Federalismo (2). I. LA CONFUSIONE DEI SIGNIFICATI.

Federalismo (2).
I. LA CONFUSIONE DEI SIGNIFICATI. - Nella cultura politica il termine f. viene usato per
designare due oggetti differenti. In una prima accezione, chiara, ma riduttiva, designa la teoria dello
Stato federale. In una seconda accezione, piuttosto oscura, ha come referente una visione globale della
società.
Se il primo significato non è controverso, perché si fonda sulla teoria dello Stato federale, modello
costituzionale che è stato oggetto di numerosi studi, che ne hanno illustrato nei suoi aspetti
fondamentali la struttura e il funzionamento, esso è indubbiamente riduttivo. Infatti, da un lato, la
conoscenza di uno Stato non è completa se non si prendono in considerazione le caratteristiche della
società, che permettono di mantenere e di far funzionare le istituzioni politiche. E quindi, se lo Stato
federale è uno Stato dotato di proprie caratteristiche, che lo distinguono dagli altri tipi di Stato, dobbiamo ipotizzare che abbiano qualche carattere federale i comportamenti di coloro che vivono in tale
Stato. D'altro lato, dobbiamo rilevare la presenza di comportamenti federalistici anche fuori degli Stati
federali: in Europa nel corso dell'Ottocento e del Novecento, prima individui isolati, poi veri e propri
movimenti organizzati hanno impiegato i princìpi federalistici per definire il loro atteggiamento
politico. Queste due osservazioni sembrano indicare la superiorità del secondo modo di concepire il f.,
inteso cioè come una dottrina sociale di carattere globale, al pari del liberalismo o del socialismo, che
non si riduce quindi all'aspetto istituzionale, ma comporta un atteggiamento autonomo, verso i valori,
la società, il corso della storia e così via. Per questo secondo significato il punto di riferimento
obbligato è l'utopia di Proudhon, il quale però, sebbene abbia dato per certi aspetti un apporto
effettivo alla teoria del f., non fondando la sua concezione su una definizione scientifica della struttura
sociale e lasciando storicamente indeterminato il suo progetto federalistico, non ci ha saputo dare una
definizione soddisfacente.
Per giungere a una definizione più rigorosa, secondo l'indicazione di M. Albertini, occorre
procedere, sulla base del metodo di analisi delle scienze storico-sociali, prima a una ricognizione
dell'insieme dei dati federalistici, poi all'organizzazione dei vari aspetti identificati (di valore, di
struttura, storico-sociale) in un quadro coerente. In tal modo sarà possibile situare il f. nel corso
storico e metterlo in relazione con le altre ideologie.
Il. LA NEGAZIONE DELLO STATO NAZIONALE. - Si può forse giungere più facilmente a
comprendere il significato del f. se si comincia a considerarlo dal punto di vista di ciò che nega
piuttosto che da quello di ciò che afferma. In effetti, dal punto di vista storico, le determinazioni
positive della teoria del f. si sono venute chiarificando attraverso l'esperienza della negazione della
divisione del genere umano in Stati sovrani e della centralizzazione del potere politico. E siccome
questi fenomeni si sono manifestati nella forma più caratterizzata nell'Europa delle nazioni,
storicamente il f. si è venuto definendo come la negazione dello Stato nazionale.
In Europa una corrente federalista si è manifestata contemporaneamente all'affermazione del
principio della sovranità nazionale durante la rivoluzione francese e si è mantenuta viva nel corso dei
secc. XIX e XX. Si trova per la prima volta l'ideale federalistico nella componente cosmopolitica
della rivoluzione francese nell'opera di Kant e nell'utopia europea di Saint-Simon. Lo si ritrova nei
programmi delle associazioni pacifistiche, nelle risoluzioni dei congressi della pace e dei congressi
dei giuristi della fine del secolo scorso, negli scritti di Cattaneo, Frantz, Mazzini e Proudhon. Ed è
presente in modo persistente e consistente, sia pure con le eclissi determinate dalle vicende storiche,
in seno alle correnti liberale, democratica e socialista, che hanno dominato la storia del sec. XIX, a
testimoniare la consapevolezza che i valori di cui tali correnti erano portatrici non possono essere
limitati a un solo paese senza degenerare. Per esemplificare il peso effettivo di tale ideale, basta
ricordare che Lenin nel 1915 sentì il bisogno di prendere posizione contro la «parola d'ordine degli
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Stati Uniti d'Europa», di cui però non poté contestare il valore positivo. Egli si limitò a ribadire che il
compito preliminare era la realizzazione della rivoluzione socialista dovunque fosse possibile, a
cominciare da alcuni paesi o anche da un solo paese. Ma siccome pensava che essa fosse imminente
in tutta l'Europa, il momento di lanciare quella parola d'ordine era soltanto rimandata al tempo in cui
il socialismo avesse trionfato. Di conseguenza, tale presa di posizione non equivaleva affatto al rifiuto
del principio dell'unità europea. Ad ogni modo, si trattava di un'esigenza ideale, cui non
corrispondevano ancora nella realtà storica condizioni adatte a tradurla in azione politica. Tuttavia, la
sua radice era profonda. La ragione impedisce di pensare i valori liberali, democratici e socialisti, che
nel secolo scorso hanno affermato nuovi modelli di convivenza politica, che però si sono realizzati in
modo parziale e precario all'interno degli Stati nazionali, come limitati al solo spazio nazionale.
D'altra parte, l'estensione di tali valori sul terreno europeo, per aprire la strada alla loro affermazione
universale, non è possibile senza impiegare strutture politiche federali. Inoltre i limiti dello Stato
nazionale, che all'inizio potevano essere percepiti solo nell'orizzonte teorico federalistico, cioè sulla
base della negazione della pretesa dell'ideologia dominante di presentare le istituzioni nazionali come
l'unica forma legittima di organizzazione politica dell'umanità, con il pieno sviluppo e la generalizzazione del principio nazionale, diventarono limiti pratici della stessa azione politica degli Stati
nazionali e delle forze che li sostenevano, derivanti dalla crescente incompatibilità tra questa formula
politica e l'equilibrio internazionale.
Finché in Europa dominò la formula politica dello Stato assoluto, le relazioni internazionali furono
rapporti di re e di principi, dai quali i popoli erano esclusi. L'aristocrazia formava una comune società
europea, cui corrispondevano degli obblighi derivanti dall'unità morale del mondo cristiano e dal
riconoscimento delle norme del cosiddetto « diritto europeo », che aveva lo scopo di mantenere
l'equilibrio di potere tra gli Stati. Anche le relazioni tra individui di nazionalità diversa erano
improntate della convinzione di appartenere a una comune società europea, nella quale gli elementi di
unità erano più forti di quelli di divisione. La formazione politica di Metternich era influenzata da
questa realtà e, se l'ordine europeo che uscì dal Congresso di Vienna fu stabile, ciò dipese dal fatto
che quegli obblighi conservavano forza vitale anche nell'età dell'incipiente nazionalismo e
rappresentavano ancora un contrappeso al confronto aperto degli egoismi nazionali. D'altra parte, le
trasformazioni subite dallo Stato con le riforme democratiche e sociali, le quali, portando il governo a
fondarsi sulla partecipazione popolare e a estendere le proprie competenze all'intervento nella vita
economica e sociale, favorirono un'enorme concentrazione di poteri nello Stato burocratico
impensabile durante l'ancien régime. Lo Stato si appropriò così delle energie destate dalla rivoluzione
industriale e dalle trasformazioni politiche che la accompagnarono e il risultato (non voluto e non
previsto né dai liberali, né dai democratici, né dai socialisti) fu l'accentramento, l'integrazione
nazionale e il nazionalismo. Ciò dipese dal fatto che dietro la «nazione sovrana» c'era sempre lo Stato
con le vecchie esigenze di sicurezza e di potenza, ma reso ancora più aggressivo dalla nuova necessità
di servire gl'interessi economici e sociali delle masse in un'epoca nella quale, in conseguenza della
rivoluzione industriale, che andava moltiplicando i rapporti tra individui appartenenti a Stati diversi,
le relazioni internazionali tendevano a estendersi e a moltiplicarsi costantemente, aggravando così
l'anarchia internazionale, il disordine economico e l'autoritarismo. D'altra parte, il controllo dei valori
linguistici, morali e culturali, che animano il sentimento nazionale e che erano rimasti fino allora
esclusi dalla lotta politica, passò allo Stato, il quale se ne servì per fondare sia la legittimazione del
proprio potere sia la propria politica estera. In questo modo lo Stato nazionale soppresse tutti i legami
spontanei di attaccamento che gli uomini avevano sempre avuto verso le comunità territoriali più
piccole e verso le collettività più grandi della nazione, per impedire che altri legami potessero
indebolire la fedeltà assoluta che lo Stato pretendeva dai cittadini. La fusione dello Stato e della
nazione eliminò dunque i limiti interni e internazionali che avevano frenato lo scontro tra gli Stati
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quando erano fondati sul principio dinastico e ne fece dei gruppi chiusi, centralizzati e bellicosi. E
nelle coscienze si affermò la convinzione ideologica che le nazioni fossero «stirpi» assolutamente
diverse, fondate su princìpi inconciliabili. Mentre si diffondeva l'illusione che il miglior equilibrio
avrebbe potuto essere garantito fondando interamente l'Europa su basi nazionali, Proudhon con
grande lungimiranza scrisse che la miscela esplosiva della fusione dello Stato e della nazione avrebbe
accentuato le divisioni internazionali, trasformando le lotte tra i popoli in « sterminio di razze ».
D'altra parte, Frantz aveva intuito la contraddizione fondamentale del nazionalismo tra l'aspirazione
all'autonomia e all'uguaglianza di tutti i popoli e la loro divisione politica. La divisione politica
trasforma i popoli in gruppi armati e ostili e rende così precaria, e alla lunga impossibile, la loro
coesistenza pacifica. La ineguale distribuzione del potere politico tra gli Stati determina rapporti
egemonici e imperialistici degli Stati più forti nei confronti dei più deboli. L'autonomia e
l'affratellamento di tutti i popoli, affermati nei princìpi, sono negati nella realtà. E l'affermazione del
principio nazionale, prima in Italia e poi soprattutto in Germania, sconvolgendo l'equilibrio europeo e
rendendo inevitabile la prima guerra mondiale con le sue caratteristiche di guerra generalizzata e
totale, confermò il giudizio storico di Proudhon e di Frantz.
Da questo momento il f., cioè la teoria del governo democratico sovranazionale, lo strumento
politico che permette di instaurare relazioni pacifiche tra le nazioni e di garantirne nello stesso tempo
l'autonomia, attraverso la loro subordinazione a un potere superiore, ma limitato, può cominciare a
diventare tendenzialmente un'alternativa teorica e pratica storicamente operante, perché il fallimento
dell'Internazionale socialista e lo scoppio della prima guerra mondiale rivelano i primi effetti
catastrofici della crisi storica dello Stato nazionale. Ma, mentre la classe dirigente europea si attendeva dalla generalizzazione del principio nazionale e dalla fondazione della Società delle Nazioni,
decise a Versailles, l'inizio di una era di pace, si crearono le premesse del fascismo e del nazismo,
della seconda guerra mondiale e del crollo del sistema europeo degli Stati.
La teoria federalistica, che in questa fase non era stata ancora sviluppata in tutti i suoi aspetti, ma
era concepita semplicemente come un necessario completamento della teoria liberale, di quella
democratica e di quella socialista, permise di illuminare la vera natura di alcuni aspetti essenziali di
questo processo storico. L. Einaudi, fin dal 1918, mise in evidenza i limiti del progetto della Società
delle Nazioni, la quale, fondandosi sul principio confederale, non limitava la sovranità nazionale, e le
contrappose la federazione europea come unico mezzo per garantire la pace. Inoltre egli identificò nel
problema dell'unificazione europea il filo conduttore della storia del nostro secolo, definì le guerre
mondiali come due tentativi di risolverlo con la violenza e indicò la causa di tali guerre nella
contraddizione tra il carattere tendenzialmente sovranazionale della produzione e di tutti gli altri
aspetti della condotta umana ad essa direttamente o indirettamente collegati e le dimensioni nazionali
dell'organizzazione politica. Ciò che rimase implicito e che L. Dehio, l'ultimo rappresentante della
scuola storica rankiana, sviluppò, anche se in modo incompleto, è il nesso tra la crisi dello Stato
nazionale e il nazi-fascismo. Egli mostrò che lo Stato nazionale, pur essendo diventato uno spazio
troppo ristretto per consentire l'espansione della produzione, doveva provvedere alla propria difesa in
un clima di forte tensione internazionale e, di conseguenza, doveva cercare con il protezionismo la
propria autosufficienza economica e l'indebolimento dei vicini. Il nazi-fascismo ha quindi
rappresentato sul piano economico-sociale la risposta autarchica e corporativa al ristagno economico,
all'immiserimento delle masse proletarie e piccolo-borghesi e all'esasperazione della lotta di classe e
sul piano politico la risposta imperialistica a un equilibrio europeo ormai insostenibile. E stato insomma l'estremo tentativo dello Stato nazionale di sopravvivere in un mondo il cui avvenire era ormai
nelle mani degli Stati di dimensioni continentali, portando fino alle estreme conseguenze la logica
totalitaria della compressione di tutte le forze produttive entro i propri confini e della mobilitazione di
tutte le risorse sociali al servizio della politica di potenza. Nel periodo tra le guerre mondiali il f. fu
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impiegato dai rappresentanti del movimento federalista inglese (Federal Union) per spiegare la crisi
dello Stato nazionale. Lord Lothian precisò l'insegnamento kantiano sulla natura della guerra e della
pace, applicandolo al mondo contemporaneo, identificò nell'anarchia internazionale la causa della
guerra e ne indicò il rimedio nelle istituzioni federali. Nello stesso tempo l'anarchia internazionale
viene definita come il principale ostacolo alla piena affermazione del liberalismo (L. Robbins) e del
socialismo (B. Wootton). In sostanza, il principio implicito in tutti questi autori e che verrà enunciato
da A. Spinelli e E. Rossi durante la Resistenza nel Manifesto di Ventotene è che la linea di divisione
tra conservazione e progresso coincide ormai con quella tra Stato nazionale e Federazione europea.
Dopo la seconda guerra mondiale le nazioni europee hanno esaurito il loro ruolo storico e sono
ridotte a elementi subordinati di un sistema mondiale formato da potenze continentali (quella
nordamericana, quella sovietica e quella emergente cinese), il cui ordine di grandezza fa sì che
abbiano un regime politico più complesso di quello degli Stati unitari e più o meno spiccate differenze
sociali a base territoriale. Tutti segni che indicano che la formula dello Stato nazionale è storicamente
superata e che gli Stati europei potranno recuperare la loro indipendenza solo unificandosi. E si può
prevedere che l'unione delle nazioni storiche dell'Europa non potrà essere che di tipo federale. D'altra
parte, sia la formazione di movimenti federalistici organizzati durante la Resistenza e il loro sviluppo
anche nel dopoguerra sia il grado avanzato dell'unificazione europea sembrano indicare che il f. può
avere una realizzazione pratica in Europa. In realtà, con l'elezione a suffragio universale del
Parlamento europeo, e l'incremento dei suoi poteri di co-decisione, con l'unificazione monetaria, con
l'elaborazione della Carta dei diritti fondamentali e della Costituzione, le istituzioni europee hanno
compiuto dei progressi decisivi sulla via della trasformazione dell'Unione Europea in una federazione.
Non si conoscono esempi storici di unioni di Stati con un'assemblea eletta a suffragio universale,
dotata in numerosi settori di poteri legislativi e con una moneta unica. Tutte le unioni di Stati che
hanno questi caratteri sono federazioni. Certo, alcune delle istituzioni e delle procedure di decisione
dell'Unione Europea hanno già carattere federale, altre invece conservano una natura confederale e
intergovernativa. Si considerino la politica estera e di sicurezza o la politica fiscale o ancora la
procedura di revisione della Costituzione: sono tutte materie che richiedono decisioni all'unanimità.
Se si può affermare che, a partire dall'elezione europea, il processo di unificazione si muove ormai
sul terreno costituzionale, perché il voto costituisce un fondamentale diritto costituzionale, resta il
fatto che nemmeno la Costituzione elaborata dalla Convenzione europea nel 2002-2003 è pervenuta
alla piena costituzionalizzazione dell'Unione Europea. Comunque sia, in quest'ultima fase della crisi
dello Stato nazionale, quella dell'unificazione europea, il f. è potuto giungere alla soglia di una visione
globale della società, capace di dominare teoricamente e praticamente quella che M. Albertini ha
chiamato la fase sovranazionale del corso della storia, che oggi si manifesta nel processo di unificazione dell'Europa, ma che, in prospettiva, tende a unificare il genere umano.
III. L'ASPETTO Di VALORE. - Troviamo la prima formulazione di alcuni elementi essenziali
della teoria federalistica, intesa come dottrina sociale globale, alle soglie dell'era del nazionalismo
negli scritti politici, giuridici e filosofico-storici di Kant. Ciò che caratterizza il suo pensiero non è
ancora la negazione dello Stato nazionale, ma la negazione della guerra e dell'anarchia internazionale,
denunciate come i fattori fondamentali che mutilano l'uomo e ne impediscono il libero sviluppo. Il
progetto kantiano di pace perpetua si distingue profondamente da quelli che lo hanno preceduto, perché non è concepito come una proposta da presentare a un capo politico perché unifichi un vasto
territorio e istituisca un impero o a governi e diplomatici perché creino un equilibrio internazionale
migliore. Da un lato, contestando che il diritto internazionale e l'equilibrio tra le potenze siano
strumenti efficaci a garantire la pace, formula un giudizio che la storia di divisioni e di guerre
dell'Europa delle nazioni avrebbe confermato. D'altro lato, sostenendo che solo il f. permette di
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stabilire la pace, definisce questo valore in termini radicalmente nuovi, come espressione della
esigenza di unificare i popoli, che erano entrati sulla scena della storia con la rivoluzione francese,
creando un governo sovrannazionale.
Siccome a livello internazionale, a differenza di quanto avviene all'interno degli Stati, la potenza
non è monopolizzata da un centro di potere che offra a tutti una garanzia legale, ma è dispersa, ogni
Stato dovrà restare in permanenza armato, dovendo presupporre sempre di doversi fare giustizia da sé.
Pertanto, secondo Kant, le relazioni internazionali appartengono ancora alla sfera pregiuridica dello
stato di natura. Né il diritto internazionale, cui le moderne organizzazioni internazionali, come la SdN
e l'ONU, non essendo dotate di un potere proprio, si devono adattare, è uno strumento efficace a
eliminare la guerra, in quanto non limita la sovranità assoluta degli Stati e non intacca il principio
dell'autoutela dei loro diritti. Di conseguenza, la guerra, «anche se fortunata, cioè vittoriosa», scrive
Kant, «non decide la questione di diritto». Coerentemente con queste premesse, Kant definisce la pace
come «la fine di ogni ostilità» e non semplicemente come la sospensione delle ostilità nell'intervallo
tra due guerre. La pace non è una situazione che esista allo stato di natura, ma deve essere costruita e
garantita da un ordinamento giuridico sostenuto da un apparato coercitivo al di sopra degli Stati.
Definendo la pace la situazione nella quale la guerra è impossibile, (Kant ha individuato in modo
rigoroso la discriminante che separa la pace dalla guerra e ha collocato la tregua (cioè la situazione
nella quale, anche se non vi sono ostilità dichiarate, permane la minaccia che esse abbiano a prodursi)
sul versante della guerra.
Per Kant la condizione fondamentale della pace è dunque il diritto, o meglio l'estensione del diritto
a tutti i rapporti sociali, in particolare alla sfera dei rapporti tra gli Stati. Solo nell'ambito di una
federazione universale di liberi popoli il diritto internazionale diventerà una realtà giuridica completa,
fondata cioè su un potere in grado di regolare i rapporti tra gli Stati e di impedire agli uomini, isolati o
in gruppo, di ricorrere alla violenza per risolvere i loro conflitti. Così l'idea di una fedeazione
mondiale, in grado di rimuovere la guerra e di garantire la pace perpetua, rappresenta il coronamento
della dottrina kantiana del diritto e della politica.
Ma, secondo Kant, per raggiungere l'obiettivo della pace perpetua, gli Stati che entrano a far parte
della federazione mondiale devono essere retti da una costituzione repubblicana, la sola forma di
governo che garantisce la libertà e l'uguaglianza dei cittadini. Essa infatti, da un lato, limitando la
libertà di ciascuno, rende possibile la coesistenza pacifica dei singoli secondo ma legge
universalmente valida e, d'altro lato, consente agli uomini di non obbedire che alle leggi che hanno
contribuito a elaborare. A queste condizioni è possibile instaurare rapporti effettivamente pacifici tra
gli individui, ciò che oggi chiamiamo pace sociale.
Però tale regime politico non potrà raggiungere la propria perfezione finché non si sarà creato «un
rapporto esterno tra gli Stati regolato da leggi ». La situazione nella quale la guerra è sempre possibile
segna profondamente tanto la struttura sociale quanto la stessa condizione umana. Hamilton ha
illustrato gli effetti che i conflitti internazionali determinano sulla struttura degli Stati, Kant le
conseguenze di tali conflitti sulla condizione umana. Sotto la pressione dell'anarchia internazionale le
risorse materiali e ideali della società vengono in gran parte orientate verso i preparativi militari e
gl'individui vengono inseriti in strutture politiche autoritarie, le più efficaci nel garantire
l'indipendenza dello Stato nell'arena politica internazionale. Ne consegue che le esigenze di sicurezza
e di potenza dello Stato tendono fatalmente a prevalere su quelle di libertà degl'individui e di
autonomia delle comunità nelle quali essi vivono, trasformando gli uomini stessi in strumenti della
politica dello Stato e rovesciando così il rapporto tra mezzi e fini affermato dalla religione cristiana e
dal pensiero politico liberale, democratico e socialista. In effetti, ogni Stato fonda la propria autonomia sull'esercito e sul potere di obbligare i cittadini a uccidere e a morire per la patria. E tale potere
può legittimarsi solo a condizione che lo Stato mistifichi nella coscienza degl'individui le
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caratteristiche universali dei valori cristiani, liberali, democratici e socialisti ed estorca ai cittadini una
fedeltà esclusiva, con la conseguenza di sacrificare e di subordinare il lealismo verso l'umanità a
quello verso la patria. Per questo motivo Kant qualifica la guerra come «il più grande ostacolo della
moralità, la eterna nemica del progresso». In effetti, la necessità oggettiva per tutti gl'individui di
adattare la loro condotta a una struttura sociale modellata sui bisogni autoritari e bellicosi dello Stato
e la loro coscienza all'etica della violenza, che tale struttura produce, determina uno sviluppo limitato
e unilaterale delle loro capacità creative e ostacola il loro progresso morale.
Tutto questo non è qualcosa di inevitabile. Al contrario, si tratta della diretta conseguenza del
modo irrazionale in cui è organizzato il genere umano, della sua divisione politica, dello stato di
anarchia nel quale è immerso. Attuata ovunque la libertà e l'uguaglianza con Stati repubblicani e la
pace con la federazione mondiale, tanto la forma delle relazioni sociali, quanto le motivazioni della
vita individuale subiranno, secondo Kant, un mutamento radicale. Acquisito il potere di incanalare
entro gli argini del diritto tutti i comportamenti sociali, si romperebbe il ciclo della ragion di Stato, dei
rapporti di forza nella politica internazionale, della guerra e verrebbe meno la legittimazione della
violenza dell'uomo sull'uomo, derivante dalla guerra e dalla minaccia permanente della guerra. Solo a
questo stadio della storia la società acquisirebbe il potere di stabilire un controllo razionale sulla
propria attività e sul proprio cambiamento, gli uomini potrebbero realizzare pienamente la loro natura
razionale e la loro condotta potrebbe conformarsi interamente al principio dell'autonomia del volere.
Si tratta di una radicale trasformazione dei rapporti tra l'individuo e la società, che segna il
raggiungimento della condizione indispensabile per alternare progressivamente il potere dello Stato,
per dissolverne tendenzialmente il potere nella società e per realizzare il kantiano «regno dei fini», nel
quale sarà possibile trattare gli uomini come fini in tutte le relazioni sociali.
Kant è dunque il primo grande pensatore federalista e il suo apporto teorico consiste nell'aver
fondato il f. su una visione autonoma dei valori e del corso storico. Tuttavia, non avendo riflettuto
sulla natura dell'innovazione costituzionale che aveva consentito la fondazione degli Stati Uniti
d'America, non conosceva il funzionamento dello Stato federale e quindi non possedeva gli strumenti
concettuali per concepire in modo reale la possibilità di un governo democratico mondiale, capace di
limitare la sovranità assoluta degli Stati, ma che ne fosse a sua volta limitato. Malgrado ciò, egli
concepì correttamente l'ordine pacifico mondiale come un potere politico e un ordinamento giuridico
al di sopra degli Stati, concezione che gli consentì di dare una definizione rigorosa della pace e di fare
una critica del diritto internazionale valida per sempre.
Ma occorre accennare a un altro limite della teoria politica e della concezione filosofico-storica di
Kant, anche se in questa sede non è possibile trattarlo convenientemente. Aver definito la pace come
la condizione essenziale dell'emancipazione umana, aver riconosciuto il fondamento della pace nel
diritto e aver assegnato al diritto, nella sua forma perfettamente giusta, il compito di istituire un
regime repubblicano, in grado cioè di garantire la libertà e l'uguaglianza politica, non è sufficiente a
esaurire il complesso dei fattori che rendono possibile la liberazione dell'uomo dal dominio e
dall'oppressione. In effetti, il dominio dell'uomo sull'uomo non dipende soltanto dalle strutture dello
Stato, come si sono venute modellando sotto la pressione delle esigenze difensive e offensive, ma,
come è stato messo in luce dal materialismo storico, anche dalle strutture della produzione, le quali
determinano, in ultima istanza, le strutture politiche, anche se queste ultime possiedono una relativa
autonomia.
Ne consegue che da un lato esiste un'ulteriore condizione, messa in luce da Marx e da Proudhon,
senza la quale la pace non può avere un fondamento stabile: il superamento dello sfruttamento di
classe. Pertanto la realizzazione della libertà e dell'uguaglianza sul piano politico è una premessa
necessaria, ma non sufficiente, dell'emancipazione umana, perché tali valori, per realizzarsi
pienamente, esigono un fondamento economico-sociale, che soltanto la giustizia sociale, attraverso il
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controllo democratico della produzione può garantire. Inoltre l'attuazione completa della giustizia
sociale non è concepibile senza una pianificazione democratica mondiale, il solo strumento capace di
rompere il ciclo dell'imperialismo, del sottosviluppo e della ineguale distribuzione della ricchezza nel
mondo.
Le energie umane così liberate potranno essere indirizzate al libero governo delle «comunità» nelle
quali si svolgerà la vita umana, nelle quali diventano pensabili dei rapporti umani in cui «il libero
sviluppo di ciascuno sia la condizione del libero sviluppo di tutti» e anche lo sfruttamento dell'uomo
sull'uomo può essere superato. Però questo processo, che Marx e Proudhon avevano presentito, non
potrà produrre i suoi effetti se non sarà accompagnato dall'unificazione politica del genere umano, di
cui, d'altra parte, Kant non aveva preso in considerazione le condizioni storico-sociali, e che avverrà
al termine del processo di integrazione sociale che va estendendo l'interdipendenza materiale degli
uomini al di là delle frontiere degli Stati e va formando degl'individui che sviluppano le loro relazioni
su un piano universale, creando così le basi sociali del cosmopolitismo.
In tal modo il concetto di comunità, che è sempre stato una componente fondamentale degli
obiettivi rivoluzionari e di emancipazione della storia dell'umanità, può essere formulato in modo più
netto nella teoria del f., la quale ne definisce un indispensabile criterio di pensabilità e una necessaria
condizione di realizzazione: la federazione mondiale, che si precisa così come il governo
cosmopolitico di libere comunità disarmate. L'immagine dell'umanità integralmente sviluppata nella
forma di associazione federalistica si configura dunque come divisa in una pluralità di libere comunità
e unita in un tutto cosmopolitico, formula che offre i criteri essenziali per pensare la ricchezza e la
complessità delle relazioni sociali in un mondo liberato dalla divisione in classi e in nazioni.
IV. L'ASPETTO DI STRUTTURA. - Se si riflette sulla costituzione degli Stati Uniti d'America - il
primo esempio di patto federale tra Stati sovrani e nello stesso tempo l'esperienza costituzionale più
importante, anche se parzialmente sviluppata, nella storia delle istituzioni federali - non si può fare a
meno di concludere che essa introduce un nuovo strumento politico, il cui fine universale è la pace
perpetua. I saggi del Federalist, che Hamilton pubblicò tra il 1787 e il 1788 in collaborazione con Jay
e Madison per sostenere la ratifica della costituzione federale americana, ci offrono la prima e una
delle più complete formulazioni della teoria dello Stato federale. Ma non esiste in questa opera, né
nelle altre contemporanee di analogo argomento, in accordo con il carattere pragmatico della cultura
anglosassone, nessuna considerazione sul senso globale di questo strumento istituzionale. Esso fu
presentato più come un mezzo per risolvere i problemi politici degli Americani che come il modello
del governo della società di nazioni.
Il principio costituzionale sul quale si fonda lo Stato federale è la pluralità di centri di potere
sovrani coordinati tra di loro, in modo tale che al governo federale, competente per l'intero territorio
della federazione, sia conferita una quantità minima di poteri indispensabile a garantire l'unità politica
ed economica, e agli Stati federati, competenti ciascuno per il proprio territorio, siano assegnati i
poteri residui. L'attribuzione al governo federale del monopolio delle competenze relative alla politica
estera e militare permette di eliminare le frontiere militari tra gli Stati, di modo che i rapporti tra gli
Stati perdono il carattere violento e acquisiscono un carattere giuridico e tutti i conflitti possono
essere composti di fronte a un tribunale. Il trasferimento agli organi federali di alcune competenze nel
campo economico ha lo scopo di eliminare gli ostacoli di natura doganale e monetaria, che
impediscono l'unificazione del mercato, e di attribuire al governo federale un'autonoma capacità di
decisione nel settore della politica economica. La conseguenza di questa distribuzione delle
competenze tra una pluralità di centri di potere indipendenti e coordinati (questa formula è di Wheare)
è che ogni parte del territorio e ogni individuo sono sottoposti a due centri di potere: al governo
federale e al governo di uno Stato federato, senza che per ciò venga meno il principio della unicità di
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decisione su ogni problema.
Pertanto il governo federale, a differenza dello Stato nazionale, che tende a rendere omogenee tutte
le comunità naturali che esistono sul suo territorio, cercando di imporre a tutti i cittadini la stessa
lingua e la stessa cultura, è fortemente limitato, perché gli Stati federati dispongono di poteri
sufficienti per governarsi autonomamente. Così le istituzioni tipiche dell'accentramento statale (gli
eserciti permanenti fondati sulla coscrizione obbligatoria, la scuola di Stato, i grandi riti pubblici,
l'imposizione a tutte le collettività territoriali più piccole dello stesso sistema amministrativo e della
tutela prefettizia) sono sconosciute e comunque non hanno mai messo profonde radici negli Stati a
regime federale o fortemente decentrato. Le strutture federali, non comportando il conferimento della
competenza scolastica al governo centrale, che nello stesso tempo controlla l'esercito, sfuggono alla
logica tendenzialmente totalitaria dello Stato nazionale, il quale impiega il suo potere per trasformare
i cittadini in buoni soldati. Siccome il modello federale attua una vera e propria divisione del potere
su base territoriale, l'equilibrio costituzionale non può mantenersi senza il primato della costituzione
su tutti i poteri. In effetti, l'autonomia di tale modello si traduce nel fatto che il potere di decidere in
concreto, in caso di conflitto, quali siano i limiti che i due ordini di poteri sovrani non possono
oltrepassare non spetta né al potere centrale (come avviene nello Stato unitario, dove le collettività
territoriali più piccole fruiscono di un'autonomia delegata) né agli Stati federati (come avviene nel
sistema confederale, il quale non limita la sovranità assoluta degli Stati). Tale potere spetta a
un'autorità neutrale, i tribunali, ai quali è conferito il potere di revisione costituzionale delle leggi.
Essi fondano la loro autonomia sull'equilibrio tra il potere centrale e i poteri periferici e possono
assolvere efficacemente alle loro funzioni a condizione che nessuno dei due ordini di poteri rivali
prevalga in modo decisivo. A dare forza alle decisioni giudiziarie provvedono ora gli Stati federati,
ora il governo centrale, i quali le sostengono ogniqualvolta convergano con i rispettivi interessi.
Pertanto, solo in virtù delle proprie decisioni il potere giudiziario è in grado di ristabilire l'equilibrio
tra i poteri definito dalla costituzione.
E’ questo equilibrio costituzionale, che permette di conciliare il principio dell'unità della comunità
politica con quello dell'autonomia delle sue parti, si riflette nella composizione del potere legislativo,
un ramo del quale rappresenta il popolo della federazione in misura proporzionale al numero degli
elettori, mentre l'altro ramo è la Camera degli Stati nella quale questi ultimi sono rappresentati in
modo uguale, indipendentemente dalle differenze di popolazione (Stati Uniti) oppure con una
rappresentanza ponderata (Germania).
La distribuzione del potere su base territoriale è in realtà ben più efficace di quella su base
funzionale nel garantire il controllo diviso del potere, la principale garanzia della libertà politica, in
quanto sia il governo federale sia gli Stati membri possono fondare la propria indipendenza su una
distinta base sociale. Come disse Hamilton, il regime federale consente di «ampliare la sfera del
governo popolare». Infatti, mentre la democrazia diretta permette di realizzare la libertà politica nella
città-stato e la democrazia rappresentativa, e la divisione formale del potere tra legislativo, esecutivo e
giudiziario, permettono di realizzare la libertà politica nello Stato nazionale, il governo democratico
sovrannazionale, e la divisione sostanziale del potere tra governo federale e Stati federati (anch'essi a
base democratica), permettono di unificare diverse comunità nazionali e di realizzare la
partecipazione politica su un'illimitata estensione territoriale fino a comprendere tutto il mondo e tutto
il genere umano. In particolare, la possibilità di far coesistere nella stessa area costituzionale due
ordini di poteri sovrani, permette di conciliare i vantaggi della piccola dimensione, nella quale gl'individui hanno maggiori possibilità di partecipare direttamente e con continuità al processo di
formazione delle decisioni politiche e dove il potere può essere sottoposto a un controllo più diretto
da parte del popolo, in modo che possa essere lasciato un largo spazio all'autogoverno delle comunità
locali, con i vantaggi della grande dimensione, richiesta dalle condizioni moderne della produzione
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industriale e della tecnica militare e necessaria a mantenere lo sviluppo economico e l'indipendenza
politica.
Nello Stato accentrato non esiste invece nessun centro autonomo di potere all'infuori del governo
centrale. La lotta politica si svolge in un solo quadro istituzionale per la conquista di un solo potere,
che controlla attraverso i prefetti tutti gli enti locali e che di fatto è arbitro della costituzione.
Proudhon fu il primo a denunciare che la divisione dei poteri e il suffragio popolare, che dovrebbero
garantire rispettivamente la libertà e l'uguaglianza politica, in una struttura statale così rigida si
sarebbero ridotti a vuote formule giuridiche. In effetti, negli Stati unitari, dove la divisione dei poteri
ha una base esclusivamente funzionale, il legislativo e l'esecutivo tendono inevitabilmente a essere
controllati dalle stesse forze politiche, con la conseguenza che il potere giudiziario, il più debole dei
tre poteri, è ridotto di fatto a un ramo della pubblica amministrazione. Così una democrazia che si
manifesta soltanto a livello nazionale senza la base dell'autogoverno locale è una democrazia
nominale, perché controlla dal vertice, soffocandole, le comunità, cioè la vita concreta degli uomini. E
si può aggiungere che anche la programmazione economica, se viene decisa al centro senza una
relazione effettiva con l'ambiente umano nel quale sono radicate le istituzioni regionali e locali e con
le esigenze reali che esse esprimono, non solo ha carattere autoritario, ma è inefficace, perché non si
basa sulle preoccupazioni concrete degli uomini.
La federazione costituisce dunque la realizzazione più alta dei princìpi del costituzionalismo. In
effetti l'idea dello Stato di diritto, lo Stato che piega tutti i poteri alla legge costituzionale, sembra non
possa trovare la sua piena realizzazione che quando, sulla base di una distribuzione sostanziale delle
competenze, l'esecutivo e il giudiziario assumono le caratteristiche e il ruolo che hanno nello Stato
federale.
V. L'ASPETTO STORICO-SOCIALE. - La teoria dello Stato federale, come risulta dai saggi di
Hamilton, non contiene un'analisi delle condizioni storico-sociali che permettono alle istituzioni
federali di funzionare e di mantenersi. Siccome nessuna istituzione politica può mantenersi senza una
base sociale corrispondente e nessun equilibrio costituzionale può durare senza il supporto di un
equilibrio sociale corrispondente (le istituzioni stabilizzano certe realtà sociali preesistenti, ma non
possono crearle ex novo), occorre spingere l'analisi fino alla struttura della società e cercare di identificare le caratteristiche specifiche della società federale.
In una federazione la società civile ha caratteristiche unitarie per certi aspetti e pluralistiche per
altri. La popolazione è unita in una società delle stesse dimensioni della federazione e divisa in una
pluralità di società più piccole, con confini territoriali ben definiti, nell'ambito della società più vasta.
Ne deriva che il comportamento sociale tipico di tale popolazione ha un carattere bipolare: da un lato,
c'è il lealismo verso la società complessiva, comune a tutta la popolazione della federazione, d'altro
lato, quello verso ciascuna delle comunità più piccole, differenziato sulla base della distribuzione
territoriale della popolazione. E ciò che è singolare è il fatto che il sentimento di attaccamento verso
l'unione coesiste con quello verso ciascuna delle sue parti e nessuno prevale sull'altro, come avviene
in un senso nello Stato nazionale e nel senso opposto in una confederazione di Stati.
In effetti, una società nella quale il bisogno di unità, derivante dalla necessità di risolvere in modo
unitario i problemi relativi alla difesa e allo sviluppo economico, è abbastanza forte da dare origine a
istituzioni politiche indipendenti, ma con poteri limitati, e il bisogno di autonomia delle comunità
territoriali, differenziate dal punto di vista delle tradizioni, del costume, delle istituzioni politiche e a
volte anche della lingua, è abbastanza forte da permettere loro di sostenere governi indipendenti, può
funzionare solo con istituzioni federali, le istituzioni che consentono una divisione sostanziale del
potere tra il popolo federale e ciascuno dei popoli degli Stati federati.
Da queste considerazioni risulta già chiaramente che il comportamento sociale tipico della società
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federale è compatibile soltanto con una situazione nella quale la lotta di classe e i conflitti di potenza
fanno sentire poco la loro influenza sulla struttura della società. Infatti, da un lato, quando la società è
divisa da forti antagonismi tende a prevalere il senso di appartenenza a una delle due parti sociali in
conflitto su ogni altra solidarietà di gruppo, il che impedisce l'instaurazione di forti legami di
solidarietà a livello delle collettività locali, indispensabili alla comparsa e alla persistenza della
bipolarità sociale tipica della società federale. D'altro lato, la pressione dei conflitti di potenza
determina il rafforzamento del potere centrale a spese dei poteri locali, necessario a una rapida
mobilitazione della società in caso di guerra. Rompendo l'equilibrio politico interno tra il centro e la
periferia, tale pressione favorisce l'affermarsi del nazionalismo e del monismo sociale a spese del
lealismo verso le collettività locali e del pluralismo sociale.
Pertanto le esperienze federalistiche si sono sviluppate in quegli Stati ai quali il sistema mondiale
delle potenze ha assegnato un ruolo neutrale (Svizzera) o isolazionistico (Stati Uniti), che li teneva al
riparo degli effetti centralizzatori dei conflitti internazionali. D'altra parte, si sono manifestate in zone
dove la minaccia di forti tensioni sociali è stata tenuta a freno dalla possibilità offerta agli oppressi e
agli scontenti di colonizzare immensi spazi liberi (e in effetti il f. negli Stati Uniti, in Canada e in
Australia ha molti aspetti in comune con il colonialismo) oppure nel piccolo Stato, come la Svizzera,
dove i problemi di governo hanno più carattere amministrativo che politico, cioè in situazioni nelle
quali la lotta di classe non ha assunto forme così radicali da impedire la formazione di una certa
solidarietà all'interno delle comunità di base. Malgrado queste favorevoli circostanze, il f. si è manifestato dovunque in modo imperfetto e instabile. Infatti, dove il conflitto sociale si presenta in forme
solo attenuate, le relazioni comunitarie non si possono sviluppare pienamente e, d'altra parte, nelle
società dove lo scontro tra le potenze si fa sentire in modo solo attenuato, il lealismo verso il governo
centrale, responsabile delle relazioni internazionali, tende a prevalere su quello verso le comunità
territoriali più piccole. Inoltre la crescente interdipendenza di tutti gli Stati del mondo ha eliminato
ormai il privilegio delle isole politiche, che ha favorito lo sviluppo del f. ai margini della scena
principale della storia. In questa fase storica è ormai concepibile una sola isola, quella formata da tutti
gli Stati del mondo uniti e disarmati in una federazione, la quale generalizzerebbe, perfezionandola, la
situazione insulare. Si può quindi concludere che il regime federale è destinato a degenerare se rimane
confinato in un solo Stato (come illustra la crescente centralizzazione del potere negli Stati Uniti dopo
la prima, e soprattutto dopo la seconda, guerra mondiale) e che può realizzarsi in modo perfetto solo
se assume dimensioni mondiali.
Questa legge di sviluppo delle istituzioni federali si è manifestata, seppure in modo parziale, in un
atteggiamento particolare della società federale verso le società vicine. Mentre l'organizzazione
chiusa, rigida e monolitica dello Stato nazionale si traduce in una politica ostile e bellicosa con gli
Stati confinanti, la struttura aperta, flessibile e pluralistica delle federazioni permette di associare i
vicini al primo nucleo federale, pur continuando questi ultimi a mantenere una larga autonomia.
L'apertura della società federale verso il mondo, attiva finché la pressione dei rapporti di potenza non
impone la chiusura e l'accentramento, rappresenta dunque una autentica alternativa alla sovranità
assoluta degli Stati e alla violenza nei rapporti internazionali. In sostanza si può ritenere che la
dialettica dell'unità nella pluralità, che anima la società federale, abbia raggiunto la sua forma finale
solo quando i suoi poli sono la società federale mondiale e le comunità. L'analisi dell'aspetto storicosociale e di quello istituzionale permette quindi di individuare rispettivamente le condizioni storiche e
gli strumenti pratici che consentono di realizzare i fini pacifici, cosmopolitici e comunitari che Kant
assegna al federalismo.
VI. IL PACIFISMO DALL'UTOPIA ALLA SCIENZA. - Individuati gli aspetti che definiscono il
f., che si presenta così come una dottrina sociale di carattere globale, occorre metterlo in relazione con
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le altre ideologie. Il f. è la teoria politica che per la prima volta nella storia pone il valore della pace
come obiettivo specifico di lotta. E si distingue da tutte le espressioni moderne del pensiero politico e
sociale, che concepiscono la pace come una conseguenza automatica e necessaria della trasformazione delle strutture interne degli Stati in senso liberale, democratico e socialista e le assegnano
quindi una posizione subordinata.
La divergenza di fondo riguarda dunque la valutazione dei fenomeni della politica internazionale,
della pace e della guerra. Nella teoria del f. la politica di potenza e le tendenze bellicose che si
formano nei rapporti internazionali sono imputate sostanzialmente all'anarchia internazionale, cioè
alla pura e semplice divisione del genere umano in Stati sovrani, in conseguenza della quale ogni
Stato, indipendentemente dal regime politico e dal sistema produttivo, deve piegarsi alla legge della
forza per tutelare la propria autonomia. Ciò non significa che venga negata un'influenza subordinata
alle strutture interne, tanto è vero che Kant ha affermato che la pace esige delle premesse di valore
liberali e democratiche, cioè, in sostanza, la pace sociale, la quale però, come si è visto, non potrà
realizzarsi che in modo parziale e precario all'interno dei singoli Stati se non sarà garantita da un
ordine pacifico universale, fondato su un potere superiore agli Stati. Nell'orizzonte teorico delle altre
ideologie la politica internazionale è spiegata con le stesse categorie della politica interna e le tensioni
internazionali e le guerre sono imputate esclusivamente alla natura delle strutture interne degli Stati. I
liberali, i democratici e i socialisti, essendosi limitati a trasformare le strutture interne dello Stato, non
solo non hanno saputo subordinare la politica internazionale, che è rimasta il terreno dei rapporti di
forza, alle esigenze che fecero valere nella politica interna, ma sono scesi a compromessi con l'imperialismo, la violenza e i privilegi sociali. In quanto teoria del governo sovranazionale, il governo in
grado di controllare i rapporti tra gli Stati, il f. è la teoria che permette di conoscere in modo
scientifico i rapporti internazionali. Esso spiega il processo storico nel corso del quale si è formata
una pluralità di Stati, individua le forze reali che determinano l'antagonismo tra gli Stati e le
conseguenze che si creano al loro interno e identifica gli strumenti necessari al superamento
dell'anarchia internazionale. Da un iato mette in luce come lo stesso fattore storico-sociale, che ha
rappresentato la base della formazione degli Stati nazionali (l'evoluzione del modo di produrre, che,
con la rivoluzione industriale, ha unificato i comportamenti umani negli spazi di dimensioni
nazionali), li sta distruggendo, poiché estende l'integrazione sociale al di là delle barriere nazionali,
distruggendo le basi stesse della loro autonomia e creando quelle di Stati continentali e, in prospettiva,
dell'unificazione del genere umano. D'altro lato mostra come i rapporti tra gli Stati siano dominati
dalla legge della forza finché non li regola un potere comune e come la lotta tra gli Stati influenzi la
loro struttura interna in senso autoritario. Pertanto i valori democratici, liberali e socialisti vengono
immancabilmente subordinati ai bisogni bellicosi e autoritari che la sopravvivenza dello Stato
nell'arena politica internazionale alimenta. Ne consegue che la subordinazione della politica
internazionale a tali valori non dipende tanto dalla trasformazione dell'ordine interno degli Stati,
quanto soprattutto dal superamento dell'anarchia internazionale attraverso la creazione di un governo
democratico mondiale. È in definitiva la mancanza di una teoria adeguata, in grado di conoscere e di
dominare la politica internazionale, che spiega l'impotenza delle ideologie tradizionali di fronte alle
guerre mondiali e il fallimento dei princìpi della pacifica collaborazione tra gli Stati, della fratellanza
tra i popoli e della solidarietà internazionale del proletariato, affermati in teoria, ma costantemente
sacrificati nella pratica agli egoismi nazionali. Cosicché si può concludere che il pacifismo, quando,
grazie alla teoria federalistica, supera i limiti dell'internazionalismo, attua il passaggio dall'utopia alla
scienza.
VII. L'UNITA EUROPEA. - L'esigenza della pace si è fatta sentire nel modo più acuto in Europa,
dove il problema della coesistenza tra gli Stati assunse caratteristiche ben diverse da quelle che si
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presentarono nei vasti spazi disabitati dell'isola politica nordamericana, che la storia aveva tenuto al
riparo delle tragiche conseguenze dei conflitti tra gli Stati e tra le classi. Siccome nessuno dei membri
di quella federazione aveva avuto una lunga storia come Stato indipendente e sovrano, l'esperienza
federalistica non rappresentò il superamento di nazioni storicamente consolidate. D'altra parte il carattere attenuato che ha assunto la lotta di classe non deve essere attribuito al successo del movimento
socialista, che non è mai stato in grado di incidere sullo sviluppo storico degli Stati Uniti, ma è il
risultato di fortunate circostanze storiche. Anche se Hamilton si servì dell'esempio del sistema
europeo degli Stati, con l'anarchia internazionale e l'autoritarismo delle sue istituzioni di governo,
come termine di confronto per illustrare che cosa si sarebbe evitato scegliendo la federazione invece
della confederazione, cioè l'unità invece della divisione, egli concepì la fondazione degli Stati Uniti
come un mezzo per attuare l'isolazionismo e non prese coscienza del fatto che le istituzioni federali
fornivano gli strumenti pratici per realizzare la pace universale. Di conseguenza, il f. americano non
fu una esperienza politica autonoma, ma si presentò come un elemento subordinato al liberalismo e
alla democrazia, come uno strumento istituzionale, che, facendo degli Stati Uniti un'isola politica,
avrebbe protetto le istituzioni democratico-liberali dalla degenerazione che immancabilmente
subiscono a causa dell'anarchia internazionale. D'altra parte, l'Europa, dove il nazionalismo ha messo
in pericolo le basi stesse della convivenza civile, è stata il terreno sul quale l'esperienza federalistica,
anche se condannata per molto tempo a non avere sbocchi concreti, è stata sviluppata nel senso di una
visione globale della società, che è stata definita, come si è visto, la coscienza teorico-pratica del
corso sovrannazionale della storia. Esaminiamo le caratteristiche essenziali di questa visione del corso
storico. Nella prima fase della rivoluzione industriale lo sviluppo delle forze produttive ha scatenato
la lotta di classe, che si è poi attenuata con il riconoscimento dei principali diritti delle classi
subalterne e la loro integrazione nella vita politica degli Stati nazionali. E nella misura in cui sono
stati rimossi gli ostacoli più gravi che si opponevano all'emancipazione del proletariato in quanto
classe (diritto di voto, di associazione, di sciopero, salari superiori al livello di sussistenza, riduzione
dell'orario di lavoro, controllo parziale della programmazione, ecc.), anche se lo sfruttamento non è
stato eliminato, la storia mette all'ordine del giorno la lotta per la liberazione dell'individuo attraverso
la creazione di rapporti sociali comunitari, impossibile finché l'intera società rimane divisa dall'odio di
classe. La seconda fase del modo di produzione industriale (utilizzazione dell'elettricità, del petrolio e
del motore a combustione intema) ha creato le condizioni per la formazione di Stati grandi come
intere regioni del mondo. Essa ha determinato il declino degli Stati nazionali e ha sospinto al vertice
della gerarchia del potere mondiale gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica, che possedevano da tempo la
dimensione regionale. In Europa, dopo la seconda guerra mondiale, gli Stati nazionali, distrutti come
centri di potere indipendenti e ridotti alla condizione di satelliti delle due superpotenze, non frenando
più lo sviluppo delle forze produttive, hanno dato inizio all'integrazione europea, il processo nel corso
del quale la società civile, accanto al carattere esclusivamente nazionale, ne acquisisce uno europeo e
tende cioè a diventare una società federale. Si tratta della manifestazione più avanzata di una nuova
fase storica di integrazione dell'attività umana al di là delle barriere degli Stati, che ha dimensioni
mondiali e che creerà le condizioni sociali della federazione mondiale.
Mentre l'unificazione europea non è ancora giunta alla conclusione, essa è divenuta parte di un
processo più generale - la GLOBALIZZAZIONE (v.) -, che non è altro che un processo di
integrazione che si sviluppa su scala mondiale. C'è un crescente numero di importanti problemi, come
il controllo dell'economia mondiale, la cooperazione allo sviluppo, la protezione dell'ambiente, la
sicurezza nei confronti delle armi di distruzione di massa o del terrorismo internazionale, che anche lo
Stato più potente del mondo - gli Stati Uniti - non è in grado di risolvere da solo. Di qui l'erosione
della sovranità degli Stati e il bisogno crescente di cooperazione internazionale e lo sviluppo di una
rete sempre più fitta di organizzazioni internazionali. Queste ultime anticipano, anche se non
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conseguono l'obiettivo del governo mondiale, proprio come la Comunità Europea e l'Unione Europea
sono istituzioni precorritrici della federazione europea.
Alla base di questo nuovo cambiamento di dimensioni dei fenomeni sociali e dell'esigenza di
forme di statualità globale c'è la rivoluzione scientifica, una nuova svolta nell'evoluzione del modo di
produrre grazie alla quale la scienza si sta imponendo, al posto del capitale e del lavoro, come la
principale forza produttiva. Come la rivoluzione industriale aveva determinato la tendenziale
scomparsa della condizione contadina, la rivoluzione scientifica, grazie all'automazione, sta
determinando la tendenziale scomparsa della condizione operaia. Non è soltanto all'ordine del giorno
il superamento della divisione della società in classi, ma anche quella del mondo in Stati sovrani. I
rivoluzionari cambiamenti nelle comunicazioni e nei trasporti rendono più stretta l'interdipendenza tra
gli Stati e tra i popoli, promuovono la globalizzazione dell'economia e della cultura e sospingono
l'intero pianeta verso l'unità. Per la prima volta nella storia l'umanità si trova di fronte al compito di
darsi un'organizzazione comune e sta emergendo l'esigenza di trasformare l'ONU in un vero e proprio
governo mondiale.
Lo sviluppo tecnico-produttivo, che determina questi effetti, trasformando le condizioni di vita
dell'intero genere umano, presenta anche forti aspetti negativi. Da un lato, le armi nucleari aprono la
possibilità della distruzione fisica dell'umanità, d'altro lato, la produzione industriale minaccia di
distruzione l'ambiente urbano e naturale, che ha rappresentato la cornice di tutta l'attività umana.
Queste contraddizioni dipendono dall'impotenza delle istituzioni politiche ereditate dal passato a
controllare le forze suscitate dal progresso tecnico. Il problema ha natura politica e il f. sembra fornire
lo strumento istituzionale per realizzare da un lato la pace e d'altro lato il controllo delle comunità
sullo sviluppo economico e sulla vita sociale.
Solo il superamento delle nazioni europee, la espressione della più profonda divisione politica del
genere umano e della più forte centralizzazione del potere che la storia moderna abbia conosciuto,
permetterà al f. di avere una prima realizzazione significativa sul piano della storia universale.
Affermando l'illegittimità dello Stato nazionale, che ancora oggi è considerato la forma più alta di
organizzazione della società (come dimostra l'esperienza dei paesi usciti dalla dominazione coloniale), la federazione europea si presenterà come una formazione politica pluralistica e aperta a tutto il
genere umano. E la tensione che la muoverà farà emergere i valori che qualificano il f.: il
cosmopolitismo, che permetterà agli uomini di prendere coscienza di appartenere all'umanità e non
solo alle nazioni, e il comunitarismo, cioè l'aspirazione degli uomini a radicarsi nelle comunità, a
partecipare attivamente al governo locale e ad affermarne l'autonomia.
Ma la federazione europea sarà uno Stato tra gli Stati. Anche se la federazione europea contribuirà
a realizzare un equilibrio internazionale più pacifico e un assetto sociale più libero (perché concorrerà
a formare un equilibrio mondiale più elastico, di tipo policentrico, e perché distruggerà lo Stato
nazionale con il suo autoritarismo e la sua impotenza di fronte ai problemi di fondo di politica estera
ed economica, che hanno ormai dimensioni europee), la negazione dello Stato nazionale che
realizzerà sarà del tutto inadeguata rispetto ai valori sui quali fonderà la propria legittimità. Malgrado
questi limiti, la federazione europea, superando per la prima volta delle nazioni storicamente
consolidate, assumerà il significato della negazione della divisione politica del genere umano e aprirà
la strada alla lotta per realizzare pienamente tale negazione con la federazione mondiale.
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