sentenza

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N. 329/11 r.n.r.
N. 38/11 r.g.
N.________________r.s.
Data dep.____________
Data irr._____________
N.________________r.e.
N.__________camp. pen.
Red. scheda__________
TRIBUNALE DI CAGLIARI
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
all’udienza del 14 gennaio 2011, il Giudice del Tribunale di Cagliari, dott. Carlo Renoldi, ha
pronunciato, in esito al giudizio abbreviato, la seguente
SENTENZA
nel procedimento penale
CONTRO
SILLA Mody, nato a Touba (Senegal) il 18 novembre 1974, difeso d’ufficio dall’Avv. Francesco
Roggero del foro di Cagliari;
LIBERO – NON COMPARSO
IMPUTATO
del reato di cui all’art. 14 comma 5 ter e quinquies D.L.vo 25 luglio 1998 n. 286, come modificato
dal D.L. 4 settembre 2004 n. 241, perché si tratteneva nel territorio dello Stato in violazione
dell’ordine impartito dal Questore della Provincia di Cagliari con atto Cat. A 11/08 n. 576 in data
3.11.2008 e notificato al medesimo nella stessa data (in esecuzione del decreto di espulsione Cat. A
11/08 n. 619 emesso dal Prefetto della Provincia di Cagliari in data 3.11.2008).
Accertato in Cagliari, il 7 gennaio 2011.
CONCLUSIONI DELLE PARTI
Pubblico ministero: con le attenuanti generiche, considerata la diminuzione per il rito, chiede la
condanna alla pena finale di cinque mesi e venti giorni di reclusione.
Difesa: assoluzione perché il fatto non sussiste.
MOTIVI DELLA DECISIONE
§1. Lo svolgimento del processo.
Arrestato in data 7 gennaio 2011 nella flagranza del delitto previsto dall’art. 14 comma 5 ter
D.L.vo 25 luglio 1998 n. 286 (come modificato dal D.L. 4 settembre 2004 n. 241), in data 8 gennaio
2011 Mody SILLA è stato condotto davanti a questo Tribunale per la convalida dell’arresto. In esito
alla relativa udienza, nel corso della quale si è fatto luogo alla nomina di un interprete senegalese in
ragione dell’accertata impossibilità dell’imputato di comunicare efficacemente sia in italiano che in
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francese1, è stata riconosciuta la legittimità della misura restrittiva2. Quindi, l’imputato è stato tratto
a giudizio direttissimo, senza che si procedesse all’applicazione nei suoi confronti di alcuna misura
cautelare, peraltro non richiesta dal Pubblico ministero.
Nel corso dell’odierna udienza, fissata a seguito della richiesta di un termine a difesa, Mody
SILLA non è comparso. Nondimeno, egli ha fatto pervenire istanza di rito abbreviato, formulata a
mezzo del suo Difensore, munito di procura speciale.
Ammesso il rito alternativo, il processo è stato celebrato con l’osservanza delle disposizioni di cui
agli articoli 438 e ss. cod. proc. pen.; ed all’esito del giudizio, le parti hanno concluso nei termini
riportati in epigrafe.
§2. La piattaforma probatoria.
Dal verbale di arresto, redatto dal personale della Questura di Cagliari – Squadra volante, dalle
dichiarazioni rese dall’imputato a mezzo dell’interprete nel corso dell’udienza di convalida, nonché
dalle allegazioni documentali prodotte dalla procura della Repubblica, deve ritenersi provato che
l’imputato sia stato destinatario del decreto di espulsione Cat. A 11/08 n. 619, emesso dal Prefetto
della Provincia di Cagliari in data 3 novembre 2008 sul presupposto che egli non avesse provveduto
a regolarizzare la propria posizione di soggiorno ai sensi degli artt. 5, comma 2 e 27 comma 1 bis
T.U. 286/98. In pari data, non potendosi far luogo all’esecuzione dell’espulsione (avuto riguardo
alla necessità di accertamenti supplementari sull’identità del soggetto e sulla disponibilità di un
titolo di viaggio e tenuto conto della indisponibilità di posti nei Centri di identificazione ed
espulsione presenti nel territorio italiano), il Questore di Cagliari con atto Cat. A 11/08 n. 576 ha
emesso un ordine di allontanamento dal territorio nazionale, ingiungendo a Mody SILLA di
ottemperarvi entro il termine di cinque giorni; ciò che l’imputato, pacificamente, non ha fatto, pur
essendo stato informato, da qualche conoscente, del contenuto dell’atto di intimazione, che per le
ragioni prima ricordate non era in grado di leggere e comprendere. L’inadempimento, peraltro,
parrebbe riconducibile all’assenza di adeguate disponibilità economiche, avendo egli dichiarato in
sede di convalida di lavorare saltuariamente come ambulante e di riuscire a ricavare, come
guadagno netto, solo circa trenta euro mensili. Sul punto i militari non hanno riferito alcuna
circostanza utile: l’uomo è stato, infatti, tratto in arresto mentre transitava sulla pubblica via.
Nell’occasione non è stato trovato nella disponibilità di somme di denaro, né di merce da destinare
alla vendita; nessun accertamento è stato svolto nel luogo in cui egli ha dichiarato di dimorare.
Tanto premesso, il complesso delle acquisizioni istruttorie conduce ad escludere la responsabilità
dell’imputato in relazione al reato ascrittogli.
§3. Gli elementi oggettivi della fattispecie incriminatrice.
Le prove acquisite non lasciano dubbi sulla presenza di una condotta di inosservanza
dell’intimazione rivolta dal questore. E tuttavia, come noto, l’art. 14, comma 5 ter prevede una
“costellazione” di fattispecie incriminatrici che si differenziano in ragione della specifica causale
del provvedimento prefettizio di espulsione, al quale occorre quindi sempre avere riguardo al fine di
una corretta qualificazione della fattispecie in contestazione. Ciò anche al fine di consentire il
Secondo quanto emerso successivamente in sede di interrogatorio, infatti, l’imputato ha frequentato, nel Paese di
origine, soltanto la scuola coranica, mentre in Senegal la lingua francese viene insegnata unicamente negli istituti
pubblici.
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Si è proceduto alla convalida dell’arresto considerando che esso è provvedimento in relazione al quale si valuta, con
giudizio ex ante, la legittimità dell’attività delle forze di polizia, che devono in astratto, e nell’urgenza del provvedere,
valutare se sussistano estremi di reato. Valutazione che implica un tipo di delibazione sommaria diversa da quella più
pregnante che spetta al giudice in relazione ai gravi indizi di colpevolezza, condizione per l’emissione di misure
cautelari, e nel merito per accertare la responsabilità dell’imputato. A ciò si aggiunga che nel caso di specie, violazione
dell’art 14 d.l. vo 286/1998, sulla base di provvedimenti del questore e del prefetto l’arresto è obbligatorio, caso che
fortemente riduce il margine di discrezionalità delle forze di polizia nel procedere (cfr. Cass., Sez. 3, sentenza del 7/77/10/2010, n. 35962, CED 248479).
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controllo sulla legalità dell’atto amministrativo che la giurisprudenza, ormai anche di legittimità,
pacificamente estende anche al decreto prefettizio.
a). I provvedimenti presupposti.
Sul punto, giova rilevare che il decreto di espulsione emesso dal Prefetto di Cagliari in data 3
novembre 2008 risulta essere stato giustificato dalla mancata regolarizzazione, da parte
dell’imputato, della propria posizione di soggiorno.
Al riguardo, pur in presenza di un richiamo, da parte del provvedimento prefettizio, che certo non
brilla per adamantina chiarezza (circostanza tanto più significativa in rapporto alle ordinarie
cognizioni, linguistiche e culturali, dei destinatari di tali atti amministrativi), può fondatamente
affermarsi che la condotta addebitata all’imputato sia quella di non avere provveduto a richiedere il
titolo di soggiorno, nel termine di legge, una volta entrato regolarmente nel nostro Paese 3. Una
condotta che le stesse dichiarazioni di Mody SILLA consentono di configurare nel caso concreto,
avendo egli ammesso – nel corso dell’udienza di convalida – di non avere mai richiesto il permesso
di soggiorno.
b). Il giustificato motivo.
Come detto, l’imputato ha affermato di svolgere attività lavorativa come ambulante: attività che,
tuttavia, certamente non garantisce un reddito costante e comunque remunerativo. Significativa, in
questo senso, è la circostanza che egli abbia ammesso di riuscire a ricavare mensilmente soltanto
circa 30 euro, al netto delle spese. Al riguardo la Pubblica accusa non ha dedotto, a fronte della
allegazione dell’interessato circa la propria condizione di sostanziale impossidenza, alcun elemento
utile ai fini della ricostruzione delle sue capacità reddituali. Tale circostanza, pertanto, consente di
ritenere provata tale condizione, tanto più che la situazione di giustificato motivo va riferita al fatto
che allo scadere dei cinque giorni concessigli dall’autorità amministrativa egli non fosse nelle
condizioni per ottemperare e non alla circostanza che, successivamente, egli possa avere acquisito
adeguate disponibilità economiche che gli consentissero il rimpatrio.
Alle considerazioni fin qui svolte si aggiunge, quale ulteriore elemento che impone l’assoluzione
dell’imputato secondo la formula “il fatto non sussiste”, la necessaria disapplicazione dei
provvedimenti amministrativi emessi dal prefetto e dal questore di Cagliari, che – pur
legittimamente assunti – sono diventati integralmente inefficaci a seguito del sopravvenuto
contrasto delle norme che disciplinano il procedimento amministrativo di espulsione con le
disposizioni contenute nella direttiva 2008/115/CE del 16 dicembre 2008.
§4. Gli effetti della Direttiva 2008/115/CE sulla fattispecie contestata.
Il 24 dicembre 2010 è scaduto il termine entro il quale gli Stati aderenti all’Unione europea
avrebbero dovuto adeguare i rispettivi ordinamenti alla direttiva 2008/115/CE del 16 dicembre 2008
recante norme e procedure comuni applicabili negli stati membri al rimpatrio dei cittadini di paesi
terzi il cui soggiorno è irregolare. A tale data l’Italia non aveva provveduto all’attuazione, né
risulta averlo fatto fino alla data odierna.
a). Il contenuto della direttiva.
La Direttiva, secondo quanto esposto nel preambolo, mira ad armonizzare le procedure
amministrative di rimpatrio degli immigrati irregolari al fine di bilanciare due fondamentali istanze:
da un lato quella di garantire l’effettività dei rimpatri e dall’altro quella di assicurare la tutela dei
diritti fondamentali dei cittadini di paesi terzi attraverso la previsione di “garanzie giuridiche
In questo contesto sembra sostanzialmente ultroneo il riferimento all’art. 27, comma 1 bis T.U. Immigrazione, non
essendo emerso alcun concreto elemento che consenta di affermare la sussistenza dei presupposti che fondassero
l’obbligo di presentare la peculiare dichiarazione prevista dalla norma citata.
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3
minime comuni sulle decisioni connesse al rimpatrio”4 che realizzino “una procedura equa e
trasparente”5.
Per ciò che interessa ai fini della vicenda oggetto del presente giudizio, la Direttiva stabilisce un
complesso di regole finalizzate a disciplinare l’allontanamento, che è possibile riassumere in questi
termini:
1) la modalità ordinaria di allontanamento dello straniero irregolare dal territorio nazionale è
costituita, ai sensi dell’art. 7 della Direttiva, dal rimpatrio volontario, realizzato mediante la notifica
all’interessato di una decisione di rimpatrio (ossia l’atto con cui gli Stati membri decidono il
rimpatrio del cittadino di un Paese terzo il cui soggiorno sia irregolare), attraverso cui viene
assegnato un termine, compreso tra sette e trenta giorni, entro il quale lo straniero deve allontanarsi;
2) la possibilità che il termine per la partenza volontaria venga ridotto o addirittura omesso è
subordinata unicamente ai casi di pericolo di fuga, di reiezione di una domanda di soggiorno
irregolare manifestamente infondata o fraudolenta nonché al caso in cui il soggetto rappresenti un
pericolo per l’ordine pubblico, la pubblica sicurezza o la sicurezza nazionale;
3) qualora l’interessato non sia partito volontariamente, così come nel caso in cui fin dall’inizio
non gli sia stato concesso alcun termine per l’esistenza di un pericolo di fuga, l’art. 8 consente allo
stato de quo di procedere all’esecuzione coattiva della decisione di rimpatrio, eventualmente previa
emanazione da parte dell’autorità amministrativa e giudiziaria di un ordine di allontanamento;
4) soltanto nell’ulteriore caso in cui non sia possibile eseguire coattivamente l’allontanamento e
non possano essere efficacemente applicate “altre misure”, l’art. 15 consente di disporre il
trattenimento dello straniero, il cui regime è notevolmente diversificato dalla disciplina prevista dal
legislatore italiano.
Le norme della Direttiva, appena riassunte, devono trovare applicazione in tutte le procedure di
rimpatrio degli immigrati “irregolari”, ferma restando la facoltà degli Stati di non applicarle in
materia di respingimento alla frontiera (art. 2 § 2 lett. a) nonché quando il rimpatrio sia disposto
come “sanzione penale” o come “conseguenza di una sanzione penale”, ed ancora nell’ambito di
procedure di estradizione (art. 2 § 2 lett. b).
b). I profili di contrasto tra la Direttiva e le norme interne disciplinanti il procedimento
amministrativo presupposto.
Limitando l’analisi ai soli profili di contrasto che possono venire in rilievo in relazione alla
fattispecie contestata, deve rilevarsi che:
1). mentre il considerando n. 10 e l’art. 7 della Direttiva stabiliscono che la decisione di rimpatrio
debba privilegiare la partenza volontaria, fissando un termine, compreso tra i 7 e i 30 giorni, entro il
quale l’interessato deve allontanarsi, il T.U. 286/98 prescrive invece che tutte le espulsioni siano
immediatamente esecutive e che esse siano eseguite dal questore con accompagnamento alla
frontiera a mezzo della forza pubblica, salva l’ipotesi di cui all’art. 13 comma 56;
2). mentre il paragrafo 2 dello stesso art. 7 consente di prorogare il termine per la partenza
volontaria, tenendo conto delle circostanze specifiche del caso individuale quali, a titolo
esemplificativo, la durata del soggiorno, l’esistenza di bambini che frequentano la scuola e
l’esistenza di altri legami familiari e sociali, viceversa il T.U. 286/98 non prevede alcuna proroga,
neanche nell’unico caso in cui l’espulsione è attuata con l’intimazione a lasciare il territorio entro
15 giorni (art. 13, comma 5 T.U.);
3). ai sensi dell’art. 8 della Direttiva, gli Stati membri possono ricorrere a misure coercitive per
eseguire l’allontanamento di chi oppone resistenza, tali misure devono essere proporzionate e non
eccedere un uso ragionevole della forza; al contrario il T.U. 286/98 prevede che tutte le modalità di
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Considerando introduttivo n. 11.
Considerando introduttivo n. 6.
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Tale ipotesi è quella dello straniero che si è trattenuto nel territorio italiano quando il permesso di soggiorno è scaduto
di validità da più di sessanta giorni e non ne è stato chiesto il rinnovo.
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esecuzione delle espulsioni contemplino il ricorso (diretto o eventuale) a misure coercitive, senza
alcuna limitazione allo straniero che oppone resistenza, essendo sufficiente la difficoltà
nell’identificazione, la mancanza di documenti per il viaggio o del vettore (fattori estranei alla
volontà dello straniero e non riconducibili a condotte “resistenti”);
4). l’art. 9 della Direttiva prevede alcune ipotesi in presenza delle quali gli Stati membri rinviano
(parrebbe obbligatoriamente) l’allontanamento, come in caso di violazione del principio di non
refoulement, di concessione della sospensione dell’efficacia esecutiva della decisione di rimpatrio,
nonché quando lo richiedano le condizioni fisiche o mentali del cittadino di Paese terzo o altre
ragioni tecniche quali l’assenza del vettore o dell’identificazione; al contrario, per il diritto interno,
l’assenza del vettore o la mancata identificazione comportano un rinvio dell’allontanamento (art.
14, comma 1 T.U.), determinando il trattenimento obbligatorio o l’ordine di allontanamento del
questore soltanto nel caso in cui la misura restrittiva non possa essere disposta ad es. per carenza di
posti disponibili, e senza la sottoposizione agli obblighi indicati nella Direttiva; in ogni caso la
sospensione dell’allontanamento non è prevista dalla legge italiana (ad eccezione dei richiedenti
asilo ex art. 37, comma 6, D.Lgs. 25/2008).
In estrema sintesi, mentre la procedura originariamente prevista dalla l. 6 marzo 1998, n. 40 (c.d.
legge Turco-Napolitano) prevedeva una procedura fondata sull’intimazione allo straniero a lasciare
il territorio nazionale entro il termine di 15 giorni, dopo l’entrata in vigore della l. 30 luglio 2002, n.
189 (c.d. legge Bossi-Fini) la disciplina dettata dall’ordinamento interno è radicalmente difforme
dal modello delineato dalla Direttiva, non essendo previsto che il decreto prefettizio, ossia l’atto
corrispondente in qualche misura alla decisione di rimpatrio, attribuisca alcun termine per la
partenza volontaria, salva la ricordata ipotesi di cui all’art. 13 comma 5. Sul punto giova peraltro
evidenziare che non può certo sostenersi che il pericolo di fuga dello straniero sia presunto dal
legislatore italiano, atteso che in tal modo si invertirebbe il rapporto tra regola (concessione di un
congruo termine per la partenza volontaria) ed eccezione (mancata concessione del termine)
imposto dalla Direttiva, la quale esige chiaramente una valutazione caso per caso delle circostanze
che giustificano la deroga alla regola generale, delle quali dovrà, altrettanto evidentemente, darsi
adeguata motivazione nel provvedimento di espulsione.
c). Gli effetti diretti e indiretti delle Direttive dell’Unione europea.
E’ del tutto pacifico che il contrasto tra una Direttiva, ancorché non attuata, e la normativa interna
del singolo stato membro sia comunque produttivo di effetti.
Nel sistema italiano tali effetti divergono a seconda che la norma europea (locuzione che appare
preferibile all’espressione eurounitaria, che pure si sta affermando nel dibattito dottrinale) sia o
meno self executing, ossia immediatamente applicabile. Peraltro, in ogni caso, una volta riscontrato
il contrasto, in capo al giudice incombe, in prima battuta, l’obbligo di verificare la possibilità di una
interpretazione conforme alla norma europea.
Qualora non sia possibile una interpretazione conforme, potranno configurarsi due situazioni.
La prima ricorre quando la direttiva sia immediatamente esecutiva: in tal caso il giudice italiano è
tenuto, secondo lo ius receptum ormai consolidatosi a partire dalla storica sentenza Granital della
Corte costituzionale (sent. 170 del 8 giugno 1984), a “non applicare” la norma interna con essa
contrastante; norma interna che continuerà a produrre i suoi effetti ma soltanto fuori dall’ambito di
competenza comunitaria. Tale effetto di inapplicazione delle norme nazionali concerne anche i casi
in cui esse siano successive, secondo quanto ritenuto dalla Corte di giustizia a partire dalla sentenza
9 marzo 1978, C-106/77, Simmenthal.
La seconda situazione-tipo sussiste invece qualora la direttiva non sia immediatamente
applicabile: in tal caso il giudice, rilevato il contrasto tra la norma europea e la norma interna, non
potrà che ravvisare un profilo di illegittimità costituzionale di quest’ultima alla stregua dell’art. 117
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Cost. come integrato dalla direttiva; e una volta eventualmente constatata l’impossibilità di una
interpretazione costituzionalmente conforme non potrà che sollevare una questione di
costituzionalità di fronte alla Consulta.
Sulla base di queste premesse, e venendo al caso di specie, una volta riscontrato il pacifico
contrasto con la Direttiva n. 115, occorre in primo luogo stabilire se ricorrano le condizioni per una
interpretazione conforme.
La risposta negativa si impone, nel caso di specie, in considerazione dell’insuperabile contrasto
funzionale e finanche letterale tra le due normative.
Svolta questa necessaria verifica, occorre quindi accertare se le disposizioni della Direttiva
rispetto alle quali si rinviene l’antinomia siano o meno immediatamente esecutive, dal momento che
tale accertamento preliminare condiziona lo strumento esperibile sul piano giudiziario (non
applicazione della norma interna, proposizione di una questione pregiudiziale alla Corte di giustizia
ovvero di una questione incidentale di legittimità costituzionale).
A tal fine i criteri utilizzabili dal giudice interno sono quelli “costruiti” dalla Corte di giustizia, nel
corso di una pluriennale elaborazione7: la norma europea si considera self executing quando è
dettagliata, ovverosia “chiara, precisa ed incondizionata”.
Quanto alla prima nozione essa è indicativa di una condizione di non ambiguità od equivocità
della norma.
La precisione, invece, richiama una situazione di sufficiente specificità della norma, tale da non
richiedere l’emanazione d’alcun ulteriore provvedimento da parte delle istituzioni comunitarie o
degli Stati membri e che non lascia a questi ultimi alcuna discrezionalità nella sua attuazione.
Quanto poi al requisito del carattere incondizionato della norma esso si rinviene quando la
disciplina non è sottoposta ad alcune condizione per poter essere applicata.
E’ inoltre necessario che dalla direttiva discenda un effetto giuridico favorevole per l’individuo
nei confronti dello Stato inadempiente.
Infine, perché essa si consideri immediatamente esecutiva deve essere scaduto invano il termine
di attuazione per lo Stato, il quale non deve avere adempiuto a conformare il proprio ordinamento
agli obblighi discendenti dalla direttiva.
d). La natura “self executing” di alcune disposizioni della Direttiva in esame: conseguenze.
Nel caso di specie sono certamente “chiare e precise”, nell’accezione prima indicata, le norme che
stabiliscono, quale modalità ordinaria dell’allontanamento, il rimpatrio volontario, così descrivendo
una sequenza di attività che si connota come chiaramente incompatibile rispetto al paradigma
procedimentale previsto dal diritto interno.
Tale norma è, inoltre, chiaramente incondizionata, dal momento che non è attribuita allo stato
membro una possibilità di scelta in ordine alla disciplina applicabile.
Infine, il termine di attuazione per lo Stato italiano deve ritenersi infruttuosamente scaduto, non
potendo certo riconoscersi alcuna idoneità attuativa alla Circolare emessa dal Ministero dell’interno
in data 17 dicembre 2010.
Ne consegue che le disposizioni che prescrivono che il rimpatrio debba essere innanzitutto
volontario sono certamente self executing. Lo Stato italiano potrà eventualmente aggiungere
disposizioni di dettaglio; ma non potrà in alcun modo stabilire una modalità differente di esecuzione
“ordinaria” dell’allontanamento, sicché la relativa norma non richiede alcun provvedimento di
attuazione da parte delle istituzioni comunitarie o degli Stati membri. Peraltro, le eccezioni a tale
regola hanno un carattere meramente eventuale, ben potendo il singolo Stato non prevedere alcuna
7
Si vedano al riguardo, ex multis, le seguenti sentenze: CGCE 4.12.1979, C-41/74, Van Duyn; CGCE 5.4.1979, C148/78, Ratti; CGCE 19.1.1982, C-8/81, Becker; CGCE 26.2.1986 Marshall C-152/84; CGCE 26.9.2000, C-443/98,
Unilever.
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deroga alla regola base del rimpatrio volontario, sicché non può certo ammettersi, da un punto di
vista anche solo concettuale, che la regola generale, la quale non necessita di alcuna
implementazione di dettaglio, possa essere paralizzata dalla mera possibilità di eventuali deroghe da
parte del legislatore dello stato membro.
Analogo discorso può essere fatto per le norme che stabiliscono, per l’effettiva realizzazione del
rimpatrio, un termine diverso e più ampio di quello, pari a soli cinque giorni, previsto dalla norma
interna, atteso che anche in tale ipotesi vi è un chiarissimo divieto di stabilire un termine inferiore
che non può essere obliterato dalla successiva individuazione, da parte del legislatore nazionale, del
termine entro il range individuato dalla Direttiva. Tanto più che, anche in tal caso, il regime
derogatorio ha carattere meramente eventuale.
Non può quindi condividersi la tesi, pure astrattamente prospettabile, secondo cui la Direttiva non
sia incondizionata e precisa, avuto riguardo agli spazi rimessi alla discrezionalità del legislatore
nazionale.
La seconda censura ipoteticamente prospettabile rispetto al percorso argomentativo proposto,
concerne il fatto che il meccanismo espulsivo che sta alla base dell’incriminazione ex art. 14,
comma 5 ter sembrerebbe in realtà fondato proprio sulla partenza volontaria, in aderenza a quanto
stabilito dalla direttiva; circostanza confermata dalla stessa situazione oggetto del presente giudizio,
in cui l’espulsione è stata realizzata, in concreto, non attraverso l’accompagnamento coattivo quanto
piuttosto attraverso una intimazione assimilabile ad un rimpatrio volontario (in quanto non
coattivo). Una simile argomentazione, tuttavia, trascurerebbe di considerare che, anche a
prescindere dal fatto che tale termine è comunque inferiore a quello minimo di sette giorni che deve
essere di norma concesso per la partenza volontaria ai sensi dell’art. 7, §1 della Direttiva, in ogni
caso l’emanazione dell’ordine di allontanamento da parte del questore è in realtà concepito, nel
sistema del T.U., come una forma di esecuzione dell’espulsione meramente residuale rispetto alla
modalità ordinaria dell’immediato accompagnamento alla frontiera; forma di esecuzione che, come
già osservato, è peraltro ulteriormente subordinata all’impossibilità di trattenere lo straniero, nelle
more dell’accompagnamento coattivo, in un centro di identificazione e di espulsione.
Consegue alla ricostruzione fin qui accolta che le norme del D.lvo n. 286/98 che disciplinano il
procedimento di espulsione sono in radicale ed insanabile contrasto con le norme self executing
della Direttiva e non debbono essere applicate, con conseguenti effetti caducatori sul
provvedimento amministrativo emanato nell’esercizio della potestà amministrativa attribuita da tali
norme, rimanendo esso del tutto sprovvisto di base legale (c.d. illegittimità comunitaria indiretta o
derivata del provvedimento amministrativo). Ciò vale sicuramente per i casi di atti emanati
successivamente alla scadenza del termine di attuazione della Direttiva.
Nel caso di specie, peraltro, entrambi i provvedimenti amministrativi sono stati emanati in data 3
novembre 2008, e quindi prima della scadenza del termine di attuazione della Direttiva.
Ne consegue, che non essendo le norme della Direttiva incondizionata in vigore al momento della
loro adozione, i provvedimenti dovevano considerarsi adottati in maniera del tutto legittima.
e). L’applicabilità della Direttiva agli atti amministrativi emessi anteriormente alla scadenza del
termine di attuazione della Direttiva.
Muovendo da tale presupposto potrebbe ritenersi che la sopravvenienza della norma comunitaria
(rectius europea) non sia rilevante, atteso che il procedimento disciplinato dal diritto interno è
regolato dal principio generale, applicabile agli atti amministrativi, espresso dal broccardo tempus
regit actum, ogni atto amministrativo (anche endoprocedimentale) dovendo essere conforme alla
legge in vigore nel momento in cui viene posto in essere. E non è un caso che la dottrina e la
giurisprudenza amministrativa manifestino serie difficoltà a riconoscere l’illegittimità sopravvenuta
dell’atto assunto in conformità della norma interna successivamente divenuta in contrasto con la
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norma comunitaria (oggi europea). Una resistenza che però appare condizionata dalla peculiare
natura impugnatoria del processo amministrativo, costruita intorno alla previsione di termini
decadenziali, che verrebbero aggirati ove si consentisse di far valere, in qualunque tempo, il vizio
sopravvenuto, con grave pregiudizio per le esigenze di certezza giuridica.
Tale costruzione è tuttavia in evidente contrasto con quanto ritenuto dalla Corte di Giustizia
Europea nella sentenza Ciola c. Land Voralberg (29 aprile 1999, C-224/97), allorché i giudici
europei hanno affermato il principio secondo cui non soltanto le norme della legislazione interna ma
anche i provvedimenti amministrativi in contrasto con la norma europea (che in quel caso stabiliva
il principio della libera prestazione dei servizi), vadano necessariamente disapplicati nel giudizio
sulla legittimità della sanzione penale irrogata per l’inosservanza di tale norma; ciò anche quando
essi siano stati adottati anteriormente alla vigenza della norma europea (nel caso di specie prima
dell’adesione dell’Austria all’Unione europea)8. Una soluzione che la Corte giustifica con il fatto
che la tutela giurisdizionale accordata ai singoli dalle norme di diritto comunitario aventi efficacia
diretta non può dipendere dalla natura della disposizione di diritto interno con esse contrastanti, non
rilevando quindi che si sia in presenza di una disposizione legislativa o amministrativa.
Lungo questo tragitto di considerazioni, dopo la sentenza Ciola, sembra muoversi quella parte
della dottrina amministrativistica che attribuisce rilevanza al contrasto sopravvenuto, anche se poi –
da questa comune premessa – si rinvengono molteplici soluzioni circa la natura del potere del
giudice (amministrativo) rispetto all’atto illegittimo (annullamento, disapplicazione ecc.). In ogni
caso, va peraltro osservato che rispetto alle “regole processuali nazionali” del nostro processo
penale non pare esservi alcuna difficoltà di ordine formale al riconoscimento della rilevanza al
sopravvenire di una norma europea in contrasto con quella che conferisce la potestà dal cui
esercizio sia scaturito l’atto amministrativo presupposto della fattispecie incriminatrice. E pertanto
nessun ostacolo è tecnicamente frapponibile rispetto al riconoscimento, in siffatte ipotesi, di un
potere di “non applicazione” della norma de qua da parte del giudice penale.
Benché la vicenda affrontata dai giudici europei con la sentenza Ciola presenti evidenti assonanze
rispetto a quella oggi in esame, nel caso di specie più che di una disapplicazione dell’atto
amministrativo che, lo si ripete, la Corte di giustizia ha comunque configurato come (non soltanto
ammissibile ma addirittura) obbligatorio, deve configurarsi, già di primo acchito, un contrasto che
coinvolge la norma interna su cui si fonda la potestà amministrativa. Norma che quindi non andrà
applicata, atteso che secondo quanto affermato dalla Corte di Giustizia Europea nella sentenza
9.9.2003, C-198/01 “il principio del primato del diritto comunitario esige che sia disapplicata
qualsiasi disposizione della legislazione nazionale in contrasto con una norma comunitaria,
indipendentemente dal fatto che sia anteriore o posteriore”. Per i giudici di Lussemburgo, del resto,
è sostanzialmente irrilevante – tenuto conto della natura “verticale” della tutela accordata – l’assetto
dei meccanismi di tutela previsti dal diritto interno, dovendo attribuirsi prevalenza al dato per cui il
In quell’occasione, era accaduto che nel 1990 un’autorità amministrativa statale aveva autorizzato, con provvedimento
individuale, il gestore di un porto per imbarcazioni sul lago di Costanza , con atto amministrativo individuale, ad
allestire 200 posti barca, prescrivendogli però di limitare a non più di 60 unità il numero di posti da riservare ai
proprietari di imbarcazioni residenti in altro Stato membro.
A fronte della violazione di tale limitazione, nel 1996 al gestore era stata irrogata una sanzione penale (pecuniaria)
contro la quale egli si oppose. Il giudice competente aveva quindi formulato due quesiti in via pregiudiziale, chiedendo
(a) se le norme comunitarie sulla libera prestazione dei servizi non ostassero ad una limitazione in via amministrativa
dei posti barca da concedere in locazione a proprietari comunitari e (b) se il provvedimento amministrativo, una volta
qualificato come anticomunitario, potesse essere disapplicato, pur essendo decorsi i termini di impugnazione.
La Corte di Giustizia ha ritenuto che il provvedimento autorizzatorio, ancorché legittimo nel 1990, fosse divenuto
contrastante con il diritto comunitario a partire dall’adesione alla Unione europea dell’Austria (avvenuta nel 1995);
sicché esso andava disapplicato “nella valutazione della legittimità di un’ammenda irrogata per inosservanza di tale
divieto dopo la data di adesione”.
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giudice deve poter pervenire ad applicare la norma europea, comunque neutralizzando gli effetti di
quella interna ad essa contraria9.
E’ peraltro evidente che la inapplicazione della norma che costituisce la base legale della potestà
amministrativa, dal cui esercizio sono scaturiti i provvedimenti-presupposto della fattispecie
incriminatrice, non può non avere riflessi su tali provvedimenti.
Tali riflessi, secondo una prima tesi sviluppatasi in seno alla giustizia amministrativa, vanno
rinvenuti nella nullità/inesistenza sopravvenuta dell’atto amministrativo10. Ne consegue, che il
giudice penale non potrebbe che accertare che quell’atto non appartiene più al mondo del diritto,
sicché verrebbe a mancare il presupposto della condotta tipica.
Secondo altra tesi, invece, dovendo il giudice penale non applicare le norme interne
sull’espulsione che contrastino con la direttiva e dovendo al contrario applicare proprio le norme
contenute nella direttiva, non potrebbe che addivenirsi all’affermazione della illegittimità del
provvedimento amministrativo per violazione delle norme dell’Unione europea, sicché l’ordine di
allontanamento non potrebbe che essere disapplicato dallo stesso giudice penale ex art. 5 l. 20
marzo 1865, n. 2248, all. E), con conseguente assoluzione dell’imputato per insussistenza di un
presupposto del reato.
Come anticipato, contro questa ricostruzione potrebbe forse opporsi l’irrilevanza dell’illegittimità
sopravvenuta, sul presupposto che il procedimento amministrativo si sarebbe ormai chiuso, per cui,
essendosi consolidati gli effetti dell’atto, non si potrebbe più rimuoverlo.
Anche a prescindere dal fatto che una siffatta prospettazione, magari plausibile rispetto a
situazioni soggettive di vantaggio (c.d. diritti quesiti) in ragione di un principio di affidamento che
appartiene sicuramente ai valori fondamentali dell’ordinamento, non appare automaticamente
sovrapponibile rispetto ad atti di sfavore che addirittura incidono sulla libertà personale, deve
rilevarsi come una tesi siffatta “proverebbe troppo” con riguardo a principi ed esigenze proprie del
processo penale.
Infatti, rispetto ad una fattispecie incriminatrice che si caratterizza per una strettissima
compenetrazione tra normativa amministrativa e strumento penale, chiaramente posto a presidio
della prima, pare fondato affermare che gli effetti del provvedimento non possano ritenersi esauriti
fino a quando esso possa determinare l’applicazione di una conseguenza giuridica, sia pure in
maniera mediata dalla fattispecie incriminatrice.
In ogni caso deve rilevarsi come ove si ritenesse possibile non applicare la norma ma non anche
l’atto amministrativo che ne costituisce attuazione, si vanificherebbe lo scopo per il quale la
disciplina europea è stata introdotta, oltretutto con pesanti ricadute sul principio di uguaglianza, a
In verità, secondo la Corte di Giustizia Europea (v. sentenza 9.9.2003, C-198/01) “l’obbligo di disapplicare una
normativa nazionale in contrasto con il diritto comunitario incombe non solo al giudice nazionale, ma anche a tutti gli
organi dello Stato, comprese le autorità amministrative (v., in questo senso, sentenza 22 giugno 1989, causa 103/88,
Fratelli Costanzo), il che implica, ove necessario, l’obbligo di adottare tutti i provvedimenti necessari per agevolare la
piena efficacia del diritto comunitario”. La tesi di un obbligo di agire in autotutela in capo alla pubblica
amministrazione è tuttavia negato dal Consiglio di Stato (v. sentenza 3.3.2006) secondo cui dalla stessa giurisprudenza
comunitaria “si ricava che l’esercizio dei poteri di autotutela non può essere configurato in termini di doverosità con la
conseguenza che il vizio della violazione del diritto comunitario non comporta il necessario, e sostanzialmente
vincolato, esercizio dei poteri di autotutela da parte dell’amministrazione”.
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Si veda, al riguardo, T.A.R. Basilicata 17.10.2006 n. 723, secondo cui “il vizio di nullità (alla luce della sentenza
della Corte di Giustizia della Comunità Europea n. 198 del 9.9.2003) risulta configurabile soltanto se l’atto e/o
provvedimento amministrativo sia stato adottato sulla base di una norma interna incompatibile (e perciò disapplicabile
secondo quanto statuito dalla predetta sentenza della Corte di Giustizia) con il diritto comunitario”. Nonché, ancor
prima, si veda Consiglio di Stato, 10.1.2003, n. 35, secondo cui “la forma patologica della nullità (o dell’inesistenza)
risulta configurabile nella sola ipotesi in cui il provvedimento nazionale è stato adottato sulla base di una norma interna
(attributiva del potere nel cui esercizio è stato adottato l’atto) incompatibile (e, quindi, disapplicabile) con il diritto
comunitario”.
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seconda che l’atto sia stato emanato, per tornare al caso di specie, prima o dopo la data del 24
dicembre 2010.
Ma vi è di più.
Vi è infatti un’esigenza che è interna allo stesso sistema penale, che impone al giudice, qualora
come presupposto o elemento costitutivo di una fattispecie di reato sia previsto un atto
amministrativo, di non limitarsi a verificare l’esistenza ontologica di esso, ma di verificare
l’effettiva incidenza della condotta non conforme al provvedimento sull’interesse sostanziale che la
fattispecie assume a tutela. Nel caso di specie, in particolare, la norma non potrebbe più considerarsi
posta a tutela di una funzione amministrativa in grado di estrinsecarsi nelle forme tipizzate dalla
norma incriminatrice, con una evidente violazione del principio di offensività.
f). Gli effetti della direttiva ed il fenomeno la successione di leggi modificative.
Quest’ultima considerazione introduce una ulteriore riflessione, che è utile richiamare
conclusivamente: riflessione che la formula oggi utilizzata per il proscioglimento non consente di
spendere utilmente nel presente giudizio, ma che si richiama comunque per la sua valenza sul piano
sistematico, che come tale fa premio finanche sulla sua riconosciuta ridondanza.
Si è prima evidenziato come la sanzione penale, nelle fattispecie delineate dall’art. 14 comma 5
ter T.U. Immigrazione, risponda all’esigenza di assicurare una tutela rafforzata allo strumento
amministrativo, presidiandolo con lo strumento più efficace e pervasivo, quello penale appunto. E’
peraltro ovvio che nel momento in cui l’intera struttura del procedimento amministrativo si pone in
radicale conflitto con la norma europea fino al punto da andare incontro ad una ineluttabile non
applicazione, l’eventuale permanenza del presidio della sanzione penale rappresenterebbe una
aporia difficilmente sostenibile.
Questa riflessione, sul piano della argomentazione tecnica porta a ricondurre la sopravvenienza
della norma europea nell’ambito del fenomeno dell’abolitio criminis, sul presupposto che la
fattispecie incriminatrice richiami, implicitamente, le norme che disciplinano il procedimento
amministrativo di cui il decreto prefettizio e l’ordine questorile sono espressione. In tal caso, la
modifica delle norme richiamate dall’elemento normativo assurgerebbe al rango di un vero e
proprio fenomeno successorio, dal momento che secondo le Sezioni unite della Corte di cassazione
“l’art. 2 c.p. può trovare applicazione rispetto a norme extrapenali che siano esse stesse,
esplicitamente o implicitamente, retroattive, quando nella fattispecie penale non rilevano solo per la
qualificazione di un elemento ma per l’assetto giuridico che realizzano” (Cass. S.U. sent. 2451 del
27.9.2007).
§5. Il proscioglimento.
Le considerazioni fin qui svolte impongono di ritenere che in presenza di una sequenza di
provvedimenti amministrativi chiaramente illegittimi, ancorché per effetto del sopraggiungere della
norma europea confliggente con le norme che fondano la potestà amministrativa, non possa che
procedersi alla inapplicazione delle norme che disciplinano il procedimento amministrativo di
espulsione e, conseguentemente, alla disapplicazione amministrativa del decreto di espulsione
(identificato con Cat. A 11/08 n. 619) emesso dal Prefetto della Provincia di Cagliari in data
3.11.2008 e dell’ordine di allontanamento del Questore della Provincia di Cagliari (identificato
come atto Cat. A 11/08 n. 576).
Per l’effetto l’imputato va mandato assolto perché il fatto non sussiste, atteso che la
disapplicazione di entrambi i predetti provvedimenti non consente di ritenere integrato il fatto
materiale tipico del delitto contestato.
PER QUESTI MOTIVI
Visto l’art. 530 cod. proc. pen. assolve SILLA Mody dal reato ascrittogli perché il fatto non
sussiste.
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Cagliari, 14 gennaio 2011.
Il giudice
(dott. Carlo Renoldi)
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