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Nicola Montenz
L’armonia delle tenebre
Musica e politica nella Germania nazista
Archinto
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All’interno del testo, il partito nazionalsocialista è indicato con
l’acronimo NSDAP (Nationalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei); per ragioni di economia di lettura, è parso opportuno
riferirsi alla Reichskulturkammer e alla Reichsmusikkammer
servendosi delle abbreviazioni correnti: RKK e RMK. Le traduzioni citate nel testo, salvo quando diversamente indicato in
nota, sono dell’autore. La bibliografia conclusiva, che non aspira alla completezza, riporta soltanto la letteratura primaria e secondaria citata nelle note; queste ultime – con la parziale eccezione della n. 7 a p. 303, della n. 21 a p. 305 e della n. 26 a p.
306 – mirano esclusivamente a chiarire la provenienza delle
informazioni, e non hanno funzione esplicativa. Le voci di lessici e repertori vi sono indicate con la semplice sigla s.v. quando appaia chiaro a chi si riferiscano; i cognomi – ed eventualmente i nomi – dei soggetti interessati sono invece riportati
quando il contesto del passo annotato rischi di ingenerare confusione. L’ortografia dei nomi dei musicisti tedeschi e austriaci
menzionati è conforme a quella dei lemmi del Riemann MusikLexikon e del Grosses Sängerlexikon di Kutsch e Riemens.
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Prologo
Del «diverso» e dell’«allineato»
Gli idoli infranti
Nella tarda estate del 1936, mentre pianificava una
tournée continentale con la London Philharmonic
Orchestra, Sir Thomas Beecham pensò di approfittare della prevista tappa al Gewandhaus di Lipsia per
rendere omaggio alla memoria di Felix Mendelssohn
Bartholdy: era ancora vivo, a Londra, l’affetto per il
compositore tedesco, e il ricordo dei suoi successi
non si era mai spento. Domandò quindi al sindaco di
Lipsia, Carl Friedrich Goerdeler, il permesso di deporre una corona di fiori ai piedi del monumento
commemorativo a Mendelssohn, eretto nel 1892 davanti al Gewandhaus. Goerdeler (che nel 1945 sarebbe stato giustiziato per la sua partecipazione all’attentato a Hitler del 20 luglio 1944) rispose dicendosi onorato di una simile iniziativa, e l’autorizzò
senz’altro. Quando però Sir Thomas, in novembre, si
recò sul piazzale del Gewandhaus insieme a una delegazione dell’orchestra per deporre la corona, dovette constatare con sbigottimento che del monu5
mento a Mendelssohn non restava traccia. Una rapida ispezione ai lati dell’edificio, per verificare se per
caso la statua fosse stata spostata, confermò una verità che due lettere anonime, recapitategli al suo arrivo a Lipsia, gli avevano già anticipato: il monumento
era stato rimosso. A nulla erano servite le proteste di
Goerdeler che, assente per una visita di protocollo in
Svezia, non aveva potuto impedire il misfatto. Al suo
rientro in patria, il sindaco fu anzi costretto a scegliere la via più prudente, invitando la stampa a non
dare alcun rilievo all’incresciosissima faccenda, ed
evitando di impegnarsi in pubbliche sconfessioni.1
Sulla statua del compositore – ebreo convertito al
protestantesimo, e nipote del celebre filosofo Moses
Mendelssohn – scese dunque il silenzio. Fu così confermata, in modo tangibile, la sua scomparsa dalla vita musicale del Terzo Reich.
Ma ciò non fu sufficiente: dell’esistenza di un
ebreo tanto illustre, dall’intelletto troppo versatile e
fecondo, bisognava cancellare ogni traccia. Persino il
suo rapporto di discepolato e amicizia con Gustav
Droysen, l’autore della monumentale Storia dell’Ellenismo, dovette essere oscurato: troppo profonda era
stata l’intesa intellettuale, troppo ricca di stimoli e di
conseguenze per la storia della cultura tedesca ed europea, perché il nome di Mendelssohn potesse restare impunemente accanto a quello di una simile gloria
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nazionale. Pensò a tutto un famoso storico dell’antichità, Helmut Berve, che introducendo la riedizione
della Geschichte Alexanders des Grossen di Droysen,
trovò il modo di far colare sul compositore qualche
opportuna goccia di veleno.2
Due anni più tardi, dalla Staatsoper di Vienna veniva rimosso il busto di Gustav Mahler, scolpito da
Rodin e donato dalla vedova; contemporaneamente,
la Mahlerstrasse della capitale austriaca mutava nome, ed era ribattezzata «Meistersingerstrasse». All’indomani dell’Anschluss (la cosiddetta «annessione») dell’Austria, le due azioni si ponevano a ideale
coronamento di una lunga serie di attacchi diffamatori, sferrati a mezzo stampa contro il compositore,
morto nel 1911, che non soltanto aveva rivoluzionato la forma della sinfonia, ma aveva saputo rigenerare in pochi anni la vita artistica di Vienna, portandola a vette di perfezione mai più eguagliate. Etichettato da Alfred Rosenberg come «farfugliante giudeo», liquidato da Friedrich Welter come emulo –
inadeguato «per ragioni razziali» – dei grandi sinfonisti dell’Ottocento, il compositore scomparve finalmente dall’universo austro-germanico.
Intanto, mentre Richard Wagner assurgeva a simbolo assoluto del «Reich millenario», nuovi idoli risorti dal passato ottennero una nicchia nel sacrario
della cultura tedesca: quel Walhalla, edificato sulle ri7
ve del Danubio nel 1830 a imitazione di un tempio
greco, che Luigi I di Baviera aveva voluto come custode eterno delle glorie germaniche. Fu lì che, per
espresso desiderio di Hitler, il 6 giugno 1937 fu collocato il busto dell’austriaco Anton Bruckner: improbabile e «paterno» nume in marmo, che la propaganda del regime si compiacque di immortalare insieme a un pensoso Führer in una fotografia divenuta leggenda.3
Sono esempi isolati e certo insufficienti, da soli, a
rendere l’idea della complessità dei rapporti che legarono musica e politica negli anni compresi tra il
1933 e il 1945; pure, sembrano utili a delineare il
quadro inquietante della cultura tedesca all’indomani della Machtergreifung, la «conquista del potere»
da parte di Hitler e della NSDAP, coronata dalle elezioni del marzo 1933. Un quadro che, nelle dichiarazioni d’intenti e nei proclami ufficiali, si pretendeva
«nuovo» e «rivoluzionario». A guardarlo da vicino,
tuttavia, si sarebbe scoperto che di nuovo c’era poco:
qualche volto, forse, applicato in modo precario a
una tela che era già stata dipinta, e nella quale alcuni
dei soggetti più antichi e venerabili erano stati ravvivati, o piuttosto impiastrati con deprimenti belletti
retorici; altri erano stati eliminati – non, però, con
una semplice operazione di cancellatura, ma deturpandoli fino a renderli grotteschi e irriconoscibili.
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Le radici
Benché le azioni perpetrate contro le statue di Mendelssohn e di Mahler appaiano oggi incredibili, ben
difficilmente esse avranno suscitato, all’epoca, molto più di un sommesso mormorio: di fatto, costituivano un semplice corollario delle leggi di Norimberga, promulgate il 15 settembre 1935, in seguito
alle quali la già feroce politica antiebraica del Terzo
Reich aveva assunto caratteri di sistematica inumanità. E d’altro canto è nota la rassegnata indifferenza (o «apatica acquiescenza», per dirla con George
L. Mosse) mostrata persino dai tedeschi più refrattari alle manifestazioni concrete dell’antisemitismo
di Stato. Né ciò dovrebbe stupire più di tanto, considerato che la parabola del cosiddetto pensiero
razziale europeo, sviluppatosi a partire dal XVIII
secolo, agli inizi del XX aveva ormai raggiunto il
proprio fuoco. Non è un mistero, per la verità, nemmeno la metamorfosi che aveva condotto tale «pensiero» ad assumere inequivocabili caratteristiche
razziste, alimentate da un confuso guazzabuglio parascientifico in cui si confondevano frenologia, biologia della razza, linguistica comparata, misticismo
e irrazionalismo. All’alba della prima guerra mondiale, diffuso equamente tra aristocrazia e popolo
minuto, il razzismo era ormai un portato comune in
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Europa – specie in Francia e in Germania –, e il suo
bersaglio non era ignoto a nessuno, dalla destra
estrema ai socialisti.
Gravati da secoli di discriminazione, oggetto di
pregiudizi e superstizioni mai sopiti, e per giunta detentori di un potere economico sempre crescente, gli
ebrei avevano catalizzato, almeno dalla metà dell’Ottocento, biasimo e timori di intere nazioni. Il loro status di «avversari» (in senso biblico) era un dato di
fatto, e l’esortazione alla lotta e alla loro eliminazione
fisica non avrebbe potuto sorprendere alcuno, tanto
in Francia – dove essi erano visti come ostacolo al
compimento dell’uguaglianza sociale – quanto in
Germania – dove alle istanze sociali si sovrapponevano quelle dei teorici della «decadenza delle razze»,
che vedevano negli ebrei un veicolo di contagio e
corruzione per il popolo tedesco, rampollo estremo
degli «ariani», e ormai prossimo all’estinzione.
Una simile Weltanschauung, in Germania, fu ampiamente condivisa e sostenuta dagli intellettuali e
dai corpi docenti, ciò che ne permise la diffusione capillare nelle istituzioni scolastiche e nelle accademie,
da cui fu trasmessa a intere generazioni di giovani.
Alimentata dall’alto e «confermata» dalle pseudoscienze, l’idea di un nemico «impuro», privo di un’anima e di una dignità umana, si radicò dunque nella
popolazione tedesca di fine Ottocento, unendosi ine10
stricabilmente ai più vieti – e mai rimossi – stereotipi
e pregiudizi.4
La generazione che visse l’ascesa al potere di Hitler e la Machtergreifung, dunque, non poté essere
sconvolta dall’antisemitismo programmatico della
NSDAP, esattamente come non lo era stata dalle violenze perpetrate contro gli ebrei dopo il 1918 e per
tutta la durata della Repubblica di Weimar: un periodo in cui erano apparsi con chiarezza i risultati
dell’innesto del pensiero razziale del conte Gobineau
sul corpo vitale dell’antisemitismo tedesco. Operata
da Richard Wagner negli ultimi anni di vita, razionalizzata e divulgata da Ludwig Schemann, infine sistematizzata da Houston Stewart Chamberlain nelle
Grundlagen des 20. Jahrhunderts (1900), la fusione di
un razzismo teorico con le forme più violente e crude dell’intolleranza antiebraica raggiunse, dopo l’istituzione della Repubblica, vette di fanatico irrazionalismo, le cui derive più visionarie si diffusero con
facilità in una nazione sconvolta dagli esiti del primo
conflitto mondiale e afflitta da una inarrestabile crisi
economica.
L’assurda idea che gli ebrei rappresentassero il «nemico», quando non l’incarnazione stessa del male, si
riadattò così al contesto socio-politico postbellico,
con il risultato di trasformarli, agli occhi dei nazionalisti e del popolo minuto, nei veri responsabili della
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