Gazzetta di Parma - Marsilio Editori

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MARTEDÌ 15 OTTOBRE 2013
«Cos'è il jazz? Amico,
se lo devi chiedere, non lo saprai mai»
Cultura
A
Letti per voi
Giuseppe
Martini
desso che «Il grande Gatsby» è
diventato un best-seller per motivi cinematografici – in questi
casi si dovrebbe parlare però di maniac-seller o di contagius-seller – è quasi
una sfida ingegnosa il fatto che ne esca
la prima traduzione italiana della prima
versione, «Trimalchio», in una elegante
edizione per i tipi di Mattioli 1885, con
una sobria postfazione del curatore Nicola Manuppelli, quasi una garbata morale di quanto ha riservato la nuda lettura. D’accordo, si dirà, è roba principalmente per fans di Francis Scott Fitzgerald. Ma non si rifiutino a prima vista
Louis Armstrong
FITZGERALD,
L'AVVENTURA
DI «TRIMALCHIO»,
PRIMA VERSIONE
DI «IL GRANDE
GATSBY»
i piaceri sottili della scoperta di una prima versione, tanto più che non si tratta
di una variante ma di un progetto diverso sul quale Fitzgerald interverrà in
seguito riscrivendo due capitoli (6 e 7) e
rivedendo quasi tutto l’elaborato, oltre a
ripulirlo stilisticamente, cambiando
particolari apparentemente insignificanti, e rimasticando i personaggi, soprattutto Jordan e Nick. Nel 1924, un
anno prima del rifacimento definitivo,
«Trimalchio» era stato spedito all’editore Maxwell Perkins che, sia chiaro entusiasta, propose qualche ritocco al personaggio di Gatsby suggerendo di an-
ticipare la rivelazione del suo passato e
di aggiungere ragguagli sul suo aspetto
fisico e sull’origine della sua fortuna.
Che Fitzgerald volesse fin dall’inizio un
Gatsby circonfuso di un alone di indefinitezza era chiaro anche prima, il confronto dei due romanzi rivela certi cambi di focalizzazione che, evidentemente,
non sono solo frutto della volontà di
ritardare l’agnizione dei pregressi. Inoltre restano intatti – uno scrittore sa cosa
significhi – l’incipit e l’explicit del romanzo. Quanto al titolo, il riferimento al
liberto arricchito del romanzo latino di
Petronio sembrava perfetto ma troppo
dotto, e impegnò Fitzgerald in una ridda
di alternative la cui scelta definitiva temeva addirittura potesse diventare causa di un possibile insuccesso del libro. Il
consiglio è comunque quello di prendere «Trimalchio» non come un prima
versione ma per quello che è: paradossalmente giova al piacere estetico e alla
consapevolezza dei meccanismi narrativi. La traduzione italiana è, come direbbe Nick Carraway, «elemental and
profound».
Trimalchio
Mattioli 1885, pag. 191, € 13,90
Editoria Decimo volume della monumentale «Storia di Parma» pubblicata da Mup
EPOPEA
delle note
e delle voci
Musica e teatro, eccellenze culturali
espresse nei secoli dalla nostra città
di Mara Pedrabissi
R
ispettate e fatevi rispettare: mai un’ingiustizia e
mai una debolezza: trattate egualmente i più alti come i più bassi, non abbiate predilezione per nissuno, non abbiate simpatie né antipatie, e non abbiate nemmeno paura di qualche maledizione» scriveva Verdi in data 16
giugno 1870 all’amico e collaboratore
Emanuele Muzio (Zibello 1821-Parigi
1890), fidato «aiutante in campo» del
compositore. Il consiglio del Maestro
delle Roncole voleva essere di buon
viatico alla imminente nomina di Muzio a direttore del Théatre-Italien di
Parigi, nomina che però non ebbe corso poiché Napoleone III fu sconfitto a
Sedan, fu proclamata la repubblica e i
Prussiani misero l’assedio a Parigi. Un
trabocchetto del fato che non diminuisce, a conti fatti, la carriera di Muzio,
titolare di un posto di rilievo anche
nella storia della musica degli Stati
Uniti: fu, tra l’altro, il direttore della
stagione che nel 1873-1874 portò e diresse una compagnia di «all stars», ri-
cordata come la migliore di tutto l’Ottocento americano. Siamo partiti dal
particolare per arrivare all’universale.
Il profilo di Muzio, qui solo abbozzato,
è uno dei tanti pezzi, differenti e complementari, che compongono il decimo volume della «Storia di Parma»
dedicato a Musica e Teatro per i tipi di
Mup, Monte Università Parma Editore
(pagg. 717, euro 100, 00) e pensato proprio per l’occasione del Bicentenario
Verdiano. La presentazione si terrà sabato (ore 10.30, Ridotto del Teatro Regio): intervengono Luigi Allegri e
Francesco Luisi, Markus Engelhardt,
Daniele Seragnoli. Elegante e raffinato
- carta patinata, preziose illustrazioni,
caratteri ben leggibili - il decimo anello della collana con rigoroso metodo
storico restituisce situazioni e personaggi dall’epoca romana ai giorni nostri (e qui la ricostruzione si fa intrigante, arricchendosi di testimonianze
dirette, talora inedite) riuscendo nel
lodevole intento di non sacrificare né
l’aspetto scientifico né quello più divulgativo come, appunto, la sezione
Il tempio della lirica Interno del Teatro Regio.
Appuntamento
Presentazione
sabato alle 10,30
al Ridotto
del Teatro Regio
dei ritratti dei protagonisti da cui siamo partiti con Muzio. Lo scheletro del
volume è diviso in due sezioni: Musica
e Teatro, rispettivamente a cura dei
professori Francesco Luisi e Luigi Allegri che firmano anche specifiche sezioni affiancati da stimati colleghi. La
prima parte si compone di «Liturgia e
musica nella Chiesa medievale» (Cesarino Ruini), «Polifonia artistica, Musica civica e teorizzazione tra Ars Nova
e Rinascimento» (Rodobaldo Tibaldi),
«La musica al tempo dei Farnese da
Pier Luigi a Ranuccio I» (Luisi), «Musica a corte da Odoardo Farnese alla
fine del Ducato» (Paolo Russo), «La
musica in scena. Caratteri e vicende
dal XVII al XXI secolo» (Marco Capra), Protagonisti e Istituzioni «Da
Maria Luigia alla Prima Guerra Mon-
diale» (Gaspare Nello Vetro), «Dal Regno d’Italia al secondo Dopoguerra»
(Gustavo Marchesi), «Il Novecento»
(Gian Paolo Minardi). La seconda sezione si articola così: «Il Teatro e lo
spettacolo» (Allegri), «La drammaturgia dal Cinquecento all’Ottocento»
(Nicola Catelli, Francesca Fedi), «La
scenografia» (Massimo Mussini), «Gli
edifici teatrali e i luoghi di spettacolo»
(Manuela Bambozzi), «Marionette e
burattini» (Alfonso Cipolla), «Il teatro
dialettale» (Carlo Varotti). A Luigi Allegri, come si diceva, il compito di individuare il taglio. Compito arduo,
ammette egli stesso nelle note di prefazione: «Raccontare e documentare il
teatro non è facile. Se, come dice Jerzy
Grotowski, uno dei protagonisti del
Novecento teatrale, il teatro è qualcosa
''che avviene tra lo spettatore e l’attore'', a rigore proprio non lo si potrebbe
raccontare. Perché quella del teatro è
un’esperienza esistenziale, insieme individuale e collettiva, emotiva e culturale, ma sempre necessariamente
nella presenza contemporanea dell’attore e dello spettatore... Il ''teatro'',
dunque, in questo volume non c'è e
non può esserci, nè di conseguenza
può esserci la sua storia parmigiana.
Quello che c'è è la storia della sua memoria». Una dichiarazione di intenti
ossimorica, lucida e poetica al contempo, che dà conto dell’approccio scientifico adottato nel dover ricostruire
circa duemila anni di cultura teatrale
parmigiana. Francesco Luisi, trattando la sezione intorno alla musica, ha a
sua volta diviso il lavoro in due parti:
«la prima - spiega - attiene alla trattazione storica in senso stretto, la seconda presenta una varia e significativa esposizione dei fenomeni legati a
personaggi e a istituzioni che hanno
vitalizzato la storia di Parma». Il tenore Emilio Naudin, morto in povertà
dopo aver dissipato le sue ricchezze, il
soprano Adalgisa Gabbi per la quale si
sarebbero suicidati tre uomini, la danzatrice Virginia Zucchi l’étoile che modificò il gonnellino dei tutù come si
vede oggi per non parlare dei già ben
noti Verdi, Toscanini, Tebaldi. E’ indubbiamente attraente questa sezione
nella quale brilla una varia costellazione di personaggi affidati alla penna
sapiente di studiosi. «Quei personaggi
hanno fatto la storia della musica più
recente [...]; peraltro sono quelli che
albergano di diritto nella conoscenza
più diffusa, rappresentano il quotidiano consumo della grande musica, veicolano la cultura musicale di Parma
nel mondo». Un punto di arrivo, dunque? No, un punto di partenza, perché
come annotava la sferzante penna di
Bruno Barilli (1880-1952) «l'arte è come la guerra, non si arrestano le operazioni».
Storia di Parma - Musica e teatro
Mup, pag. 717, € 100,00
Libri «Eccellenti pittori», saggio di Camillo Langone sui maestri di oggi da lui reputati tra i primi venticinque
Artisti italiani, l'eletta schiera
capeggiata da Enrico Robusti
Tra loro Serafini, Davoli
e un altro parmigiano,
benché adottivo:
Abel Herrero
Manuela Bartolotti
II Otto
criteri di otto grandi personaggi
per scegliere gli Eccellenti pittori italiani
del nostro tempo. A questi si attiene il
giornalista e critico Camillo Langone nel
suo ultimo libro che, secondo l’esempio
vasariano, vuole esaltare, ovvero tirar fuori dalla magmatica e confusa molteplicità
degli artisti o presunti tali, quelli degni a
parer suo di menzione. Sono 25, di cui due
parmigiani di nascita o d’adozione (Enrico Robusti, Abel Herrero) da conoscere,
ammirare, collezionare. Ognuno soddisfa
uno o più criteri d’apprezzamento, dal
criterio più raro a trovarsi di Marc Augé
(«uno che dà speranza, ossia un artista»)
soddisfatto solo da Cingolani e da Galliano delle donne incinte, a quello più
facile di Delacroix («la prima virtù di un
dipinto è essere una festa per gli occhi»),
al quale corrispondono Marcus Petrus ed
Ernesto Tatafiore. Per Ugo Foscolo «l’arte
non consiste nel rappresentare cose nuo-
ve, bensì nel rappresentare con novità».
Ecco qui che s’inseriscono Stefanoni e Salvo i quali rinnovano i temi consunti ed
elementari della casetta con l’alberello,
mentre Vezzani modernizza le donne di
antichi capolavori ed Ester Grossi rigenera persone e paesaggi con la sua pittura
piatta e illustrativa. «Quello che rimane
nei secoli sono le opere», ha scritto Daniele Galliano. Questo è uno dei criteri più
certi, ciò che vale resta e resta immutato
nel tempo anche materialmente, come i
fiori di Mazzoni sempre freschi, l’efficacia
del ciclo francescano di Di Stasio e gli
encausti intaccabili di Ottieri. Se la bellezza è misura di persistenza e stabilità
interiore, ancor più la perfezione, come ha
scritto Nietzsche: «Cosa soltanto può ristabilirci? La vista del perfetto». Perfetto è
laddove nulla v’è d’aggiungere o togliere,
nulla migliorare, quindi i paesaggi pisani
di Bartolini, i palazzi latinensi di Fiorentino, gli incidenti di Verlato, i non-luoghi
silenti, evocativi, quasi sovrannaturali di
Tirelli. Ma non tutto ciò che è nell’arte è
oggettivamente bello, anzi.
La bellezza dell’arte è qualcosa di trascendente e sublimante, produce la catarsi del brutto, del doloroso, dell’atroce
persino, in qualcosa di superiore, inducendo alla riflessione e all’intima conver-
sione. L’esempio più attinente potrebbero essere Caravaggio e gli artisti della realtà. Tra i pittori eccellenti, quelli che «riescono a rendere bello il brutto» secondo
l’osservazione di Roger Scruton, sono Capogrosso, Angelo Davoli e Reggio.
Infine, si devono trovare altre due doti
essenziali nell’opera d’arte, ovvero forza e
originalità. Così pensava Pasternak. E
queste caratteristiche le avrebbe certo riscontrate in Arruzzo e Marta Sesana. Ma
ancor più nei due parmigiani, uno doc
come Enrico Robusti, uno adottivo come
il cubano Herrero. Tutti poi devono distinguersi, perché «non v’è arte dove non
v’è stile», sentenzia Wilde, dandy impietoso nei confronti della banalità e con una
certa affinità elettiva con Langone. Inconfondibili sono Gasparro, Emila Sirakova per i dettagli delle figure e soprattutto Serafini che ha addirittura inventato un alfabeto. Doveroso dire che non ci
sono ancora tutti, ma li aspettiamo in
seconda edizione. Intanto si hanno dei
nomi e soprattutto un metodo per discriminare il grano dalla gramigna nell’affollatissimo e ingannevole mondo dell’arte. Langone difende anche la Biennale
veneziana di Sgarbi, accusata di horror
vacui. Per notare la qualità sostiene che
serva la quantità. Come tra tanti sassi, si
distingue il luccichio della pietra preziosa, mentre isolata, anche la ghiaia fa la sua
figura. Non è libro accomodante verso le
mode e le provocazioni alla Catellan. Langone richiede all’artista mente e mano,
cerca la figura e il disegno, non solo gesto
e concetto. In questo senso è reazionario,
ma in realtà rivoluzionario, in controtendenza all’iconoclastia planetaria. E’ vasariano e cerca il piacere visivo invece
dell’angoscia nichilista. Vuole guardare e
godere rivolgendosi a chi vuole guardare
e godere. Godere della bellezza, della forza delle pennellate, dell’invadenza emotiva della pittura.
Proprio come quella del prediletto
Enrico Robusti che gli ha fatto il ritratto
(l’unico modo di eternarsi) tra salumi e
leccornie. Campeggia in cucina come icona nel tempio di Bengodi. Lasciamo dunque stare le sofisticherie pseudo-intellettuali: vedere è piacere. Il primo e sotteso criterio per scegliere gli Eccellenti
pittori è infine quello di Camillo Langone, intendendo l’arte quale godimento
visivo, piacevolezza estetica sostenuta da
originalità, stile, forza, abilità. Così è, se vi
pare. E anche se non vi pare.
Eccellenti pittori
Marsilio, pag. 127, € 15,00
Ambientazione ducale Camillo Langone ritratto da Enrico Robusti.