URGE?
RIFARSI
IL
SENNO.
ALESSANDRO BERGONZONI
La visione, l’immaginazione, l’onirico, l’inconscio, forse più reali del reale:
maestosità regali che reggono il flusso del chiamare fuori il pensiero, dell’e-vocare,
dell’in-vocare, della voce che sgorga dal sé, dal me, dal noi, dal noi-stessi, dal
noi-tutti, dall’uomo, verso mete trascendenti e imperscrutabili, ma anche discendenti,
perché tendenti verso una coscienza umana, terrena; un essere dotato di corde vocali,
di vibrazioni sonore piene di senso, ma attanagliato da altre corde che soffocano e
incatenano la mente che sola, libera, ha il dovere di pensare e di far pensare, di
fecondare e di partorire meditazioni, mediazioni, e senza media, mega-azioni coniugate
al plurale, comuni-c-azioni, ma indipendenti, inter-dipendenti, auto-dipendenti,
autonome, serve soltanto della legge del pensiero, unico nomoteta necessario e cura
terapeutica del male soporifero del nostro sonno del non considerare.
Il cancro del nostro cervello in metastasi culturale richiede un’operazione
d’emergenza, un soccorso immediato che ci risvegli da svegli, attraverso simboli,
interpretazioni, sogni, allucinazioni, esorcizzazioni, immagini, angosce primordiali,
accessi privilegiati per penetrare quell’infinita vastità che, soltanto se educati ad
una correzione ottica rispetto alla deformità delle nostre minime visioni, ci possa
svelare la complessità di cui e da cui siamo permeati. Urge liberarsi dal sonno, non
dal sogno, ma dal bi-sogno, dalle richieste continue e desiderate ma vuote e
inappagate, e chiedersi piuttosto i perché: urgono domande, e dei doveri, anche quelle
del “dov’eri?”, del dove eravamo mentre credevamo di riflettere ma soltanto un
riflesso reattivo, nocivo, emanavamo dal nostro diritto a rispondere a questioni non
poste, ma imposte, decise e condizionate da un serial-chi?, di cui non conosciamo che
la
subdola
ripetitività
nel
perpetrare
l’assassinio
dello
spirito,
anima
dell’idea? Soltanto la parola, l’arte e l’arte della parola possono liberarci da
questa detenzione coatta, in cui l’attore più istrione ed estroso di noi stessi, il
pensiero, sembra brancolare nel buio, protraendo la rinuncia alla ricerca delle radici
del suo colmarsi nel tutto e del suo votarsi all’incommensurabile per prendere forma.
Bergonzoni si trasforma in un igienista mentale: l’incantatore del verbo questa volta
si dota di un filo intermentale lungo centocinque minuti, nel tentativo di ripulire il
meccanismo di anestetizzazione attivato dalla consuetudine, dall’ordinario, dal
precostituito e dall’assenza del dubbio; attraversando l’ermeneutica onirica, la
favola e la quotidianità, l’attore si muove come se stesse procedendo nei meandri
della mente d’ogni uomo, ipnotizzando lo spettatore tra allitterazioni, consonanze,
giochi
di
parole
intessuti
d’una
comicità
irresistibile
e
inarrestabile,
e
conducendolo a realtà altre che spesso, seppure antitetiche, coesistono a quelle che
comunemente si ammettono come possibili. Un disvelamento straniante che rigenera il
pensiero in un moto ondoso che pare non infrangersi mai, senza posa fluire all’interno
d’una scena che risponde alle esigenze d’un monologo che deve lasciare spazio alla
creazione linguistica, mentale ed immaginifica: strutture in ferro che diventano una
cella o un tavolo su cui scrivere una sceneggiatura e aste microfoniche sormontate da
luci che appaiono come icone di un’altra realtà spettatrice, o attrice, in un
caleidoscopico inganno di specchi.
Così, in un’opera che echeggia il paradigma del “nessun dogma”, l’invito dell’autore è
quello di stare colmi, e non calmi, ma pieni di pensiero, e di parola: cercando di
non
rimanerne meri tecnici fatici e incantevoli affabulatori, è possibile servirsi
anche degli strumenti
della retorica, che non è altro che la figura e la
rappresentazione della parola stessa, espressione e riflesso della mente, matrice e
causa
della
demistificazione
di
ogni
forma
preconcetta
e
non
disposta
all’apertura.Perché se efficace denuda, togliendo il velo anche al pensiero più
pudico.
Ingrid Leschiutta