Jamil e la nuvola – capitolo 1

I
Un appuntamento notturno
Tra poco sarebbe arrivato aprile, lo diceva l’aria fresca della notte. Quando hai un
appuntamento non ti va di dormire. Nessuno poteva saperlo ma io e il mio amico Merib
ci saremo visti nell’oasi di Farafra.
«Aprile è un buon mese – ripeteva spesso Abdulal mio padre – perché la terra vuole le
cipolle.»
Aprile era un buon mese ma non il migliore. Luglio, agosto e settembre, erano loro dei
mesi perfetti, perché in quei mesi in Egitto si poteva piantare il cotone. Il cotone
permetteva a tutti noi di mangiare di più...
Io e Merib ci saremo incontrati all’Ulivo Grande. L’indomani non saremo andati a
scuola, il venerdì in Egitto si resta a casa.
A Farafra c’erano molti alberi d’ulivo e di albicocche. Le albicocche sono succose e
colorate come il tramonto. Appena maturano si aprono con le mani in due metà perfette.
Gli alberi dove io e il mio amico ci saremo visti, stavano un po’ fuori dal paese, accanto
ai pozzi.
Merib è il mio unico amico. Io e lui abbiamo la stessa età: dieci anni. Dieci è un numero
importante, è il numero di tutte le dita delle mani. Noi due ci siamo conosciuti a scuola.
La prima volta che abbiamo parlato Merib mi ha detto che andava a scuola da alcuni
anni, io ero appena arrivato. La mia famiglia non ha mai avuto molti soldi. Il padre di
Merib, invece, è un uomo molto ricco. Il suo nome è Habib e fa il mercante. Merib lo
vedeva poco perché abitava al Cairo con un’altra moglie e altri figli. Due di questi
lavoravano con lui, gli altri vivevano ad Alessandria.
Al Cairo il padre di Merib gestiva un bazar dove vendeva il cotone e altre cose preziose.
In estate sua madre si trasferiva con lui a El Fayoum. In quell’altra oasi c’erano molti
campi da coltivare. Lo zio di Merib, il fratello di sua madre, il sayyid Riad, possedeva tanta
terra sua.
Un pomeriggio avevo sentito dire da Abdulal mio padre che anche noi in estate
saremmo andati nell’oasi di Fayoum, saremmo partiti dopo aver piantato le cipolle. Lo
zio di Merib gli avrebbe potuto dare un lavoro.
Liman, mia madre, aspettava un bambino, sperava di avere un altro maschio e non
un’altra femmina. I figli maschi portano lavoro, per questo sono importanti. Quando
sono piccoli però costano e basta. La nostra famiglia da quando il raccolto dello scorso
anno era andato male, finiva subito i soldi e quando finivano i soldi non si mangiava più.
Mio padre aveva comprato dei semi cattivi insieme a suo fratello Alì. All’inizio i semi
sembravano buoni, facevano molto cotone. Poi le piante seccarono e fu un disastro. La
nostra famiglia non possiede tanta terra ma poca, troppo poca.
«Se partiremo Jamil dovrà diventare un uomo.» Questo aveva detto mia madre a mio
padre. Lui allora aveva alzato le braccia e benedetto il nome di Allah. Quando i miei
genitori hanno fatto questo discorso non si sono accorti di me. La mamma dava il latte a
mia sorella Hamdina e mio padre metteva i fiori sulle stoffe con la macchina da cucire.
Mia madre e mio padre passano molto tempo seduti. I fiori per i ricami non finiscono
mai.
Appena ho sentito che dovevo diventare un “uomo” avevo provato molta paura. Se
sono ancora piccolo come sarei potuto diventare subito grande?
Avevo raccontato tutto a Merib. Allora lui aveva avuto l’idea di andare insieme da Gedin
nel Deserto Bianco. Merib conosceva la sua tenda perché a volte i beduini compravano
le stoffe di suo padre Habib. Sapevo che Gedin era un beduino ed era anche una specie
di mago. La sua magia stava nelle parole che diceva e a cui nessuno badava tanto. È bello
sapere che esistono persone che non si comportano come tutti. Merib era uno che guardava sempre dove gli altri non guardavano mai. Per questo eravamo grandi amici.
Uscire dalla mia casa era facile. Anche uscire dalla casa di Merib era facile. Nel paese di
Quasr le case stanno vicine. Di notte passeggiano molti cani che pestano la sabbia dura.
Tutti i rumori così li fanno i cani. Lo pensano anche mia madre Liman e mia sorella
Hamdina. Se la notte lei si sveglia e piange la mamma le dice: «Non è niente Hamdina,
dormi... stai buona! Sono solo i cani.»
– Merib... Merib! Ci sei?
– Sono qua Jamil!
– Dove? Non ti vedo.
– Sono sull’albero.
– Ho un po’ di freddo Merib.
– Prendi la maglia Jamil... la getto giù. Copriti!
– Grazie Merib. Perché ti sei arrampicato?
– Perché sono arrivato prima di te. L’albero ha già le albicocche. Sono morbide...
sembrano mature. Le mangiamo?
– Lo sai che non si può Merib... non sono nostre: scendi!
– Ne prendo solo due, le mangeremo lungo la strada.
– E i noccioli? Se li buttiamo per terra il padrone degli alberi se ne accorgerà.
– Non li butteremo: li pianteremo. Magari crescerà un altro albero e sarà per merito
nostro!
Merib trovava sempre delle cose da fare. La sua testa non si fermava mai. A casa aveva
molti libri, diversi da quelli usati a scuola. Erano libri di fiabe.
Merib ogni tanto ne portava uno alla maestra e lei lo leggeva. Tutta la classe ascoltava in
silenzio e quando la storia finiva c’era sempre qualcuno (e anche io) che diceva:
«Ancora.»
Io non avevo mai avuto un libro né a casa né a scuola.
Merib era il mio compagno di banco e i suoi libri erano anche un poco miei.
Se un giorno non fossi andato più a scuola la maestra avrebbe fatto sedere accanto a lui
un altro bambino. Diventavo triste pensando questo. La tristezza arriva quanto le cose
che sono sicure non lo sono più oppure quando senti una voce che ti dice che devi
diventare un “uomo”. Mio padre è un uomo. Lui non va a scuola, non legge i libri. Lui
cuce i fiori che non finiscono mai...
– Prendi Jamil! Due albicocche divise fanno quattro mezze albicocche con il resto di due
semi. Aiutami a scavare!
– Nascondili bene Merib.
– Non ti preoccupare Jamil. La terra qui è morbida. Ecco fatto. Camminiamoci sopra
insieme. Ci vorrebbe un poco d’acqua ma non fa niente. Andiamo Jamil, da quella parte!
Io e Merib camminavamo vicini.
– Non guardare i cani Jamil se no ci seguono.
– Lo so Merib. Mangiamo la frutta senza parlare.
Le albicocche erano dolci e fresche di luna. La luna era spuntata da poco nel cielo. Non
era ancora rotonda... era la nostra luna: quella sottile che dondola nel cielo e ride alle
stelle. Lo aveva detto la maestra a scuola. Aveva letto una poesia e noi avevamo fatto un
disegno. Io avevo disegnato un bambino a cavallo della mia luna. Merib aveva fatto alla
sua luna il naso, un occhio chiuso e la bocca. La sua luna era una luna addormentata.
Era strano mangiare le albicocche senza sentire sulla buccia l’aria calda del sole. Quando
viene aprile di sera nell’oasi bisogna coprirsi con la lana. Aprile prepara l’arrivo del
khamsin, il vento del deserto.
Il khamsin si chiama così perché soffia per cinquanta giorni. Sono giorni speciali, perché
in quei giorni il deserto respira e parla con gli uomini. Lo so perché è quello che da
sempre dicono i vecchi dell’oasi.
Era la prima volta che io e Merib andavamo di notte nel Deserto Bianco. Merib aveva
pensato a tutto. Dopo il giardino degli alberi da frutto cominciavano le palme. Al tronco
di una palma Merib aveva legato uno dei dromedari di suo padre. In verità quel
dromedario si chiamava Mizar. Mizar era stato il regalo di suo padre Habib quando gli
anni di Merib erano diventati dieci. Merib aveva scelto questo nome perché Mizar è una
stella vicinissima a un’altra stella che è anche vicina alla stella che segna il Nord. «Di
Mizar posso fidarmi Jamil. Lui non si perderà mai.» Così Merib mi aveva detto.
Mizar ci aspettava accovacciato sulla sabbia. Masticava tranquillo muovendo le labbra
morbide.
– Mizar! Siamo qui...
Sentendo la voce di Merib, il dromedario Mizar piegò il lungo collo verso di noi.
– Mizar ci porterà da Gedin, Jamil. Arriveremo prima dell’alba. Saliamo!
Mizar ci offrì la sua gobba. Poi fece forza sulle zampe e si alzò con leggerezza.
Due bambini su una gobba mansueta
scivolano nella notte come una cometa.
Trovare devono Gedin il beduino
per conoscere il senso di un destino.
Va il dromedario nella sabbia d’Oriente:
verso il Deserto Bianco dirige il proprio andare
tra le morbide dune di un candido mare.
Il Deserto Bianco di notte restava bianco. Anche le ombre si facevano bianche e quindi
bianca anche la paura. Una paura bianca è diversa da una paura nera. Dalla paura nera si
scappa. Dalla paura bianca no: la paura bianca si attraversa. Si può fare, quando si hanno
un dromedario e un amico.
Le zampe di Mizar pestavano la sabbia di farina. Il cielo era pieno di stelle luccicanti.
Erano tantissime, più di quelle che si vedono dall’oasi. Anche la luna nel deserto era
diversa: era ancora più bianca tra le bianche dune.
– Quella stella è Mizar, Jamil. La vedi?
– La vedo Merib.
– L’altra vicinissima si chiama Alcor.
– Come lo sai?
– Ho un libro dove sono scritti tutti i nomi delle stelle.
– Le conosci tutte Merib?
– Molte, non tutte.
– Pensi che Mizar possa sbagliare la pista?
– Che dici Jamil! È impossibile e poi anch’io sono stato qui altre volte di giorno con le
carovane di mio padre. Tra poco incontreremo le rocce.
Io non avevo mai camminato tanto nel Deserto Bianco. Sapevo che c’erano delle rocce
dalle forme strane perché molti turisti arrivano a Farafra per vederle. Le chiamavano
sculture di gesso. Quando Abdulal, mio padre, vedeva i turisti diceva: «I turisti sono
uomini ricchi Jamil. Guarda i loro vestiti puliti. Sono fatti con il nostro cotone: il miglior
tessuto da comprare in tutti i bazar del mondo!»
Quando diceva queste cose non capivo se mio padre era orgoglioso oppure arrabbiato.
– Tu le hai viste le sculture di gesso, Merib?
– Certo Jamil. Le sculture di gesso sono le rocce del Deserto Bianco. È il vento che le ha
fatte soffiando nei secoli. Il khamsin soffia sulle rocce e le consuma come vuole lui.
Alcune rocce hanno la faccia e fanno le smorfie. Hanno i kūfiyya dei beduini. Gedin
monta la sua tenda vicino a uno strano dito che tiene in equilibrio una grande pietra.
Molte rocce nel deserto somigliano a quella: i turisti le chiamano funghi. La roccia di
Gedin però è diversa da tutte le altre.
– Perché Merib?
– Perché quella pietra è storta e potrebbe cadere da un momento all’altro, anche davanti
ai nostri occhi! Pensa che fortuna Jamil...
– Sarebbe davvero una fortuna Merib? E Gedin?
– La tenda di Gedin sta dall’altra parte. Lui conosce il deserto, queste cose le prevede.
– Sa anche che noi stiamo andando da lui?
– I beduini aspettano sempre gli ospiti.
Stare sopra un dromedario è comodo perché se si vuole si può anche dormire. Proprio
dormire forse non è facile. Sopra un dromedario tutt’al più si può sonnecchiare. La
maestra a scuola ci ha spiegato la differenza. Se si dorme è difficile svegliarsi perché di
solito si dorme in un letto fermo. Se sonnecchi invece, puoi da un momento all’altro
aprire un occhio e poi l’altro.
Io e Merib stavamo vicini sulla gobba di Mizar. Il suo dondolante passo ci cullava e ci
faceva compagnia.
Nel Deserto Bianco il silenzio della notte era il nostro cuscino.
Prima di sonnecchiare Merib mi aveva detto: «Riposiamoci un poco Jamil. Non appena
Mizar vedrà il fuoco acceso davanti alla tenda di Gedin, saprà come avvisarci.»
Così avevamo chiuso i nostri occhi: prima uno e poi un altro.
Sonnecchiavamo immersi nella notte bianca. Una luce di latte salì dal mare di sabbia
mostrando al dromedario la rotta del suo cammino.
Ad un tratto una polvere nebbiosa ci ha investito e non c’è stato neanche il tempo di
aprire gli occhi che abbiamo cominciato a tossire.
– Cosa succede Merib? Scappiamo! C’è una tempesta di sabbia!
– No, Jamil. Non è possibile! La polvere è ferma: non c’è vento.
– Da dove viene?
– Non lo so. Proviamo a cacciarla via, sembra fumo.
– Cosa brucia?
– Non lo so Jamil.
Lentamente la polvere scomparve.
Davanti alle zampe di Mizar ora c’era una grande pietra e sopra la pietra ci stava un
uomo accovacciato. Portava la gallabia dei beduini.
Merib scoppiò a ridere.
– Guarda Jamil! Guarda cosa è successo... è caduta la pietra!
– La pietra che stava storta davanti alla tenda del beduino?
– Sì, proprio quella! Siamo arrivati Jamil, siamo da Gedin!
Chi dice al vento che è tempo di soffiare sulla sabbia del deserto per disegnare nastri
sottili, tracciati per unire in un solo e labile istante destini e desideri? Perché ad un tratto
una pietra rompe il suo equilibrio per cadere giù con un tonfo polveroso? Arcane
circostanze determinano mutamenti di tale natura. Non esistono risposte immediate,
esistono solo magiche attese.