La Musica dell’universo “Nel principio Eru, lUno, che nella lingua elfica è detto Iluvatar, creò gli Ainur dalla propria mente; e gli Ainur intonarono una grande musica al suo cospetto. In tale Musica, il Mondo ebbe inizio, poiché Iluvatar rese visibili il canto degli Ainur e costoro videro una luce nell’oscurità.” Da JRR Tolkien – “Il Silmarillion – Valaquenta o Novero dei Valar” Se pensate che questa sia una affermazione troppo fantasiosa sentite questa: « In principio, c'era colui che è "la Parola". Egli era con Dio,Egli era Dio.Egli era al principio con Dio. Per mezzo di lui Dio ha creato ogni cosa. Senza di lui non ha creato nulla. Egli era la vita e la vita era luce per gli uomini. Quella luce risplende nelle tenebre e le tenebre non l'hanno vinta. » (Giovanni 1,1-5) Musica di Mozart 1. Messa da requeiem In queste frasi è annegata la segnalazione della musica come atto creativo dell’universo. La potenza evocativa e generatrice del suono è un concetto presente in molte culture (inserire citazioni) e compare in varie cosmogonie ancestrali come quella di alcuni gruppi di aborigeni australiani, secondo la quale gli oggetti del mondo sono stati creati dal canto di gigantesche creature totemiche. Anche alcuni studiosi moderni di fisiologia dell’apparato uditivo affermano che “Tutto è suono”. Il fisiologo francese Tomatis [2] si spinge ancora oltre e passando in rassegna le situazioni in cui la funzione dell’udito ci accompagna durante la vita, arriva a postulare che la struttura stessa dell’universo sia il riflesso di un canto primigenio che non solo è effetto della primordiale esplosione (big bang) ma ne è la causa e il portatore del progetto di ciò che ad oggi vediamo nello spazio. Senza seguire questa teoria con i suoi affascinanti presupposti possiamo invece riscontrare l’importanza della percezione sonora nella nostra vita, percezione che comincia fin dalla gestazione. E’ noto che anche il feto a partire dal quarto mese ha sviluppato tutti gli organi necessari all’ascolto. L’uomo può percepire suoni attraverso l’apparato uditivo tra i 20 Hz e i 20Khz, ovvero uno spettro di quasi 20000 cicli al secondo, corrispondenti a 10 ottave, con una precisione del 3 per mille, ovvero un orecchio medio è in grado di distinguere come diverse frequenze distanti solo tre Hz su mille (es. 1003 e 1000 e 997Hz sono percepite come suoni diversi). Questa precisione è dovuta alla particolare conformazione della sequenza degli organi come mostrato nella figura a fianco che mostra l’anatomia dell’orecchio medio (a sinistra risiede l’orecchio esterno oltre la membrana timpanica, a destra l’orecchio interno). L’orecchio interno è formato da diverse componenti, che sostengono due funzioni, quella dell’equilibrio grazie all’apparato vestibolare formato dal vestibolo e da tre canali semicircolari e l’apparato uditivo che termina nella coclea. La coclea, che ha una forma particolarmente adatta a separare i suoni multipli in componenti di isofrequenze che trasmette al nervo cocleare tramite una serie di cellule specializzate, collettivamente chiamate organo di Corti. Quindi l’orecchio e l’apparato uditivo presiedono non soltanto alle funzione dell’ascolto ma anche al controllo della posizione del corpo nello spazio. Una ipotesi poetica e affascinante congettura che questa combinazione di acustica e geolocalizzazione serva per allineare il corpo, inteso come antenna, rispetto alle vibrazioni sonore dell’universo. Più limitatamente, questo delicato meccanismo di precisione, comparabile a quella di un cronografo meccanico, ci collega all’ambiente che ci circonda, riconoscendo e selezionando le informazioni che da prima della nascita fino alla morte ci giungono continuamente. L’importanza di un buon rapporto con il bagno sonoro che ci circonda pare fondamentale per il nostro equilibrio psicofisico. Lo dimostrano esempi inversi, in cui sollecitazioni insane di tipo sonoro producono stress, insonnia, astenia e altre patologie. Ma se il suono può portare disturbi li può anche curare. Pare molto efficace la musicoterapia per aspetti riabilitativi nella cura di patologie neurologiche o psichiatriche. Quello che è certo è che esiste una componente sonora ambientale che è in grado di interferire con aspetti psichici, fisici e con l’evoluzione in ogni istante della vita di una persona. Musica di Mozart 2 Aria da Il flauto magico Fin’ora abbiamo affrontato soltanto gli aspetti antropocentrici della questione suono. Ne abbiamo apprezzato il delicato disegno anatomico, la profondità dell’impatto sociale e culturale. Ma da un punto di vista scientifico come possiamo collegare una serie di percezioni, di impressioni quasi subliminali con il rigore di una descrizione matematica. Che la musica sia una rappresentazione matematica di sequenze armoniche di suoni è noto, com’è altrettanto noto che una descrizione puramente oggettiva non può spiegare il perché una musica sia esteticamente gradevole, o misurare con precisione deterministica la bellezza di una melodia. Ma addentrandoci nelle pieghe della storia della scienza potremmo scoprire episodi interessanti che sembrano risolvere la dicotomia. Racconteremo una storia, vera, di due ragazzi che inseguendo la propria passione siano arrivati al Nobel praticamente per caso [4]. “Penzias e Wilson erano due giovani praticamente neolaureati in fisica e astronomia. Invece seguire la carriera accademica, accettarono un’offerta di lavoro dei laboratori Bell. Una mossa che si sarebbe rivelata furbissima: entrambi erano interessati alla radioastronomia, e i laboratori Bell non sapevano più cosa farsene di una gigantesca antenna che era servita per ricevere i segnali dei primi satelliti per telecomunicazioni. A Penzias e Wilson sembrò il giocattolone dei sogni. Non c’era niente di meglio per captare le onde radio emesse dalla nostra galassia. Mentre erano lì ad armeggiare per rimettere a posto l’antenna, si accorsero che il gingillo non funzionava alla perfezione. Ogni volta che provavano una sequenza di controllo le misure erano disturbate da un rumore fastidioso, tipo il ronzio che si sente alla radio tra un canale e l’altro. Era un rumore così debole che nessuno aveva mai considerato seriamente. L’ingegnere che aveva a suo tempo testato l’antenna l’aveva catalogato considerandolo un normale disturbo elettronico. A loro non parve un dettaglio trascurabile e questo probabilmente fu il vero talento dei due giovani scienziati. Inoltre questo disturbo avrebbe impedito di raccogliere le misure con la precisione necessaria. Quel rumore andava eliminato. Le pensarono tutte. "Dunque. Abbiamo smontato e rimontato l’accrocco?". "Due volte, tutto uguale". "Cavi, giunzioni, saldature? Controllate?". "Tutto a posto". "Forse stiamo ricevendo segnali da New York". "Abbiamo puntato l’antenna in ogni direzione. Non cambia niente". "Gli ufo?". "Piantala". "Scherzavo. Aspetta: i piccioni". "I piccioni cosa?". "C’era un nido di piccioni nell’antenna". "Ehm, c’era". "Come c’era? Non li avrai mica...?". "Ho pulito tutto, dopo". Lo avrete intuito: i poveri piccioni non c’entravano niente. A questo punto si era ormai sparsa la voce che ai laboratori Bell c’erano due tizi intenti a combattere con un’antenna rumorosa e a giocare al tiro al piccione. Un tale diede a Penzias e Wilson una dritta. Anzi due. La prima era che c’era un gruppo di cosmologi dell’università di Princeton, a poche decine di chilometri da lì, che stava costruendo un’antenna sul tetto del dipartimento di fisica. La seconda era che quell’antenna doveva servire proprio a capire se ci fosse un rumore uniforme proveniente da tutte le direzioni del cielo. Il rumore non era in realtà un rumore, bensì il calore residuo del big bang: ciò che restava della fiammata iniziale dopo che si era raffreddata per miliardi di anni. In poche parole, la prova dell’origine dell’universo. Penzias e Wilson si precipitarono a telefonare ai tizi di Princeton, i quali, ovviamente, furono contentissimi di sapere che erano stati fregati da due giovani che non sospettavano neppure l’enormità della scoperta. A loro volta, quelli di Princeton non avevano idea che la presenza del calore residuo del big bang fosse già stata prevista da Gamow una ventina di anni prima. Previsione che invece era nota a due cosmologi russi, i quali ci sarebbero potuti arrivare per primi, se non avessero mal interpretato il rapporto dell’ingegnere che aveva testato l’antenna dei laboratori Bell. D’altra parte Gamow, quando aveva fatto la previsione, non immaginava che qualche anno prima si erano osservate certe molecole nello spazio vibrare in modo sospetto (segno che erano immerse in un calore uniforme, quello del big bang). Insomma, una storia di ubriachi. Alla fine, nel 1965, Penzias e Wilson misero nero su bianco quello che avevano misurato con la loro antenna. Poco più di una paginetta, scritta con la stessa pignoleria che li aveva condotti per quasi un anno a chiedersi cosa diavolo fosse quel rumore che non voleva andarsene via e a cui nessuno aveva mai dato peso. Fu una delle paginette più importanti nella storia della scienza: la scoperta della prova tangibile dell’origine dell’universo. E bastò quella, frutto della testardaggine di due ragazzi che volevano capire il perché delle cose, a far sì che Penzias e Wilson ottenessero il Nobel, a trasformarli in Penziasewilson, e a portare lo studio dell’universo dritto in una nuova epoca.” In sostanza il rumore di fondo che avevano rilevato era la traccia della radiazione prodotta al tempo del big bang, 15 miliardi di anni fa caldissima, ora talmente fredda da essere di soli 2,7 gradi sopra lo zero assoluto (-273,15 °C). Lo spettro, cioè la distribuzione dell’intensità in funzione della frequenza, di tale radiazione ha la forma indicata in figura: Questa è l’unico esempio praticamente perfetto di radiazione di corpo nero esistente in natura, e su questo concetto torneremo. Altra caratteristica di questa radiazione è la sua isotropia, ovvero uniformemente distribuita in ogni direzione possiamo guardare nell’universo, con una precisione di 1 parte su 100000. Questo fatto avrebbe potuto essere perfettamente spiegato con un approccio classicamente Newtoniano, di un universo statico e immutabile. Ma nel frattempo, trentacinque anni prima, l’astronomo Hubble, aveva misurato il fatto che tutte le galassie lontane si allontanano le une dalle altre, ipotizzando che l’universo sia in realtà una bolla in espansione, nato da una prima e unica esplosione. Il Big Bang, appunto. Ritornando all’immagine dello spettro di corpo nero rappresentato così precisamente dalla radiazione cosmica di fondo, che ricordiamo rappresenta l’emissione di un corpo isolato ad una data temperatura, essa ci mostra come l’area di tale emissione, che significa l’energia emessa, sia in qualche modo limitata. Questa evidenza sperimentale, si scontrava a quei tempi con un evidente malfunzionamento della teoria basata sull’Elettro-Magnetismo di Maxwell. Se prendiamo una cavità perfettamente isolata e senza aria si potranno, formare onde elettromagnetiche di risonanza, formate da onde di lunghezza pari a sottomultipli della dimensione della cavità. Non c’è alcun motivo per limitare queste frequenze per cui la somma totale dell’energia, visto che per ogni onda è proporzionale solo alla temperatura, risulta così infinita. Nel 1906 Einstein, risolvendo l’ulteriore paradosso dell’effetto fotoelettrico diede un riscontro teorico alla quantizzazione dell’energia, ovvero al concetto che la radiazione elettromagnetica, nonostante si comportasse spesso come un’onda, aveva una componente corpuscolare e oltre tutto con energia non continua ma multipla di un’entità minima. Con lo stesso principio, ovvero che l’energia della radiazione elettromagnetica non può assumere infiniti valori, ma solo alcuni, Plank aveva formulato una teoria per spiegare l’emissione di corpo nero, ipotizzando che l’energia elettromagnetica si distribuisse per pacchetti, la cui energia dipenda dalla frequenza, unita alla presenza di un limite oltre il quale onde con frequenza minore del limite non contribuivano all’energia totale. Questo assunto era in grado di trasformare l’infinito della teoria maxwelliana, in termini finiti. Ma la teoria portava con sé ben altro. Uno dei principali effetti nello strano mondo microscopico è quello teorizzato del Principio di Indeterminazione di Heisemberg. Questo principio mette un limite alla precisione in cui possono essere noti contemporaneamente velocità e posizione di un oggetto. Pensiamo ad una particella: per determinare la sua posizione e misurare la sua velocità dobbiamo vederla. Questo significa illuminarla o, per dirla meglio, colpirla con dei fotoni e registrare l’immagine riflessa. Ma nel dominio delle particelle elementari, colpire una particella con il più debole dei fotoni produce un urto che devia anche la particella stessa, come in un microautoscontro. Quindi se vogliamo misurare la sua velocità non potremo che essere molto vaghi sulla sua posizione e viceversa. Questa concezione aprì il mondo della fisica subatomica ad una rivoluzione assolutamente inattesa, trasformando l’innocua teoria ondulatoria della luce in una teoria assolutamente paradossale e secondo le parole di Feynman, probabilmente il fisico teorico che ha dato maggiori contributi alla teoria, anche incomprensibile: “Penso di poter affermare con sicurezza che nessuno capisce la meccanica quantistica” Il motivo di questa difficoltà risiede in diversi fattori. Il primo è basato sulla bizzarra dualità ondulatoria e particellare della radiazione. Il secondo sulla interpretazione probabilistica della teoria, che fece pronunciare ad Einstein la famosa frase (“Dio non gioca a dadi con l’universo”). Il terzo sulla sostanziale assenza di un principio basilare della teoria stessa, costruita a tavolino ma con il grandissimo pregio di essere in perfetta assonanza con i risultati sperimentali. Più o meno negli stessi anni il genio di Einstein aveva colpito ancora. Dopo aver scoperchiato il vaso di Pandora della quantizzazione con l’effetto fotoelettrico (Nobel 1921) era passato dalla fisica delle particelle a quella dell’universo, procedendo a grandi passi verso la distruzione dell’universo Newtoniano, introducendo prima la relatività ristretta e poi quella generale, in cui la forza coinvolta era essenzialmente quella gravitazionale. Per la prima volta da Euclide (300 AC), si metteva in dubbio la tridimensionalità dello spazio. Le equazioni di Einstein infatti erano basate sulla descrizione geometrica di Riemann inserita di spazi di Minkowski a quattro dimensioni, in cui la quarta dimensione è il tempo. Einstein dimostrò che lo spazio (e anche il tempo) si modifica in presenza di una massa, si incurva tramite una perturbazione che si muove alla velocità della luce (c, 300000 Km/s). Quindi la terra, in figura, si muove intorno al sole su una linea che è detta di minima energia, che dipende dalla curvatura dello spaziotempo e dalla velocità della terra. Quindi l’azione della forza gravitazionale non dipende da qualche fenomeno esoterico e istantaneo ma proprio a causa della curvatura dello spazio e del tempo. Riassumendo, attorno agli anni venti del secolo scorso, la fisica classica, basata sulla gravitazione newtoniana, e sulle teorie dell’elettromagnetismo di Maxwell erano state rispettivamente soppiantate dalla relatività generale e dalla meccanica quantistica. La prima descriveva perfettamente il mondo macroscopico fino alle estreme condizioni di velocità prossime a quelle della luce e di gravità enormi fino ad arrivare ad ipotizzare i buchi neri. La seconda invece spiegava perfettamente le caratteristiche delle particelle conosciute, costituendo uno zoo di particelle elementari definendo per esse massa, carica e altre caratteristiche peculiari, come lo spin. Tutto bene, quindi. E invece no. Entrambe le teorie non prevedono l’altra. Ovvero la meccanica quantistica non si applica nel caso di velocità prossime a quella della luce o a grandi masse e la relatività generale produce strani effetti in situazioni microscopiche, come per esempio il Big Bang o i buchi neri. A questo punto della storia della scienza avviene un fenomeno strano. Ci si interroga su cosa sia la realtà. Le teorie scientifiche fino alla fine dell’ottocento mostravano una realtà fisica che si basava sul paradigma illuministico per cui l’elemento di verità traeva forza nella coerenza con quanto i nostri sensi ci mostrano. In questa fase la realtà della scienza, ovvero la descrizione del mondo ottenuta tramite teorie ed esperimenti sempre più estremi, si discosta dalla nostra esperienza, anche in modo significativo. Si pensi alla dilatazione del tempo o alla contrazione delle lunghezze della relatività o all’effetto tunnel e alla densità di probabilità della meccanica quantistica. L’universo, il mondo, il tutto aveva dato segnali di essere molto diverso (e molto più bizzarro) da come lo avevamo sempre immaginato. Inoltre per quanto complessa la realtà dell’universo ci sia aspetta possa essere descritta da una sola teoria che tenga conto di tutti gli aspetti. Questo è il concetto di Teoria del Tutto (TOE in inglese). Ad oggi non siamo in grado di dire se una tale teoria unificatrice esista. Video – Odissea nello spazio – Valzer delle astronavi Il procedere degli studi nei due filoni principali ha contraddistinto gli anni centrali del ventesimo secolo, in cui si sono costruiti acceleratori di particelle sempre più potenti per simulare energie sempre più elevate, ovvero sempre più indietro nel tempo in direzione Big Bang, e telescopi più potenti per scandagliare il cosmo sempre più lontano, ovvero sempre più indietro nel tempo in direzione Big Bang. Il terreno di scontro cominciava a formarsi. La scala a cui si osserva il comportamento dell’universo pareva essere un limite che imponesse rappresentazioni diverse. O, in altri termini, le nostre rappresentazioni risultavano incomplete in funzione della scala delle osservazioni. Presa una porzione di universo senza masse lo spaziotempo risulta descritto su scala cosmica da una struttura regolare e piatta, mentre a dimensioni subatomiche presenta una base di irregolarità estremamente elevata, una sorta di ribollire quantistico in cui le particelle e l’energia si scambiavano di posto in maniera caotica e sostanzialmente imprevedibile. Questo effetto è stato etichettato in maniera molto immaginifica col nome di schiuma quantistica, dal fisico americano Archibald Weeler, che se la cavava piuttosto bene con i nomignoli essendo anche l’inventore del ben noto termine buco nero. La fisica delle particelle era riuscita a inglobare tre delle quattro forze fondamentali, l’elettromagnetismo, la forza debole e per ultima la forza forte, scoprendo le particelle mediatrici (i cosiddetti bosoni, tra cui i fotoni, i bosoni intermedi W e Z, e i gluoni) ma evitando accuratamente la forza gravitazionale e la sua teorica particella mediatrice, il gravitone. Dal canto suo la relatività generale aveva dato ampie prove di coerenza sperimentale in fenomeni come la curvatura della luce (dalle eclissi di sole alle lenti gravitazionali), la asincronia di orologi in moto relativo. Peccato che ancora i maggiori tentativi di rappresentare in forma quantistica la relatività generale o includere la gravità nella formulazione del modello standard non avevano dato alcun esito significativo. Inoltre ricordiamo che la meccanica quantistica non spiega il motivo fisico del perché le particelle elementari abbiano esattamente quella sequenza di masse e cariche. Nel 1968 Gabriele Veneziano, un fisico italiano, scoprì che le caratteristiche di alcune particelle potevano essere descritte con l’uso di una funzione matematica, la funzione Beta di Eulero e del cosiddetto integrale di Eulero. Questa visione completamente nuova portò alcuni fisici nel 1970 a dare la spiegazione fisica del perché ci fosse un accordo così stringente con le funzioni di Eulero. Essi descrissero le “particelle” come se fossero anelli unidimensionali piccolissimi in vibrazione, le cosiddette corde o stringhe. Questa visione, assolutamente inedita, della realtà fisica fece esplodere una fioritura di ricerche, tanto che alcuni cominciarono a pensare che questa teoria fosse il tento atteso elemento unificante della fisica. L’idea per quanto sconvolgente è semplice: le particelle non sono particelle puntiformi ma oggetti con una lunghezza, talmente piccoli che visti con gli strumenti a nostra disposizione sembrano effettivamente dei punti. Ma piccoli quanto? Esiste una dimensione caratteristica che si chiama lunghezza za di Planck che è ottenuta combinando le tre costanti fisiche delle teorie relativistiche e quantistiche: E ha un valore di circa 10-35 metri,, trascurabile rispetto alla dimensione di un protone di 10-15 m o di un quark 10-18 m. Quindi la progressione della descrizione della materia dovrebbe essere quella mostrata in figura: Passando dalla materia (1), alla struttura molecolare (2), alla struttura atomica (neutroni e protoni) (3), verso gli elettroni (4) e i quark (5). Al di sotto di questi uesti ultimi le stringhe (6). L’uomo non possiede la tecnologia per osservare direttamente le stringhe, in quanto dai modelli matematici, matematici per vedere la lunghezza di Planck, si dovrebbe concentrare una energia tale in un luogo piccolissimo da sembrare definitivamente fuori dalla portata di qualsiasi strumento attuale o futuro (alcuni fisici parlano di un acceleratore dalle dimensioni dell’universo stesso). La teoria delle stringhe è un concentrato di alta matematica, topologia e intuizione tale da aver messo a dura prova per più di trenta anni i migliori fisici contemporanei, tra cui Daniel Freedman, Leonard Susskind, David J. Gross, Cumrun Vafa, Yoichiro Nambu e Edward Witten,, oltre a matematici di grande spessore. La storia di questa teoria è costellata di piccoli ma importanti passi avanti e altrettante delusioni. Lo stato dell’arte è che la teoria, di cui vedremo alcuni alcuni aspetti, è ancora la più promettente formulazione di unificazione ma presenta altrettante questioni insolute che ne rallentano la comprensione. Spesso parlando di teoria delle stringhe si cita la sua eleganza. Elegante in fisica è spesso correlato con c il concetto di simmetria,, ovvero alla capacità di una teoria di unificare aspetti diversi un’unica visione nella quale i pezzi del puzzle di cui è costituito l’universo vadano al suo posto. Facciamo un esempio. La teoria delle stringhe è detta supersimmetrica, che tra le altre cose significa che tutte le forze sono mediate da “particelle” e che ognuno di questi mediatori ha un suo compagno simmetrico di carica opposta, una antiparticella. Quindi a bassissima bassissim distanza i contributi di queste entità si annichilano. nichilano. Rispetto ad altre teoria, questa inoltre prevede una particella mediatrice a spin 2, che guarda caso, è proprio quello del gravitone, la particella mediatrice della forza gravitazionale, oltre tutto a massa nulla, come previsto dalla teoria della dell relatività generale. Come si legano però le particelle note con le stringhe? Le caratteristiche delle particelle, come massa, carica, spin e gauge, sono rappresentabili con modi di vibrazione delle stringhe, che devono essere quantizzati (ovvero multipli interi di un valore minimo) e sottoposti alle regole della meccanica quantistica, come il principio di Heisemberg. Al momento la teoria è in grado di prevedere a livello qualitativo queste caratteristiche ma la matematica necessaria a farlo non è ancora stata scritta. Anzi, la ricchezza di casistiche (infinita) che presentano le vibrazioni delle stringe è stato uno scoglio difficile da superare. Un altro simpatico aspetto della teoria è che funziona bene se il nostro universo, che con la relatività è passato a quattro dimensioni, diventa uno spazio multidimensionale con dieci dimensioni. Non entreremo nel merito di questo aspetto ma si ipotizza che le dimensioni aggiuntive siano “compattificate”, cioè ripiegate si se stesse con una forma semplificata che si può vedere nella figura sottostante con dimensioni aggiuntive a forma di toro: Ogni punto dello spazio dovrebbe avere quindi una topologia di questo tipo (spazi di Calabi-Yau a sei dimensioni), mostrato in figura nella sua rappresentazione bidimensionale: Esistono inoltre ben sei formulazioni diverse della teoria a seconda di alcuni parametri che non sono al momento noti e questo ha fatto perdere molta fiducia nell’impianto generale della teoria. Ma a parte le difficoltà di operare, come è stato detto, nel XX secolo su un pezzo di fisica del XXI secolo, cosa possiamo dire su questa nuova visione dell’universo? Si tratta di un universo in cui ogni oggetto, ogni particella, reale o virtuale, potrebbe essere al limite della comprensione umana, un oggetto non puntiforme ma la traccia della vibrazione (e della tensione) di un anello in eterna vibrazione. E ogni singola particella rappresenterebbe una particolare nota di questa sinfonia. Una sinfonia molto difficile da ascoltare, ma che decifrerebbe gli attuali fenomeni inspiegati della fisica, come il Big Bang o i buchi neri, entrambi previsti nelle pieghe della teoria. Ci si chiede: l’Universo è nato a tempo di sinfonia? Video dei suoni Da quattordici miliardi di anni fa, quando il cosmo era più giovane, più caldo e soprattutto più denso di oggi, non ci arrivano vere e proprie note musicali ma applicando dei modelli teorici, hanno potuto trasformate questi segnali in onde sonore. Sono suoni migliaia di volte più bassi di quelli che l’orecchio umano arriva a percepire. Citando Amedeo Balbi, ricercatore in Astrofisica a Roma Tor Vergata, autore de “La musica del Big Bang”. «Intendiamoci - dice - si tratta di suoni nel senso fisico, vibrazioni che attraversavano il plasma molto denso dell’Universo primordiale ma non ascoltabili come i suoni che viaggiano nell’aria. Sono state necessarie elaborazioni matematiche per portare quelle vibrazioni alle frequenze ascoltabili dall’uomo». Per esempio la stella gigante Xi Hya usa i toni ultrabassi. Quando Giove parla con una delle sue lune, che porta il nome dell’amata e sfortunata ninfa Io, esplode una tempesta sonora che può durare molte ore. Il Sole, ascoltato e analizzato dagli astronomi dell’Università di Sheffield, in Inghilterra, ha la performance di un gigantesco organo a canne o di una potente chitarra. Ma quando dall’arroventata corona solare si levano imponenti vampate di idrogeno, pari a milioni di gradi Celsius, ecco sottilissimi sibili, e risonanze che fanno pensare a John Cage, pioniere dell’ambient music. Suonano i satelliti di Giove, le nebulose come quella del Granchio, le pulsar (Pulsating Radio Source) emettono intense radiazioni elettromagnetiche, che si traducono in uno schiocco secco, periodico e regolare come un metronomo, le stelle cadenti come le Leonidi. Insomma, uno spazio che "respira", tutto da ascoltare. Per ascoltare la musica «in cui nessun suono è prodotto intenzionalmente», è sorta Radio Astronomy (www.radio-astronomy.net). L’unificazione delle teorie della fisica universale sembrano marcate con una componente musicale che dall’estremamente grande e lontano nel tempo arriva alle nostre orecchie sotto forma di traccia musicale e si spinge fino all’estremamente piccolo dove la natura stessa della materia e delle forze fondamentali diventa l’espressione di uno spartito per orchestra di stringe vibranti. Le ipotesi sono affascinanti ma al momento siamo a livello di congetture, in attesa di una dimostrazione del valore effettivo di una descrizione elegante e musicale del nostro universo. [1] Brian Greene – L’universo elegante – Einaudi 2000 [2] Alfred Tomatis – Ascoltare l’universo – Baldini&Castoldi 1998 [3] Luigi Dell’Aglio - Sinfonia in chiave di basso (Avvenire, 22.07.2007) [4] Amedeo Balbi - Quei ragazzi che ascoltarono il primo vagito dell’universo (la Repubblica, 15.10.2010)