanto lui stesso coltivava. È in questo contesto che emerge la figura
dell’homo genitor, cioè di colui che, con un gesto erotico,
la copulazione, produce nella donna un effetto, la nascita, a nove mesi di distanza, di un figlio.
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L’educazione imperativa
Prima di allora, la filiazione era un fenomeno esclusivamente femminile, che prevedeva semmai l’intervento
di uno spirito che rendeva fertile, dunque gravida, una
donna. Era insomma necessario riferirsi a qualche Ente,
sia pure invisibile, per poter distinguere le donne fertili
da quelle sterili e dare ragione della sterilità delle donne
in alcune fasi della loro vita. Sia l’escissione (asportazione del clitoride e delle piccole labbra) che l’infibulazione
(asportazione del clitoride nelle varianti parziale o totale)
avevano lo scopo di rendere possibile, o facilitare, l’entrata agli spiriti fecondatori.
Ma con l’osservazione che possiamo definire scientifica, certamente favorita dal nuovo contesto agricolo e in
particolare da una nuova familiarità con il comportamento degli animali addomesticati e con i loro sistemi di riproduzione, emerge il ruolo dell’uomo come sostituto degli
spiriti.
È naturalmente di grande interesse rilevare come tutto quanto era stato attribuito agli dèi venne poi assegnato agli uomini.
Così l’espressione “possedere una donna” per fecondarla, riferita all’intervento degli spiriti, è rimasta per indicare quello dell’uomo, anche se con una ancor più precisa dimensione fisica e carnale.
Prima di questa grande scoperta, che alcuni antropologi attribuiscono alla popolazione dei natufiani, dominava la religione della Dea Madre, la Dea genetrix, portatrice di un sommo potere: senza di lei la società non
poteva nemmeno configurarsi. Per un lunghissimo tratto di storia la donna, responsabile della nascita e della
crescita dei figli, è stata il vero dominus delle società, anche laddove la caccia era attività specifica del maschio
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