Università degli Studi di Napoli “Federico II” Facoltà di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali Corso di Laurea Magistrale in Fisica Subnucleare e Astroparticellare Studio della risposta di un SiPM agli elettroni per la verifica della fattibilità di un nuovo fotomoltiplicatore ibrido a semiconduttore ad alto guadagno Relatori: Prof. G. Barbarino Dott. R. de Asmundis Dott. G. De Rosa Candidato: Felicia Carla Tiziana Barbato Matr. N94/47 Anno Accademico 2011-2012 Indice Introduzione 3 1 Rivelatori di fotoni 1.1 I fotorivelatori nella ricerca fondamentale 1.2 Fotorivelatori a vuoto . . . . . . . . . . . 1.2.1 Il fotocatodo . . . . . . . . . . . . 1.2.2 La moltiplicazione degli elettroni 1.2.3 Caratteristiche dei PMT . . . . . 1.3 Fotorivelatori a stato solido . . . . . . . 1.3.1 Fotodiodi PiN . . . . . . . . . . . 1.3.2 Fotodiodi a valanga . . . . . . . . 1.3.3 Caratteristiche degli APD . . . . 1.4 Limiti dei fotomoltiplicatori . . . . . . . 2 APD in regime Geiger 2.1 I Silicon Photomultiplier . . . . . . . . 2.2 Gli MPPC . . . . . . . . . . . . . . . . 2.3 Caratteristiche degli MPPC . . . . . . 2.3.1 Caratteristiche del segnale . . . 2.3.2 Il guadagno . . . . . . . . . . . 2.3.3 La Photon Detection Efficiency 2.3.4 Il range dinamico . . . . . . . . 2.3.5 Il rumore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . e . . . . . . . . . . . . . . . . . applicata . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3 Proposte per aumentare l’angolo di vista 3.1 SiPM con coni Winston . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.2 Alternative ai tubi fotomoltiplicatori standard: gli HPD . . . 3.3 Il VSiPMT . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.4 Possibile utilizzo dei SiPM nel caso di grandi volumi di rivelazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.4.1 Astronomia Gamma. Il telescopio MAGIC . . . . . . 1 . . . . . . . . . . 6 6 9 9 11 14 19 20 21 22 25 . . . . . . . . 27 27 29 30 31 32 33 35 35 38 . 39 . 42 . 44 . 45 . 45 3.4.2 Neutrino astronomia. KM3 NeT . . . . . . . . . . . . . 46 4 Apparato sperimentale 4.1 La sorgente di elettroni . . . . . . . . . 4.1.1 Estrazione del fascio di protoni 4.1.2 Estrazione di elettroni secondari 4.2 Il sistema di griglie elettrostatiche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5 Misura con gli elettroni e primi risultati 5.1 Caratterizzazione con la luce laser dell’MPPC S10943-8702 . 5.1.1 Studio del segnale di singolo pixel . . . . . . . . . . . 5.1.2 Misura del guadagno . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5.1.3 Misura di linearità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5.2 Evento di elettroni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5.3 Rate di rivelazione di elettroni . . . . . . . . . . . . . . . . . 5.4 Stima preliminare dell’efficienza di rivelazione degli elettroni 5.5 Alcune considerazioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 48 49 50 53 54 . . . . . . . . 58 59 59 60 61 62 66 67 69 6 Proposta di disegno finale del VSiPMT 72 6.1 PMT e VSiPMT a confronto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 73 6.2 Prospettive future . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 77 Conclusioni 80 Appendice 81 Bibliografia 86 Ringraziamenti 88 2 Introduzione I fotorivelatori costituiscono l’elemento attivo fondamentale nella rivelazione di alcuni processi fisici che sono alla base di svariati ambiti di ricerca, dalla fisica delle alte energie alla medicina e finanche al monitoraggio ambientale. Ad un secolo quasi dalla nascita del primo fotomoltiplicatore, costituito essenzialmente da un fotocatodo e una catena di dinodi per la moltiplicazione degli elettroni, il recente forte sviluppo dei nuovi dispositivi a semiconduttore rende oggi matura una nuova generazione di fotorivelatori basati su una tecnologia economica, robusta ed adatta alla produzione industriale di massa. Questo lavoro di tesi si colloca all’interno di un progetto di ricerca e sviluppo di un nuovo e rivoluzionario fotomoltiplicatore ibrido a stato solido ad alto guadagno: il VSiPMT (Vacuum Silicon PhotoMultiplier Tube). L’elemento attivo fondamentale è un fotorivelatore a stato solido operante in regime Geiger a bassa tensione di alimentazione (∼ 70V ), con consumi di potenza trascurabili, alta efficienza quantica, elevata capacità di conteggio al singolo fotone e non sensibile ai campi magnetici: il SiPM (Silicon PhotoMultiplier ). Nonostante le ottime caratteristiche del dispositivo, il costo del silicio e la corrente di buio ne limitano le dimensioni a pochi mm2 . L’idea, nata dall’esigenza di conciliare le ottime prestazioni di tale dispositivo e i grandi volumi di rivelazione propri della fisica astroparticellare, è quella di utilizzare un SiPM come moltiplicatore di elettroni in sostituzione della classica catena di dinodi all’interno di un tubo fotomoltiplicatore. Lo sviluppo del VSiPMT si articola in diverse fasi: 1) caratterizzazione del SiPM con luce laser; 2) simulazione del comportamento degli elettroni nel silicio; 3) studio della risposta del SiPM come rivelatore di elettroni. La prima fase è necessaria per determinare il valore delle caratteristiche principali del dispositivo, quali, ad esempio, il guadagno, il rate di dark count e il range dinamico; i valori ottenuti saranno confrontati successivamente con quelli avuti caratterizzando il dispositivo con elettroni. 3 Nella seconda fase è stato studiato il comportamento degli elettroni nel silicio simulando un fascio con energie da 1 a 20 keV e ricavando per ciascuna di queste energie il range dinamico, il coefficiente di backscattering ed l’energia di backscattering. Questo studio è stato fondamentale per determinare per quale valore della loro energia gli elettroni riescono a penetrare nel silicio e a produrre un segnale in uscita. Inoltre, lo studio sul backscattering è utile per determinare la percentuale di elettroni che effettivamente produrrà segnale in uscita, nonchè per determinare in una fase avanzata la percentuale di afterpulse dell’ ibrido. La terza fase è l’oggetto di studio di questo lavoro di tesi. La caratterizzazione del dispositivo con un fascio di elettroni è di fondamentale importanza per verificare l’effettiva possibilità di utilizzo del SiPM come rivelatore e moltiplicatore di elettroni. A tal fine mi sono occupata, in un primo tempo, della progettazione dell’estrazione del fascio di elettroni nonchè dell’allestimento dell’apparato sperimentale, e successivamente della misura della risposta del SiPM al fascio di elettroni conducendo poi una breve analisi dei primi risultati. Il primo capitolo di questa tesi provvede ad una panoramica generale sui fotosensori: partendo dagli svariati utilizzi nei vari settori di ricerca, si procede poi ad un’accurata descrizione dei tubi fotomoltiplicatori a vuoto classici e dei fotorivelatori a stato solido con le rispettive caratteristiche, terminando poi con un’analisi dei draw back e dei vantaggi di ciascuna categoria. Nel secondo capitolo vengono presentati i SiPM, matrici di G-APD, che offrono un’interessante alternativa ai fotosensori di cui si è discusso nel primo capitolo. In questo capitolo sono anche descritti i SiPM che sono stati utilizzati nelle misure: gli MPPC, Multi Pixel Photon Counter (nome dato ai dispositivi dalla ditta costruttrice Hamamatsu). Nel terzo capitolo sono presentate due proposte per aumentare l’angolo di vista di un SiPM. La prima soluzione prevede l’utilizzo di concentratori di luce, coni Winston, su una matrice di SiPM. La seconda soluzione riguarda l’oggetto di questo lavoro di tesi, è cioè l’idea del VSiPMT, il fotomoltiplicatore ibrido in cui il SiPM funge da moltiplicatore di elettroni. Il quarto capitolo provvede ad un’attenta descrizione dell’apparato sperimentale e della tecnica utilizzata per l’estrazione del fascio di elettroni. Il quinto capitolo contiene, invece, una descrizione delle prime misure della risposta del SiPM agli elettroni e l’analisi dei risultati. Infine, nell’ultimo capitolo si presenta una bozza del disegno finale del VSiPMT ed un confronto delle prestazioni di un PMT classico da 8” con le prime stime delle prestazioni dell’ibrido proposto, concludendo con i possibili miglioramenti che si potrebbero apportare al VSiPMT visti i recenti sviluppi della ricerca di base legata ai SiPM. 4 Questi argomenti sono stati anche oggetto di un poster (per il proceeding si veda l’appendice A) presentato alla conferenza Pisa Meeting on Advanced Detectors che si è tenuta all’Isola d’Elba. 5 Capitolo 1 Rivelatori di fotoni 1.1 I fotorivelatori nella ricerca fondamentale e applicata I fotorivelatori sono dispositivi, rivelatori di fotoni, in grado di tradurre la radiazione elettromagnetica incidente su di essi in segnali elettrici. Oggigiorno tali dispositivi giocano un ruolo cruciale, non solo nello studio di fenomeni fisici, ma anche in altri campi come ad esempio la medicina, la biologia e monitoraggio ambientale. Nell’ambito della fisica delle alte energie i fotomoltiplicatori sono ampiamente utilizzati come rivelatori: ad esempio quando una particella carica, molto energetica, passa attraverso un materiale scintillatore viene emesso un lampo di luce che viene convogliato su un fotorivelatore. La rivelazione della luce tramite questi dispositivi permette di misurare l’energia, e in particolari condizioni, anche la velocità e la direzione della particella carica che aveva attraversato lo scintillatore. In fisica astroparticellare, lo studio di fenomeni astrofisici altamente energetici come ad esempio i Gamma Ray Burst [3], gli Active Galactic Nuclei [1] e i SuperNova Remnant e di fenomeni estremamente rari come la Dark Matter [2], il Proton Decay [4], il Decadimento Doppio Beta 0- neutrini e neutrini provenienti da sorgenti astrofisiche passa attraverso la rivelazione di fotoni. La necessità di raggiungere un numero di eventi sufficiente a studiare questi fenomeni in un tempo ragionevole ha reso necessario spingersi verso sensibilità sempre più elevate e di conseguenza ha portato a progettare rivelatori che usano bersagli enormi, spesso ottenuti sfruttando volumi naturali come l’atmosfera, il mare, enormi strati di ghiaccio. In questi mezzi trasparenti le particelle cariche, generate dall’interazione o dal decadimento dei messaggeri primari, emettono luce Cherenkov o radiazione di fluorescenza che sarà poi 6 rivelata (fig. 1.1). Figura 1.1: Immagine schematizzata di un cono di luce Cherenkov che investe un Air Cherenkov Telescope, la cui parabola è coperta di specchi che hanno il compito di convogliare la luce nel fuoco, dove genericamente è posta una matrice di fotorivelatori. In tutti questi casi l’elemento attivo fondamentale del rivelatore è il fotosensore. Come accennato i fotorivelatori sono anche essenziali in campo medico, per tecniche diagnostiche come la PET, Positron Emission Tomography, che permette di effettuare una diagnosi veloce di lesioni e tumori: la procedura inizia con l’iniezione (generalmente per via endovenosa) nel soggetto da esaminare, di un radiofarmaco formato da un isotopo tracciante con vita breve che decade, emettendo un positrone; dopo un percorso che può raggiungere al massimo pochi millimetri, il positrone si annichila con un elettrone, producendo una coppia di fotoni gamma emessi in direzioni opposte fra loro [6]. I due fotoni vengono rivelati da una serie di anelli di rivelatori, come si vede dalla figura 1.2 che circondano il soggetto interessato effettuando un’immagine tomografica della zona interessata. In campo biologico un interessante utilizzo dei fotorivelatori si ha nello studio della bioluminescenza di alcune specie marine. La bioluminescenza è un fenomeno per cui organismi viventi emettono luce attraverso particolari 7 Figura 1.2: Schema concettuale della tecnica diagnostica a PET. reazioni chimiche, nel corso delle quali l’energia chimica viene convertita in energia luminosa. La capacità di alcuni organismi di emettere luce acquista nell’oceano una valenza particolare, infatti succede che varie alghe bioluminescenti formino fioriture algali tossiche, come per esempio i dinoflagellati, un gruppo importante di alghe che possono risultare tossiche per l’ambiente e che sono presenti anche nel Mediterraneo. Gli studi sull’incidenza delle specie bioluminescenti sul totale dei dinoflagellati e sulla loro tossicità contribuisce ad estendere la nostra conoscenza delle fioriture algali tossiche nel Mediterraneo che hanno un impatto significativo sull’intero ecosistema marino [7]. Per concludere, rivelatori di fotoni sono anche utilizzati per la ricerca di giacimenti petroliferi. L’operazione di ricerca, detta anche logging petrolifero, viene effettuata calando all’interno di un pozzo una sonda contenente una sorgente di neutroni o di raggi gamma. La radiazione gamma, o nell’altro caso i neutroni, viene diffusa dai materiali del sottosuolo e rivelata da un fotomoltiplicatore. La rivelazione dei neutroni fornisce informazioni riguardo la densità e la porosità dei materiali rocciosi che circondano il pozzo in cui è calata la sonda. La diffusione dei raggi gamma, invece, fornisce informazioni sull’eventuale presenza di scisto, un particolare tipo di roccia, indice della presenza di un giacimento petrolifero (fig. 1.3) [8]. Questi rappresentano solo alcuni dei più clamorosi utilizzi dei fotorivelatori nei vari campi della ricerca. Per migliorare, quindi, la qualità dei risultati sperimentali è importante prestare particolare attenzione allo sviluppo tecnologico dei dispositivi fotosensibili. Esistono vari tipi di fotorivelatori che, a seconda dell’area di interesse, trovano applicazione. 8 Figura 1.3: A sinistra: Logging petrolifero fatto utilizzando una sonda con sorgente radioattiva. A destra: Sezione dei vari strati del sottosuolo nei pressi di un giacimento petrolifero. 1.2 Fotorivelatori a vuoto I PMT, Photomultiplier tubes, sono fotorivelatori a vuoto estremamente sensibili nelle regioni dello spettro elettromagnetico dell’ultravioletto, del visibile e del vicino infrarosso. I PMT sono tubi di vetro, il cui interno è messo sotto vuoto, e il cui funzionamento si basa essenzialmente su (fig. 1.4): • una finestra d’ingresso per permettere l’ingresso del segnale luminoso; • un fotocatodo il cui compito è quello di convertire i fotoni in ingresso in elettroni; • un elettrodo di focalizzazione affinchè gli elettroni uscenti dal fotocatodo incidano sul primo dinodo; • una catena di dinodi per la moltiplicazione degli elettroni; • un anodo per la raccolta del segnale. 1.2.1 Il fotocatodo Il fotocatodo è un sottile strato di materiale, tipicamente metallico o semiconduttore, che provvede alla conversione dei fotoni in elettroni per effetto fotoelettrico. Questo processo di fotoemissione può essere riassunto in tre passi: il fotone in ingresso viene assorbito trasferendo la sua energia, hν, ad 9 Figura 1.4: Immagine schematica della struttura di un tubo fotomoltiplicatore, PMT. Un fotone incide sul fotocatodo, per effetto fotoelettrico viene espulso un fotoelettrone; il fotoelettrone viene accelerato verso il primo dinodo da cui estrarrà un certo numero di elettroni secondari. Una serie di resistenze provvede a mantenere le tensioni dei vari dinodi affinche fra di essi si crei una differenza di potenziale accelerante per gli elettroni. La corrente di elettroni verrà raccolta sull’ultimo elettrodo e letta attraverso un’opportuna elettronica esterna. un elettrone del materiale fotoemissivo, l’elettrone migra sulla superficie del fotocatodo ed infine viene emesso. Nel processo di migrazione dell’elettrone verso la superficie del fotocatodo, una parte dell’energia viene persa a causa degli urti con gli altri elettroni del materiale. Affinchè l’elettrone riesca a sfuggire dalla superficie del fotocatodo, è necessario che la sua energia finale superi la barriera di potenziale esistente fra lo strato di materiale fotoemissivo e il vuoto. Questa barriera di potenziale, anche detta work function, è tipicamente dell’ordine di 3 − 4eV per i metalli e 1.5 − 2eV per i semiconduttori. Da queste considerazioni risulta evidente che l’esistenza della barriera di potenziale fra la superficie del fotocatodo e il vuoto mette una soglia minima all’energia del fotone affinchè un fotoelettrone sia emesso (fig. 1.5). Per favorire il processo di fotoemissione, nel caso di fotoni poco energetici, e per massimizzare il numero di fotoelettroni emessi, nel caso di fotoni molto energetici, è necessario quindi ridurre al minimo la perdita di energia dei fotoelettroni nel percorso verso la superficie del fotocatodo. La percentuale di energia persa dai fotoelettroni nei metalli è alta, gli elettroni percorreranno quindi pochi nanometri. Nel caso dei semiconduttori, 10 Figura 1.5: Esempio schematico del funzionamento di un fotocatodo. Solo nel caso in cui l’energia, hν, del fotone in ingresso è tale da superare la work function il fotoelettrone viene emesso dal fotocatodo. invece, questa percentuale è più bassa e i fotoelettroni riescono a percorrere anche qualche decina di nanometri. Si tratta, comunque, di spessori decisamente piccoli rispetto al cammino della luce visibile nei materiali, per questo motivo i fotocatodi di questo spessore sono semitrasparenti. Questa scelta, tuttavia, riduce circa alla metà la probabilità di conversione dei fotoni nella parte attiva del fotocatodo, indipendentemente dalla perdita di energia e dalla grandezza della barriera di potenziale. 1.2.2 La moltiplicazione degli elettroni Affinchè il segnale uscente da un PMT sia effettivamente leggibile, è necessario che la corrente di elettroni in uscita dal fotocatodo sia amplificata. Il meccanismo utilizzato per ottenere una corrente maggiore si basa sulla moltiplicazione dei fotoelettroni ottenuta sfruttando l’emissione secondaria di elettroni. I fotoelettroni, che escono dal fotocatodo, tipicamente con un’energia di 1 eV, vengono accelerati e focalizzati da un campo elettrico verso la superficie di un elettrodo, chiamato dinodo, posto ad una tensione di ∼ 100V . Gli elettroni del materiale con cui è fatto il dinodo vengono eccitati dal passaggio dell’elettrone energetico. Dal momento che per eccitare un elettrone è necessario che il primario abbia un’energia sufficiente a superare la bandgap, 11 comunemente di 2 − 3eV , in media un fotoelettrone di 100 eV ecciterà circa 30 elettroni. All’interno del materiale questi elettroni perderanno una certa quantità di energia, per cui solo una frazione degli elettroni eccitati riuscirà ad essere estratta dal primo dinodo (fig. 1.6a). La frazione di elettroni secondari emessi aumenta in funzione dell’energia degli elettroni primari solo entro certi limiti. Se è vero che un elettrone molto energetico eccita in media più elettroni, è anche vero che essendo molto energetico penetra molto più a fondo nel materiale, gli elettroni eccitati dovranno percorrere quindi un tragitto maggiore verso la superficie del dinodo e perderanno di conseguenza una maggiore quantità di energia (fig. 1.6b). Figura 1.6: A sinistra: Immagine schematica del processo di estrazione di elettroni secondari. A destra: Grafico dell’andamento della frazione di elettroni secondari emessi in funzione dell’energia dell’elettrone primario, per diversi materiali. L’emissione secondaria di elettroni può essere significativamente aumentata utilizzando, per i dinodi, materiali con affinità elettronica negativa. Di questi materiali, quello che ha dato risultati migliori è il fosfuro di gallio, GaP, fortemente drogato con materiali trivalenti, come ad esempio lo zinco. Lo zinco crea, all’interno del GaP, siti accettori di elettroni. Su una delle superfici del dinodo viene applicato un sottile strato di materiale monoatomico elettropositivo (ad esempio il cesio, Cs): il trattamento dello strato di GaP con il Cs riduce la barriera superficiale curvando la banda di conduzione in modo che si trovi al di sopra della barriera del vuoto, come indicato in figura 1.7. Ne consegue un aumento nella frazione di elettroni secondari emessi, δ, soprattutto nel caso di elettroni primari molto energetici (fig. 1.6 b). 12 Figura 1.7: Immagine schematica dell’effetto dato dall’utilizzo di uno strato di materiale con affinità elettronica negativa, drogato con un materiale di tipo p e trattato con un sottile strato di materiale elettropositivo. Dall’immagine risulta evidente l’effetto di curvatura della banda di conduzione che permette agli elettroni eccitati che vi si trovano all’interno di superare la barriera di potenziale all’interfaccia fra il dinodo e il vuoto. Per raggiungere un’amplificazione del segnale dell’ordine di 106 , in tutti i PMT viene utilizzata una catena di dinodi (mantenuti ad ciascuno ad un certo potenziale da una serie di resistori, in modo da creare un campo elettrico accelerante fra ogni coppia di dinodi) in cui il processo di emissione secondaria viene ripetuto tante volte quanti sono i dinodi presenti nel tubo fotomoltiplicatore. La corrente di elettroni viene raccolta su un elettrodo finale, l’anodo, che la invia ad un circuito esterno per la lettura del segnale. La moltiplicazione degli elettroni può essere ottenuta anche con un canale continuo. Si tratta di un tubo di vetro (chiamato microcanale), con un diametro ≤ 10µm, la cui superficie interna funziona da emettitore di elettroni secondari, il principio di funzionamento è semplice: un elettrone entra nel tubo ed estrae un certo numero di secondari, una differenza di potenziale viene applicata su tutta la lunghezza del tubo in modo che gli elettroni che entrano vengano accelerati e attratti verso l’uscita, provocando lungo il tragitto l’estrazione di ulteriori elettroni secondari (fig. 1.8 a). Il fattore di amplificazione dipende dal numero di volte che ciascun elettrone urta contro la parete interna del tubo. Questo processo è del tutto casuale e dipende dalla traiettoria di ciascun elettrone, tuttavia lavorando a tensioni elevate si può raggiungere anche un guadagno di circa 106 − 107 . Esistono moltiplicatori di elettroni formati da insiemi di microcanali (fig 1.8 b), detti Microchannel Plate (MCP). Ogni canale ha un diametro di circa 13 Figura 1.8: A sinistra: Principio di funzionamento di un microcanale come moltiplicatore di elettroni. A destra: Struttura di un Microchannel Plate. 10 − 50µm ed agisce indipendentemente dagli altri come moltiplicatore di elettroni. Se tutti i canali sono uguali fra loro e lavorano in regime di saturazione allora la corrente letta alla fine è proporzionale al numero di elettroni in ingresso. 1.2.3 Caratteristiche dei PMT La conoscenza delle caratteristiche dei fotomoltiplicatori è di primaria importanza per determinare sensibilità e risoluzione dell’apparato in fase di misura. Le caratteristiche più importanti sono [9], [5]: • efficienza quantica; • efficienza di raccolta del segnale; • guadagno, ottenuto tramite il processo di moltiplicazione degli elettroni raggiunge valori di circa 106 − 107 ; • corrente di buio; • transit time spread; • linearità. 14 La fotoemissione di un elettrone dal fotocatodo è un processo di natura probabilistica. La grandezza che descrive la capacità di conversione di fotoni in elettroni da parte di un certo tipo di fotocatodo è detta efficienza quantica. Spesso indicata come QE (Quantum Efficiency), essa è definita come QE = numero di elettroni emessi numero di fotoni incidenti L’efficienza quantica dipende anche dalla lunghezza d’onda del fotone incidente: fotoni con lunghezza d’onda minore (frequenza maggiore) hanno un’energia più elevata di quelli a lunghezza d’onda maggiore e di conseguenza hanno più probabilità di generare un fotoelettrone (fig. 1.9). Figura 1.9: Grafico dell’efficienza quantica in funzione della lunghezza d’onda per diversi tipi di materiale. L’efficienza quantica massima raggiunta dai fotocatodi classici è circa del 25%. Tale valore è stato migliorato mediante l’introduzione di nuovi tipi di materiali per il fotocatodo; le nuove configurazioni prendono il nome di fotocatodi bialkali, multialkali e solo recentemente superbialkali e ultraalkali, a seconda dell’efficienza quantica e del tipo di materiale utilizzato. Con queste nuove tipologie di fotocatodo si raggiunge anche un’efficienza quantica del 15 40-45%. Un’altra grandezza di fondamentale importanza è l’efficienza di raccolta degli elettroni sul primo dinodo. I PMT sono progettati in modo da tenere conto del fatto che per avere l’emissione secondaria è necessario che i fotoelettroni provenienti dal fotocatodo siano focalizzati sul primo dinodo, tuttavia può capitare che un fotoelettrone devi dalla traiettoria favorita e di conseguenza non contribuisca all’emissione secondaria. Si definisce allora l’ efficienza di raccolta come la probabilità che un fotoelettrone colpisca l’area efficace del primo dinodo1 . Esiste una probabilità che, anche nei successivi stadi della moltiplicazione, alcuni elettroni devino dalla traiettoria favorita, tuttavia, dal momento che negli stadi successivi il numero di elettroni che partecipano all’emissione secondaria è decisamente maggiore rispetto al numeo di fotoelettroni che arrivano sul primo dinodo, il mancato contributo di questi elettroni in rapporto è minore. Figura 1.10: Grafico dell’andamento dell’efficienza di raccolta del segnale sul primo dinodo in funzione della tensione di accelerazione fra fotocatodo e primo dinodo. Come si osserva dalla figura 1.10, l’efficienza di raccolta del segnale sul primo dinodo varia in funzione della differenza di potenziale esistente fra il 1 Si definisce area efficace la zona del dinodo che colpita da un fotoelettrone produca elettroni secondari focalizzati verso il successivo dinodo. 16 fotocatodo e il primo dinodo. È chiaro che se il campo accelerante è basso il numero di fotoelettroni focalizzati sull’area efficace del dinodo è minore: occorre quindi scegliere la giusta tensione per massimizzare l’efficienza di raccolta. Anche quando un fotomoltiplicatore non è illuminato, scorre al suo interno una piccola corrente che prende il nome di corrente di buio ( Dark Current ) e che può avere diverse origini, fra cui l’emissione termoionica da parte del fotocatodo e dei dinodi, overvoltage e afterpulses. La tensione di lavoro del PMT svolge un ruolo decisivo: se da un lato c’è bisogno di tensioni molto alte per creare i campi acceleranti fra i vari dinodi, occorre comunque tener conto che esiste un limite fisico a causa del fatto che un campo troppo forte è capace di strappare elettroni ai dinodi. Per evitare quindi problemi legati all’overvoltage in genere si alimenta il PMT ad una tensione circa del 20 % inferiore al limite segnalato dalla ditta costruttrice. Oltre ai problemi legati all’elettronica necessaria al corretto funzionamento di un PMT un’ulteriore fonte di rumore per questi dispositivi è data dalla catena di dinodi. L’emissione termoionica rappresenta senza dubbio la componente principale di rumore in un tubo fotomoltiplicatore. Dal momento che sia il fotocatodo sia i dinodi sono fatti di materiali con una bassa work function è possibile che questi emettano (anche a temperatura ambiente degli elettroni, innescando cosı̀ il meccanismo di moltiplicazione. Se gli elettroni sono generati dal fotocatodo o dai primi dinodi, il rumore è maggiore rispetto all emissione degli altri dinodi, perché tale segnale risulta maggiormente amplificato dagli stadi successivi. Può anche capitare che la corrente di buio sia generata da un fotoelettrone che viene diffuso all’indietro dal primo dinodo; tale fotoelettrone, tornando sul dinodo, genera un segnale, detto afterpulse, in ritardo rispetto a quello principale (fig. 1.11 ) Il tempo di ritardo con cui questi impulsi estranei si presentano sull’ anodo,rispetto all’ impulso principale, è di qualche decina di nanosecondi. La carica generata da tali impulsi viene integrata insieme alla carica principale e ciò comporta un aumento del rumore e delle fluttuazioni sul segnale in uscita. Le caratteristiche temporali di un fotomoltiplicatore sono indispensabili per ottimizzare la rivelazione nei vari esperimenti. I PMT sono dispositivi con una risposta temporale molto veloce. La risposta del fotomoltiplicatore dipende principalmente dal tempo di transito, ovvero il tempo che un elettrone impiega a percorrere la distanza fra il fotocatodo e l’anodo di raccolta. Dal momento che la fotoemissione e l’emissione secondaria avvengono su sca17 Figura 1.11: A sinistra: rappresentazione schematica del fenomeno degli afterpulse. A destra: schema della definizione dell’impulso principale e degli impulsi secondari in base al tempo di arrivo. le di tempo dell’ordine di 0, 1ns, il tempo di transito dipende principalmente dal fatto che nella catena di moltiplicazione ogni elettrone percorre una traiettoria diversa da quella degli altri. Il tempo di transito, comunque non è una quantità fondamentale perchè si tratta solo dell’introduzione di un ritardo costante sui segnali in uscita rispetto all’arrivo di un impulso luminoso. Le fluttuazioni nel tempo di transito, TTS (Transit Time Spread), sono invece fondamentali caratteristiche dei PMT perchè determinano la durata del segnale di uscita (fig. 1.12). Queste dipendono in primo luogo dalle diverse traiettorie e poi anche dalle diverse velocità dei fotoelettroni dal fotocatodo al primo dinodo. Nel primo caso, per limitare questo effetto e ridurre cosı̀ il TTS, si costruisce il fotocatodo curvo e si pone il primo dinodo nel fuoco, in questo modo i fotoelettroni percorrono in media lo stesso tragitto. Nel secondo caso, invece, si applica una differenza di potenziale molto alta fra il fotocatodo e il primo dinodo, in questo modo i fotoelettroni in uscita dal fotocatodo vengono accelerati a velocità molto maggiori rispetto a quella posseduta inizialmente e la differenza fra le diverse velocità in uscita dal fotocatodo diventa trascurabile. Le fluttuazioni nel tempo di transito dipendono anche dal numero di fotoni incidenti sul fotocatodo (e di conseguenza dal numero di fotoelettroni prodotti); se la misura dei vari tempi di transito ha una distribuzione gaussiana, la statistica prevede che le fluttuazioni siano inversamente proporzionali alla radice quadrata del numero di fotoelettroni prodotto. 18 Figura 1.12: Grafico dell’andamento delle fluttuazioni nel tempo di transito, TTS, al variare del numero di fotoelettroni prodotti dall’impulso luminoso incidente sul fotocatodo. Il TTS è stato misurato per diversi modelli di PMT: R1828-01, R329 ed R2083. La caratteristica di linearità di un PMT indica il range in cui il rivelatore manda in uscita un segnale la cui ampiezza è linearmente proporzionale al numero di fotoelettroni, e di conseguenza al numero di fotoni incidenti. Il fattore di moltiplicazione di un PMT resta costante nel caso in cui l’intensità dell’impulso luminoso che lo colpisce vari in un range che va dalla condizione di singolo fotone a diverse migliaia di fotoni. Tuttavia, quando sul fotocatodo incidono troppi fotoni la corrente in uscita inizia a deviare dalla condizione di linearità. Ciò è dovuto principalmente a effetti di carica spaziale: l’enorme concentrazione di carica negativa fra l’ultimo dinodo e l’anodo può modificare le traiettorie di alcuni elettroni deviandoli dall’anodo di raccolta (fig. 1.13). 1.3 Fotorivelatori a stato solido Il progresso nello studio dei semiconduttori ha portato all’utilizzo di diodi, giunzioni p-n, polarizzati inversamente come rivelatori di fotoni. 19 Figura 1.13: A sinistra: Grafico della carica sull’anodo al variare del numero di fotoelettroni. A destra: Grafico dell’ampiezza del segnale in uscita al variare del numero di fotoelettroni. I due grafici si riferiscono alle misure effettuate su un PMT di 10” utilizzato nell’esperimento NEMO, i valori sono stati ottenuti considerando un guadagno di 5 · 107 . Da entrambi i grafici si nota che il range di linearità è mantenuto fino a circa 100 p.e. in ingresso. La generazione del segnale in questo caso avviene attraverso l’effetto fotoelettrico di giunzione: una radiazione elettromagnetica che colpisce uno dei due lati della giunzione provoca la generazione di coppie elettrone-lacuna; il campo elettrico, presente nella regione di svuotamento, è in grado di separare le coppie elettrone-lacuna e di provocarne la migrazione in direzioni opposte, generando quella che viene detta una fotocorrente. Data l’origine del processo di generazione dei fotoportatori e la loro separazione da parte del campo elettrico, una qualsiasi giunzione può essere impiegata come sensore di luce. Naturalmente esistono strutture progettate appositamente le quali comunemente vengono utilizzate con ottimi risultati come rivelatori di luce. A seconda della tensione applicata agli estremi e della geometria della giunzione, i fotodiodi sono in grado di lavorare in tre regimi diversi: PiN, APD, G-APD. 1.3.1 Fotodiodi PiN Il fotodiodo PiN è un diodo con una larga regione di materiale semiconduttore intrinseco, cioè non drogato, contenuta tra un semiconduttore di tipo p e un semiconduttore di tipo n, da cui il nome. Come si vede dalla figura 1.14, la luce entra attraverso un sottile strato di materiale di tipo p, che funziona da elettrodo, e arriva nella zona attiva 20 Figura 1.14: Struttura di un tipico fotodiodo PiN. del rivelatore dove, per effetto fotoelettrico crea una coppia elettrone-lacuna. Le coppie elettrone-lacuna, sotto l’effetto del campo elettrico generato dalla tensione appicata, migrano rispettivamente verso gli strati n e p, dove sono raccolti. Polarizzando inversamente la giunzione, la regione di svuotamento si allarga facilmente nello strato intrinseco, grazie alla bassa concentrazione di drogaggio presente, occupandolo totalmente; al fine di ridurre la capacità di giunzione e di conseguenza il tempo di risposta del dispositivo si aumenta lo spessore della regione di svuotamento. Inoltre la maggiore larghezza della regione svuotata consente di ottenere elevate efficienze di fotorivelazione in quanto un fotone ha la possibilità di essere assorbito lungo una zona dalle ampie dimensioni. I fotodiodi PiN non hanno alcuna amplificazione interna, per cui la corrente in uscita è insufficiente per pensare ad una sua applicazione in quei campi in cui l’energia luminosa da rivelare sia estremamente limitata. 1.3.2 Fotodiodi a valanga I fotodiodi a valanga, noti con la sigla APD (acronimo di Avalanche PhotoDiode), funzionano con tensioni di polarizzazione, inferiori alla tensione di breakdown, tali da innescare il fenomeno della moltiplicazione a valanga, consentendo cosı̀ di ottenere un’elevata amplificazione interna del segnale prodotto dall’assorbimento dei fotoni. Esistono varie configirazioni per la struttura degli APD, il più comune è l’APD Reach-Through, o RAPD. Un RAPD è costruito a partire da un ampio substrato leggermente drogato di tipo p (indicato con il simbolo π); in una zona sottile e limitata di questo strato vengono iniettati ulteriori accettori, generando una regione di tipo p, al di sopra della quale per diffusione planare viene costruito uno stra21 Figura 1.15: In alto: Struttura schematica di un APD Reach-Through. In Basso: Andamento del campo elettrico nelle varie zone del dispositivo. to n+ . Sull’altro lato dello strato π viene depositato uno strato sottile p+ ; la struttura è quindi del tipo p+ − π − p − n+ . La giunzione p − n+ viene polarizzata inversamente applicando una tensione tale da svuotare interamente il rivelatore. Di conseguenza si ottiene un campo elettrico nella regione di svuotamento la cui distribuzione è mostrata in fig. 1.15: nello strato π il campo elettrico è poco intenso e quasi uniforme, mentre in prossimità della giunzione vi è una piccola regione in cui assume valori molto elevati. Il risultato è un rivelatore in cui si possono distinguere due zone: una zona (π) in cui i fotoni vengono assorbiti e i portatori prodotti migrano senza dare origine a moltiplicazione, e una piccola zona (in prossimità della giunzione) in cui si genera la valanga. La generazione della valanga avviene per effetto della ionizzazione da impatto: il campo elettrico all’interno della regione π è sufficientemente alto da accelerare i portatori di carica in modo che, urtando contro il reticolo cristallino del materiale, essi possano cedere abbastanza energia da far passare un elettrone del reticolo dalla banda di valenza alla banda di conduzione (e creare, quindi, un’altra coppia elettrone-lacuna). Se questo processo si ripete e coinvolge anche gli elettroni e le lacune secondarie si sviluppa la cosiddetta moltiplicazione a valanga. 1.3.3 Caratteristiche degli APD I parametri principali che determinano le prestazioni degli APD in regime avalanche sono: 22 • il guadagno, in genere < 1000; • la risposta spettrale; • l’efficienza di rivelazione; • il tempo di risposta; • la corrente di buio. La risposta spettrale dei fotodiodi è definita come il rapporto tra la misura della corrente elettrica generata dalla cella fotovoltaica (misurata in A) e la potenza incidente (misurata in W). Negli APD p+ − π − p − n+ la regione di assorbimento si trova subito dopo il sottilissimo strato p+ , quindi i fotoni di grande lunghezza d’onda tendono ad oltrepassarla interamente senza produrre coppie, mentre i fotoni di piccole lunghezze d’onda hanno alta probabilità di essere assorbiti nello strato π. Di solito,vengono quindi usati gli APD n+ − p − π − p+ per la rivelazione di radiazione infrarossa o visibile, mentre gli APD p+ −π −p−n+ nella spettroscopia UV: il picco della risposta spettrale si trova dunque tra il blu e l’UV. L’efficienza di rivelazione (PDE, Photon Detection Efficiency) è la probabilità che un fotone incidente produca un segnale di ampiezza apprezzabile, ovvero è la probabilità che un fotone dia origine a una valanga. La PDE non dipende solo dall’efficienza quantica del dispositivo, ma anche dal rate di ionizzazione dei portatori, quindi dalla probabilità Pa che i portatori generino la valanga. Poiché la probabilità che un fotone generi una coppia elettrone-lacuna e quella che un portatore inneschi il processo di moltiplicazione sono indipendenti, la PDE è il prodotto dell’efficienza quantica per la probabilità di generazione della valanga: P DE = Qe · Pa L’efficienza quantica è funzione della lunghezza d’onda dei fotoni incidenti, mentre la probabilità di generare la valanga dipende dalla tensione applicata: la PDE è funzione della lunghezza d’onda e aumenta all’aumentare della tensione inversa applicata. In regime avalanche, quindi, è difficile raggiungere valori elevati di PDE, poiché la tensione applicabile è limitata superiormente dalla tensione di breakdown. Il tempo di risposta è determinato dai tempi di salita e di discesa del segnale prelevato in uscita dall’ APD. Il tempo di salita dipende dalla velocità dei portatori che si muovono all’interno della regione di svuotamento e 23 dal tempo necessario affinché si sviluppi la valanga. La velocità degli elettroni e delle lacune dipende dal campo elettrico a cui sono sottoposti: ad esempio nel Silicio, quando il campo elettrico è dell’ ordine di 104 V /cm la velocità dei portatori si stabilizza a circa 107 cm/s che, data una regione di svuotamento dell’ordine dei µm, corrisponde a tempi di attraversamento dell’ordine dei decimi di ns. Considerando che la velocità dei portatori è inferiore a quella calcolata teoricamente, a causa dei ripetuti urti col reticolo cristallino, il tempo di salita tipico del segnale di un APD è dell’ordine dei ns. Il tempo di discesa, invece, dipende dalla capacità di transizione della giunzione, CT , e dal circuito di lettura del segnale. Tipicamente il segnale viene prelevato ai capi di un resistore di carico RL posto in serie all’APD: la costante di tempo del circuito risulta quindi essere τ = RL CT . Negli APD completamente svuotati la capacità di transizione è costante e il tempo di discesa risulta essere, quindi, indipendente dalla tensione applicata. Essendo la capacità dell’ordine del pF o decimi di pF, che in serie a resistori dell’ordine dei 5 − 10kΩ, produce tempi di discesa dell’ordine dei 5-10 ns. L’altro parametro che determina le prestazioni in rumore di un APD in regione avalanche è la corrente di buio. Anche in questi dispositivi la causa principale di rumore è la generazione termica dei portatori, i quali hanno la stessa probabilità di una coppia prodotta dall’assorbimento di un fotone di generare una valanga. Questo vuol dire che anche in assenza di radiazione incidente, cioè quando l’APD è completamente al buio, si osserva una corrente in uscita, detta corrente di buio, ID = M · IDB , dove M è il guadagno dell’APD e IDB è la corrente primaria prodotta per agitazione termica. Considerando che esiste anche un’ altra fonte di rumore Is , dovuta a effetti di √ superficie, il rumore spettrale totale (definito i = 2eIB, dove B è la banda passante) di un APD in regime avalanche al buio vale: i= p 2e(Is + M 2 F IDB )B dove F è il fattore di rumore, ossia un fattore che tiene conto delle fluttuazioni dovute alla natura statistica della valanga. Come in tutti gli altri dispositivi la riduzione del rumore può essere ottenuta tramite la riduzione della temperatura alla quale il diodo opera [5]. 24 1.4 Limiti dei fotomoltiplicatori A seconda dell’area d’interesse, le nuove generazioni di esperimenti richiederanno ai fotorivelatori diversi miglioramenti nelle prestazioni. Nel caso degli apparati Cherenkov in acqua, ad esempio, la luce emessa da un leptone generato da un’ interazione di neutrino può interessare fotomoltiplicatori vicini o lontani dalla traccia. La risposta dinamica dei PMT deve essere, quindi, lineare in un ampio range, a partire da un elevato numero di fotoni fino ad arrivare al singolo fotone. Un altro settore nel quale i fotorivelatori sono di fondamentale importanza è la ricerca della Materia Oscura in forma di WIMP (Weakly Interactive Massive Particles). In tale applicazione sono sfruttate le ottime proprietà di scintillazione dei gas nobili in rivelatori a doppia fase liquido- gas. La luce di scintillazione VUV caratteristica di questi mezzi è rivelata tramite fotomoltiplicatori ad alta efficienza immersi nel liquido criogenico o in gas alla stessa temperatura (89 K per l’Argon liquido)[2-4]. La prossima generazione di esperimenti, dunque, richiederà ai fotomoltiplicatori sempre maggiori miglioramenti tecnologici in termini di linearità, guadagno e soprattutto sensibilità (efficienza quantica e risposta a singoli fotoelettroni). Anche se i VPMT (Vacuum Photomultiplier Tubes) finora risultano essere i migliori dispositivi ad alto guadagno per quanto riguarda la rivelazione dei fotoni, tuttavia i fotomoltiplicatori standard presentano diversi svantaggi: • le fluttuazioni nel guadagno del primo dinodo rendono difficile i conteggi di singolo fotone; • la linearità, strettamente legata al guadagno, diminuisce all’aumentare di quest’ultimo; • è possibile che si presentino significative fluttuazioni nella risposta temporale; • la struttura meccanica dei dinodi è complessa e costosa; • sono sensibili ai campi magnetici; • il partitore di tensione comporta rischi di rottura e alto consumo di potenza. Al fine di spingersi sempre oltre nei vari settori della ricerca è importante cercare di superare questi limiti. Alla luce di quanto detto finora, i fotodiodi sembrerebbero offrire una valida aternativa ai PMT. Tuttavia, nonostante le 25 caratteristiche vantaggiose, in molte applicazioni dove è richiesta alta sensibilità a bassi livelli di luce l’utilizzo di un fotodiodo PiN (guadagno = 1) non è adatto e il guadagno tipico di un APD risulta insufficiente. Recenti studi in Russia, però, hanno mostrato che queste giunzioni APD in particolari condizioni possono lavorare in regime Geiger (G-APD) con amplificazioni intrinseche di 105 − 106 . 26 Capitolo 2 APD in regime Geiger Per ottenere un rivelatore che offra i vantaggi di un fotodiodo e che contemporaneamente sia sensibile anche al singolo fotone si può utilizzare un APD in regime Geiger, G-APD, ossia un APD la cui tensione di lavoro sia maggiore di quella di breakdown. In queste condizioni, il campo elettrico è talmente alto che anche un singolo portatore innesca una scarica all’interno del dispositivo, garantendo un guadagno paragonabile a quello di un PMT. L’utilizzo di un singolo G-APD, comunque, nasconde un grosso limite: la perdita di linearità. Il segnale in uscita, infatti, ha un’ampiezza fissa indipendentemente dal numero di fotoni incidenti sul dispositivo. Al fine di superare questo ulteriore problema sono state costruite matrici di G-APD connessi in parallelo, anche conosciute col nome di SiPM (Silicon Photomultiplier ). 2.1 I Silicon Photomultiplier I SiPM sono fotodiodi segmentati in microcelle (ognuna delle quali è un GAPD) con l’alimentazione e l’uscita comuni. Quando un fotone incide su una cella questa dà in uscita una corrente, e nell’ipotesi che tutti i pixel siano identici, il segnale in uscita non è altro che la somma dei segnali delle singole celle colpite dai fotoni, in questo modo il segnale risulta proporzionale al numero, Nf ired , di pixel colpiti dai fotoni Qtot = Nf ired · Qcell . Il range in cui il dispositivo è lineare è, quindi, legato al numero di celle che lo compongono, mentre la probabilità che due o più fotoni colpiscano la 27 stessa cella dipende dalla grandezza di quest’ultima. Figura 2.1: Immagine schematica della struttura di una microcella. Ogni microcella ha una struttura del tipo n+ − p − π − p+ . Come si vede dalla figura 2.1 lo strato n+ è sottile ed è quello su cui incide la luce. Lo strato n+ , ad alto drogaggio di tipo n, è seguito da una successione di tre strati di diverso spessore drogati di tipo p in diverse concentrazioni, in modo da modificare il campo elettrico all’interno del dispositivo (fig. 2.2). Il campo elettrico inverso crea una regione di svuotamento fra gli strati n+ e p, con dimensione dell’ordine del micron. Il sottile strato p è seguito da uno strato π a basso drogaggio di tipo p, con uno spessore di ≈ 300µm e infine da uno strato fortemente drogato di tipo p con dimensioni dell’ordine di circa 3µm. Sulla superficie del SiPM viene posto un sottile strato di metallo (≈ 0.01µm) con un rivestimento antiriflessione. Fra lo strato di metallo e quello n+ viene messo uno strato (≈ 0.15µm) di un materiale resistivo, tipicamente SiO2 , il cui ruolo è quello di spegnere la scarica riducendo il campo elettrico locale, permettendo cosı̀ di ristabilire le condizioni iniziali per la rivelazione di un altro fotone. L’assorbimento dei fotoni dipende dalla lunghezza d’onda: nel caso di λ ≈ 400nm il fotone viene assorbito nello strato π dove crea le coppie elettronelacuna, il campo elettrico approssimativamente uniforme trasporta elettroni e lacune rispettivamente verso gli strati n+ e p+ ; gli elettroni che raggiungono lo strato p vengono accelerati dall’elevato campo elettrico a velocità sufficienti a ionizzare altri elettroni dando inizio alla creazione della valanga. 28 Figura 2.2: A causa della diversa concentrazione di drogaggio nei vari strati, il campo elettrico varia all’interno del SiPM raggiungendo il picco massimo in corrispondenza della zona di giunzione n+ − p e diminuendo man mano fino ad annullarsi alla fine della zona di svuotamento nello strato p+ . È evidente che anche da una singola coppia elettrone-lacuna si genera un elevato numero di coppie secondarie che contribuiscono tutte alla fotocorrente permettendo, quindi, di ottenere un’amplificazione interna di circa 106 , qualunque sia il numero di elettroni entranti nella zona sensibile del rivelatore [10], [11], [12]. 2.2 Gli MPPC I SiPM utilizzati in questo lavoro di tesi sono prodotti dall’Hamamatsu con il nome di Multi-Pixel Photon Counters, MPPC. Gli MPPC sono SiPM composti da G-APD a struttura Reach-Through Epitaxial n+ − p − π − p+ con il resistore di quenching realizzato deponendo uno strato di ≈ 0.1 − 0.2µm di SiO2 al di sopra dello strato n+ . Il picco della risposta spettrale per tutti i modelli di MPPC si trova nel visibile a circa 400 nm, e le tensioni di alimentazione tipiche sono dell’ordine dei 70 V. In commercio si trovano due tipi di MPPC: l’ 1 × 1mm2 e il 3 × 3mm2 . L’MPPC preso in analisi in questo lavoro di tesi è l’1 × 1mm2 ed è dotato di 1600 pixel quadrati di area 25µm × 25µm (fig. 2.3 a). Il SiPM è situato all’interno di un contenitore metallico di forma cilindrica, di diametro 5.2 mm e altezza 3.7 mm. La base anteriore del cilindro metallico è dotata di una finestra di vetro di diametro 3 mm che permette l’ingresso dei fotoni sul dispositivo. La regione svuotata n+ − p − π ha uno spessore di circa 2µm, mentre il substrato p+ ha uno spessore di circa 3µm; 29 Figura 2.3: A destra: Immagine di un MPPC 1 × 1mm2 diviso in 1600 celle. A destra: Schema della composizione dell’ MPPC. il contatto metallico attraverso cui viene alimentato il G-APD è costituito da una piastrina di alluminio. 2.3 Caratteristiche degli MPPC Le caratteristiche degli MPPC fornite dai costruttori sono riassunte nella tabella 2.4 [13]. Figura 2.4: Tabella, tratta dai data sheet dell’Hamamatsu, contenente le caratteristiche degli MPPC utilizzati nel presente lavoro di tesi. 30 I dati forniti dalla ditta costruttrice sono comunque stati verificati effettuando dei test mediante l’utilizzo di luce laser pulsata a 407 nm. Lo schema generale dell’apparato sperimentale è mostrato in figura 2.5. Figura 2.5: Schema dell’apparato sperimentale utilizzato per la caratterizzazione di un MPPC. L’MPPC è montato su una scheda contenente un circuito di amplificazione del segnale in uscita (fig. 2.6) ed è posto all’interno di una camera oscura; attraverso una fibra ottica a cui è connesso, il rivelatore riceve i fotoni dal laser impulsato ad una frequenza di 100 kHz. Per creare le condizioni di bassa illuminazione sono stati inseriti, fra il laser e l’MPPC, due beam splitter che selezionano, ciascuno, l’ 1% del fascio in ingresso. 2.3.1 Caratteristiche del segnale La semplice osservazione di un segnale in uscita da un MPPC permette di fare considerazioni preliminari riguardo l’uniformità del funzionamento dei vari pixel del dispositivo e sui tempi caratteristici di risposta del sistema MPPC+scheda di amplificazione. In figura 2.7 è riportato un segnale in uscita da un MPPC illuminato a bassa intensità da un laser. Dall’immagine si osservano chiaramente i diversi picchi corrispondenti ciascuno al numero di celle colpite. Ciò conferma l’uniformità del guadagno delle singole microcelle. Inoltre, variando la tensione di alimentazione del dispositivo, Vbias , risulta evidente che il rise time e il fall time sono completamente indipendenti dal valore di quest’ultima e risultano essere rispettivamente dell’ordine di 1-2 ns e 3-4 ns [12]. 31 Figura 2.6: Schema del circuito di amplificazione del segnale in uscita dall’ MPPC. Figura 2.7: Segnale in uscita da un MPPC, con Vbias = 70.5V , illuminato con pochi fotoni. Si vedono distintamente i segnali generati da una singola cella o da 2, 3, etc. celle contemporaneamente. 2.3.2 Il guadagno Da quanto detto in precedenza, è chiaro che il guadagno di un fotodiodo dipende dal campo elettrico al suo interno e di consegienza dalla tensione a 32 cui viene alimentato. La misura del guadagno in funzione della tensione viene fatta valutando la carica di un singolo pixel, ottenuta dalla differenza delle ampiezze di due picchi consecutivi. L’ampiezza dei segnali in uscita dall’ MPPC, infatti, è legata alla carica accumulata sull’elettrodo di raccolta dalla relazione Qtot = Vbias · τ Rf dove τ è il tempo necessario al sistema per ristabilire la condizione statica dopo l’arrivo di un segnale e Rf è la resistenza di feedback del circuito di amplificazione. I risultati ottenuti dalla misura confermano l’andamento lineare del guadagno in funzione della tensione di alimentazione (fig. 2.8) Figura 2.8: Grafico dell’andamento del guadagno in funzione della tensione di alimentazione. Dal grafico si ottiene un guadagno di circa 2.5 · 105 per la tensione di alimentazione di 71.2 V [12]. 2.3.3 La Photon Detection Efficiency Come già visto per gli APD in regime proporzionale, anche nel caso di APD in regime Geiger l’efficienza di rivelazione dei fotoni dipende sia dall’efficienza quantica (QE), sia da quella geometrica (geom ) nonchè dalla probabilità di generare una valanga Geiger (Ptrigger ): 33 P DE = QE × geom × Ptrigger L’efficienza geometrica è legata alla percentuale di area sensibile in un micropixel, detta fill factor. Tra un pixel e l’altro vengono, infatti, inseriti dei materiali isolanti per mantenere i G-APD indipendenti tra loro: se un fotone incide su queste zone inattive del SiPM non può essere rivelato (fig. 2.9). Figura 2.9: Struttura di una microcella. Dall’immagine risulta evidente il fatto che la superficie sensibile occupa solo una parte del pixel. Per un MPPC 1 × 1mm2 con 1600 pixel geom ≈ 0.3. L’efficienza quantica del SiPM, invece, è data dall’efficienza quantica intrinseca del silicio, tipicamente ≈ 80 − 90%. La probabilità di generare una valanga Geiger dipende dalla posizione in cui viene generata la prima coppia elettrone-lacuna. Infatti, nel silicio gli elettroni hanno una probabilità di dar luogo a una valanga Geiger che è circa il doppio rispetto a quella delle lacune. Tenendo conto di ciò, in una tipica struttura n+ − p − π − p+ se la coppia viene creata nella parte superiore della regione ad alto campo (cioè dal lato dello strato n+ ) l’elettrone viene assorbito nella zona n+ e la formazione della valanga è affidata alla lacuna che deve attraversare la regione ad alto campo (fig. 2.2). Quando, invece, la coppia viene creata al di sotto della regione ad alto campo (cioè dal lato dello strato p) la situazione è l’esatto contrario della precedente quindi solo gli elettroni contribuiscono alla formazione della valanga. Nel caso in cui la resistenza di feedback del circuito di amplificazione sia di 470Ω la PDE è stata stimata essere ≈ 18.5% [12]. 34 2.3.4 Il range dinamico Come già chiarito diverse volte, il SiPM produce un segnale standard nel momento in cui in una delle sue celle si genera una scarica e, nel caso in cui più celle contemporaneamente siano accese, il segnale totale non è altro che la somma dei segnali delle singole celle. Il range dinamico di un SiPM, dunque, è limitato dal numero, Nmc , di microcelle che formano la matrice attraverso la relazione: Nph · P DE <1 Nmc dove Nph è il numero di fotoni che colpisce il rivelatore. Vale a dire che il dispositivo mantiene una risposta lineare finchè il numero di fotoni per pixel è minore di 1. Nel caso in cui questa condizione non venga soddisfatta il SiPM entra in regime di saturazione (fig. 2.10) [12]. Figura 2.10: Range dinamico misurato per un MPPC 1 × 1mm2 con 1600 pixel. 2.3.5 Il rumore La fotorivelazione basata su matrici di APD in regime Geiger non dà informazioni sull’intensità della radiazione incidente, ossia non si può distinguere il segnale prodotto da un singolo fotone da quello prodotto dall’arrivo simultaneo di più fotoni su uno stesso G-APD. Dal momento che all’interno del dispositivo il campo elettrico è elevato, anche una coppia elettrone-lacuna generata termicamente può indurre una valanga. 35 Questo, unito al fatto che non si hanno informazioni circa l’intensità, rende impossibile distinguere un segnale prodotto dall’arrivo di un fotone da quello prodotto da una coppia elettrone-lacuna creata a causa delle fluttuazioni termiche nel silicio, ildark count. Giacchè il rumore termico nel silicio è legato al volume, la riduzione dei dark counts si configura come il maggior limite all’aumento della superficie sensibile di un SiPM sensibile al singolo fotone a temperatura ambiente. Inoltre dal momento che la probabilità di generare una valanga dipende dalla tensione, come si vede dal grafico in figura 2.11 se si aumenta troppo la tensione di alimentazione il rate di dark count aumenta di conseguenza (effetto di overvoltage). Figura 2.11: Rate di dark counts in funzione dell’overvoltage. Un altro fattore che contribuisce a peggiorare il rapporto segnale-rumore nei G-APD sono gli afterpulse, sono dunque scariche secondarie sviluppate in seguito a quelle primarie, e possono quindi svilupparsi successivamente ad un evento di dark count o all’assorbimento di fotoni. Quando una valanga si sviluppa può capitare che alcuni portatori vengano catturati dalle impurità del reticolo cristallino del materiale e possono poi essere liberati dopo un certo tempo, producendo una nuova scarica, cioè un altro impulso in uscita. Nel caso in cui la valanga secondaria venga innescata prima che il sistema ritorni nella condizione statica l’afterpulse prende la forma caratteristica mostrata dall’esempio in figura 2.12 ed è quindi distinguibile da un segnale vero. Nel caso in cui, invece, la scarica secondaria venga innescata dopo che il sistema si è riportato nella condizione statica, l’afterpulse ha la stessa forma di un segnale reale ed è quindi indistinguibile da quest’ultimo. 36 Figura 2.12: Esempio di afterpulse visto all’oscilloscopio. Nella valutazione del rumore bisogna tenere in considerazione un altro effetto: il crosstalk ottico. Durante lo sviluppo di una scarica all’interno di una cella può verificarsi l’emissione di un fotone da parte di alcuni portatori e se questo fotone attraversa lo strato isolante che circonda il pixel raggiungendo il pixel adiacente, può dare origine ad un’altra scarica. In questo caso il SiPM, che in assenza del crosstalk avrebbe prodotto un segnale corrispondente all’accensione di una singola cella, produce in uscita un segnale corrispondente all’accensione di due celle. Il crosstalk, ovviamente, può essere generato a partire da un dark count, o in seguito a valanghe create dall’assorbimento dei fotoni. Dunque, se molti fotoni incidono sulla superficie del SiPM, molti pixel si accendono simultaneamente, e ognuno di questi può dare origine ad un evento di crosstalk. Il rate di dark count di un MPPC 1 × 1mm2 con 1600 pixel è stimato essere ∼ 100kHz [12]. 37 Capitolo 3 Proposte per aumentare l’angolo di vista Lo studio dell’ astrofisica dei raggi gamma e dei neutrini rappresenta un punto fondamentale della conoscenza dell’ Universo. A causa della drastica diminuzione del flusso di raggi gamma all’aumentare dell’energia nonchè della debole interazione dei neutrini con la materia, risulta indispensabile l’utilizzo di grandi superfici e volumi di rivelazione. Sebbene i SiPM siano fotorivelatori con ottime prestazioni, da quanto è emerso nel capitolo precedente, il costo del silicio e la corrente di buio ne limitano le dimensioni della superficie a qualche mm2 . Nell’intento di superare i limiti intrinseci dei PMT e spingersi verso sensibilità sempre maggiori, il problema che deve essere affrontato è allora come poter utilizzare i SiPM per rivelare fotoni prodotti su grandi superfici e/o volumi. La riduzione di grandi superfici e volumi può procedere su due linee: • aumentando l’area sensibile del rivelatore utilizzando concentratori ottici montati su un array di matrici di G-APD; • facendo convertire i fotoni su un fotocatodo a vuoto che focalizza i fotoelettroni su una piccola area dove è posizionato una matrice di G-APD. Nel primo caso, gli spazi vuoti tra le superfici sensibili di ciascun elemento rivelatore dell’array saranno eliminati focalizzando la luce sulla superficie sensibile continua di coni o piramidi di Winston [14]. Questa configurazione trova un’immediata applicazione in esperimenti che rivelano luce Cherenkov prodotta in atmosfera da raggi cosmici. L’alta efficienza quantica e la possibilità di estendere l’utilizzo di questi fotorivelatori verso IR e UV, unita alla 38 buona risoluzione spaziale e temporale, sono importanti figure di merito in applicazioni che possono andare dalle ricerche biomediche all’astronomia. Per quanto riguarda il secondo caso, che è quello di cui mi sono occupata nel mio lavoro di tesi, l’idea è quella di sostituire alla catena di dinodi tipica di un classico fotomoltiplicatore una giunzione p-n, operante in regime di Geiger avalanche, come moltiplicatore di elettroni [15], [16]. Questa sperimentazione, fortemente innovativa, se realizzata con successo, apre la possibilità di creare una nuova generazione di fotomoltiplicatori di medie e grandi dimensioni. Inoltre il nuovo dispositivo ideato consentirebbe di superare alcuni limiti intrinseci del classico fotomoltiplicatore a dinodi che sono: perdita di linearità all’aumentare del guadagno, limitate possibilità di photon counting, complessità di costruzione, dissipazione di potenza e costi. Su questa idea la ditta giapponese Hamamatsu ha realizzato per noi prototipi senza finestra di ingresso ottimizzati per la risposta agli elettroni. 3.1 SiPM con coni Winston I CPC, Compond Parabolic Concentrator, anche detti coni Winston, sono dispositivi utilizzati per concentrare la luce su una superficie di dimensioni minori massimizzando la densità di fotoni per unità di superficie (fig. 3.1). Figura 3.1: A sinistra: Modello 3D di un concentratore ottico parabilico con angolo di accettanza di 25◦ . A destra: Immagine del concentratore ottico parabolico testato, montato sul suo supporto. I CPC sono solitamente fatti con materiali amorfi (vetro) quali ad esempio il B270 e il BK7, i parametri caratteristici dei coni sono geometria, compressione, angolo di accettanza ed efficienza di raccolta. Misure effettuate con questi dispositivi hanno evidenziato che l’efficienza di trasmissione, valutata come nd /Nphot ossia il rapporto fra il numero di fotoni 39 rivelati e il numero di fotoni incidenti, è fortemente soppressa per fotoni che arrivano in una direzione diversa dalla perpendicolare alla superficie del rivelatore. L’utilizzo di coni Winston per ampliare la superficie di rivelazione è preferibile solo nel caso in cui gli angoli di accettanza siano piccoli, limitando cosı̀ il campo di vista. In ogni caso questa soluzione risulta utile in casi in cui si cerchi di rivelare radiazione prodotta ad angoli fissati, come nel caso degli esperimenti che sfruttano la rivelazione di luce Cherenkov prodotta dalle particelle. Un’ulteriore soluzione può essere rappresentata dai concentratori ottici piramidali (fig. 3.2). Figura 3.2: A sinistra: Modello 3D di un concentratore ottico piramidale. A destra: Immagine del concentratore ottico piramidale testato. In questo caso l’efficienza di trasmissione mostra una dipendenza debole dal punto di incidenza. Anche nel caso di concentratori ottici piramidali l’efficienza totale massima raggiunta è 0.1, ma a differenza dei concentratori parabolici le piramidi risultano utili per ampliare la superficie totale. Inoltre l’efficienza risulta essere uniforme per angoli di incidenza fra 0◦ e 10◦ . L’efficienza della piramide può essere migliorata sviluppando un modello di SiPM in cui la struttura frontale, in cui sono presenti le resistenze di quenching, è integrata all’interno del silicio: vengono cosı̀ eliminati eventuali ostacoli per la luce, come ad esempio le linee di metallo o i contatti. In questo modo il fill factor sarà limitato solo dalla gap necessaria a sopprimere il crosstalk e potrà raggiungere, in linea di principio, il 100%. Dal momento che il fill factor dei SiPM utilizzati è dell’ordine del 30% e considerando che esso determina il contributo principale all’efficienza del concentratore ottico, sarà possibile raggiungere un’efficienza totale dell’ordine del 35-40%. In questo modo le caratteristiche del sistema SiPM+concentratore 40 ottico potranno di gran lunga superare le proprietà di un PMT. Per completare il discorso sull’aumento della superficie di rivelazione mediante l’utilizzo di concentratori ottici, vale la pena di menzionare un promettente lavoro ancora in fase di test, che prevede l’utilizzo di un circuito basato sulla logica FPGA (Field Programmable Gate Array) per ridurre i dark count provenienti da una matrice 3 × 3 di SiPM, ciascuno provvisto di concentratore ottico piramidale. Il circuito è composto da un array di ADC in cui i segnali provenienti dai SiPM arrivano già amplificati da un amplificatore operazionale a larga banda, LMH6624. I dati digitalizzati vengono inviati alla FPGA (fig. 3.3) che, grazie ad un discriminatore interno, elimina i campioni corrispondenti alla rivelazione di pochi fotoni, i quali corrispondono probabilmente a dark count. Una volta che i dati sono campionati in base al numero di fotoni rivelati, l’FPGA fa una coincidenza logica fra i campioni provenienti dai vari SiPM. Figura 3.3: A sinistra: Immagine del sistema MPPC 3 × 3mm2 , circuito di amplificazione e concentratore ottico piramidale, utilizzato per testare il circuito in logica FPGA. A destra: Schema del circuito di analisi dei segnali provenienti dalla matrice di MPPC. Sebbene al momento il circuito sia stato testato su una matrice 2 × 1 di SiPM, esso può facilmente essere generalizzato alla versione finale, in cui si considera una matrice di 9 (3 × 3) SiPM, prendendo in considerazione le coincidenze 1 a 1 in tutte le combinazioni possibili e sommandole con l’ FPGA. Considerando che le piramidi utilizzate hanno superficie di ingresso di 7.5 × 7.5mm2 , 50mm di altezza e superficie di uscita di 2.5 × 2.5mm2 , con questo sistema è possibile ottenere un rivelatore di 22.5 × 22.5mm2 con un basso livello di rumore. 41 3.2 Alternative ai tubi fotomoltiplicatori standard: gli HPD Il fotomoltiplicatore ibrido, HPD (Hybrid PhotoDiode), è un’interessante alternativa al fotomoltiplicatore classico. La struttura di base è semplice: si tratta di un fototubo in cui la moltiplicazione degli elettroni non avviene mediante emissione secondaria in una catena di dinodi o in un MCP, bensı̀ attraverso la produzione di coppie in un fotodiodo. Proprio come in un PMT classico, la luce incide sul fotocatodo estraendo un elettrone di bassa energia (tipicamente ≈ 1eV ); una differenza di potenziale di circa 10 − 15kV applicata fra il fotocatodo e il diodo ha la funzione di focalizzare il fotoelettrone sulla superficie del diodo conferendogli, inoltre, un’energia pari a ≈ 10 − 15keV , a seconda del potenziale utilizzato. Esistono varie configurazioni per l’arrangiamento del fotodiodo all’interno del fototubo: quella a focalizzazione elettrostatica e quella proximity- focusing. Figura 3.4: A sinistra: fotomoltiplicatore ibrido in configurazione di focalizzazione elettrostatica. A destra: fotomoltiplicatore ibrido in configurazione proximity-focusing. Nel primo caso, fig. 3.4 a, si utilizzano degli elettrodi di focalizzazione che guidano i fotoelettroni dalla superficie del fotocatodo, di dimensioni anche molto maggiori di quelle del diodo scelto, fino a quella di quest’ultimo. Questa configurazione ha il vantaggio che si può utilizzare un diodo molto piccolo caratterizzato da basse capacità e correnti di leakage, assicurando quindi un livello di rumore molto basso. Nella seconda configurazione (fig. 3.4 b), invece, viene utilizzato un diodo delle stesse dimensioni del fotocatodo, posizionato a piccola distanza dalla superficie di quest’ultimo. In questo caso, gli elettroni sono guidati lungo linee di campo elettrico che sono essenzialmente parallele all’asse del fototu42 bo. Un ibrido in configurazione proximity-focusing ha il vantaggio di essere molto compatto (con una lunghezza complessiva di circa 2 − 3cm) e, grazie alla focalizzazione mediante linee di campo brevi e parallele, risulta molto meno sensibile ai campi magnetici, soprattutto se viene orientato con l’asse parallelo alle linee del campo magnetico. I primi prototipi di fotomoltiplicatore ibrido, sviluppati da DEP ed Hamamatsu, prevedevano l’uso di un diodo PiN al posto dei dinodi. In questo caso il guadagno, dato unicamente dal numero di coppie che il fotoelettrone riesce a generare nel diodo (circa 2800 coppie nel caso in cui un fotoelettrone di 10keV depositi tutta la sua energia nel rivelatore), risulta insufficiente. Sono stati allora progettati nuovi HPD in cui il diodo PiN viene sostituito da un APD che aggiunge un guadagno intrinseco dovuto all’innesco della valanga , ∼ 100, a quello garantito dall’energia depositata nel diodo dai fotoelettroni (fig. 3.5). Figura 3.5: Schema del funzionamento di un fotomoltiplicatore ibrido a semicondutore HAPD. Uno dei maggiori vantaggi offerti dagli ibridi è l’ottima risoluzione temporale. Nei PMT classici, infatti, il lo spread nel tempo di transito (TTS) dipende dal numero di elettroni secondari generati da ogni fotoelettrone nel primo dinodo: maggiore è il numero di elettroni secondari prodotto e minore è il TTS. Ricordiamo, che un dinodo standard emette, per ogni fotoelettrone in ingresso, circa 5 elettroni secondari, mentre un dinodo NEA ne emette 43 circa 25. Nel caso di un APD, invece, il numero di coppie elettrone lacuna generate per ogni fotoelettrone incidente è circa 2500-3000. Per quanto i fotomoltiplicatori ibridi offrano diversi vantaggi rispetto ai PMT classici (tensioni di lavoro più basse, minor TTS, insensibilità ai campi magnetici assiali, etc.), il guadagno di un ibrido risulta comunque insufficiente per quegli esperimenti che si propongono di misurare eventi con bassa intensità luminosa. Al fine di mantenere i vantaggi offerti dai fotomoltiplicatori ibridi ed essere competitivi anche dal punto di vista del guadagno, proponiamo una nuova tipologia di ibridi: i VSiPMT. 3.3 Il VSiPMT L’idea innovativa è quella di sviluppare un nuovo tipo di fotomoltiplicatore ibrido a semiconduttore in cui si utilizza come moltiplicatore di fotoelettroni una matrice di APD-Geiger, con un guadagno di circa 105 ÷ 106 tipico anche dei PMT classici. Il VSiPMT (Vacuum Silicon PhotoMultiplier Tube) è basato essenzialmente sulla combinazione di tre elementi: un fotocatodo, un SiPM in configurazione di focalizzazione elettrostatica e la struttura di un classico tubo fotomoltiplicatore a vuoto (fig. 3.6). All’interno di questo dispositivo, i fotoelettroni emessi dal fotocatodo vengono accelerati e focalizzati da un campo elettrostatico verso la superficie del SiPM, il quale agisce da amplificatore, in luogo della catena di dinodi di un PMT classico. Il SiPM svolge quindi, in questo caso, il ruolo di rivelatore di elettroni. Nei successivi capitoli saranno mostrati i risultati della risposta di un SiPM ad un fascio di elettroni. L’eventuale realizzazione del VSiPMT darebbe inizio a una nuova generazione di fotorivelatori, i quali offrirebbero diversi vantaggi rispetto ai PMT classici: • ottima risposta al singolo fotone; • possibilità di contare i fotoni; • alto guadagno, ∼ 105 − 106 ; • scarsa sensibilità ai campi magnetici; • ottima risoluzione temporale; • compattezza, robustezza e costi contentenuti grazie all’utilizzo della tecnologia CMOS; 44 • bassa tensione di lavoro; • assenza di partitore di tensione; • bassi consumi di potenza. Figura 3.6: Immagine di una possibile struttura finale di un VSiPMT. Questo sviluppo proporrà una soluzione attraente in tutte quelle applicazioni, della fisica astroparticellare e non, in cui è richiesta un’elevata sensibilità e contemporaneamente grandi superfici o volumi di rivelazione. 3.4 3.4.1 Possibile utilizzo dei SiPM nel caso di grandi volumi di rivelazione Astronomia Gamma. Il telescopio MAGIC L’obiettivo principale dell’esperimento MAGIC è quello di coprire con un’alta sensibilità il range dei fotoni di altissima energia, che vanno dai 10 GeV ai 300 GeV. Ci si aspetta che le osservazioni in questa nuova finestra dello spettro elettromagnetico diano dei dati fondamentali per la comprensione di una grande varietà di fenomeni astrofisici e di questioni aperte in fisica fondamentale, quale ad esempio il problema della dark matter nell’Universo. 45 La rivelazione dei raggi-γ di altissima energia (VHE) a terra procede per via indiretta: i γ VHE vengono assorbiti dall’atmosfera terrestre (tipicamente ad una quota di 10-25 km) generando uno sciame elettromagnetico. Può capitare che alcuni elettroni generati in questi sciami si muovono ad una velocità superiore a quella della luce nell’atmosfera terrestre, producendo cosı̀ un cono di luce Cherenkov che verrà convogliato nel fuoco di un telescopio a terra. Tuttavia, esistono tre sorgenti diverse di luce Cherenkov: muoni relativistici, sciami adronici e sciami elettromagnetici. Occorre, quindi, riuscire a separare le diverse sorgenti. Per quanto riguarda gli sciami adronici e quelli elettromagnetici, è possibile distinguerli dal momento che i primi sono distribuiti isotropicamente (gli adroni dei raggi cosmici vengono deflessi in maniera casuale dal campo magnetico della galassia) mentre i secondi, provenienti da una sorgente puntiforme, hanno sempre lo stesso angolo di incidenza. Al contrario, l’immagine degli eventi dovuti ai muoni è molto simile a quella dovuta ai raggi γ. Per differenziare i due tipi di eventi è necessario ricorrere alla loro distribuzione temporale: il passaggio di un muone produce un lampo di luce estremamente breve, la cui durata è dell’ordine di poche centinaia di picosecondi, i lampi di luce Cherenkov associati a un raggio gamma di altissima energia hanno invece una durata di almeno 2 ns. Tenendo conto di questa differenza nella durata degli eventi, risulta evidente la necessità di avere nel fuoco del telescopio dei fotorivelatori con una risposta molto veloce. In questo caso sostituire ai fotomoltiplicatori classici un fotorivelatore ibrido con dei concentratori ottici può essere adeguato per migliorare le prestazioni dell’esperimento [18]. 3.4.2 Neutrino astronomia. KM3 NeT KM3 è un esperimento volto alla rivelazione e all’identificazione di sorgenti puntiformi di neutrini con energia superiore ad 1 TeV. Dal momento che i neutrini interagiscono debolmente con la materia e non hanno carica elettrica, la loro rivelazione avviene in maniera indiretta: quando un neutrino interagisce con un protone o un neutrone produce una cascata di particelle. Nel caso in cui l’interazione sia di corrente carica, ovvero un νe produce un elettrone o un νµ produce un muone, l’elettrone produrrà immediatamente uno sciame elettromagnetico mentre il muone si propagherà per chilometri attraverso la roccia e l’acqua emettendo luce Cherenkov. KM3 nel Mediterraneo sfrutterà la Terra come bersaglio e un volume di un km3 di acqua marina sarà il mezzo di rivelazione. Ad una profondità di 4000 46 m circa al largo di Capo Passero in provincia di Siracusa, Sicilia, verranno immerse delle torri con dei moduli ottici che dovranno: • ricostruire le traiettorie dei muoni; • determinare energia, direzione, posizione e tempo d’arrivo degli sciami; • monitorare continuamente una vasta frazione di cielo al fine di osservare Gamma Ray Burst (GRB). La possibilità di utilizzare in questo esperimento fotomoltiplicatori ibridi ad alto guadagno, come quello che stiamo sviluppando, porterebbe un netto miglioramento sia dal punto di vista della rivelazione sia dal punto di vista della realizzazione. Per quanto riguarda i vantaggi legati alla rivelazione, il VSiPMT assicurerebbe sia un’ ottima risoluzione temporale sia una migliore capacità di conteggio dei fotoni. Inoltre, dal momento che il consumo di un VSiPMT è praticamente nullo (∼ 10nW ) confrontato a quello di un PMT tradizionale (fino a ≈ 10W ), l’impiego dell’ibrido ridurrebbe i problemi legati al trasporto di potenza in acqua e di conseguenza porterebbe all’abbattimento dei costi per la realizzazione di una struttura adeguata allo scopo [?]. 47 Capitolo 4 Apparato sperimentale Lo sviluppo del VSiPMT procede attraverso tre fasi: caratterizzazione con la luce laser e studio della risposta agli elettroni di una matrice di G-APD, successivo sviluppo di un prototipo di tubo emisferico a vuoto dotato di fotocatodo e campo elettrico che accelera e focalizza i fotoelettroni sul nostro dispositivo. La prima fase era stata già affrontata in precedenza, in questo lavoro di tesi l’obiettivo finale è quello di studiare la risposta dell’ MPPC agli elettroni per verificare che mantenga le stesse caratteristiche esibite durante la caratterizzazione con la luce laser. A tal fine ho progettato e allestito l’apparato sperimentale (fig. 4.1) che, montato su un canale dell’acceleratore Tandem, ci ha permesso di estrarre un fascio di elettroni che simulasse i fotoelettroni prodotti da un fotocatodo. Per estrarre e accelerare gli elettroni sono stati utilizzati: • un fascio di protoni di 2MeV; • un target di carbonio di 30 µg/cm2 ; • un sistema di pompe da vuoto; • uno specchio elettrostatico per accelerare e deviare il fascio di elettroni; • un MPPC S10943-8702 prodotto dalla HAMAMATSU (serie speciale senza finestra) per la rivelazione degli elettroni. 48 Figura 4.1: A sinistra: Immagine schematica del funzionamento dell’apparato e delle impostazioni nella configurazione finale della misura. A destra: fotografia del sistema di griglie realizzato per l’estrazione e rivelazione degli elettroni. In basso: Particolare dell’ MPPC posto alla fine del sistema di griglie. 4.1 La sorgente di elettroni Il fascio di elettroni necessario alla misura è ottenuto raccogliendo gli elettroni secondari emessi all’indietro nell’urto di protoni su un target di carbonio. La corrente del fascio di elettroni è stata scelta in maniera indiretta fissando in modo opportuno i parametri in gioco: energia e intensità di corrente per quanto riguarda il fascio di protoni e spessore del target di carbonio. Fissato lo spessore del target, con l’uso del software SRIM ho calcolato l’e49 nergia persa per unità di lunghezza da un protone con energia da 1 a 6 MeV1 negli urti con gli elettroni di un un target di carbonio. La migliore configurazione possibile che si ottiene, tenendo conto del range dinamico dell’ MPPC, è quella che vede un fascio di protoni di 2 MeV. L’intensità di corrente del fascio di protoni è stata fissata in maniera euristica a 500 pA, tenendo conto della risposta temporale dell’ MPPC e della sensibilità della Faraday cup posta a fondo canale per monitorare il fascio di protoni. 4.1.1 Estrazione del fascio di protoni Il fascio di protoni utilizzato è stato estratto al Tandem TTT-3, un acceleratore di Van de Graaff a due stadi, lineare, in dotazione al Dipartimento di Scienze Fisiche di Napoli. Il processo di estrazione dei protoni procede attraverso varie fasi: gli ioni negativi, provenienti dalla sorgente di sputtering KINGSTON, vengono iniettati nell’ acceleratore ed accelerati nel primo stadio verso un elettrodo ad alta tensione (1M V nel nostro caso) in modo da raggiungere un’energia di circa 1M eV ; alla fine del primo stadio gli ioni urtano contro uno stripper, un sottile foglio di carbonio all’interno del quale avviene uno scambio di carica; gli ioni positivi in uscita dallo stripper subiscono un secondo stadio di accelerazione verso un elettrodo a massa, durante il quale raggiungeranno l’energia scelta (2M eV nel nostro caso). All’ uscita dall’ acceleratore, il fascio di protoni viene analizzato e trasportato, attraverso un sistema di magneti, fino alla camera di scattering (fig. 4.2) dove è alloggiato il nostro dispositivo. La sorgente KINGSTON Il TTT-3 dispone di tre sorgenti: due di ioni negativi, chiamate KINGSTON e ANIS, e una a radiofrequenza di ioni positivi convertibili in ioni negativi tramite un canale di scambio. Per l’estrazione del fascio di protoni è stata utilizzata la sorgente KINGSTON (fig. 4.3 a), che fornisce ioni negativi con un’energia ≈ 30keV in una grande varietà di masse. All’interno della sorgente il materiale contenente gli atomi da accelerare, in seguito ad un pretrattamento, viene posto in un “cilindretto” di Cu (catodo) e l’estrazione del fascio di ioni avviene per mezzo di un processo detto sputtering. Quest’ultimo avviene, in generale, in presenza di elementi altamente elettropositivi e con un basso potenziale di ionizzazione, nel nostro caso Cs. Una frazione degli atomi neutri di Cs diffusi nel dispositivo 1 Range di energie possibili per un fascio di protoni all’acceleratore Tandem TTT-3. 50 Figura 4.2: Schema dell’acceleratore Tandem TTT-3 in dotazione presso il Dipartimento di Scienza Fisiche di Napoli. Figura 4.3: A sinistra: Immagine della sorgente di sputtering KINGSTON montata sull’acceleratore Tandem TTT-3. A destra: Immagine schematica del funzionamento di una sorgente di sputtering. 51 raggiunge una “superficie ionizzante” di forma conica, costituita da materiali ad alto potenziale di estrazione (tipicamente Mo o W), riscaldato ad alta temperatura. Il Cesio, che ha il più basso potenziale di ionizzazione diverrà, con una buona resa, uno ione positivo Cs+ . Il catodo di Cu, contenente l’idrogeno da estrarre, è tenuto a potenziale negativo rispetto alla superficie di ionizzazione e, pertanto, gli ioni Cs+ vengono accelerati e collidono con esso. Nell’urto l’atomo colpito cattura un elettrone dello ione Cs+ incidente ed emerge dal catodo con carica negativa (fig. 4.3 b). Prima di essere accelerato, esso passa inizialmente attraverso un magnete di iniezione, che effettua una selezione in massa del fascio, e successivamente attraverso una coppia di deflettori elettrostatici che lo centrano. Il sistema di accelerazione TTT-3 Il Tandem, come già detto, è un acceleratore elettrostatico di Van de Graaff che fa uso di due colonne acceleratrici, una di bassa e una di alta energia, rispettivamente L.E. e H.E. La massima tensione di terminale raggiungibile con il TTT-3 è di 3 MV. Le due colonne acceleratrici sono alloggiate all’interno di un contenitore posto a massa (tank ) e riempito di SF6 ad una pressione di circa 6bar (fig. 4.4 a). Figura 4.4: A sinistra: Immagine delle colonne di accelerazione del Tandem TTT-3 in dotazione al Dipartimento di Scienze Fisiche di Napoli. A destra: Immagine schematica della struttura e del funzionamento dei due stadi di accelerazione. 52 Le due colonne acceleratrici che costituiscono i due stadi formano il partitore di tensione al cui interno si trova l’effettivo tubo acceleratore. Ciascuna colonna di accelerazione è composta da una serie di anelli metallici connessi l’uno all’altro tramite dei resistori (fig. 4.4 b). Vengono utilizzate, per ogni colonna, 70 resistenze da 1250M Ω ciascuna. In questo modo, tra un anello ed il successivo, si crea un gradiente di potenziale che viene poi trasferito al tubo acceleratore formato da anelli metallici alternati ad anelli di vetro. All’interno del tubo di accelerazione il fascio di particelle viene accelerato dalla differenza di potenziale fra ogni coppia di anelli metallici. Al centro, fra le due colonne acceleratrici, vi è il terminale ad alta tensione +Vt che accelera il fascio verso lo stripper, un foglio di 12 C con spessore fra 5 e 20 µg/cm2 . Nel passaggio attraverso lo stripper gli ioni del fascio perdono elettroni, si ottiene cosı̀ in uscita un fascio di ioni H + . A seguito dello scambio di carica (da ione negativo a ione positivo), gli ioni emergenti dallo stripper saranno accelerati nuovamente verso l’estremità a massa del secondo stadio acceleratore. Dopo essere stato completamente accelerato, il fascio di protoni verrà selezionato in energia passando attraverso un magnete di analisi [19]. 4.1.2 Estrazione di elettroni secondari Il fascio di elettroni utilizzato per la misura è stato ottenuto raccogliendo gli elettroni secondari emessi all’indietro nel processo di scattering dei protoni sul target di carbonio. È stato dimostrato in passato, che l’emissione di elettroni secondari dalla superficie di un solido bombardato da particelle cariche veloci è connessa alla perdita di energia dei proiettili in prossimità della superficie del solido [20],[21]. Dal momento che nel range di energie possibili, 1−5M eV , la perdita di energia dei protoni è principalmente dovuta agli urti con gli elettroni del target, l’emissione di elettroni secondari può essere sintetizzata in tre fasi: (1) Produzione: l’energia persa dal proiettile nelle collisioni viene trasferita al bersaglio producendo ionizzazione; (2) Trasporto: gli elettroni strappati agli atomi di carbonio possono urtare elasticamente contro altri atomi di carbonio o inelasticamente contro altri elettroni, ai quali cedono parte della propria energia; (3) Trasmissione: se gli elettroni raggiungono la superficie del target con una energia sufficiente, questi vengono estratti dal foglietto di carbonio. 53 La probabilità che un elettrone secondario con un’energia media di 25 eV venga emesso all’indietro è non trascurabile solo nel caso in cui questo si sia formato entro una distanza massima di circa 100Å (≈ 1.67µg/cm2 ). Tenendo conto di questo e considerando i risultati dati dal software SRIM secondo cui un protone di 2 MeV che urta su un foglietto di carbonio perde per unità di lunghezza ≈ 1.42 · 10−1 keV · cm2 /µg, ogni protone cederà in 1.67µg/cm2 circa 240 eV utili a strappare circa 21 elettroni. Il fascio di elettroni emessi all’indietro dal foglietto di carbonio sono distribuiti su una superficie di 1cm2 (equivalente allo spot del fascio di protoni). Considerando che l’MPPC ha una superficie attiva di 1mm2 , si può stimare che solo l’ 1% degli elettroni prodotti colpirà il nostro dispositivo. 4.2 Il sistema di griglie elettrostatiche Precedentemente all’allestimento dell’apparato sperimentale, è stato condotto un approfondito studio riguardo il range degli elettroni nel silicio e la probabilità di backscattering al variare dell’angolo di incidenza degli elettroni (fig. 4.5 a e b) nonchè al variare dell’energia del fascio di elettroni (fig. 4.5 c e d ). Lo studio sul range è indispensabile per individuare l’energia per la quale gli elettroni penetrano nella regione di svuotamento e producono un segnale. Lo studio del backscattering, ovvero della probabilità che gli elettroni vengano diffusi all’indietro dalla superficie del dispositivo di rivelazione, sarà utile per avere un’idea della percentuale di elettroni che effettivamente sarà letta dal dispositivo, nonchè in un secondo momento per avere un’idea della percentuale di afterpulse che ci si aspetta nell’ibrido. Nelle simulazioni, realizzate con Geant4, il nostro dispositivo è stato costruito come una scatola di silicio spessa 5 mm con una finestra antiriflessione di SiO2 spessa 0.12µm e testato con un fascio di elettroni con energia da 1 a 20 keV. Dalle simulazioni si evince che gli elettroni devono avere un’energia minima di circa 9-10 keV per poter entrare nella regione di svuotamento e creare coppie elettrone-lacuna (fig. 4.5 d). A questa energia il range degli elettroni risulta essere ≈ 1µm e il coefficiente di backscattering 12.6% (fig. 4.5 c) [22]. Gli elettroni secondari, emessi all’indietro nel processo di scattering di protoni su carbonio descritto nel nel precedente paragrafo, fuoriescono dal foglietto con un’energia media di ≈ 25eV . Al fine di verificare le indicazioni riguardo il range e quindi provare il funzionamento dell’ MPPC come rivelatore di elettroni, è stato necessario accelerare e deflettere il fascio di elettroni secondari. A questo scopo è stato progettato un sistema di tre griglie alimentate cia54 scuna ad un certo potenziale (fig. 4.6), basate su un semplice principio di funzionamento: il foglietto di carbonio viene alimentato ad una tensione fra 3 e 9 kV in questo modo, sfruttando il salto di potenziale con l’MPPC alimentato a ≈ 70V , gli elettroni emessi arriveranno sul dispositivo con un’energia fra 3 e 9 keV; una griglia di accelerazione, posta ad una distanza di 2 mm dal Figura 4.5: In alto a sinistra: coefficiente di backscattering al variare dell’angolo di incidenza del fascio di elettroni. In alto a destra: range degli elettroni nel silicio al variare dell’angolo di incidenza del fascio di elettroni. In basso a sinistra: coefficiente di backscattering in funzione dell’energia degli elettroni. In basso a destra: range degli elettroni in funzione dell’energia degli elettroni. 55 foglietto di carbonio, viene alimentata ad un potenziale maggiore in modo che gli elettroni vengano emessi dal target vengano raccolti e accelerati verso lo specchio elettrostatico dove saranno deflessi verso il nostro dispositivo di rivelazione. Figura 4.6: Immagini prospettiche del sistema di griglie elettrostatiche. 56 Figura 4.7: A sinistra: grafico dell’andamento del potenziale nell’area compresa fra le varie griglie. Le linee rosse rappresentano le traiettorie di un pacchetto di ∼ 20e− emessi in corrispondenza di un evento di scattering protone (linea blu) su carbonio. A destra: simulazione delle traiettorie di un pacchetto di elettroni emessi in corrispondenza di un evento di scattering protone su carbonio. Il puntino verde rappresenta la superficie occupata dall’ MPPC. Lo specchio elettrostatico è un sistema di due griglie elettrostatiche orientate a 45◦ rispetto alla superficie del target di carbonio: la prima viene posta allo stesso potenziale di quella di accelerazione, in modo da creare una zona equipotenziale per evitare lo sparpagliamento del fascio (fig. 4.7 a); la seconda posta a 2 mm dalla prima è alimentata allo stesso potenziale del foglietto di carbonio per assicurare che gli elettroni vengano deflessi di un angolo pari a quello di incidenza (fig.4.7 b). La scelta dei potenziali è stata effettuata in base a delle simulazioni fatte con il software SIMION 8.0. Sia le griglie dello specchio elettrostatico sia la griglia di accelerazione, sono state progettate per permettere una trasparenza del 95% e di conseguenza interferire il meno possibile con l’evento in corso. La possibilità di mantenere le griglie alimentate a tensioni cosı̀ alte senza produrre scariche richiede che tutto l’apparato sia tenuto ad un vuoto molto spinto (pressione ∼ 10−6 mbar). Inoltre, il raggiungimento delle tensioni più elevate, ad esempio 8-9 kV, richiede una lunga fase di condizionamento, un lento processo di stabilizzazione in cui la tensione viene alzata per gradi. 57 Capitolo 5 Misura con gli elettroni e primi risultati La realizzazione del VSiPMT richiede l’utilizzo di un SiPM come rivelatore e moltiplicatore di elettroni. A tal fine si è reso necessario lo studio della risposta del dispositivo ad un fascio di elettroni. Le caratteristiche del fascio, estratto sfruttando l’emissione secondaria di elettroni da un foglietto di carbonio bombardato da protoni, sono state scelte tenendo conto sia del range dinamico del dispositivo utilizzato per la rivelazione sia dei limiti nel controllo di basse intensità di corrente del fascio di protoni. Come già detto nel precedente capitolo, il fascio di elettroni è sato ottenuto utilizzando protoni di 2 MeV di energia e 500 pA di intensità di corrente e un target di 12 C spesso 30µg/cm2 . Considerando l’energia persa da ogni protone nei primi 100 Å(≈ 2.25µg/cm2 ) del target, per ogni protone in ingresso, verranno emessi all’indietro in media 28 elettroni su una superficie di ≈ 1cm2 . Ricordando che la superficie attiva dell’ MPPC utilizzato per la misura è 1mm2 , la corrente in ingresso sul dispositivo è dE dx · ∆x · Ip · 1% = ∆V 1.42·10−1 keV ·cm2 µg · 2.25µg/cm2 11eV · 500pA · 1% ≈ 0.145nA dove ∆V è il potenziale di ionizzazione del carbonio. Le misure sono state effettuate all’interno di una cameretta ad una pressione di ≈ 1.58 · 10−6 , in condizioni di buio per ridurre al minimo il rumore dovuto alla luce. 58 5.1 Caratterizzazione con la luce laser dell’MPPC S10943-8702 Prima di effettuare le misure con gli elettroni l’MPPC è stato caratterizzato con la luce laser per avere le caratteristiche principali alle varie tensioni di alimentazione. 5.1.1 Studio del segnale di singolo pixel Prima di procedere alle misure dei parametri dell’MPPC abbiamo effettuato un’attenta osservazione preliminare dei segnali in uscita dalla scheda a diverse tensioni di alimentazione dell’MPPC. Questa osservazione è necessaria in quanto permette di determinare i valori di tensione ottimali per il funzionamento del rivelatore. Per la misura è stato utilizzato un MPPC S10943-8702 prodotto dalla HAMAMATSU (serie speciale senza finestra) collegato ad una scheda di amplificazione descritta nel paragrafo 2.3 (fig. 2.6). In queste condizioni ogni cella colpita produce in uscita un segnale di ≈ 5mV , comunemente associato alla soglia 1pe. Fissata la resistenza di reazione dell’amplificatore al valore di 470Ω , abbiamo posto l’MPPC in assenza di radiazione incidente (luci, fascio e griglie elettrostatiche spenti) e, partendo da un valore pari a 69V, abbiamo alzato la tensione di alimentazione a passi di 0.1V, per osservare le ampiezze dei dark counts prodotti dai singoli APD in funzione della tensione di lavoro. Da queste osservazioni è risultato che la linea di base del segnale è posizionata a circa +5mV rispetto al valore di riferimento dello 0. Questo offset è principalmente dovuto allo squilibrio di correnti tra l’ingresso invertente e il non invertente dell’amplificatore operazionale, tuttavia la presenza di questo offset non ha alcuna influenza sulle nostre misure. Da questo studio preliminare abbiamo osservato che le tensioni di lavoro ottimali per questo MPPC si trovano tra 69.9 e 70.9 V. La tensione scelta per l’MPPC è di 70.1V, in figura 5.1 è mostrato un segnale di dark count alla tensione scelta. In questa fase abbiamo misurato anche i tempi di salita e di discesa del segnale, utilizzando una funzione specifica dell’oscilloscopio. Impostata la soglia di trigger dell’oscilloscopio al valore di 0.5 pe, abbiamo effettuato 10000 misure di rise time e fall time, ottenendo: τrise = 1.8 ± 0.6ns τf all = 2.0 ± 0.5ns 59 Figura 5.1: Immagine scattata all’oscilloscopio di un segnale di dark count con MPPC alimentato a 70.1 V. 5.1.2 Misura del guadagno Per la misura di guadagno l’MPPC è stato messo in una dark box ed illuminato con pochi fotoni. Per attuare questa condizione abbiamo avuto la necessità di interporre tra la testa del laser e l’ingresso del primo splitter due ulteriori attenuatori, ognuno da 20 dB nominali a 1330 nm. Il sistema cosı̀ composto è stato calibrato utilizzando il power meter Newport mod. 815, e abbiamo ottenuto che il potere ottico in uscita corrisponde ad una media di 4 fotoni a impulso sulla superficie attiva del rivelatore. Il laser a nostra disposizione è dotato di un uscita che genera un segnale di ampiezza standard 2.5V ogni volta che viene inviato un impulso luminoso che abbiamo utilizzato come trigger per acquisire all’oscilloscopio i segnali prodotti dall’MPPC. In queste condizioni, siamo riusciti chiaramente a distinguere i picchi di 1, 2, 3 e 4 pe. Con l’oscilloscopio abbiamo costruito gli spettri delle ampiezze dei segnali in uscita dal rivelatore. Nell’ipotesi che tutti i pixel costituenti l’MPPC siano identici, la differenza in ampiezza tra un picco dello spettro e il successivo fornisce una misura della carica generata dal singolo pixel. Variando il valore della tensione di alimentazione tra 69.8 e 72.0 V a passi da 0.1V, abbiamo realizzato 15000 misure di ampiezze dei segnali ottenuti in corrispondenza del segnale inviato dal laser, e misurato le differenze in ampiezza (2 pe – 1 pe), (3 pe – 2pe) e (4 pe – 3 pe) con i loro errori. 60 I risultati della misura sono riportati nel grafico in figura 5.2. Figura 5.2: Grafico del guadagno al variare della tensione di alimentazione dell’ MPPC, in condizioni di bassa illuminazione. È evidente dal grafico che il valore del guadagno ad una tensione di alimentazione di 70.1 V è di circa G = 2.5 · 105 . 5.1.3 Misura di linearità Per questa misura è stato impostato il trigger dell’oscilloscopio sul segnale proveniente dal laser, come nel caso della misura di guadagno a laser acceso, e misurato l’ampiezza del segnale prodotto dall’MPPC in corrispondenza dell’arrivo di un impulso luminoso, per un totale di 10000 acquisizioni. Tale procedimento è stato ripetuto al variare della potenza in uscita dal laser, e dunque del numero di fotoni inviati sull’MPPC per ciascun impulso. Nell’ipotesi che tutti i pixel dell’MPPC abbiano lo stesso comportamento, il numero di pixel Nsegnale che hanno dato segnale è dato da: Nsegnale = Ampiezza segnale Ampiezza 1 pe 61 dove l’ampiezza del segnae considerata è la media delle 10000 misure effettuate per ogni valore di Nph . I dati ricavati sono stati graficati in figura 5.3. Figura 5.3: Range dinamico dell’ MPPC S10943-8702 senza finestra. Dal grafico risulta evidente che il dispositivo resta lineare se il numero di fotoni che lo colpisce è minore del numero di celle. 5.2 Evento di elettroni Inizialmente il funzionamento di un SiPM come rivelatore e moltiplicatore di elettroni è stato testato misurando la corrente in uscita dal dispositivo. Per questa misura anodo e catodo dell’ MPPC sono stati collegati direttamente all’alimentazione e ad un picoamperometro Keithley 6485 per la lettura (fig. 5.4). Questa prima misura è stata utile per verificare unicamente il funzionamento dell’ MPPC bombardato da un’ elevata corrente di elettroni, ∼ nA, in corrispondenza della quale ci si aspettava un’ aumento della corrente misurata in uscita dal dispositivo. In figura 5.5 è mostrata un’immagine del primo evento osservato. La figura riporta le variazioni di tensione di alimentazione del dispositivo, mentre quella in basso le variazioni nella corrente in uscita dall’MPPC, sulla scala dei tempi sono registrati gli orari a cui sono stati presi i dati (dalle 15:04 alle 62 Figura 5.4: Schema dei collegamenti per la misura della risposta in corrente dell’MPPC 15:16 del 30-05-2012). Nell’immagine si distinguono tre eventi: il primo alle 15:05 circa corrisponde all’accensione del dispositivo; il secondo alle 15:08 circa corrisponde ad un aumento nell’impostazione della tensione di alimentazione dell’ MPPC da 70.9 V a 71.3 V; il terzo, invece, dopo le 15:09 corrisponde all’accensione del fascio di elettroni. Intorno alle 15:10 si può notare un picco dovuto ad una scarica delle griglie elettrostatiche in corrispondenza dell’accensione del fascio. Tale scarica è dovuta, con buona probabilità, alla ionizzazione da parte del fascio delle molecole residue all’interno della camera di scattering. Successivamente l’MPPC è stato collegato al circuito di amplificazione (fig. 2.6) in modo da analizzare il segnale in tensione. In qusta configurazione il segnale si presentava come in figura 5.6. Questi dati sono stati utilizzati per lo studio del rate di elettroni al variare dell’energia, nonchè per fare una stima dell’efficienza di rivelazione degli elettroni. Inoltre, parallelamente a questi studi, è stata testata l’effettiva capacità di electron counting del dispositivo, proprietà fondamentale in vista delle future applicazioni dell’ MPPC come stadio di moltiplicazione degli elettroni in un fotomoltiplicatore. Nell’immagine 5.7, scattata all’oscilloscopio durante il run di misura di elettroni di 8 keV con soglia a 4.5 pe, è riportato anche l’istogramma dei picchi del segnale. Nell’istogramma si riconoscono i picchi relativi alla rivelazione di 5, 6 e 7 pe. Tale risultato, in accordo con i valori calcolati della corrente in ingresso (≈ 0.145nA), conferma inequivocabilmente la capacità del dispositivo di rivelare e di contare elettroni e di conseguenza giustifica pienamente l’uti63 Figura 5.5: In alto: variazioni della tensione di alimentazione dell’ MPPC. In basso: variazioni della corrente in uscita dall’MPPC. Per una descrizione più accurata degli eventi si rimanda al testo. lizzo dell’ MPPC come stadio di amplificazione del segnale all’interno di un fotomoltiplicatore ibrido. 64 Figura 5.6: In alto: segnale di elettroni di 8 keV alla soglia di 4.5 pe. Al centro: segnale di elettroni di 8.5 keV alla soglia di 4.5 pe. In basso: segnale di elettroni di 8.5 keV alla soglia di 6.5 pe. 65 Figura 5.7: Immagine scattata all’oscilloscopio di un segnale di elettroni di 8 keV con soglia di trigger impostata a 4.5 pe. Nell’immagine compare anche l’istogramma dei minimi del segnale, in cui si riconoscono i picchi relativi a 5, 6 e 7 pe. 5.3 Rate di rivelazione di elettroni Come accennato nel capitolo precedente, questa fase di misura è stata anticipata da un’accurata simulazione del comportamento di elettroni energetici (fino a 20 keV) nel silicio. Dallo studio della simulazione sul range degli elettroni nel silicio risulta evidente che elettroni con un’energia compresa fra 8 e 10 keV sono quelli che hanno una maggiore possibilità di arrivare nella zona di svuotamento dell’ MPPC e generare una valanga, cioè produrre un segnale in uscita. Con l’apparato a disposizione siamo riusciti ad ottenere un fascio di elettroni con un’energia variabile da 2 a 9 keV. In questo modo abbiamo potuto effettuare una prima misura del rate di elettroni rivelati al variare dell’energia di questi ultimi, al fine di verificare le previsioni delle simulazioni. La misura è stata effettuata a varie soglie variando l’energia degli elettroni da 2 a 9 keV con passo di 1 keV. Tenendo presente l’assenza di un trigger esterno dovuta al fatto che la corrente di elettroni è in continua, abbiamo scelto di impostare la soglia inferiore di rivelazione in modo da non vedere alcun segnale in assenza di fascio. In questo modo si elimina il segnale di dark count e si ha la certezza che il segnale visualizzato all’oscilloscopio all’accensione del fascio sia un segnale dovuto alla rivelazione di elettroni. La soglia inferiore è stata impostata a 3.5 pe. Il rate è stato quindi misurato utilizzando una funzione dell’oscilloscopio che permette di misurare l’intervallo di tempo trascorso fra l’arrivo di due segna66 li. In seguito è riportato il grafico dell’andamento del rate di rivelazione al variare dell’energia degli elettroni (fig. 5.8). Figura 5.8: Grafici dell’andamento del rate di elettroni al variare dell’energia del fascio. Dal grafico si nota che il rate di elettroni a 3.5 pe rispecchia inequivocabilmente l’andamento previsto dalle simulazioni: la probabilità di rivelare elettroni aumenta quando la loro energia è fra gli 8 e i 10 keV. 5.4 Stima preliminare dell’efficienza di rivelazione degli elettroni L’idea di utilizzare un SiPM in sostituzione della catena di dinodi in un fotomoltiplicatore necessita, oltre che della verifica dell’effettivo funzionamento del dispositivo come rivelatore di elettroni, di una misura dell’efficienza di rivelazione. 67 Con l’apparato a nostra disposizione non è possibile effettuare una misura vera e propria dell’efficienza di rivelazione. Tuttavia, con le giuste considerazioni è possibile ricavare una stima di questa quantità. Per prima cosa, non potendo misurare la corrente di elettroni in arrivo sull’ MPPC, ipotizziamo che il valore di tale corrente sia quello ottenuto mediante simulazioni e calcoli all’inizio di questo capitolo, 0.145 nA. In questa fase abbiamo scelto di effettuare misure in tensione, convertendo mediante l’utilizzo del circuito di amplificazione in figura 2.6 la corrente in uscita dall’MPPC in una tensione che viene visualizzata all’oscilloscopio (fig. 5.9). Figura 5.9: Immagine all’oscilloscopio di un segnale di elettroni con un’energia di 9 keV ad una soglia di 3.5 pe. La tensione in uscita dal circuito in figura 2.6 è collegata alla corrente in ingresso del piedino invertente dell’amplificatore operazionale tramite la relazione di controreazione VOU T = Rf · i. Per trovare il valore della corrente massima in uscita dall’MPPC è bastato, quindi, misurare il valore più probabile della tensione di picco del segnale corrispondente ad elettroni di 9 keV con soglia a 3.5 pe, pari a ≈ 20.9mV e dividerlo per il valore della resistenza di feedback del circuito, 470Ω. Per poter fare un confronto della corrente stiamata in ingresso sul dispositivo con quella letta bisogna tener conto anche del guadagno intrinseco dell’ MPPC, ≈ 2.7 · 105 , la tensione di picco è quindi legata alla corrente di elettroni letta dall’ MPPC dalla relazione i= VOU T Rf · Gain 68 e risulta pertanto essere ∼ 0.18 ± 0.02nA. 5.5 Alcune considerazioni Per concludere questa prima prova del possibile utilizzo di un SiPM come rivelatore e moltiplicatore di elettroni è il caso di completare il discorso con alcune considerazioni riguardo tre punti fondamentali: - la posizione della baseline; - il rate a soglie più alte; - la stima della corrente in ingresso sull’ MPPC. Per quanto riguarda il primo punto, nel corso delle misure abbiamo osservato un cambiamento non trascurabile nella posizione della baseline, a partire dalle misure con fascio a 6.5 keV. All’aumentare della tensione di alimentazione delle griglie, infatti, la baseline si allontana sempre di più dalla posizione iniziale a ∼ +5mV fino a raggiungere ∼ −35mV in corrispondenza di griglie alimentate a -9 kV (fig. 5.10). Da varie prove effettuate, possiamo affermare che lo spostamento della baseline non è altro che un offset dato dal campo elettrico indotto dalle griglie dello specchio elettrostatico. Ci proponiamo di risolvere il problema nei prossimi run di misura schermando sia il circuito di amplificazione sia l’ MPPC con l’aggiunta di un’altra griglia fra l’ MPPC e lo specchio elettrostatico e alimentandola ad un potenziale intermedio fra i -4 kV della prima griglia dello specchio e la massa. È importante soffermarsi anche in considerazioni sul rate alle varie soglie. Tornando alle stime fatte a inizio capitolo in proposito della corrente in ingresso sul dispositivo, 0.145 nA sono equivalenti a una media di 3.8e− in un intervallo di 6 ns (durata media di ogni impulso). Considerando i dati del rate alle varie soglie (3.5, 4.5, 5.5, e 6.5 pe), mostrati in figura 5.11 i risultati sono compatibili con le previsioni attese: • il picco minore del segnale di elettroni visibile corrisponde a 4 pe; • il rate di elettroni a questa soglia è massimo per elettroni di 9 keV; • il rate a soglie maggiori diminuisce sensibilmente. 69 Figura 5.10: In alto: immagine di dark counts con le griglie alimentate a -5kV scattata all’oscilloscopio. In basso: immagine di dark counts con le griglie alimentate a -9kV scattata all’oscilloscopio. Ultima, ma non meno importante, è una considerazione sull’affidabilità della stima della corrente in ingresso sull’ MPPC. 70 Figura 5.11: Grafici del rate al variare dell’energia degli elettroni, ottenuti a varie soglie. All’inizio del capitolo è stata stimata la corrente di elettroni considerando che per ogni protone venissero emessi in media 20e− su una superficie di 1cm2 , superficie del target. Va precisato che questo rappresenta in realtà il limite massimo di superficie bombardata da protoni. Non avendo l’effettiva possibilità di visualizzare lo spot del fascio di protoni, abbiamo regolato la focalizzazione del fascio di protoni finchè non si leggesse alcuna corrente sul supporto del foglietto di carbonio (S . 1cm2 ). Considerare questa superficie come limite superiore implica che il valore ottenuto per la corrente in queste condizioni, 0.145 nA, è un limite inferiore. In ogni caso, considerando che la corrente letta dall’ MPPC è di 0.18 ± 0.02nA, una differenza entro gli fra il valore atteso e quello misurato è comunque un ottimo risultato se si considerano i limiti sperimentali nonchè il fatto che si tratti di misure preliminari. 71 Capitolo 6 Proposta di disegno finale del VSiPMT A conclusione di questo lavoro di tesi si presenta una proposta di disegno finale del fotomoltiplicatore ibrido VSiPMT. In figura 6.1 è mostrato l’ibrido formato da un fotocatodo di 8”, utilizzato nei PMT R5912 ed R5912-2 dell’Hamamatsu, con un MPPC S10943-8702 come moltiplicatore di elettroni. La risposta spettrale del fotocatodo bialkali utilizzato è nel range 300-650 nm, con un picco alla lunghezza d’onda di 420 nm (lunghezza d’onda tipica del viola); la finestra di ingresso è di vetro borosilicato (efficienza quantica totale ≈ 25%). La figura 6.1 b mostra una possibile piedinatura della base del VSiPMT: • fotocatodo sarà alimentato a -9kV (coerentemente con le misure effettuate); • il catodo dell’ MPPC andrà ad una tensione di ∼ 70V ; • l’anodo sarà utilizzato per la raccolta del segnale; • i tre elettrodi di focalizzazione saranno posti ad una tensione intermedia fra quella del fotocatodo e massa per consentire la focalizzazione degli elettroni che entrano a grandi angoli. La scelta dei potenziali degli elettrodi di focalizzazione non è stata ancora effettuata in via definitiva: sono ancora in corso il calcolo dei campi elettrici e simulazioni per lo studio dell’andamento dei percorsi degli elettroni rilasciati da qualunque punto del fotocatodo. 72 Figura 6.1: A sinistra: proposta di disegno del VSiPMT. Le unità di misura sono in mm. A destra: schema della piedinatura della base del VSiPMT. In questa configurazione l’ibrido offre numerosi vantaggi sia dal punto di vista della realizzazione sia dal punto di vista della rivelazione. 6.1 PMT e VSiPMT a confronto Dal punto di vista costruttivo un PMT classico, modello R5912 (fig. 6.2), richiede un’ elettronica piuttosto elaborata: si tratta di realizzare una catena di 10 dinodi che implica l’uso di un partitore di tensione o di soluzioni switching di conversione DC-DC. Significa una notevole quantità di circuiteria in più ed un elevato consumo di potenza, in particolare nell’uso del partitore. A parità di consumo per quanto riguarda la parte di fotocatodo ed elettrodi di focalizzazione, l’ibrido VSiPMT offre sicuramente il vantaggio di richiedere bassisime correnti e di conseguenza un consumo di potenza trascurabile (∼ mW ) nella parte di moltiplicazione degli elettroni. In più, presentando un singolo stadio di moltiplicazione si ha la possibilità di realizzare un fotomoltiplicatore più compatto, le cui dimensioni sono unicamente dettate 73 Figura 6.2: Caratteristiche del PMT R5912 dell’ Hamamatsu. dalla necessità di appoggiare correttamente il percorso degli elettroni. Un fotocatodo di grandi dimensioni come un 8” o 10”, infatti, inevitabilmente necessiterà di spazio per consentire agli elettroni un adeguato percorso verso l’MPPC. Per quanto riguarda le caratteristiche di rivelazione nella figura 6.3 sono messi a confronto il TTS del PMT R5912 e quello dell’ MPPC. Come già detto nel capitolo 1, il TTS di un PMT classico dipende dalle diverse traiettorie dei fotoelettroni dal fotocatodo al primo dinodo e poi dalle diverse velocità degli elettroni secondari nella catena di dinodi. Nel caso dell’ibrido lo spread dovuto alle traiettorie dei fotoelettroni dal fotocatodo al primo dinodo sussiste, mentre viene decisamente abbattuto lo spread dovuto allo stadio di moltiplicazione degli elettroni. Un altro fattore importante è il guadagno, nella figura 6.4 vengono messi a confronto il guadagno del fotomoltiplicatore R5912 con quello dell’ MPPC. Come si vede dalla figura il guadagno di un PMT R5912 è dell’ordine di 7 10 ad una tensione di 1500V, mentre quello dell’ MPPC, e di conseguenza del VSiPMT, è dell’ordine di 105 ad una tensione di alimentazione di ∼ 70V . Tuttavia a parità di guadagno il fotomoltiplicatore classico necessita di un’alimentazione circa 20 volte maggiore rispetto a quella della parte attiva dell’ibrido. Sebbene, in definitiva, il guadagno appaia decisamente inferiore, ad oggi questo ostacolo può essere efficacemente soppiantato dall’uso di apposita elettronica esterna di amplificazione. Inoltre non va dimenticato, che l’elevato guadagno raggiungibile da un classico PMT ha come contropartita un aumento violentissimo del dark noise, rendendo il vantaggio dell’aumentato guadagno del tutto vano. 74 Figura 6.3: A sinistra: Transit Time Spread del fotomoltiplicatore R5912 dell’Hamamatsu. A destra: Transit Time Spread dell’ MPPC S10943-8702 dell’ Hamamatsu. Altra caratteristica da considerare è la linearità. Come si vede dalla figura 6.5 un fotomoltiplicatore classico è lineare in un range fino a ∼ 100 − 150 fotoelettroni, mentre un MPPC S10943-8702 con 1600 pixel è lineare fino a ∼ 1000 fotoelettroni. Infine, sulla base di quanto detto finora restano da fare due considerazioni su due argomenti fondamentali: afterpulse ed efficienza. Per quanto riguarda gli afterpulse, è noto (paragrafo 1.2.3) che i PMT soffrono di due tipi di afterpulse: quelli dovuti al rinculo di fotoelettroni sul primo dinodo e quelli dovuti alla ionizzazione di molecole residue sui dinodi successivi. Con il fotomoltiplicatore ibrido gli afterpulse di secondo tipo vengono completamente eliminati dal momento che la catena di dinodi viene sostituita da un SiPM, mentre quelli di primo tipo vengono ridotti ad una percentuale bassissima accelerando i fotoelettroni a 9 keV (fotocatodo a -9 kV). Inoltre gli elettroni di rinculo che possono generare afterpulse, sono anch’essi soggetti al filtro dell’efficienza geometrica del loro nuovo percorso e impatto possibile verso il SiPM. Studi di simulazioni su questo aspetto sono in corso unitamente a quanto riportato prima. Riguardo il secondo argomento, invece, come già visto l’efficienza di un fo- 75 Figura 6.4: A sinistra: guadagno di un fotomoltiplicatore R5912 al variare della tensione di alimentazione. A destra: guadagno di un MPPC S109438702 al variare della tensione di alimentazione. torivelatore è un fattore fondamentale nel conteggio dei fotoni. I fotomoltiplicatori classici R5912 hanno un’efficienza di ∼ 22% data dal prodotto dell’efficienza quantica del fotocatodo (≈ 25%) e dell’efficienza di raccolta del primo dinodo (≈ 90%)[23]. Per il VSiPMT l’efficienza di raccolta del primo dinodo viene sostituita dalla EDE, Electron detection efficiency, che, analogamente a quanto detto per la PDE nel capitolo 2, è data da: EDE = QE · fill factor · PGeiger Nel caso di MPPC utilizzato in electron counting il prodotto QE ·PGeiger è pari alla percentuale di elettroni che producono effettivamente segnale. Tale valore è stato stimato essere intorno all’ 87.4%1 . Utilizzando un fotocatodo multialkali, K2 CsSb(O), con delle particolari finestre d’ingresso, che hanno efficienza quantica ∼ 40%, e un MPPC di 1mm2 con 625 pixel si può rag1 L’efficienza di rivelazione degli elettroni ha un valore nominale dell’ 87.4% con elettroni di 9 keV. Tale valore è stato ricavato dalle simulazioni considerando la percentuale di elettroni di backscattering. 76 Figura 6.5: Range dinamico di un fotomoltiplicatore classico modello R5912 dell’ Hamamatsu. giungere un’efficienza del ∼ 17 − 18%. Un tale MPPC avrebbe, infatti, un fill factor circa del ∼ 49.3%2 . 6.2 Prospettive future Riassumendo quanto detto finora, il VSiPMT rappresenterà un fotomoltiplicatore ibrido ad alto guadagno (∼ 105 ), a basso consumo di potenza, lineare in un range che va da un minimo di 200 pe ad un massimo di 1000 pe (a seconda del numero di celle dell’ MPPC scelto per lo stadio di moltiplicazione di elettroni), a basso rate di afterpulse ed efficienza intorno al 17-18%. L’utilizzo di nuove soluzioni in fase di sviluppo presso vari centri di ricerca europei permetterebbe di migliorare le caratteristiche dell’ibrido, con un’attenzione particolare all’efficienza e al consumo. Una delle soluzioni riguarda lo sviluppo di un nuovo tipo di SiPM sensibile nella zona dell’ultravioletto. La sensibilità a fotoni di lunghezza d’onda minore è ottenuta assottigliando lo strato d’ingresso, aumentando cosı̀ la probabilità che il fotone penetri nella regione di svuotamento, e cambiando la struttura del SiPM da n+ − p − π − p+ a p+ − n − π − n+ in modo da affidare la valanga agli elettroni per ottenere un’efficienza di trigger più alta anche nel caso in cui il fotone si fermi nel primo strato del dispositivo. Come si 2 L’ MPPC di 625 pixel è una proposta fatta in base a stime teoriche, non è un prodotto in commercio. Il fill factor di questo MPPC è stato estrapolato dall’andamento del fill factor in funzione del numero di celle del dispositivo ottenuto utilizzando le caratteristiche presenti sui datasheet dell’Hamamatsu per gli MPPC di 100, 400 e 1600 pixel. 77 Figura 6.6: Probabilità di trigger degli elettroni e delle lacune a diverse tensioni di alimentazione. X rappresenta la posizione in cui si forma la prima coppia elettrone lacuna e varia da 0 (strato n+ ) a W (fine della regione di valanga), mentre W è lo spessore della regione di valanga. vede in fatti dalla figura ?? la probabilità di trigger degli elettroni è circa il doppio di quella delle lacune. Questa potrebbe essere una proposta interessante anche nel caso dell’ibrido: uno strato d’ingresso più sottile implica che anche fotoelettroni con energia più bassa, 5-6 keV possano raggiungere la zona di svuotamento (si vedano i risultati delle simulazioni sul range degli elettroni nel silicio). Dal momento che i consumi di potenza dell’ibrido sono legati esclusivamente all’alimentazione del fotocatodo e degli elettrodi di focalizzazione, la possibilità di ottenere gli stessi risultati con fotoelettroni di energia minore consentirebbe di abbassare ulteriormente i consumi di potenza. Altro punto fondamentale è lo sviluppo di un SiPM con resistenza di quenching integrata nel bulk inferiore. Questa soluzione riguarda la possibilità di aumentare il fill factor del dispositivo, che allo stato attuale ha raggiunto un valore dell’ 85% circa, con la prospettiva futura di arrivare fino al 100%. Dal momento che l’efficienza del SiPM e quindi del VSiPMT è strettamente legata al fill factor, la possibilità di utilizzare un tale dispositivo permetterebbe di raggiungere un’efficienza di rivelazione totale intorno al 35% (utilizzando 78 un fotocatodo multialkali con efficienza al 40%). Infine, lo sviluppo di un ibrido di questo genere potrebbe essere utilizzato per riprendere l’idea di un modulo ottico multipmt. L’idea iniziale di un fotocatodo segmentato con 4 PMT classici inseriti all’interno è stata presto abbandonata e considerata di scarso interesse a causa dell’enorme consumo di potenza del dispositivo e del diverso guadagno dei PMT3 . Tuttavia, sfruttando l’idea dell’ibrido VSiPMT il quale, come è stato più volte ribadito, presenta bassissimi consumi di potenza si potrebbe pensare di riprendere il progetto di un modulo ottico con fotocatodo segmentato al di sotto del quale vengono utilizzati 4 SiPM come moltiplicatori di elettroni. 3 Il guadagno dei PMT classici varia notevolmente anche considerando diversi esemplari dello stesso modello. Ciò comporta una complicata calibrazione dei quattro dispositivi. 79 Conclusioni Questo lavoro di tesi si colloca all’interno di un progetto di ricerca e sviluppo di un innovativo fotomoltiplicatore ibrido a semiconduttore basato su giunzioni p-n in regime Geiger: il VSiPMT. L’idea è quella di utilizzare, all’interno di un tubo fotomoltiplicatore, un SiPM come moltiplicatore di elettroni in sostituzione della classica catena di dinodi. Per questo progetto di sviluppo è stato utilizzato un MPPC S10943-8702, una serie speciale senza finestra prodotta dalla ditta giapponese Hamamatsu, il quale è stato in primo luogo caratterizzato con luce laser. In questa fase ne sono stati determinati il guadagno e il rate di dark count al variare della tensione di alimentazione, il range dinamico e la risposta temporale. Successivamente è stato simulato con il software Geant-4 il comportamento nel silicio di un fascio di elettroni con energia da 1 a 20 keV al fine di ricavare per quale energia gli elettroni avessero maggiore probabilità di penetrare nella regione di svuotamento e generare un segnale, nonchè il coefficiente e l’energia di backscattering ovvero la percentuale di elettroni diffusa all’indietro dalla superficie del silicio e la loro energia residua. In base alle simulazioni è venuto fuori che a partire da 8 keV gli elettroni hanno buona probabilità di penetrare nella regione di svuotamento del dispositivo. In vista dell’obiettivo finale di costruzione del VSiPMT il range di tensioni di funzionamento dell’ibrido è di 8-10 kV negativi. Questo studio è stato di basilare importanza in vista di una scelta critica dell’energia del fascio di elettroni, uno dei parametri fondamentali della prova del funzionamento dell’MPPC come rivelatore e moltiplicatore di elettroni. In prospettiva della misura con gli elettroni, durante questo periodo di tesi è stato progettato il metodo di estrazione del fascio ed è stato allestito e testato l’apparato sperimentale di rivelazione. Tuttavia, l’obiettivo finale di questo lavoro di tesi resta lo studio della risposta dell’MPPC agli elettroni, condotto visualizzando il segnale in uscita in due modi: in corrente e in tensione. La misura in corrente è stata effettuata bombardando l’MPPC con un’elevata corrente di elettroni e registrando con un programma in LabVIEW la lettura della corrente all’uscita del dispositivo collegato, senza circuito di am80 plificazione, ad un picoamperometro. Lo scopo di questa misura, puramente qualitativa in questa fase, è stato quello di verificare la reazione dell’MPPC, sottoforma di variazione di corrente in uscita, all’accensione del fascio. La misura in tensione è stata, invece, effettuata convertendo la corrente in uscita dal dispositivo in una tensione, mediante un opportuno circuito di amplificazione. In questo modo è stato possibile misurare il rate di elettroni letti dal dispositivo al variare dell’energia di questi ultimi, per ricostruire la curva al variare dell’energia e confrontarne l’andamento con quella del range ottenuta con le simulazioni. I risultati ottenuti dalla misura del rate sono in completo accordo con le simulazioni, il range di energia degli elettroni per il quale il rate di segnali diventa non trascurabile è 8-9 keV. Inoltre, la misura in tensione ha consentito di effettuare una prima stima dell’efficienza di rivelazione di elettroni. Dalle simulazioni sul backscattering ci si aspetta un’efficienza dell’ 80% circa per elettroni di 9 keV. Dalle misure a 9 keV è stata ricavata una stima del valore della corrente letta dal dispositivo e confrontato con il valore calcolato della corrente in ingresso sul dispositivo, i dati sono in accordo entro l’errore. Tuttavia, va sottolineato che questi dati rappresentano solo una stima iniziale, i limiti sperimentali, infatti, hanno reso complicata una misura più accurata nei tempi stabiliti dalla durata della tesi. Al fine di migliorare questo aspetto si sta progettando un fascio impulsato di elettroni il quale consentirà di effettuare caratterizzazione completa con gli elettroni, i cui risultati potranno essere confrontati direttamente con quelli ottenuti dalla caratterizzazione con la luce laser. Questo progetto terminerà con la realizzazione di un prototipo di VSiPMT, di cui è stata presentata una proposta di disegno in conclusione di questo elaborato. L’ibrido sarà composto essenzialmente da fotocatodo, elettrodi di focalizzazione ed MPPC racchiusi in un tubo emisferico di vetro ad una pressione di circa 10−6 − 10−7 mbar. Questo fotomoltiplicatore consentirà di migliorare lo studio di processi fisici legati alla rivelazione di fotoni grazie alla fusione delle ottime caratteristiche di rivelazione esibite dagli MPPC e la possibilità di monitorare grandi volumi di rivelazione mediante l’utilizzo di un fotocatodo di grandi dimensioni, l’ottimizzazione del VSiPMT consentirà, infine, di snellire le strutture dovute al trasporto di potenza nei grandi esperimenti. 81 Vacuum Silicon PhotoMultipliers: recent developments Giancarlo Barbarinoa,b , Felicia Carla Tiziana Barbatoa , Luigi Campajolab , Riccardo de Asmundisa , Gianfranca De Rosab , Carlos Maximiliano Molloa , Daniele Vivoloa,b a b INFN Napoli, Italy Dipartimento Scienze Fisiche, Università Federico II Napoli, Italy VSiPMT (Vacuum Silicon PhotoMultiplier Tube) is an innovative design for a modern hybrid, high gain, silicon based photodetector based on the combination of a SiPM with a hemispherical vacuum glass PMT standard envelope. In such a device photoelectrons emitted by the photocathode are accelerated and focused by an electric field towards a small focal area covered by the SiPM which therefore acts as an amplifier, thus substituting the classical dynode chain of a PMT. With a view to the realization of a first prototype of VSiPMT our group is carrying out a preliminary work aimed at the study of SiPM performances as an electron detector, including an accurate Geant4-based simulation of the interaction between SiPM and electron beams. In order to perform a full characterization of the SiPM we developed an experimental setup for the extraction and the acceleration of a beam of backward secondary electrons emitted after the bombardment of a carbon foil by a proton beam extracted in a TTT-3 accelerator. 82 Introduction Silicon PhotoMultipliers (SiPMs) are arrays of inverse polarized diodes operating in Geiger mode with a gain of 105 106 , comparable with that of PMTs, thus showing single-photon sensitivity and excellent photon-counting capability. SiPMs show many advantages over PMTs, such as higher quantum efficiency, lower operation voltages and insensitivity to magnetic fields. However their main drawback is represented by their small sensitive surface. In order to overcome this limit our group has suggested a solution consisting in an innovative design for a modern hybrid, high gain, silicon based Vacuum Silicon PhotoMultiplier Tube (VSiPMT) based on the combination of a SiPM with a hemispherical vacuum glass PMT standard envelope [?]. In such a device photoelectrons emitted by the photocathode are accelerated and focused by an electric field towards a small focal area covered by the SiPM which therefore acts as an amplifier, thus substituting the classical dynode chain of a PMT. With a view to the realization of a first prototype of VSiPMT our group is carrying out a preliminary work aimed at the study of the performances of a SiPM as an electron detector, consisting in the full characterization of the SiPM with a laser source [?] and with an electron source. Before the realization of the second step we performed a Geant4based simulation of the interaction between a SiPM and an electron beam with different angles of incidence and different initial energies, simulating all the typical low-energy electromagnetic processes they could be involved in and calculating backscattering coefficient, ran- ge in Silicon, total released energy, backscattered energy fraction and average energy loss in Silicon. The electron source for the characterization will be a beam of backward secondary electrons emitted after the bombardment of a carbon foil by a proton beam extracted in a TTT-3 accelerator. In this work we describe our experimental setup and our preliminary results. SiPM as an electron detector SiPMs are arrays of Geiger-mode diodes set on a common anode with individual quenching resistors. Each diode, when activated, gives the same current response, so the output signal is proportional to the number of diodes hit. In a VSiPMT the SiPM acts as an electron detector. In this case electron-hole pairs are created by ionization, therefore for this process to happen there is an energy threshold for photoelectrons impinging on the surface of the SiPM. However since electrons, unlike photons, produce electron-hole pairs along all the ionization track, they produce a higher signal amplification. According to our simulations, in order to penetrate inside the depletion region (∼ 1 − 1.2µm) of our SiPM (a S10943-8702 MPPC by HAMAMATSU, special non-windowed series) a normally incident electron beam needs to be accelerated up to an energy of ∼ 10keV (see Figure 7). At this energy the backscattering coefficient η is ∼ 12.6% and the backscattering energy fraction is equal to 0.22, while the total released energy is ∼ 7.5keV . 83 Figura 7: Range in Si of a normally incident electron beam as a function Figura 8: Experimental setup: a of the incident energy. 2 MeV proton beam scatters over a carbon foil. Backward electrons are accelerated and deflected by a The experimental setup set of electrostatic grids towards a To extract and accelerate the electron two-steps MCP for beam detection. beam necessary for the characterization of the SiPM we require an experimental setup composed by (see Figure 8): • a 2 MeV proton beam; • a 30µg/cm2 carbon foil; • an electrostatic mirror for acceleration and deflection of the electron beam; • a two-steps Micro Channel Plate for beam detection. The 2 MeV proton beam is extracted in a TTT-3 linear accelerator and is used to bombard the carbon foil. In the proton-carbon scattering process forward and backward secondary electrons (SE) are emitted. The production of SE can be described by a three-step model: first, the creation of excited electrons via collisions of protons with target atoms in the solid, then the transport of liberated electrons through the bulk to the surface and finally the transmission through the surface potential barrier [?]. In order to get a 10keV electron beam the carbon foil is kept at −10kV . The first electrostatic grid collects and accelerates backward electrons towards an electrostatic mirror, composed of two plane and parallel grids, exploiting the same potential difference between the carbon target and the first acceleration grid. The first mirror grid has the same potential of the first acceleration grid while the second one has the same potential of the carbon foil in order to provide a deflection of the electron beam where the angle of emission is equal to the angle of incidence. A 90 degrees deflection is necessary to avoid the SiPM to intercept, during the characterization phase, the incident proton beam and backscattered 84 protons. In order to hold grids at the required potentials, the system is kept under high vacuum conditions (10−9 bar). The SiPM will be earthed, while in this preliminary phase of beam detection and monitoring the three electrostatic lenses of MCPs are kept at −2kV , −1.1kV and −100V respectively (Figure 8). Conclusion and perspectives In a VSiPMT photoelectrons emitted by a photocathode are accelerated and focused by an electric field towards a small focal area covered by a SiPM. With a view to the realization of a first prototype our group has developed an experimental setup for the full characterization of a S10943-8702 non-windowed MPPC by HAMAMATSU with an electron source. Actually a 10keV focused electron beam has been extracted, deflected and measured by MCPs. The next step will consist in replacing MCPs with our SiPM for the characterization phase. Acknowledgments The authors would like to warmly thank Mr. Mario Borriello for the constant help and for the precious technical support during setup and testing activities. 85 Bibliografia [1] LONG-TERM MONITORING OF THE TeV EMISSION FROM Mrk 421 WITH THE ARGO-YBJ EXPERIMENT, B. Bartoli et al., The Astrophysical Journal, 734:110 (8pp), 2011 June 20; [2] Constraining Dark Matter Models from a Combined Analysis of MilkyWay Satellites with the Fermi Large Area Telescope, M. Ackermann et al., PRL 107, 241302 (2011); [3] Gamma-Ray Bursts, Fishman, Gerald J., Meegan, Charles A., Annual Review of Astronomy and Astrophysics, Volume 33, 1995, pp. 415-458; [4] SSearch for Proton Decay via p → e+ π 0 in a Large Water Cherenkov Detector, M. Shiozawa et al. , Phys. Rev. Lett. 81, 3319–3323 (1998); [5] Radiation detection and measurement, Glenn F. 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La tradizione vuole che si cominci dalla famiglia con frasi del tipo “per avermi sostenuto sempre, per essermi sempre stati vicini, per essere stati i miei migliori amici...”, quello che in realtà vorrei esprimere è la mia profonda stima per mio padre che ha pagato le tasse universitarie senza mai lamentarsi; per i miei fratelli che hanno rinunciato a giocare online (quasi sempre) permettendomi cosı̀ di divertirmi a leggere articoli, presentazioni e documenti che mi hanno permesso di ampliare la mia conoscenza. Ringrazio calorosamente mia mamma per aver svolto il suo lavoro da centralinista in maniera cosı̀ amabile tenendo le comunicazioni al di sotto di 110 dB permettendomi cosı̀ di concentrarmi sulle mie letture. Un pensiero, inoltre, lo vorrei dedicare anche a mia nonna la mia fan numero 1, per tutte le volte che ha cercato di vantarsi di me con gli altri senza mai riuscirci. Durante questo percorso mi sono fatta molti amici, alcuni incredibili che sono stati una seconda famiglia, che mi hanno riempito le giornate di gioia (e spesso anche le serate). A loro vorrei dire che non dimenticherò mai i ”mercoledı̀ sera” da Adriano, Rossella e la sua “passione per gli scampi”, le bestemmie di Giancarlo contro questa città, Francis e la sua malinconia sempre oggetto della nostra ironia (fa anche rima), “l’antico biscottificio di Wosc’ ” cogestito da me e Roberta, i duri allenamenti con Angela per la nuova disciplina olimpionica del “lancio dell’osso”. Vorrei ringraziare profondamente anche Carmine, che mi ha sempre sopportato e sostenuto, che spesso ha rinunciato alle coccole per lasciarmi studiare, che ha incassato senza colpo ferire ogni volta che sono stata nervosa, che è il mio raggio di sole sempre presente. E veniamo ora all’organizzazione universitaria: per la sua dedizione al lavoro, sempre egregiamente svolto, per averci risparmiato infruttuose file in segreteria, per essersi sempre occupata della diffusione di notizie importanti (più o meno certe) ci tengo a ringraziare Daniela Paolone del “servizio di informazione studenti di fisica”. Vorrei infine seriamente e sentitamente ringraziare il Prof. Barbarino e Gianfranca per avermi coinvolto in questo progetto di sviluppo che mi ha entusiasmato tanto 88 e per aver sempre tenuto in considerazione le mie idee ed opinioni, Carlos ed in particolare Daniele per essere stati amici e guida sincera, Riccardo per aver sempre creduto in me, il Dott. Luigi Campajola e il Sig. Mario Borriello per la loro infinita disponibilità e per aver condiviso alcuni “trucchetti” o insegnamenti che altrimenti non avrei mai imparato da alcun libro. E infine, poichè sono una persona di parola (almeno quando mi ricordo) ringrazio Addirittura Ciuciù. Vorranno perdonarmi (o forse ringraziarmi) le persone che non sono state menzionate. 89