UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PALERMO SCUOLA DI DOTTORATO IN DIRITTO SOVRANAZIONALE E DIRITTO INTERNO DOTTORATO DI RICERCA IN DIRITTO COMPARATO – IUS 02 XXIV CICLO L’UTILIZZAZIONE DEL CORPO DELLE DONNE NELLA PUBBLICITÀ. QUESTIONI GIURIDICHE E DEONTOLOGICHE. Tutor Chiar.mo Prof. Alberto Gianola Dottoranda Maria Bannino Coordinatore Chiar.mo Prof. Guido Smorto ANNO ACCADEMICO 2013 - 2014 INDICE INTRODUZIONE ................................................................................... 1 CAPITOLO I L’AUTODISCIPLINA PUBBLICITARIA SEZIONE I LE ORIGINI DEL FENOMENO AUTODISCIPLINARE 1. Brevi considerazioni introduttive ............................................................ 2. I primi Codici di Autoregolamentazione in materia pubblicitaria .......... 3. L’European Advertising Standards Alliance: il processo di europeizzazione e i diritti statali ............................................................. 2 4 12 SEZIONE II L’AUTODISCIPLINA PUBBLICITARIA NEL REGNO UNITO 1. L’Advertising Standards Authority ......................................................... 2. L’UK Code of Non-broadcast Advertising, Sales Promotion and Direct Marketing .............................................................................. 3. L’UK Code of Broadcast Advertising ..................................................... 4. Cenni sul sistema sanzionatorio .............................................................. 15 17 22 27 SEZIONE III L’AUTODISCIPLINA PUBBLICITARIA IN ITALIA 1. Premessa ................................................................................................. 2. Le finalità dell’Autodisciplina pubblicitaria: dal Codice di Lealtà Pubblicitaria al nuovo Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale ................................................................ 3. Modalità di adesione all’Autodisciplina pubblicitaria: l’adesione per via associativa e l’adesione per sottoscrizione della clausola di accettazione .......................................................................... 4. Qualificazione giuridica della clausola di accettazione: lo schema del contratto a favore di terzo ................................................................. 4.1. Il contratto pubblicitario stipulato per condizioni generali .................. 4.2. La clausola di accettazione come clausola d’uso o uso normativo ...... 5. Ipotesi interpretative sulla natura giuridica dell’Autodisciplina pubblicitaria ............................................................................................ 30 31 38 43 47 49 51 CAPITOLO II GLI ATTEGGIAMENTI EROTICI NELLA PUBBLICITÀ 1. Premessa ................................................................................................. 2. La Ratio dell’art. 9 CAP. ........................................................................ 2.1 Considerazioni sulla sindacabilità della pubblicità che ricorra 2 57 60 a suggestioni erotiche ........................................................................... 3. La Ratio dell’art. 10 CAP ....................................................................... 4. Erotismo magnificente e patinato nell’iconografia pubblicitaria ............ 4.1. L’aberrante celebrazione della zoofilia erotica o zooerastia ................ 4.2. Reminiscenze sadomasochiste ............................................................. 5. L’utilizzazione pubblicitaria dell’erotismo per la reclamizzazione di bevande alcoliche, l’art. 22, quinto alinea, CAP ..................................... 61 68 70 84 97 106 CAPITOLO III NUDO DI DONNA 1. Il mercimonio della dignità umana. La reificazione del corpo della donna in pubblicità .................................................................................. 2. Le prime sentenze sul tema ..................................................................... 3. Una preziosa ricognizione ermeneutica. I canoni della disumanizzazione della persona e della ostentazione di meri reperti anatomici .................. 4. Il tema della morte in pubblicità. Necrofilia e nudo di donna ................ 113 118 122 146 CAPITOLO IV L’UTILIZZAZIONE PUBBLICITARIA DEL CORPO DELLA DONNA NEL REGNO UNITO ALLA LUCE DELLA PIÙ RECENTE CASISTICA DELL’ADVERTISING STANDARDS AUTHORITY 1. Premessa metodologica ........................................................................... 157 2. Principi generali ...................................................................................... 159 3. L’utilizzazione pubblicitaria del corpo della donna nel Regno Unito alla luce della più recente casistica dell’Advertising Standards Authority .... 163 4. I principali criteri ermeneutici elaborati dalla giurisprudenza autodisciplinare d’oltremanica sul tema. Gratuità del riferimento a motivi di carattere erotico e financo pornografico ed estraneità con la natura dei prodotti reclamizzati. Destinatari della pubblicità .................................. 182 5. Opportuni rilievi comparatistici sul concreto estrinsecarsi dell’autoregolamentazione pubblicitaria in Italia e nel Regno Unito con particolare riguardo alla pubblicità sessista .................................... 187 CONCLUSIONI ..................................................................................... 191 INDICE BIBLIOGRAFICO ....................................................................... 192 INTRODUZIONE 3 Il presente lavoro vuole mettere a fuoco, attraverso un approccio metodologico squisitamente casistico-giurisprudenziale, il concreto esplicarsi dei più rilevanti indirizzi ermeneutici sviluppatisi in seno alla giurisprudenza autodisciplinare italiana ed inglese in relazione alla rappresentazione pubblicitaria della donna. Preliminarmente si offre uno sguardo di panoramica sulle principali questioni giuridiche poste dal fenomeno autoregolamentare in ambito pubblicitario, con particolare riferimento alle incresciose vicissitudini che hanno interessato il formante legislativo, disvelando la profonda inidoneità e financo inettitudine del consueto strumento legale rispetto alla regolamentazione del mondo pubblicitario. I capitoli centrali del lavoro si occupano di studiare profusamente i casi che esibiscono una più spiccata pregevolezza euristica al fine di individuare le principali tendenze interpretative del Giurì di Autodisciplina Pubblicitaria e svolgere le opportune considerazioni circa le condizioni di sindacabilità della pubblicità che ricorra a suggestioni smaccatamente erotiche o sadomasochistiche ovvero contenente patinate reminiscenze zooeraste. Nella parte conclusiva si lumeggiano i percorsi giurisprudenziali dell’Advertising pubblicitaria Standards della donna, Authority portando sul in tema evidenza dell’effigiazione la sostanziale medesimezza della tutela autoregolamentare apprestata dall’ordinamento autodisciplinare d’oltremanica rispetto a quello italiano e, specularmente, la significativa diversità dei risultati applicativi raggiunti sul piano effettuale. CAPITOLO I 4 L’AUTODISCIPLINA PUBBLICITARIA SEZIONE I LE ORIGINI DEL FENOMENO AUTODISCIPLINARE SOMMARIO: 1. Brevi considerazioni introduttive. — 2. I primi Codici di Autoregolamentazione in materia pubblicitaria. — 3. L’European Advertising Standards Alliance: il processo di europeizzazione e i diritti statali. 1. Con le parole di Guy de Maupassant: «La grande trovata moderna, signori miei, è la pubblicità: essa è il dio del commercio e dell’industria contemporanei. Fuori della pubblicità non c’è salvezza. D’altronde, l’arte della pubblicità è difficile, complicata, e richiede un tatto grandissimo. I primi che hanno usato questo nuovo procedimento lo hanno fatto brutalmente, richiamando l’attenzione col chiasso, coi colpi di grancassa e di cannone. […] oggi lo schiamazzo è sospetto, i manifesti vistosi fanno sorridere, i nomi gridati per le strade suscitano più diffidenza che curiosità. Con tutto ciò, bisogna attirare l’attenzione pubblica e, dopo averla colpita, bisogna convincerla» (1). Il rilievo secondo cui lo stesso mondo pubblicitario abbia ritenuto doveroso dotarsi di un sistema di autoregolamentazione che potesse garantire l’onestà, la veridicità e la correttezza dei messaggi commerciali, è un dato di particolare suggestione. L’autoregolamentazione mira essenzialmente a disciplinare lo svolgimento di attività aventi ad oggetto la comunicazione commerciale a fini pubblicitari secondo regole provenienti dall’interno delle categorie professionali interessate. L’autodisciplina pubblicitaria porta con sé un’affascinante tendenza al travalicamento e, più precisamente, allo svilimento degli angusti confini (1) GUY DE MAUPASSANT, Mont-Oriol, 1887. 5 del metodo legislativo, estrinsecandosi, nella stragrande maggioranza dei casi, in un sistema di autoregolamentazione pura (2). Tale sistema di intervento ha ad oggetto una forma di comunicazione non di rado invadente ed aggressiva, connotata da una notevole forza persuasiva e da capacità suggestive assai penetranti che determinano una grave asimmetria nel rapporto comunicativo. 2. Le riflessioni che di seguito vengono riportate destano vivissimo interesse per la magistrale eloquenza con cui evidenziano il (2) In ambito internazionale il primo codice di autodisciplina pubblicitaria fu il Code de pratiques loyales en matière de publicité, adottato dalla Camera di Commercio Internazionale nel 1937. In Italia il processo che condusse all’istituzionalizzazione del controllo sulla pubblicità fu lungo e tortuoso. Il primo documento in cui è dato di rinvenire una lucida, seppur embrionale, formalizzazione del problema codificatorio, dopo l’emanazione di molteplici documenti che non ebbero alcun seguito, si pensi, a titolo esemplificativo, al Codice Morale della Pubblicità del 1951, fu certamente costituito dalla relazione presentata da Roberto Cortopassi in occasione del settimo Congresso nazionale della Pubblicità, tenutosi a Ischia nell’ottobre 1963 e recante il titolo “Responsabilità della Pubblicità nei confronti del consumatore”. L’illuminante dibattito fiorito in quegli anni attorno all’ormai improcastinabile problema della necessità di una tutela istituzionalizzata dell’universo pubblicitario culminò nella promulgazione, nel 1966, del Codice di Lealtà pubblicitaria per iniziativa della Federazione Italiana Pubblicità, degli Utenti Pubblicità Associati, della Federazione Italiana Editori Giornali e della Rai. Il suddetto Codice esplicava la propria efficacia nei confronti di un cospicuo numero di operatori pubblicitari puntualmente individuati, definendosi «normativo per utenti, agenzie, consulenti di pubblicità, gestori di veicoli pubblicitari di ogni tipo e per tutti coloro che lo abbiano accettato direttamente o tramite la propria associazione». In quella relazione si osservava con un certo distacco emotivo l’intima correlazione tra l’inarrestabile sviluppo del fenomeno pubblicitario e il brulicante proliferare di posizioni critiche, ritenute tali «da richiedere una meditata considerazione». Venivano altresì prese in considerazione le forme degenerative che avviluppavano la comunicazione pubblicitaria, forme degenerative che i rudimentali quanto inefficaci sistemi di controllo allora esistenti, non erano in grado di eliminare. Dopo una copiosa disamina degli esiti infausti e vieppiù fallimentari dei precedenti interventi in ambito pubblicitario, la relazione, raccogliendo il prezioso monito del Codice della Camera di Commercio Internazionale, concludeva auspicando «l’impegnativo accordo di tutte le categorie su una raccolta di poche e chiare norme che prescrivano e regolamentino il ricorso ad una pubblicità leale quale unica valida tutela sia della concorrenza imprenditoriale sia dei fondamentali interessi del consumatore». 6 carattere squisitamente autopoietico dell’autodisciplina pubblicitaria, enucleando le cause principali che indussero gli operatori del settore a tentare di risolvere essi stessi i problemi giuridici sottesi al mondo della pubblicità mediante l’adozione di regolamenti di autodisciplina. «A nessuno meglio che ai suoi operatori, infatti, appariva chiaro che la pubblicità, per il grande potere suggestivo, per la capacità di influire sulla libera determinazione dei suoi destinatari e per l’enorme forza di penetrazione, poteva trasformarsi – se utilizzata senza esclusione di colpi – in una vera e propria arma totale, capace di alterare a tal punto l’equilibrio dell’economia da causare la propria stessa distruzione. E poiché la legge si rivelava carente o inadeguata nel porre il fenomeno sotto controllo, si rendeva necessario che fossero proprio le categorie interessate ad assoggettarsi volontariamente a talune regole fondamentali da esse emanate, indispensabili per il corretto esercizio di questa forma di comunicazione. In alcuni casi può anche avere giuocato, in favore dell’autocontrollo, l’intento di prevenire interventi legislativi che istituissero divieti o censure da parte dei pubblici poteri […]. In ogni caso alla creazione di regolamenti di autodisciplina non fu neppure estraneo un intento che oggi chiameremmo di “pubbliche relazioni”: è noto infatti che l’opinione pubblica ha spesso considerato negativamente la pubblicità […]. L’opera moralizzatrice dell’autodisciplina, come del resto emerge dal preambolo di diversi codici morali, si proponeva anche di rimuovere molti dei pregiudizi gravanti su questo tipo di comunicazione, di farla accettare dal pubblico, di creare intorno ad essa un clima di fiducia» (3). (3) FUSI, TESTA, cit., pag. 20. Si confrontino al riguardo il preambolo alla prima versione del British Code of Advertising Practice, a tenore del quale «no advertisement likely to bring advertising into contempt or to reduce public confidence in advertising should at any time be permitted […] advertisements should be presented in such a way that they do not weaken the acceptance of advertising as an essential service to industry and the public economy» e l’analoga formula contenuta nel Codice di Lealtà 7 Per codesti motivi le tre fondamentali categorie di operatori pubblicitari, imprenditori-utenti, le agenzie, i professionisti pubblicitari in genere, nonché i mezzi di diffusione, optarono per un sistema di autocontrollo che garantisse il rispetto delle regole da essi stessi emanate, mediante la predisposizione di infrastrutture di natura eminentemente parasociale (4). Uno dei più antichi organismi autodisciplinari fu l’Advertising Club of America costituitosi nel 1905. Quantunque rappresentasse soltanto un embrionico esemplare del fenomeno autoregolamentare, l’Advertising Club of America già annoverava tra i suoi scopi istituzionali quello di Pubblicitaria italiano, nell’edizione del 1971, secondo cui scopo del codice «è di far sì che la pubblicità, che ha un ruolo essenziale per lo sviluppo dell'economia e per la creazione di maggior benessere, ed è insieme un servizio socialmente utile per l’informazione del consumatore, eviti tutto ciò che la possa screditare e che sia incompatibile con i suoi fini». ( 4 ) FUSI, TESTA, cit., pag. 21. Secondo un’autorevole dottrina, «While most studies focus on its functioning, there is growing discussion of advertising selfregulation as alternative or complement to government regulation and – to a lasser extent- of its role as an agent of public policy […]. In the latter case, self- regulation becomes explicitly embedded in the goals and instruments used by goverment in order to ensure good advertising behavior. [...] The system [of Self-regulation] refers to the control of bisness conduct and performance by business itself rather than by government or by market. In its pure form, industry assumes full responsibility […]. Control is exerved by one’s peers so that outsiders such as consumer representatives and/or government officials are kept out of the development, use, and enforcement of an industry’s code of practice and/or guidelines. This pure approach does not preclude informal consultation with outsiders but it excludes a formal decision-making ole for them. […] To its proponents, pure self-regulation presents the following general advantages over regulation. 1. Self-regulation is faster and cheaper as well as more efficient end effective […] than government regulation because industry knows better what the problems and their proper remedies are. Should the industry lack information or expertise about certain matters […] they can be obtained by taping experts or by commissioning studies. 2. It does not replace regulation but complements the latter, going beyond the minimum prescrived by law. Actually, in Belgium and France, the self-regulation system even applies legal standards-besides its own codes and guidelines-in appraising apparent violations of good advertising behavior […]». In questo senso v. BODDEWYN, Advertising Self-Regulation: Private Government and agent of Public Policy, in Journal of Public Policy & Marketing, 1985, pag. 129 ss. 8 promuovere l’adozione di regole comportamentali ispirate ai canoni di lealtà, veridicità, onestà e correttezza cui uniformare la comunicazione pubblicitaria. In quegli stessi anni fiorirono plurime iniziative autodisciplinari, tra le quali preme menzionare il Curtis Advertising Code del 1910, il Printer’s Ink Statute del 1911 e lo Standards of Newspaper Practice del 1914. Il tratto distintivo di queste opere si rinviene nella viscerale violenza moralizzatrice che le contraddistingue, essendo il medesimo il substrato etico-sostanziale da cui traggono linfa (5). Bisogna tuttavia attendere il 1924 perché venga alla luce lo Standards of practice dell’American Association of Advertising Agencies, il primo completo codice di comportamento, che, sottoposto a successivi interventi manipolativi di aggiornamento e riedizione, rappresenta ancora oggi il più autorevole testo di norme deontologiche in materia di comunicazione commerciale. Nel 1880 nacque in Inghilterra il primo comitato di autocensura pubblicitaria, istituito dalle aziende di pubblicità murale e affissionale, risale invece al 1925 il primo codice di autodisciplina emanato dalla Association of Publicity Clubs. Un controllo sistematico ed istituzionalizzato sull’attività pubblicitaria si ebbe soltanto nel 1926 con la costituzione dell’Advertising Association, che tra i suoi scopi enunciava «To promote public confidence in advertising through the correction or suppression of abuses wich undermine that confidence» ( 6 ). All’uopo veniva istituito l’Advertising Investigation Department. Nel 1961 venne alla luce il British Code of Advertising Practice Committee, l’attuale Committee of Advertising Practice, e con esso nacque il primo codice (5) ROSDEN-ROSDEN, The Law of advertising, New York, 1981, pag. 40; FUSI, Panorama internazionale dell’autosciplina pubblicitaria, in Riv. dir. int., 1975, I, pag. 62. (6) FUSI, TESTA, op. ult. cit. 9 autodisciplinare britannico, il British Code of Advertising Practice. Il Codice si occupava della regolamentazione di tutta la pubblicità a stampa e, nel 1962, venne istituita l’Advertising Standards Authority (ASA) al fine di vigilare sulla corretta applicazione del nuovo sistema normativo. Nel 1974 il meccanismo di finanziamento dell’autodisciplina pubblicitaria britannica venne ulteriormente potenziato, grazie alla Advertising Standards Board of Finance (ASBOF). Il nuovo sistema si fondava essenzialmente sull’imposizione di un prelievo automatico dello 0,1% su tutti gli annunci pubblicitari. Fu il sacro sigillo di una nuova e preziosa consapevolezza da parte dell’opinione pubblica inglese, quella della vitale importanza dell’autoregolamentazione per il mondo pubblicitario. L’ASA principiò ad estendersi considerevolmente, incrementando il proprio personale, intensificando ed estendendo i controlli preventivi ed il sistematico monitoraggio dell’attività pubblicitaria. La necessità di ampliare il ruolo del sistema fino a comprendervi il promotional marketing, condusse, nel 1974, all'istituzione del primo Code of Sales Promotion Practice. Dal 1962, il sistema di autoregolamentazione crebbe in statura e autorevolezza, giungendo a godere del grande prestigio che ancora oggi ne contraddistingue l’attività presso le più diffuse categorie di operatori pubblicitari. L’efficientismo e la celerità delle procedure garantivano che la tutela del consumatore fosse piena ed effettiva. Gli interventi della legislazione comunitaria in materia rafforzarono vieppiù il ruolo strategico dell’ASA come principale istituzione di rifermento in materia di pubblicità ingannevole nei media non radiotelevisivi, accanto all’Office of Fair Trading (OFT). Nel 2003 il Communications Act istituiva la Ofcom, conferendo 10 all’istituto poteri autoregolamentari in tema di normazione pubblicitaria per le campagne trasmesse a mezzo di emittenti televisive e radiofoniche. Ben presto l’attività regolamentare posta in essere dalla Ofcom non fu più di competenza esclusiva di quest’ultima. Si istaurò una proficua concertazione tra la Ofcom e l’ASA, di talché nel 2004 l’Authority inglese vide ampliato il suo mandato fino a ricomprendervi il sindacato sulle pubblicità televisive e radiofoniche, che in precedenza ricadevano sotto la competenza della Independent Television Commission o della Radio Authority. Il sistema di nuovo conio prevedeva un ventaglio di controlli preventivi che avrebbero potuto sfociare in misure sanzionatorie assai afflittive, quali la riprogrammazione, la modificazione o addirittura la cessazione della pubblicità incriminata. Nel caso in cui la sanzione non fosse stata ottemperata spontaneamente dall’emittente televisiva o radiofonica condannata, l’ASA avrebbe potuto valutare discrezionalmente l’opportunità di rivolgersi alla Ofcom, affinché questa istruisse apposito procedimento giurisdizionale. Dal suo canto il Broadcast Committee of Advertising Practice (BCAP), cui aderivano, come a tutt’oggi, inserzionisti, agenzie ed emittenti televisive e radiofoniche avrebbe garantito un controllo endoprocedimentale ex ante su tutte le attività prodromiche alla creazione della pubblicità radiotelevisiva. Oggi il sistema di autoregolamentazione copre la non-broadcast advertising, sales promotion oltreché molti aspetti del direct marketing, potendo godere del supporto di una serie di altre iniziative di autoregolamentazione da parte dell'industry, nonché dei vari servizi offerti dalla Direct Marketing Association. 11 Dalla sua limitata competenza originaria, il sistema autodisciplinare britannico si è progressivamente evoluto fino a disciplinare qualsiasi forma di comunicazione commerciale, sia essa broadcast o non broadcast. Con un camaleontico metamorfismo ed una plasticità assai rare, il sistema di autoregolamentazione d’oltremanica garantisce il suo costante aggiornamento, attraverso la riedizione dei suoi codici, e, soprattutto, l’ardita modernità con cui affronta le sfide poste dai media digitali e dalla crescita dell’online marketing communication. Quantunque il mondo della pubblicità sia visceralmente cambiato dal quel lontano 1960, in cui un embrionico tentativo di autonormazione pubblicitaria cominciò a delinearsi, lo scopo dell’autodisciplina inglese rimane lo stesso delle sue auree origini: garantire la più alta integrità, la rettitudine e la probità della comunicazione commerciale, nel contemperamento degli interessi sia del consumatore sia delle imprese. Nel 1913 in Francia la Chambre Syndacale de la Publicité di Parigi aveva intrapreso iniziative volte alla predisposizione di una normativa etica della comunicazione pubblicitaria, ma è soltanto nel 1937, con la promulgazione del Code de pratiques loyales en matière de publicité da parte della Chambre de Commerce Internationale, che si assiste alla nascita del primo codice autoregolamentare dotato di una qualche sistematicità e organicità normativa: alla enunciazione di una serie di regole deontologiche dont l’observation sera obtenue par voie de pression morale, seguiva un apparato normativo che regolamentava la procedura istitutiva di un organo d’autocontrollo con funzioni giuridiche d’onore (7). Il Code de pratiques loyales en matière de publicité, più volte emendato in momenti successivi, divenne presto il Codice deontologico (7) FUSI, TESTA, cit., pag. 22. 12 cui avrebbero fatto riferimento i diversi paesi europei per l’emanazione dei propri codici di autoregolamentazione. In esso si fondevano gli ideali morali ed etici di una medesima koinè, ispirata al supremo valore di una comunicazione pubblicitaria scevra da abusi. La profluente diffusione della pubblicità e delle sue tecniche persuasive e suggestive, imponeva il contemperamento delle esigenze suddette con quelle eminentemente efficientiste imposte dalle logiche di mercato. Apparirono così numerosi codici di autodisciplina settoriali che, in seguito al progressivo irrobustimento delle strutture parasociali della pubblicità, si estesero ad una platea sempre più vasta di operatori. Taluni ordinamenti demandarono la risoluzione delle controversie pubblicitarie alle stesse associazioni, più spesso vennero istituiti degli appositi organismi giudicanti. In ogni caso è solo di rado che tali questioni vennero sottoposte alla cognizione dei tribunali, rivelandosi assorbente l’esigenza di non ingerenza del potere statuale nella giustizia autoregolamentare, di matrice privatistico-contrattuale. Nella stragrande maggioranza dei casi i codici di autoregolamentazione di tradizione europea considerano irrilevante l’elemento psicologico dell’infrazione, configurando delle forme di responsabilità oggettiva ( 8 ). Altro principio cardine è quello ( 8 ) Può essere utile, nell’ambito della presente ricostruzione, fornire rapidi accenni sulla questione della rilevanza dell’elemento subbiettivo nell’illecito disciplinare. Regola generale è quella secondo cui il rispetto delle regole dell’autodisciplina, cui l’attività pubblicitaria deve uniformarsi, prescinda dalla valutazione della buona fede del soggetto che pone in essere un determinato comportamento. Comunque si atteggi l’elemento subbiettivo dell’inserzionista, sia esso cioè doloso o colposo, ciò che rileva è unicamente il significato oggettivamente espresso dall’inserto pubblicitario, rimanendo l’elemento psicologico irrilevante sia quanto a intensità sia quanto a sussistenza di fronte all’esigenza di far cessare il comportamento in contrasto con le norme autoregolamentari. Con riguardo all’orientamento espresso dalla giurisprudenza autodisciplinare italiana sul tema v. ex multis dec. n. 32/1980, 16 dicembre 1980, C.d.A. c. Filotecnica Salmoiraghi; Ed. Edime; dec. n. 40/1978, 28 novembre 1978, Bic Italia c. Gilette Italy, dec. n. 19/77, 21 dicembre 1877, Bayer Italia c. Schiapparelli Stab. Chimici Riuniti; Gruppo G. 13 dell’inversione dell’onus probandi, di talché spetterebbe alla parte convenuta dimostrare la conformità della pubblicità oggetto di contestazione alle norme comportamentali che si assumono violate. Per quanto concerne le sanzioni generalmente comminate, esse si individuano nell’ordine di cessazione, con il quale viene inibito ai mezzi di diffusione di reiterare ulteriormente la pubblicità censurata, e, nei casi più gravi, nella pubblicazione della decisione. Tuttavia, nonostante qualche diversità nelle soluzioni adottate, «il substrato delle varie istituzioni è comune, lo scopo perseguito è dovunque quello di far sì che la pubblicità si attenga ai canoni di lealtà, veridicità, onestà e correttezza, e lo schema fondamentale delle raccolte rimane sostanzialmente quello della Chambre de Commerce Internationale; cioè una serie di regole di comportamento, articolate in varie previsioni, cui spesso si accompagnano regolamenti di settore […], al cui rispetto tutte le categorie pubblicitarie sono impegnate attraverso una manifestazione di volontà di natura negoziale» (9). 3. Nel 1989, un preesistente organismo informativo facente capo all’European Advertising Tripartite, è stato sostituito dall’European ( 9 ) FUSI, TESTA, cit., pag. 23. Un’autorevole conferma in tal senso proviene dall’EASA Statement of Common Principles and Operating Standards of Best Practice, approvato del 2002 dall’European Advertising Standards Alliance. Si tratta di un importante documento propositivo che enuncia gli standard comportamentali cui devono uniformarsi i codici deontologici dei diversi Stati in materia di etica pubblicitaria. L’art. 24 del documento in parola, intitolato “Codes, their development and review”, così recita: 24.1 “Self-regulatory codes are based on the following basic principles, enshrined in the general Code of Advertising Practice of the International Chamber of Commerce: “the content of advertising should be legal, decent, honest and truthful with a due sense of social responsibility and respect for the rules of fair competition. 24.2 All codes must be applied both in the spirit and to the letter. 24.3 Codes should reflect national culture, law, and commercial practices, within the spirit of mutual recognition. 24.4 SROs should ensure that self-regulatory principles for advertising content are applied to new areas of advertising and commercial communications. 24.5 Self-regulatory rules and procedures should be regularly reviewed in the light of regulatory, social and technological developments, including consumer attitudes to advertising”. 14 Advertising Standards Alliance, che, per i Paesi con lingua di origine latina, ha assunto la denominazione di Alliance Européenne pour l’Ethique en Publicité. A sommo sugello di un lungo cammino, nel gennaio del 1994, otteneva il riconoscimento giuridico quale associazione internazionale in base al diritto belga, Stato presso il quale ha la sua sede. Nel 2002 l’Alliance si è profondamente rinnovata, mutando radicalmente la propria struttura associativa. Ora accanto alle rappresentanze delle autodiscipline siedono negli organismi direttivi anche i rappresentanti dell’industry pubblicitaria ovverossia utenti, agenzie e mezzi. Tutte le componenti del mondo pubblicitario hanno infatti deciso di far confluire le proprie energie in un’unica organizzazione che è diventata «la singola voce autorevole del mondo pubblicitario» (10). Tra gli scopi essenziali dall’European Advertising Standards Alliance si annoverano quello di riunire periodicamente le organizzazioni europee del mondo pubblicitario che adottano e riconoscono i Codici di autodisciplina pubblicitaria; quello di promuovere l’effettività e l’efficienza del sistema affinché l’autodisciplina possa essere rapida, flessibile, attuale, non onerosa ed esercitata senza burocratismi di sorta; quello di garantire, attraverso la predisposizione standards di correttezza raccomandati per operare secondo best practices, l’uguaglianza di trattamento per tutti i casi di denuncia e un unico spirito nei criteri di (10) Così l’EASA Statement of Common Principles and Operating Standards of Best Practice, cit., che all’art. 2 afferma: «the European Advertising Standards Alliance (EASA) is the single voice of the advertising industry in Europe on advertising selfregulation. It acts as the European coordination point for advertising self-regulatory bodies and systems across Europe. All of these systems contain two essential elements: a set of rules (codes) and a procedure to handle complaints submitted about specific advertisements». 15 controllo del sistema di autodisciplina, pur nel rispetto delle differenze culturali nelle pratiche commerciali dei vari Paesi. Per raggiungere questi scopi l’Alleanza si impegna, fra l’altro, a: a. promuovere la migliore attuazione dell’Autodisciplina; b. cercare di raggiungere una convergenza dei princìpi che governano i sistemi di autodisciplina attualmente operanti in Europa; c. sviluppare un dialogo con governi nazionali, gruppi di consumatori, associazioni di categoria e istituzioni europee; d. dimostrare che i meccanismi nazionali di autodisciplina sono da preferire a un’estensione della legislazione a livello europeo; e. promuovere il sistema per il quale le denunce di pubblicità diffuse da mezzi provenienti dall’estero possano essere rapidamente ed efficacemente trattate con rinvio delle denunce all’organismo competente nel Paese di origine della pubblicità; f. stimolare miglioramenti nei sistemi di autodisciplina e incoraggiare la creazione di organismi di autodisciplina dove questi ancora non esistano; g. scambiare informazioni sul funzionamento dei codici degli organismi nazionali di autodisciplina; h. scambiare informazioni e fornire consulenza sulla legislazione o altre iniziative inerenti il controllo della pubblicità e su altri sistemi di comunicazione di marketing. Tra le iniziative più encomiabili intraprese dalla Alliance Européenne pour l’Ethique en Publicité deve menzionarsi quella che ha condotto alla creazione del sistema di coordinamento dei Cross-border Complaint, in materia pubblicità transfrontaliera. Il nuovo sistema è finalizzato a garantire un’effettiva e concreta tutela dei consumatori, indipendentemente dal carattere transnazionale della pubblicità diffusa, di modo ché al consumatore del Paese richiedente vengano riconosciuti gli stessi diritti del consumatore del Paese da cui il messaggio viene diffuso. Principio cardine dell’intero sistema è quello del mutuo riconoscimento 16 delle giurisdizioni tra i diversi Paesi (11). ( 11 ) L’art. 27 dell’EASA Statement of Common Principles and Operating Standards of Best Practice, cit. è significativamente rubricato “Effective cross-border consumer protection and co-ordination”. Si riporta di seguito il testo integrale della norma, al fine di rendere quanto più intellegibile l’operatività delle procedure dei crossborder complaints system. 27.1 “The EASA Secretariat is responsible for the co-ordination of the crossborder complaints system and liaison with appropriate bodies at an EU level to ensure the swift resolution of complaints. Regular reports on the handling of complaints are published in its newsletter and on its website. 27.2 SROs should ad here to the procedures of EASA’s cross-border complaints system when handling complaints about advertising carried in the media of another member country. 27.3 SROs should apply the country of origin principle, as established in the EASA cross-border complaints procedure (that is, the country of origin of the media carrying the advertisement – where applicable and the country of origin of the advertiser forcases such as direct marketing, Internet/new media, etc.), to identify the competent SRO. 27.4 SROs should transfer cases promptly and co-operate in their resolution 27.5 SROs should notify eachother and the EASA Secretariat of the receipt, progress and outcome of across bordercase. 27.6 SROs should keep cases confidential within the EASA network and not reveal them to third parties, except to the extent necessary to resolve them, until they are ready to be published or transferred to the appropriate authorities”. 17 SEZIONE II L’AUTODISCIPLINA PUBBLICITARIA NEL REGNO UNITO SOMMARIO: 1. L’Advertising Standards Authority. — 2. L’UK Code of Nonbroadcast Advertising, Sales Promotion and Direct Marketing. — 3. L’UK Code of Broadcast Advertising. — 4. Cenni sul sistema sanzionatorio. 1. L’alta reputazione ed il prestigio che contraddistinsero le fastose origini dell’autodisciplina nel Regno Unito in epoca assai risalente, quando le associazioni pubblicitarie dettero vita ad un primo comitato di investigazione, continuano ad aleggiare attorno all’Advertising Standards Authority, capofila di un sistema di autodisciplina poi ampiamente sviluppatosi. L’ASA opera in condizione di assoluta indipendenza dal mondo pubblicitario e da organizzazioni statali. Il sistema autoregolamentare inglese si atteggia come una proteiforme commistione di autoregolamentazione pura e spuria, più precisamente, di «self-regulation for non-broadcast advertising» e di «coregulation for broadcast advertising» (12). Similmente a quanto avviene nel sistema autodisciplinare italiano, gli operatori pubblicitari hanno proficuamente contribuito al processo di autonormazione soggiacendo spontaneamente all’impianto normativo da essi posto. L’armonizzazione e la cooperazione tra tutte le parti del settore (12) La pubblicità televisiva e radiofonica è regolata da un accordo tra l’ASA e la Ofcom. L’Office of Communications è l'Autorità per le società di comunicazione nel Regno Unito. Nel 2002 veniva emanato l'Office of Communications Act. L’anno successivo l’Office of Communications intraprendeva la sua opera regolatrice assumendo le competenze che fino ad allora erano state ripartite tra cinque diversi organi: la Broadcasting Standards Commission, l’Independent Television Commission, l’Office of Telecommunications, la Radio Authority e la Radiocommunications Agency. 18 pubblicitario è assai preziosa per il sistema inglese, che vanta un efficientismo ed una sollecitudine nella risoluzione delle controversie assai rari. L’impegno assunto da inserzionisti, agenzie e media, affinché la pubblicità possa rispondere ai canoni di legalità, decenza, onestà e lealtà, è generalmente percepito come forma di veicolazione di grande rinomanza e sicuro prestigio. Invero nel sistema inglese l’adesione al sistema autoregolamentare è assai sentita dagli operatori pubblicitari, come vera e propria appartenenza. Beninteso, la condotta posta in essere dagli operatori pubblicitari rimane sempre una condotta sanzionabile sotto il profilo autodisciplinare e, pertanto, suscettibile di coercizione. I codici autodisciplinari inglesi sono redatti da appositi comitati di settore: il Committee of Advertising Practice e il Broadcast Committee of Advertising Practice. Più precisamente l’UK Code of Non-broadcast Advertising, Sales Promotion and Direct Marketing, (CAP code), è redatto e regolarmente aggiornato dal Committee of Advertising Practice, mentre l’UK Code of Broadcast Advertising (BCAP code) è redatto dal Broadcast Committee of Advertising Practice. L’attività dell’ASA non è limitata alla rilevazione degli illeciti pubblicitari e all’irrorazione delle rispettive sanzioni, svolgendo l’ASA anche una diffusa e capillare attività di consultazione preventiva. Si ricordano, a titolo meramente esemplificativo, le complesse procedure di assistenza, orientamento e formazione, aventi natura eminentemente precautelare. Per quanto concerne la pubblicità televisiva e radiofonica, l’ordinamento autodisciplinare inglese ha messo a punto un sistema di controllo preventivo contraddistinto dalla tempestività e snellezza delle procedure, oltreché da risultati encomiabili e assai pregevoli sul piano effettuale. All’uopo sono state istituite la Clearcast for television 19 commercials e la Radio Advertising Clearance Centre for radio ads, cui si rivolgono le emittenti televisive e radiofoniche al fine di ottenere un parere di conformità delle pubblicità al BCAP. Per quanto attiene alla pubblicità su stampa e più in genere, la Nonbroadcast Advertising, Sales Promotion and Direct Marketing, gli inserzionisti possono valersi di un sistema costantemente aggiornato presso la sezione Advice and Training» del CAP code. Non è invece stato istituito alcun apposito organismo per il controllo preventivo, giacché, stante la massiccia quantità degli annunci, sarebbe oggettivamente impossibile verificarne la conformità al Codice di ciascuno di essi. Secondo le stime dell’ASA il numero degli annunci si aggirerebbe intorno a cifre sconvolgenti, dell’ordine dei trenta milioni di pezzi al giorno per le pubblicità su stampa e ben cento milioni per il Direct Marketing. L’apparato sanzionatorio previsto dal CAP code e dal BCAP code è assai efficace. In seguito all’intervento cognitorio ed eventualmente sanzionatorio dell’ASA, le pubblicità condannate vengono sospese o modificate secondo i criteri indicati in decisione. Particolare interesse desta, a parere di chi scrive, la singolare circostanza che nella stragrande maggioranza dei casi gli inserzionisti si adegui spontaneamente ai parametri valutativi enunciati dall’ASA procedendo sollecitamente alla sospensione o modificazione della pubblicità incriminata prima dell’intervento di un formale provvedimento inibitorio o modificatorio. 2. Come lo stesso CAP code enuncia nella parte introduttiva, sono soggetti alla sua sfera di applicazione: a) advertisements in newspapers, magazines, brochures, leaflets, circulars, mailings, e-mails, text transmissions (including SMS and MMS), fax transmissions, catalogues, follow-up literature and other 20 electronic or printed material; b) posters and other promotional media in public places, including moving images; c) cinema, video, DVD and Blu-ray advertisements; d) advertisements in non-broadcast electronic media, including but not limited to: online advertisements in paid-for space (including banner or pop-up advertisements and online video advertisements); paid-for search listings; preferential listings on price comparison sites; viral advertisements (see III l); in-game advertisements; commercial classified advertisements; advergames that feature in display advertisements; advertisements transmitted by Bluetooth; advertisements distributed through web widgets and online sales promotions and prize promotions; e) marketing databases containing consumers’ personal information; f) sales promotions in non-broadcast media; g) advertorials (see III k); h) Advertisements and other marketing communications by or from companies, organisations or sole traders on their own websites, or in other non-paid-for space online under their control, that are directly connected with the supply or transfer of goods, services, opportunities and gifts, or which consist of direct solicitations of donations as part of their own fund-raising activities (13). (13) Esulano invece dal campo di applicazione del presente Codice: a) broadcast advertisements (The BCAP Code sets out the rules that govern broadcast advertisements on any television channel or radio station licensed by Ofcom); b) the contents of premium-rate services, which are the responsibility of PhonepayPlus; marketing communications that promote those services are subject to PhonepayPlus regulation and to the CAP Code; c) marketing communications in foreign media. Direct marketing communications that originate outside the United Kingdom and sales promotions and marketing communications on non-UK websites, if targeted at UK consumers, are 21 Il CAP code è un esempio paradigmatico di autoregolamentazione nella sua forma più pura. Il sistema autoregolamentare facente capo al CAP code trae la propria linfa vivificatrice dal senso di responsabilità sociale delle imprese operanti nel settore della pubblicità. L’interesse degli inserzionisti a subject to the jurisdiction of the relevant authority in the country from which they originate if that authority operates a suitable cross-border complaint system. If it does not, the Advertising Standards Authority (ASA) will take what action it can. Most members of the European Union, and many non-European countries, have a selfregulatory organisation that is a member of the European Advertising Standards Alliance (EASA). EASA co-ordinates the cross-border complaints system for its members (which include the ASA); d) claims, in marketing communications in media addressed only to medical, dental, veterinary or allied practitioners, that relate to those practitioners’ expertise; e) classified private advertisements, including those appearing online; f) statutory, public, police and other official notices or information, but not marketing communications, produced by public authorities and the like; g) works of art exhibited in public or private; h) private correspondence, including correspondence between organisations and their customers about existing relationships or past purchases; i) live oral communications, including telephone calls and announcements or direct approaches from street marketers ; j) press releases and other public relations material not covered by part I above; k) editorial content; for example, of the media or of books and regular competitions such as crosswords; l) flyposting (most of which is illegal); m) packages, wrappers, labels, tickets, timetables and price lists unless they advertise another product or a sales promotion or are visible in a marketing communication; n) point-of-sale displays, except those covered by the sales promotion rules or the rolling paper and filter rules; o) political advertisements as defined in Section 7; p) website content not covered by I d and I h, including (but not limited to) editorial content, news or public relations material, corporate reports and natural listings on a search engine or a price comparison site; q) sponsorship; marketing communications that refer to sponsorship are covered by the Code; r) customer charters and codes of practice; s) investor relations (see III m); t)‘heritage advertising’ by or from companies, organisations or sole traders on their own websites, or in other non-paid for space online under their control, where that advertising. 22 salvaguardare e garantire il corretto esplicarsi dell’attività pubblicitaria complessivamente considerata è essenzialmente riconducibile a ragioni di ordine etico-morale oltreché, naturalmente, di ordine economicofinanziario. Per quanto concerne il primo profilo occorre riflettere sulla ontologica ed irrinunciabile necessità di fiducia da parte dei consumatori nei confronti delle imprese pubblicitarie. Invero, la natura eminentemente mercantile del fenomeno pubblicitario, postula esistenza di un rapporto fiduciario tra gli effettivi o potenziali destinatari dell’advertising e gli inserzionisti. Pertanto la condotta professionale di questi ultimi deve ispirarsi alla massima irreprensibilità e rettitudine morale, di talché la pubblicità tout court non venga screditata da comportamenti che suscitino la riprovevolezza e il biasimo dei consumatori. Quanto al secondo profilo, quello più squisitamente pecuniario, deve osservarsi come per gli inserzionisti sia di gran lunga più conveniente assoggettarsi responsabilmente al sistema autodisciplinare, piuttosto che sostenere gli ingenti esborsi imposti dalle vie legali, senza tenere in considerazione le vicissitudini e farraginosità che queste comportano. Uno dei principi cardine di tutta l’autodisciplina anglosassone è la salvaguardia della concorrenza, tutte le imprese pubblicitarie devono «partecipare al gioco» in posizione di perfetta parità formale e sostanziale, a tal fine disponendo del medesimo strumentario normativo. Il CAP code ha essenzialmente una funzione preziosamente coadiutrice per gli inserzionisti, ancor prima che sanzionatoria, costituendo per essi una vera e propria «bussola» per orientarsi nelle mille insidie poste dal mercato. Un altro punto di forza del CAP code è senz’altro la sua sostanza duttile e malleabile, profondamente sensibile alle esigenze di un mercato 23 pubblicitario in continuo e rapido divenire. Le norme contenute nel CAP code non brillano soltanto di luce propria, molte costituendo estrinsecazione di principi imposti a livello legislativo. Al riguardo l’ASA afferma: «The advertising industry has chosen to exercise this self-restraint not only to make further legislation unnecessary, but also as a public demonstration of its commitment to high standards in advertising. Because the system works successfully, the UK Government has not needed to regulate directly. However, that doesn’t mean that the views of politicians – or civil society and the wider industry - on advertising regulation are unimportant, so we actively seek out their views on our work. Across the European Union (EU) there is a unified piece of consumer protection legislation to prevent the use of misleading or unfair trading practices. This law, called the Unfair Commercial Practices Directive, has been translated into UK law to make sure that we have the same rules as all the other countries in the EU. The ASA works within this legal framework to make sure that UK advertising is not misleading or unfair. The ASA is able to refer advertisers who persistently break the Advertising Codes and don’t work with us to other bodies for the further action, such as Trading Standards or Ofcom. The ASA is considered the ‘established means’ for gaining compliance with both these pieces of legislation. This means that the law itself is not usually enforced formally through the courts; instead the ASA is first allowed to tackle any problems under the Advertising Codes. This approach works well in the overwhelming majority of cases. The ASA is able to take action quickly and this avoids clogging up our court system.Referral is rarely necessary, as most advertisers prefer to work with the self-regulatory system». Pertanto, attraverso il ricorso all’autodisciplina pubblicitaria si attua 24 non soltanto un’importante deflazione del contenzioso giurisdizionale ma altresì la coercibilità di parametri comportamentali assai elevati e sensibilmente più rigorosi di quelli richiesti dalla legge. Da ciò discente un fondamentale corollario: il carattere assolutamente residuale e financo marginale dell’intervento del formante legislativo nella regolamentazione del settore pubblicitario. 3. Il BCAP code si applica «to all advertisements (including teleshopping, content on self-promotional television channels, television text and interactive television advertisements) and programme sponsorship credits on radio and television services licensed by Ofcom. It is designed to inform advertisers and broadcasters of the standards expected in the content and scheduling of broadcast advertisements and to protect consumers». La redazione del BCAP code è affidata ad un apposito comitato, il Broadcast Committee of Advertising Practice (BCAP). Nel novembre 2004, l’ASA ha assunto la responsabilità per il mantenimento di precisi standards per la pubblicità trasmessa a mezzo di emittenti televisive e radiofoniche nel Regno Unito. Il nuovo protocollo regolamentare ha determinato un significativo cambiamento in termini di semplificazione e razionalizzazione del sistema. L’opera che fino ad allora era stata svolta in modo frazionato e destrutturato da una molteplicità di differenti organismi è adesso coagulata in capo all’Ofcom. Da ciò discende che, per la prima volta, le campagne pubblicitarie televisive e radiofoniche siano assoggettabili al giudizio di una medesima Autorità. L’Ofcom deve rispettare il dovere assunto statutariamente di vigilare affinché la pubblicità trasmessa dalle emittenti sia conforme agli 25 standard stabiliti. Cionondimeno, il Communications Act del 2003, contenente principi per una migliore autoregolamentazione, impone alla Ofcom di perseguire forme di regolamentazione alternative al fine di implementare e ottimizzare il sistema normativo vigente. Nasce così, nel 2004, una fruttuosa quanto proficua collaborazione con l'ASA, collaborazione esplicantesi in una solidale e costante opera di coordinamento normativo e, in ultima analisi, di vera e propria co-regolamentazione. Volendo tratteggiare succintamente l’atteggiarsi dei rapporti tra l’ASA, la Ofcom e il BCAP: l’ASA è tenuta a vigilare affinché le pubblicità trasmesse a mezzo di televisione o radio siano conformi al BCAP code e, ove riscontri qualsivoglia violazione del codice, ad intervenire tempestivamente. Inoltre, ove lo ritenga strettamente necessario per la gravità e serietà della violazione, l’ASA può rivolgersi all’Ofcom affinché vengano promosse ulteriori azioni e adottati ulteriori e più efficaci provvedimenti sanzionatori. Infine, il Broadcast Committee of Advertising Practice (BCAP) è responsabile della scrittura e del costante aggiornamento del BCAP code, conservando l’Ofcom l’ultima parola su quelle modifiche al Codice che per il loro carattere strutturale ed eminentemente invasivo, importino modifiche emendamentali di non scarsa importanza all’impianto codicistico (14). (14) L’appendice al BCAP code descrive dettagliatamente le incombenze della Ofcom, enunciando: «1 The Communications Act 2003 requires Ofcom to set, and from time to time review and revise, codes containing such standards for the content of television and radio services licensed under the Broadcasting Acts 1990 and 1996 as seem to Ofcom to be best calculated to secure the standards objectives. Sections 319(1), 319(3). 2 Ofcom has contracted-out its advertising standards codes function to the Broadcast Committee of Advertising Practice Limited (BCAP) under the Contracting Out (Functions Relating to Broadcast Advertising) and Specification of Relevant Functions Order 2004. That function is to be exercised in consultation with, and with the agreement of, Ofcom. 26 3 These provisions imposed on Ofcom by the Communications Act are therefore relevant to BCAP: 3.1 The standards objectives, insofar as they relate to advertising, include: (a) that persons under the age of 18 are protected; (b) that material likely to encourage or incite the commission of crime or lead to disorder is not included in television and radio services; (e) that the proper degree of responsibility is exercised with respect to the content of programmes which are religious programmes; (f) that generally accepted standards are applied to the contents of television and radio services so as to provide adequate protection for members of the public from inclusion in such services of offensive and harmful material; (h) that the inclusion of advertising which may be misleading, harmful or offensive in television and radio services is prevented; (i) that the international obligations of the United Kingdom with respect to advertising included in television and radio services are complied with [in particular in respect of television those obligations set out in Articles 3b, 3e,10, 14, 15, 19, 20 and 22 of Directive 89/552/EEC (the Audi Visual Media Services Directive)]; (l) that there is no use of techniques which exploit the possibility of conveying a message to viewers or listeners, or of otherwise influencing their minds, without their being aware, or fully aware, of what has occurred” Section 319(2). 3.2 In setting or revising any such standards, Ofcom must have regard, in particular and to such extent as appears to them to be relevant to the securing of the standards objectives, to each of these matters: “(a) the degree of harm or offence likely to be caused by the inclusion of any particular sort of material in programmes generally, or in programmes of a particular description; (b) the likely size and composition of a potential audience for programmes included in television and radio services generally, or in television and radio services of a particular description; (c) the likely expectation of the audience as to the nature of a programme’s content and the extent to which the nature of the programme’s content can be brought to the attention of potential members of the audience; (d) the likelihood of persons who are unaware of the nature of the programme’s content being unintentionally exposed, by their own actions, to that content; (e) the desirability of securing that the content of services identifies when there is a change affecting the nature of a service that is being watched or listened to and, in particular, a change that is relevant to the application of the standards set under this section...”. Section 319(4). 3.3 Ofcom must ensure that the standards from time to time in force under this section include: “(a) minimum standards applicable to all programmes included in television and radio services; and (b) such other standards applicable to particular descriptions of programmes, or of television and radio services, as appeared to them appropriate for securing the standards objectives.” Section 319(5). 3.4 Standards set to secure the standards objectives [specified in para 3(e) 27 above] shall in particular contain provision designed to secure that religious programmes do not involve: “(a) any improper exploitation of any susceptibilities of the audience for such a programme; or (b) any abusive treatment of the religious views and beliefs of those belonging to a particular religion or religious denomination.” Section 319(6). 3.5 Standards set by Ofcom to secure the objectives [mentioned in 3(a), (h) and (i) above]: “(a) must include general provision governing standards and practice in advertising and in the sponsoring of programmes; and (b) may include provision prohibiting advertisements and forms of methods of advertising or sponsorship (whether generally or in particular circumstances).” Section 321(1). [NB: “Programme” includes an advertisement Section 405(1)] 4 In addition the Broadcasting Act 1996 section 24(2) contains provisions permitting advertising on analogue ancillary services on channels 3, 4 and 5 only if directly related to advertising on the main service and digital ancillary services may carry no advertising of any kind. 5 BCAP works closely with the Committee of Advertising Practice to provide, insofar as is practicable and desirable, a co-ordinated and consistent approach to standards setting across broadcast and non-broadcast media. 6 The procedures for revision of the BCAP Codes, including consultation, are, to the extent applicable to BCAP’s exercise of statutory functions, set out at section 324 of the Communications Act 2003. 7 Ofcom retains standards-setting functions for: (a) political advertising, the inclusion of which in television or radio services is prohibited by section 321(2) Communication Act, including decisions on whether an advertisement is “political advertising”. But the rules on that remain in the BCAP Codes; (b) unsuitable programme sponsorship; (c) discrimination between advertisers who seek to have advertisements included in television and radio services. NB: Subject to that broadcasters, like publishers and other media, are entitled to refuse advertisements they do not want to carry; (d) the amount and scheduling of advertising, save for the scheduling of individual spot advertisements. Investigation and complaints 8 The Communications Act requires Ofcom to establish procedures for the handling and resolution of complaints about the observance of standards (as set out in the BCAP Advertising Code) and to include conditions in licences for programme services requiring licence holders to comply with Ofcom’s directions in relation to advertising standards. Sections 325(2), (4) and (5). 9 The Medicines (Monitoring of Advertising) Regulations 1994 require Ofcom to consider complaints that an advertisement included, or proposed to be included, in a licensed service or S4C is an impermissible advertisement for a medicinal product, unless the complaint seems to Ofcom to be frivolous or vexatious. 10 Ofcom has contracted-out its powers of handling and resolving complaints about breaches of the BCAP Codes and the relevant provisions of The Medicines (Monitoring of Advertising) Regulations to the Advertising Standards Authority 28 (Broadcast) Limited (ASA(B)) under The Contracting Out (Functions Relating to Broadcast Advertising) and Specification of Relevant Functions Order 2004. 11 ASA(B) will work closely with and under the umbrella of the Advertising Standards Authority to provide, insofar as is practicable and desriable, a co-ordinated and consistent approach to advertising standards regulation across broadcast and nonbroadcast media. 12 Ofcom retains complaint investigation functions in respect of: (a) political advertising; (b) unsuitable sponsorship; (c) discrimination between advertisers and (d) scheduling of advertisements. Statutory sanctions for breaches of advertising standards 13 Ofcom has similarly contracted-out its enforcement powers under the Communications Act, such that ASA(B) has these powers (including in relation to the Welsh Authority) for the purpose of securing compliance with the BCAP Codes, and with any additional requirements in licences for programme services in relation to advertising: (a) to require a licence holder to exclude from its programme service an advertisement or to exclude it in certain circumstances (Section 325(5)(a)); (b) to require a licence holder to exclude from its service certain descriptions of advertisements and methods of advertising (whether generally or in certain circumstances) (Section 325(5)(b)). In respect of the additional licence requirements, such power may be exercised by ASAB only for impermissible medical advertisements; NB: Detailed reasons must be given for any of those actions in relation to a medicinal product advertisement and reference must be made to any remedy available in court and any time limit that must be met. (MMAR 1994 Regulation 9); (c) to require, from any person who to ASA(B) seems to be responsible for an advertisement, provision of evidence relating to the factual accuracy of any claim and to deem a factual claim inaccurate if such evidence is not so provided (Broadcasting Act 1990 s.4(1)(c) and 87(1)(d) and Broadcasting Act 1996 s.4(1)(c) and 43(1)(d)). 15 Ofcom retains these powers conferred by the Broadcasting Acts 1990 and 1996 and the Communications Act 2003: (a) to direct the broadcast of a correction or statement of findings (b) to impose a financial penalty or shorten a licence period and (c) to revoke a licence. Overseas advertising 16 Licensees should seek BCAP’s advice if they want to have any rules in the Code disapplied because the advertising is on a programme service addressed exclusively to audiences outside the UK. 17 An advertisement that is aimed specifically and with some frequency at audiences in the territory of a single party to the 1989 Council of Europe Convention on Transfrontier Television must, with some exceptions, comply with the television advertising rules of that party. This does not apply: (a) if the party is a Member State of the European Community or (b) if its television advertising rules discriminate between advertising broadcast on television services within its jurisdiction and that on services outside its jurisdiction 29 4. L’effettività del sistema sanzionatorio è senza alcun dubbio uno dei principali punti di forza del sistema di autodisciplina pubblicitaria britannico. Affinché sia garantita la concretezza e la tempestività della risposta sanzionatoria, il sistema autodisciplinare d’oltremanica ha architettato un modulo organizzativo fondato sull’efficientismo e la trasparenza, attuando un preciso riparto delle competenze tra gli organismi coinvolti. Per quanto riguarda le pubblicità trasmesse dalle emittenti televisive o radiofoniche, ricade sulle stesse emittenti la responsabilità di intervenire attivamente affinché le sanzioni irrorate siano ossequiosamente rispettate, interrompendo, modificando o provvedendo alla riprogrammazione della pubblicità condannata. L’obbligo per le emittenti di far rispettare le sentenze dell’ASA deriva direttamente dai contratti di licenza per la trasmissione di pubblicità televisive o radiofoniche sottoscritti dalle emittenti televisive o radiofoniche con gli inserzionisti. Ove le pubblicità incriminate non siano sollecitamente modificate o cessate, l’ASA potrà segnalare all’Ofcom le emittenti inadempienti, affinché questa proceda all’irrorazione di sanzioni pecuniarie o, nei casi più gravi, a sospensione o ritiro della licenza. Quando una pubblicità è colpita da sanzione inibitoria il danno che ne consegue per l’inserzionista è immenso, sia sotto il profilo del danno emergente, ossia dell’investimento pecuniario sostenuto per realizzare la campagna, che del lucro cessante, ovvero delle prospettive di guadagno correlate alla trasmissione della pubblicità censurata. La stragrande maggioranza delle sanzioni previste per le pubblicità or (c) if the UK Government has concluded a relevant bilateral or multilateral agreement with the party concerned». 30 non broadcast sono coordinate tramite il CAP, i cui membri sono le associazioni di categoria che rappresentano gli inserzionisti, agenzie e media. Lo strumentario sanzionatorio predisposto dal CAP è assai variegato, al fine di consentire all’ASA la scelta della misura più rispondente alle esigenze del caso, secondo precisi criteri di adeguatezza, proporzionalità ed opportunità della risposta sanzionatoria. Il CAP, dal suo canto può dispensare consigli e suggerire linee giuda ai suoi membri, vigilando oculatamente sull’accesso agli spazi pubblicitari nonché sulle concrete modalità di gestione degli stessi. Una delle più consuete sanzioni previste dal CAP code è la revoca perpetua o temporanea dei c.d. «trading privileges», ovvero il ritiro o la mera sospensione dei privilegi commerciali. Nei casi di recidiva, o, in ogni caso, in quelli più gravi, può essere intimato all’inserzionista di sottoporre la propria attività pubblicitaria a periodici controlli preventivi per la durata massima di due anni. Ove l’inserzionista si sia rifiutato di ottemperare agli obblighi imposti dall’ASA in materia di pubblicità ingannevole o sleale, questi verrà segnalato all’Office of Fair Trading affinché venga istruito apposito procedimento giudiziario, in ossequio a quanto previsto dal Consumer Protection from Unfair Trading Regulations 2008 e dal Business Protection from Misleading Marketing Regulations 2008. Preme osservare che si tratta di ipotesi meramente scolastiche, verificatesi assai di raro nella prassi giurisprudenziale, giacché gli inserzionisti preferiscono di gran lunga risolvere il contenzioso in ambito autodisciplinare, paventando un dirottamento in sede giurisdizionale. Infine, verrà senz’altro irrorata la consueta sanzione inibitoria nei confronti di inserzionisti e agenzie la cui condotta si sia estrinsecata in modo irriverente ed irrispettoso nei confronti del Codice, con la 31 conseguente violazione delle norme in esso contenute. Quanto alla pubblicità online, il CAP prevede ulteriori e specifiche sanzioni. Il CAP può chiedere ai siti web di rimuovere un annuncio che reindirizzi ad ulteriori pagine web ospitanti le pubblicità non conformi al Codice. Ove l’inserzionista online non si adoperi spontaneamente per rimediare agli effetti pregiudizievoli dispiegati frattanto dalla pubblicità incriminata, sospendendola o modificandola, l’ASA disporrà l’ulteriore sanzione della pubblicazione della emanata decisione nell’apposita sezione del sito ufficiale ASA e, se necessario, anche su altri siti internet. Quanto, infine ai video-on-demand, il mancato rispetto delle norme in Appendice VOD può comportare che la questione sia sottoposta alla cognizione della Ofcom, al fine di verificare se il fornitore di servizi ha violato le relative disposizioni di legge in materia. 32 SEZIONE III L’AUTODISCIPLINA PUBBLICITARIA IN ITALIA SOMMARIO: 1. Premessa. — 2. Le finalità dell’Autodisciplina pubblicitaria: dal Codice di Lealtà Pubblicitaria al nuovo Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale. — 3. Modalità di adesione all’Autodisciplina pubblicitaria: l’adesione per via associativa e l’adesione per sottoscrizione della clausola di accettazione. — 4. Qualificazione giuridica della clausola di accettazione: lo schema del contratto a favore di terzo. — 4.1 Il contratto pubblicitario stipulato per condizioni generali. — 4.2 La clausola di accettazione come clausola d’uso o uso normativo. — 5. Ipotesi interpretative sulla natura giuridica dell’Autodisciplina pubblicitaria. 1. «Some consumerists and international lawyers have been critical of Italian self regulation in that they do not think that consumers’ interests are adeguately represented on the committee, nor that the voluntary control has enought strenght in its penalties ( 15 )». “ne représente pas de manière équitable et adéguate les intérêts du consommateur. […] L’imperfection de ce système s’explique en grande partie par la relation qui existe entre la Confédération générale italienne de la publicitè et les milieux industriels (16)»; «it is very easy to endeed to point aut the existing ties between the Italian General Confederation for Advertising and the economic and editorial power (17)». Si tratta soltanto di un esempio delle poco lusinghiere asserzioni che indorano il prestigio delle Istituzioni autodisciplinari italiane. Come rettamente osserva un’autorevole dottrina «sembra intollerabile che sul piano internazionale (15) BURLETON, Self Regulation of Advertising in Europe, in Atti del Convegno Forum Internazionale sell’Autodisciplina Pubblicitaria, Venezia, 23-24 ottobre 1981. (16) REICH, MICKLITZ, Le Droit de la Consommation dans les Pays Membres de la CEE, Bath 1981. Le espressioni sopra riportate sono quantomeno sconvenienti e suggestionanti, dal momento che affermano, in modo assolutamente pretestuoso, l’esistenza di una patologica collusione tra gli organi autoregolamentari italiani e i grandi mezzi di diffusione, di talché sarebbe inibito a quegli stessi organi di esplicare le proprie funzioni istituzionali in piena autonomia ed indipendenza. (17) GHIDINI, Consumer Legislation in Italy, Southampton, 1980. 33 venga ad accreditarsi un’immagine dell’autodisciplina italiana che è falsa, tendenziosa, e assolutamente non rispondente alla realtà; che negli studi comparativi la nostra formula autodisciplinare debba portarsi dietro un ingiusto marchio di inefficienza e disonestà che la penalizza gravemente nel confronto con altri (certamente non più validi) sistemi di self regulation; e che delle mere insinuazioni, tanto più riprovevoli in quanto prive di qualsiasi base concreta e formulate solo o per disinformazione o, peggio ancora, per il gusto tutto italiano di demolire anche le istituzioni più degne, possano non solo trovar credito ma divenire d’obbligo ogni volta che si parli dell’autodisciplina nel nostro paese» ( 18 ). Ed invero l’autodisciplina italiana si è sempre contraddistinta per un invidiabile efficientismo organizzativo, per la tempestività delle decisioni, nonché per l’autorevolezza delle proprie istituzioni, dando un mirabile esempio di serietà ed autorevolezza. 2. Il processo codificatorio di norme autodisciplinari in materia pubblicitaria si atteggia quale fenomeno di natura squisitamente privatistica. Il suddetto fenomeno principiò a delinearsi in Italia in epoca relativamente risalente, conducendo, nel 1966, alla emanazione Codice della Lealtà Pubblicitaria ad opera dell’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria al fine di supplire alla mancanza di una disciplina statuale del fenomeno pubblicitario (19). (18) FUSI, TESTA, L’Autodisciplina pubblicitaria in Italia, Milano, 1983. (19) FUSI, TESTA, Diritto e pubblicità, Milano, 1996; MELI, La repressione della pubblicità ingannevole, Torino, 1994; FUSI, TESTA, COTTAFAVI, La pubblicità ingannevole, Milano, 1993. È opinione ormai consolidata presso dottrina e giurisprudenza maggioritarie, quella secondo cui l’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria abbia natura di ente morale, privo di scopo di lucro, e pertanto sussumibile nel novero delle associazioni non riconosciute, regolate dall’art. 12 c.c. Lo IAP si propone di agire «affinché la pubblicità sia onesta, veritiera e corretta e venga realizzata come servizio per l’informazione dei consumatori», il che tradisce l’impronta 34 Le finalità perseguite dall’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria sono riconducibili, primariamente, alla salvaguardia dell’interesse del fruitore del messaggio pubblicitario a non subire forme di sviamento nelle proprie scelte di consumo o di pregiudizio nella proprie convinzioni morali o ideali; secondariamente, alla tutela dell’interesse dell’imprenditore, di natura squisitamente concorrenziale, a non essere oltraggiato dalla slealtà e scorrettezza delle pratiche pubblicitarie altrui. Con riferimento alla summentovata protezione del consumatore vengono in rilievo, con particolare riferimento al tema che ci occupa, gli artt. 8, 9 e 10 del Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale. L’art. 8 dispone che «la comunicazione commerciale deve evitare ogni forma di sfruttamento della superstizione, della credulità e, salvo ragioni giustificate, della paura». Gli artt. 9 e 10 recitano rispettivamente: «la comunicazione commerciale non deve contenere affermazioni o eminentemente deontologica che ha caratterizzato i primi anni di vita dell’Istituto, sia del Codice di Autodisciplina. Ne fanno parte organismi rappresentativi delle differenti categorie di operatori pubblicitari tra cui si annoverano le più importanti e qualificate Associazioni del mondo pubblicitario ovvero, le imprese e gli enti che investono in pubblicità, le organizzazioni professionali e i professionisti, i mezzi di diffusione della pubblicità e le loro concessionarie. Va immediatamente chiarito come «lo IAP sia il punto di arrivo, e non di partenza, dell’esperienza corporativa nel settore della pubblicità. Si ricordano l’Associazione dei Mezzi e delle Agenzie e l’Associazione dei Tecnici e degli Artisti Pubblicitari (ATAP), costituite tra il settembre e l’ottobre del 1945; l’anno successivo nasce l’Unione Italiana Pubblicità, destinata a mutarsi in FIP (Federazione Italiana della Pubblicità). Dall’opera di un gruppo di utenti prende vita, nello stesso periodo, un organismo parallelo, capace, nelle intenzioni dei promotori, di sostenere in ogni sede e a ogni livello gli interessi, non soltanto tecnici e operativi, ma soprattutto economici, dell’utenza pubblicitaria. Si tratta della nascitura UPA, Utenti Pubblicità e Associati, più tardi coinvolta nell’esperienza dell’Istituto di Autodisciplina. Sia l’UPA che la FIP si muniscono di propri Codici di Autodisciplina, rispettivamente nel 1951 e 1952; si tratta però di esperienze dal contenuto essenzialmente deontologico, etico e quindi paragiuridico, prive di un apparto sanzionatorio, e tese più che altro a racchiudere in sé le pratiche e gli usi più diffusi nel settore». Così CORASANTIVASSELLI, Diritto della comunicazione Pubblicitaria, in Diritto Europeo dei Media, Torino, 1999, pag. 116. 35 rappresentazioni di violenza fisica o morale o tali che, secondo il gusto e la sensibilità dei consumatori, debbano ritenersi indecenti, volgari o ripugnanti» e «la comunicazione commerciale non deve offendere le convinzioni morali, civili e religiose. Essa deve rispettare la dignità della persona in tutte le sue forme ed espressioni e deve evitare ogni forma di discriminazione». Da quanto esposto emerge con evidenza lapalissiana la finalità protettiva dell’autodisciplina rispetto al fisiologico estrinsecarsi degli atteggiamenti di consumo, oltreché al genuino formarsi di quel libero convincimento che tali atteggiamenti precede. Ciò vale tanto più ove si consideri che il consumatore, sino all’intervento del d.lgs. 25 gennaio 1992 n. 74, non disponeva di alcuno strumento processuale azionabile contro il messaggio pubblicitario scorretto ( 20 ), essendo la disciplina dettata dall’art. 2598 ss c.c. soggettivamente delimitata ai casi di sussistenza di un rapporto concorrenziale tra imprenditori ( 21 ). Una (20) Il danno da pubblicità subito dal consumatore rimaneva del tutto irrilevante non esistendo alcuno strumento processuale utilmente esperibile, non l’azione di annullamento o quella di esatto adempimento, non quella risarcitoria dei danni contrattuali o extracontrattuali, e ciò essenzialmente per due fondamentali ragioni: in primo luogo perché stante la diversità tra venditore del prodotto pubblicizzato e autore del messaggio pubblicitario non si riteneva invocabile una tutela contro il primo per atti posti in essere dal secondo e, inoltre, perché l’attività pubblicitaria tutta era unanimamente considerata come un insieme di mere invitationes ad offerendum prive di rilevanza giuridica. Con le parole di Ghidini: «si deve ritenere inammissibile che un legislatore di benché minime preoccupazioni etiche possa accordare protezione ad interessi economici direttamente con l’avallare il sacrificio programmatico della buona fede del pubblico», GHIDINI, La réclame menzognera come atto di concorrenza sleale, in Riv. dir. civ., 1967, I, pag. 406 ss. ( 21 ) BUONOCUORE, Contrattazione d’impresa e nuove categorie contrattuali, Milano, 2000, pag. 101, il quale precisa che il d.lgs. 74/92 considera il consumatore quale «destinatario diretto di una tutela contro gli abusi di cui egli può essere oggetto anche al di fuori della fase della contrattazione e in funzione propedeutica rispetto a questa ovvero anche dopo la conclusione del contratto per essere indennizzato a causa dei danni subiti a causa di questo». Nello stesso senso anche SACCO, DE NOVA, Il contratto, in Tratt. dir. civ, diretto da Sacco, Torino, 1993, pag. 430, che afferma l’idoneità del mendacio pubblicitario di cui al d.lgs. 74/92 a pregiudicare interessi giuridicamente tutelati del consumatore, assurgendo a dignità di regola generale: «la 36 siffatta situazione era il frutto di un retaggio culturale assai radicato. In molteplici occasioni la giurisprudenza e la dottrina, affrontando l’annoso problema del danno pubblicitario arrecato al concorrente così come al consumatore, hanno affermato «che il messaggio pubblicitario, in difetto di lesione della reputazione del concorrente (oggetto sin da epoca anteriore all’emanazione dell’attuale codice civile di una assai intensa tutela), […] non può essere veicolo di lesioni rilevanti ai diritti altrui, in quanto mera vanteria commerciale, o iperbole per sua natura non in grado di influenzare alcuno, proveniente da soggetti, come i commercianti, notoriamente inclini all’inganno, delle affermazioni dei quali, di conseguenza, chiunque giustamente diffida. […] Una simile ricostruzione era già anacronistica al momento stesso della sua massima fortuna: in realtà, essa esprimeva, dissimulandola in vario modo, la scelta di imputare i costi della pubblicità ingannevole alle sue vittime» (22). Queste posizioni, così chiaramente insufficienti ad assicurare una soddisfacente protezione dei consumatori dal danno da pubblicità, vennero superate grazie al progressivo affermarsi di un filone giurisprudenziale incline a riconoscere che «la decezione pubblicitaria può essere fonte di danno di per sé, in quanto causa effettiva di illegittimo sviamento della clientela, a prescindere da qualsiasi lesione della reputazione di uno o più concorrenti» (23). pubblicità mendace è l’esempio paradigmatico del mendacio. Dalla pubblicità mendace si risale al mendacio in genere, per constatare che il mendacio è raggiro»; FLORIDA, Il controllo della pubblicità comparativa in Italia, in Il Diritto Industriale, 1998, 2, pag. 165 ss; GAMBINO, La tutela del consumatore nel diritto della concorrenza: evoluzioni ed involuzioni legislative, anche alla luce del d.lgs. 25 gennaio del 1992 in materia di pubblicità ingannevole, in Contr. e impr., 1992, I, pag. 411 ss; ROSSI, La pubblicità dannosa, Milano, 2000, pag. 156 ss; (22) ROSSI, La pubblicità dannosa, cit., pag. 12 ss. (23) ROSSI, La pubblicità dannosa, cit., pag. 14. Secondo l’Autore l’evoluzione giurisprudenziale di cui sopra reca con sé i segni della parzialità, e ciò perché l’ormai obsoleta categoria concettuale del dolus bonus continua ad essere invocata da certa 37 Superato il vischioso immobilismo dell’ordinamento nazionale grazie all’intervento esogeno del formante comunitario, la legislazione statuale, pervasa da nuova linfa, offre oggi al consumatore un’immediata ed effettiva tutela verso tutti quei messaggi pubblicitari che contravvengono ai canoni di onestà, veridicità e correttezza, attraverso il riconoscimento e la promozione del ruolo dell’autodisciplina e la repressione del mendacio pubblicitario. Sin dai suoi primi anni di vita l’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria ha dedicato particolare attenzione alla necessità di costante aggiornamento del Codice di Autodisciplina, curandone la riedizione con interventi contrassegnati da rigorosa periodicità. Con quest’incessante opera di modernizzazione l’Istituto di Autodisciplina ha voluto scongiurare il pericolo che il concreto operare dell’autoregolamentazione potesse ingabbiarsi in un irreversibile immobilismo autoreferenziale. Tra le opere di riedizione più significative si annovera quella del 21 gennaio 2008, data in cui è entrato in vigore il nuovo Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale che sostituisce il Codice di Autodisciplina Pubblicitaria, la cui prima pubblicazione risaliva al 12 maggio 1966. Il nuovo Codice, approvato dal Consiglio Direttivo dell’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria, amplia sensibilmente il campo di azione del sistema autodisciplinare recependo gli interventi del legislatore comunitario in materia di pratiche commerciali sleali e della stessa giurisprudenza del Giurì, al fine di fornire un’adeguata tutela giuridica riguardo alla marketing communication in senso ampio, talché non solo la giurisprudenza in presenza di pubblicità contrassegnate da mere magnificazioni e superlazioni del prodotto, nell’erroneo presupposto che persista una presunzione legale di inidoneità di siffatti messaggi ad ingannare, come fossero ontologicamente protetti da un velo di «non ingannevolezza». 38 pubblicità in senso stretto, ma anche le altre forme di comunicazione commerciale possano essere sottoposte alla giurisdizione del Giurì. Un posto di indiscusso rilievo occupa, nello screziato panorama della legislazione comunitaria in materia di pratiche commerciali sleali, la Direttiva 2005/29/CE, cui il nostro ordinamento ha dato attuazione con il d.lgs. n. 146/2007. Tra le novità di maggior richiamo introdotte dalla direttiva de qua merita di essere rammentata quella relativa all’adozione di codici di condotta da parte delle associazioni ed organizzazioni imprenditoriali e professionali, in relazione ad una o più pratiche commerciali e ad uno o più settori imprenditoriali (24). Le modifiche apportate nella riformulazione del Codice di Autodisciplina sono indicative Autodisciplina Pubblicitaria ad della tendenza ampliare dell’Istituto notevolmente la di sfera d’influenza dell’autoregolamentazione. Il più vistoso suggello di tale tendenza è senz’altro costituito dalla sostituzione della dizione «Codice di Autodisciplina Pubblicitaria» con quella di «Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale». Tale riformulazione, lungi dall’atteggiarsi quale orpello di carattere meramente terminologico, raccoglie in sé i risultati più preziosi delle interpretazioni sostanziali della (24) Dispone a proposito l’art. 10 della Dir. 2005/29/CE, relativa alle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori nel mercato interno e che modifica la direttiva 84/450/CEE e le direttive 97/7/CE, 98/27/CE e 2002/65/CE, e il regolamento n. 2006/2004, «La presente direttiva non esclude il controllo, che gli Stati membri possono incoraggiare, delle pratiche commerciali sleali esercitato dai responsabili dei codici né esclude che le persone o le organizzazioni di cui all’articolo 11 possano ricorrere a tali organismi qualora sia previsto un procedimento dinanzi ad essi, oltre a quelli giudiziari o amministrativi di cui al medesimo articolo. Il ricorso a tali organismi di controllo non è mai considerato equivalente alla rinuncia agli strumenti di ricorso giudiziario o amministrativo di cui all’articolo 11». Una simile previsione era già contenuta nell’art. 5 della Direttiva 84/450/CEE relativa al ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli Stati Membri in materia di pubblicità ingannevole. Per una più accurata lettura si rinvia al testo integrale della direttiva in parola, nonché dei dd.lgs. n. l45/2007 e n. 146/2007. 39 giurisprudenza del Giurì, che ha sempre inteso privilegiare un’esegesi non formalistica e pragmaticamente orientata del termine «pubblicità» imposta da esigenze di tutela effettiva. Molteplici ed interessanti sono le implicazioni di questo pregevole «rifacimento» a seguito della quale non potrà più essere pretestuosamente disconosciuta la legittimità di intervento del Giurì in materia di promozioni commerciali, di direct marketing, di comunicazioni commerciali diffuse attraverso i new media, oltreché negli eventi e nelle relazioni pubbliche in cui si promuova a qualunque titolo la vendita di beni o servizi (25). (25) Le modificazioni apportate al Codice di Autodisciplina dal recepimento della legislazione comunitaria sono copiose. Sopra tutte, desta particolare interesse la nuova ricognizione definitoria della locuzione «comunicazione commerciale», (Norme Preliminari e Generali, lettera d), intesa come comprensiva di «pubblicità e ogni altra forma di comunicazione, anche istituzionale, diretta a promuovere la vendita di beni o servizi quali che siano le modalità utilizzate, nonché [del]le forme di comunicazione disciplinate dal titolo VI». Dall’anzidetto novero rimangono escluse, per espressa disposizione, le politiche commerciali e le tecniche di marketing. Di notevole portata innovativa è, altresì, l’espressa specificazione secondo cui la natura del prodotto o del servizio, in sé considerata, non forma oggetto del codice. La novità di maggior rilievo è certamente costituita dalla rimodulazione del canone dell’avvedutezza del consumatore, così come descritto nell’art. 2 del Codice di Autodisciplina: l’ormai obsoleto parametro del «consumatore più sprovveduto», che per svariati lustri aveva costituito l’indiscusso criterio di misura dell’ingannevolezza», è stato rimpiazzato da quello del «consumatore medio appartenente ad un determinato gruppo di riferimento». Non può certo dubitarsi del fatto che, a seconda del tipo di prodotto o servizio, le tipologie soggettive di consumatori mutino sensibilmente, mutando con esse le capacità di discernimento e avvedutezza. Si pensi, a titolo meramente esemplificativo, ai consumatori di prodotti altamente tecnologici, costoro dispongono indubbiamente di una più mitigata capacità di suggestione rispetto ad altre utenze, per l’evidente considerazione che appartengono ad un gruppo culturalmente preparato e sofisticato, attrezzato per cogliere le diverse sfumature del messaggio pubblicitario. Specularmente, pare ragionevole che il consumatore medio, nella misura in cui non disponga di quel complesso strumentario conoscitivo che renda più agevole e immediata l’individuazione delle peculiari caratteristiche del prodotto che si accinge ad acquistare, abbisogni di una più penetrante protezione. Da quanto brevemente esposto si coglie il carattere epocale della svolta che ha interessato l’Autodisciplina con particolare riguardo alla tutela del consumatore, i cui interessi sono ora protetti indipendentemente dalle peculiari modalità di estrinsecazione della comunicazione commerciale. 40 Parimenti rilevante è la previsione contenuta all’art. 27 bis del Codice del Consumo, così come modificato dal d.lgs. n. 146/2007, secondo cui i consumatori ed i concorrenti, anche per il tramite delle loro associazioni o organizzazioni, prima di avviare la procedura davanti all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, possono convenire con il professionista di adire preventivamente un organismo di autodisciplina affinché venga vietata o inibita la prosecuzione della pratica commerciale scorretta. 3. L’affermazione secondo la quale il Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale abbia un’efficacia soggettiva limitata, seppure ineccepibile da un punto di vista formale e definitorio, pare oggi obsoleta oltreché gravemente irrispettosa della realtà pubblicitaria (26). Si procederà di seguito all’illustrazione delle più diffuse forme di adesione al Codice di Autodisciplina, al fine di dar conto dell’insinuarsi dell’autodisciplina nelle pieghe più nascoste del mondo pubblicitario. Una prima categoria sotto la quale possono essere sussunte le modalità adesive al Codice di Autodisciplina è fortemente contrassegnata dal fenomeno associativo ( 27 ). L’adesione per via ( 26 ) Illuminanti in tal senso sono le disposizioni contenute nelle Norme Preliminari e Generali al Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale, alle lettere b) e d), le quali stabiliscono rispettivamente che «il Codice […] è vincolante per utenti, agenzie, consulenti di pubblicità e di marketing, gestori di veicoli pubblicitari di ogni tipo e per tutti coloro che lo abbiano accettato direttamente o tramite la propria associazione, ovvero mediante la sottoscrizione di un contratto di cui al punto d), finalizzato all'effettuazione di una comunicazione commerciale» e che «per meglio assicurare l'osservanza delle decisioni dell'organo giudicante, gli organismi aderenti si impegnano a far sì che ciascun soggetto ad essi associato inserisca nei propri contratti una speciale clausola di accettazione del Codice, dei Regolamenti autodisciplinari e delle decisioni assunte dal Giurì, anche in ordine alla loro pubblicazione, nonché delle ingiunzioni del Comitato di Controllo divenute definitive». (27) PEDRIALI, Profili soggettivi dell’Autodisciplina Pubblicitaria, in Riv. dir. ind., 1992, I, pag. 6 ss; DI CATALDO, Natura giuridica dell’Autodisciplina Pubblicitaria e 41 associativa riguarda, primariamente, tutti quegli organismi costituenti l’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria o ad esso associati: per essi la soggezione al sistema autodisciplinare deriva dall’obbligo di osservare le delibere associative e lo statuto che espressamente adotti il Codice di Autodisciplina per la regolamentazione dell’attività pubblicitaria (28). Nei casi in oggetto l’adesione al Codice di Autodisciplina è pressoché immediata, atteggiandosi come naturale corollario del fisiologico svolgersi dei meccanismi associativi. Vi sono altri organismi per i quali l’adesione al Codice di Autodisciplina dipende dall’appartenenza ad una delle associazioni di categoria costituenti l’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria, secondo lo schema delle associazioni secondarie o complesse (29). Per costoro il processo adesivo può avvenire o mediante una previsione statutaria che imponga espressamente l’osservanza del Codice di Autodisciplina, o, assai più comunemente, attraverso la previsione statutaria che prescriva l’obbligatorietà di tutte le delibere e convenzioni adottate dall’associazione nel perseguimento dei propri fini istituzionali, o, ancora, grazie a singole delibere assembleari che, nella misura in cui non siano inficiate da invalidità, vincolino tutti gli associati. Particolare interesse desta il problema della presunta vessatorietà della clausola statutaria recante il rinvio al Codice di Autodisciplina. Ove si assuma che la stessa presenti profili di vessatorietà, in quanto qualificabile come clausola compromissoria, ci si potrà legittimamente interrogare se sia sufficiente la mera approvazione dello statuto delimitazione dell’ambito soggettivo di applicazione del Codice di Autodisciplina, in Contr. e impr., 1991, pag. 11 ss; DA MOLO, I contratti di pubblicità, in Nuova giur. civ. comm., 1990, II, pag. 291 ss. ( 28 ) GRAZZINI, Le modalità di Adesione, in Commentario al Codice dell’Autodisciplina Pubblicitaria, a cura di Ruffolo, Milano, 2003, pag. 8 ss. (29) PETTITI, Associazioni primarie, secondarie e parallele, in Studi in onore di Greco, Padova, 1965, pag. 821 ss. 42 associativo nel suo complesso o occorra, piuttosto, la specifica sottoscrizione della clausola secondo le regole generali dettate in materia dagli artt. 1341, comma 2, c.c. ( 30 ). Occorre all’uopo dare atto di un orientamento pressoché costante della giurisprudenza di legittimità a tenore del quale le clausole vessatorie che abbisognano di espressa approvazione per iscritto siano soltanto quelle contenute in contratti seriali o di massa e non parrebbe pertanto necessaria l’adozione delle formalità prescritte dall’art. 1341, comma 2, c.c. per la sottoscrizione dei contratti associativi (31). Al di fuori di questa complessa rete di relazioni associative, la soggezione al codice di Autodisciplina si esplica mediante la c.d. «clausola di accettazione» che i soggetti aderenti sono obbligati ad (30) In particolare, occorre la sottoscrizione di ogni singola clausola vessatoria oppure un’apposita dichiarazione che le richiami, riportando di ciascuna il numero d’ordine e il contenuto. La mancata approvazione per iscritto di tali clausole comporta la nullità delle stesse. (31) Ex multis cfr. Cass., 14 agosto 1997, n. 7626, in Giust. Civ. mass., 1997, pag. 1430, secondo cui «possono qualificarsi come contratti per adesionem (riguardo ai quali sussiste l’esigenza della specifica approvazione scritta delle cosiddette clausole vessatorie, pena la invalidità degli stessi) soltanto quelle strutture negoziali destinate a regolare una serie indefinita di rapporti, mentre non possono ritenersi tali, i contratti predisposti da uno dei due contraenti con riferimento ad una singola, specifica vicenda negoziale, ed a cui l’altro contraente possa, del tutto legittimamente, richiedere ed approvare le necessarie modifiche dopo averne liberamente apprezzato il contenuto». Nello stesso senso anche Cass., 6 dicembre 1999, n. 13605, ivi, 1999, pag. 2451; Cass., 9 ottobre 1996, n. 8824, ivi, 1996, pag. 1395. Cfr. altresì Cass., 16 gennaio 1986, n. 230, in Giust. Civ. mass., 1986, fasc. 1, secondo cui «i contratti cosiddetti per adesione, con riguardo ai quali l’art. 1341 comma 2 impone la specifica approvazione per iscritto, sono quelli destinati a regolare una serie indefinita di rapporti, sia da un punto di vista sostanziale, ove predisposti da un contraente esplicante attività negoziale verso vari soggetti, sia anche da un punto di vista meramente formale, ove preordinati a mezzo di moduli o formulari utilizzabili in serie. Non vale, pertanto, a configurare l’ipotesi sub art. 1341 il fatto che il contenuto del contratto sia stato formulato da una sola delle parti negoziali in modo che l’altra debba accettarlo o ricusarlo il blocco senza concorrere alla sua formazione, quando lo schema o le condizioni predisposte non siano destinate a servire una serie indefinita di rapporti». 43 inserire nei propri contratti di pubblicità (32). Tale obbligo è formalizzato alla lettera d) delle Norme Preliminari e Generali, secondo cui «per meglio assicurare l’osservanza delle decisioni dell’organo giudicante, gli organismi aderenti si impegnano a far sì che ciascun soggetto ad essi associato inserisca nei propri contratti una speciale clausola di accettazione del Codice, dei Regolamenti autodisciplinari e delle decisioni assunte dal Giurì, anche in ordine alla loro pubblicazione, nonché delle ingiunzioni del Comitato di Controllo». Il vincolo realizzato attraverso la clausola di accettazione ha carattere effimero e occasionale, esaurendo la propria efficacia nella singola vicenda contrattuale (33). A tal proposito giova rammentare una storica pronuncia in cui il Giurì ebbe a precisare che «l’utente che non abbia aderito al Codice di Autodisciplina ma che si sia vincolato [allo stesso] in forza della clausola di accettazione inserita nelle condizioni generali di contratto che regolano i contratti dei mezzi con gli inserzionisti, è soggetta al Codice di Autodisciplina e al potere decisorio del Giurì solo in relazione alla pubblicità diffusa attraverso i mezzi che aderiscano al sistema autodisciplinare, non lo è, invece, in relazione a pubblicità diffusa direttamente o attraverso i mezzi non aderenti al sistema autodisciplinare» (34). La circostanza che, almeno in tempi più risalenti, le agenzie aderenti abbiano adottato forme ( 32 ) V. Trib. Milano, 22 gennaio 1976, in Riv. dir. ind., 1977, II, pag. 91 ss. secondo cui «la c.d. clausola di accettazione è lo strumento negoziale escogitato per assoggettare al Codice di Lealtà gli utenti della pubblicità non associati all’Utenti Pubblicità e Associati ai quali gli operatori pubblicitari ed in particolare i mezzi di diffusione del messaggio richiedono di sottoscrivere la menzionata clausola nell’ambito del contratto per la fornitura del servizio pubblicitario. Il senso profondo di tale meccanismo contrattuale è stato giustamente illustrato mediante un parallelo con le tecniche particolari con le quali le giurisdizioni corporative medievali e rinascimentali estendevano la loro competenza ai terzi che contrattassero con i membri delle stesse corporazioni». (33) GRAZZINI, Le modalità di Adesione, cit., pag. 10 ss. (34) Ex multis v. dec. n. 165/1997, 23 maggio 1997, Kimberly Clark Europe, Scott s.p.a. c. Soffass s.p.a. 44 contrattuali inidonee a realizzare la soggezione dei committenti all’Autodisciplina, così sottraendosi all’obbligo pattiziamente assunto di subordinare la prestazione del servizio pubblicitario a beneficio delle parti non aderenti alla sottoscrizione della clausola di accettazione, ha prodotto una sensibile contrazione della potestas decidendi dell’organo autodisciplinare, il quale, nei casi in esame, ha proceduto all’adozione di decisioni nei soli confronti delle agenzie aderenti ( 35 ). Tali pronunce, ancorché propriamente dirette soltanto ai «mezzi» aderenti, dispiegano taluni effetti anche nei confronti dei soggetti non aderenti, i quali, nella malaugurata ipotesi in cui intendessero aggirare le norme autodisciplinari, dovranno preventivamente accertarsi che le agenzie predisponenti non siano istituzionalmente o pattiziamente vincolate al Codice di Autodisciplina (36). Il carattere eminentemente pervasivo della clausola di accettazione, insieme al fenomeno dell’associazionismo multilivello, ha condotto l’Autodisciplina nelle maglie più recondite della comunicazione commerciale, facendone un modello di autoregolamentazione la cui (35) Tra le altre dec. n. 17/1981, Hanorah Italian s.p.a c. Christian Jacques di Gaetano Trapani & C. s.a.s., New Advertising, Rizzoli Editore s.p.a., Arnoldo Mondatori Editore s.p.a., Rusconi Editore, RAI-Radiotelevisione Italiana; 4/87, Soc. E. Vsmara di A. Biffi & C.c. Regione Autonoma della Sardegna, Uni Advertising s.a.s., Promodis Italia Editrice. (36) L’efficacia limitata delle decisioni del Giurì nei casi in cui vi siano «mezzi» aderenti che non abbiano provveduto ad inserire la clausola di accettazione nelle condizioni generali di contratto che disciplinano i contratti con gli inserzionisti è un naturale corollario del principio della intangibilità della sfera giuridica individuale. In esplicazione del principio della relatività degli effetti del contratto, la sfera giuridica individuale non può essere scalfita dall’attività negoziale posta in essere da altri soggetti e ciò indipendentemente dall’apprezzamento positivo o negativo degli effetti da questa scaturenti. Purtuttavia, apparendo affetta da irragionevolezza la posizione che esclude acriticamente qualsivoglia effetto contrattuale nei confronti del terzo, quandanche profittevole, sono fatti salvi gli effetti favorevoli che il terzo possa acquisire alla propria sfera giuridico-patrimoniale dall’attività negoziale altrui, ove non intenda rifiutarvi. Sul punto cfr. BIANCA, Diritto civile. Il contratto, Milano, 1987, pag. 534 ss; MOSCARINI, I negozi a favore di terzo, Milano, 1970, pag. 5 ss. 45 autorevolezza è ormai accettata e riconosciuta dalla stragrande maggioranza dei soggetti che, a vario titolo, operano nel mondo pubblicitario (37). 4. Il problema della qualificazione giuridica della clausola di accettazione è senza dubbio uno dei più annosi di tutta l’Autodisciplina pubblicitaria. La questione fu per la prima volta affrontata da una memorabile pronuncia del Tribunale di Milano del 22 gennaio 197638. In quell’occasione il giudice di merito ebbe modo di tratteggiare la complessa fenomenologia giuridica dell’atteggiarsi dei rapporti tra Autodisciplina pubblicitaria e ordinamento statuale, accogliendo la tesi della riconduzione della clausola di accettazione entro lo schema negoziale del contratto a favore di terzo, ex art. 1411 c.c. Ed invero già allora la giurisprudenza ambrosiana osservava come gli effetti della suddetta clausola «eccedono la prestazione contro corrispettivo del servizio pubblicitario ad opera del mezzo ed è fonte di diritti e obblighi nei rapporti diretti tra l’utente da una parte ed i terzi dall’altra. In relazione a tali effetti, la clausola di accettazione opera quindi secondo lo schema del contratto a favore di terzo ai sensi dell’art. 1411 c.c.: schema la cui applicazione nel caso di specie non trova dal punto di vista strutturale alcun serio ostacolo […] Essendo il mezzo lo stipulante e l’utente il promittente, l’interesse del primo alla stipulazione è facilmente ( 37 ) Ulteriori meccanismi di adesione al Codice di Autodisciplina da parte di soggetti non altrimenti vincolati sono ravvisabili in quegli atteggiamenti non codificati che si estrinsecano in un’accettazione tacita, o per facta concludentia, dell’autorità del Giurì, ovvero in una successiva accettazione del contraddittorio nel processo autodisciplinare. Si tratta di modalità di adesione anomale la cui ricognizione è dovuta principalmente alla giurisprudenza del Giurì. V., ad esempio, la dec. n. 41/1981, Naska Loris Lux s.r.l. c. Luxo Italiana s.r.l., Continental Luxo s.r.l., Editrice Segesta, Arnoldo Mondatori Editore. (38) Trib. Milano, 22 gennaio 1976, cit. 46 ravvisabile solo che si consideri che l’inserimento della cd. clausola di accettazione del contratto di pubblicità è oggetto di un dovere che lo stipulante si è assunto rispetto alla sua associazione di appartenenza e quest’ultima si è impegnata a far rispettare nei confronti della Confederazione e partecipa, altresì, dell’interesse che, in quanto socio, egli ha in ordine al perseguimento degli scopi sociali rispetto ai quali il Codice della Lealtà Pubblicitaria svolge una funzione dichiaratamente strumentale» (39). L’antecedente logico, ancor prima che giuridico, di un tale argomentare risiede nel riconoscimento dell’autonomia privata da parte dell’ordinamento positivo. Può affermarsi che l’autoregolamentazione pubblicitaria, in quanto fenomeno di natura squisitamente privatistica, trae la propria dignità ordinamentale dalla garanzia pubblicistica dell’autonomia privata (40). Viene in questo modo decretato il definitivo superamento di orientamento dottrinale, invero risalente, che vedeva nel fenomeno autodisciplinare «qualcosa di indefinibile, ma sicuramente di importanza marginale, perché incapace comunque di creare obblighi coercibili e muniti di sanzione» (41). Simili ( 39 ) Trib. Milano, 22 gennaio 1976, cit. Secondo una simile ricostruzione la clausola d’accettazione costituirebbe un contratto a favore di terzo, ex art. 1411, in cui stipulante è il mezzo pubblicitario (impresa editoriale, agenzia o concessionaria) e promittente è l’utente, mentre il terzo beneficiario si rinviene in una pluralità di soggetti identificati o non aprioristicamente identificabili. La rispondenza di interessi postulata dalla norma per l’esistenza di un simile contratto è soddisfatta dalla compresenza dell’interesse dello stipulante, di natura squisitamente patrimoniale, alla stipulazione del contratto, cui specularmente corrisponde quello del terzo, di natura anche non patrimoniale, a veder rispettato il codice. Cfr. CORASANTI-VASSELLI, Diritto della comunicazione Pubblicitaria, cit., pag 19. ( 40 ) Trib. Milano, 22 gennaio 1976, cit. afferma che l’ordinamento autodisciplinare «trae la sua origine e la sua ragione della sua effettività dalla stessa autonomia privata riconosciuta e garantita dallo Stato. Ciò avviene tutte le volte che un organismo sociale instaura nel suo interno una disciplina che contiene un ordinamento autonomo di autorità, poteri, di norme e sanzioni, un regolamento interno di carattere disciplinare». (41) FLORIDA, Autodisciplina e funzione arbitrale, in Riv. dir. ind., 1991, I, pag. 7. 47 considerazioni appaiono oggi obsolete e prive di ogni consistenza, poiché marginalizzano l’autodisciplina pubblicitaria ai confini del paragiuridico, disconoscendone il carattere essenzialmente cogente (42). Tutto ciò premesso, appare opportuno svolgere un’ulteriore considerazione circa il carattere di spiccata atipicità della clausola di accettazione dal quale discende la necessità che la clausola de qua, affinché possa essere consentita dall’ordinamento, debba presentare i caratteri della liceità e della meritevolezza della tutela. In ordine al primo requisito sembra indubitabile che la «tipizzazione convenzionale degli illeciti disciplinari» operata nel seno dell’Autodisciplina pubblicitaria abbia funzione di specificazione e financo implementazione del dettato normativo in materia di correttezza professionale, non potendosi per ciò stesso porre in contrasto con esso (43). Per quanto concerne il ricorrere del secondo requisito, quello della meritevolezza della tutela, sarà di giovamento tenere a mente la funzione propriamente ancillare dell’autoregolamentazione rispetto all’esigenza di chiarezza ed (42) Secondo Trib. Milano, 22 gennaio 1976, cit. il carattere cogente del Codice di Lealtà esplicherebbe «non soltanto nei confronti di coloro che, appartenendo ad una delle associazioni da cui il Codice […] promana, lo hanno accettato indirettamente per effetto della rappresentanza esercitata dalla stessa associazione di appartenenza, ma anche nei confronti di coloro che non appartengono a nessuna di quelle associazioni che si avvalgono della pubblicità come mezzo promozionale nello svolgimento della loro attività d’impresa». (43) V. Cass., 15 febbraio 1999, n. 1239, Rcs Editoria s.p.a. c. Il Giornale di Sicilia, secondo cui «quand’anche si ritenesse che il Codice di Autodisciplina contenga mere regole deontologiche, non se ne potrebbero comunque escludere l’incidenza nell’interpretazione ed applicazione dell’art. 2598 n. 3 c.c.: se per un verso, infatti, la stessa norma, facendo riferimento ai principi di correttezza professionale, opera sostanzialmente un rinvio anche a parametri extralegislativi, per altro verso le regole del C.A.P. esprimono, per loro stessa natura e formazione, quel “dover essere” dei comportamenti che forma oggetto — come si è visto — della tutela stabilita dal numero 3 dell’art. 2598 c.c.. Non solo, ma esse consentono di adeguare il principio di correttezza professionale all’evoluzione delle esigenze dell’attività imprenditoriale ed alle sue forme di manifestazione: in definitiva, al costume eticamente inteso». 48 intellegibilità della legislazione statuale, connaturata da intrinseca vaghezza ed indefinitezza semantica. I Giudici milanesi all’uopo precisano: «dall’atipicità della clausola di accettazione deriva che per essere valida essa deve risultare lecita quanto a causa ed oggetto, e deve tendere alla protezione di interessi meritevoli di tutela. La causa della clausola di accettazione non contrasta con norme imperative, dal momento che la tipizzazione convenzionale degli illeciti pubblicitari non si sovrappone alla disciplina statuale, ma si inscrive in essa al fine di riempire di contenuto e di specificare il generale dettato normativo dei principi della correttezza professionale (art. 2598 n. 3 c.c.) imposti all’osservanza degli imprenditori nel compimento di ogni atto di concorrenza, quivi compreso quello pubblicitario. Il contenuto della clausola di accettazione è per parte sua determinato per relationem al contenuto del codice di lealtà pubblicitaria. La sua liceità dipende pertanto dalla conformità di ogni singola disposizione del codice alle norme imperative, all’ordine pubblico ed al buon costume. Che la tipizzazione convenzionale degli illeciti pubblicitari sia strumentale ad un interesse meritevole di tutela è poi reso evidente dal fatto solo di individuare questo interesse nella esigenza di sottrarre gli operatori pubblicitari alla incertezza cui dà luogo ogni legislazione per principi circa l’esatta portata dei divieti riconducibili interpretativamente nella clausola generale» ( 44 ). Alla ricostruzione dogmatica eseguita dalla giurisprudenza summentovata, si affiancano oggi nuove soluzioni interpretative più sensibili al problema dell’effettività e della concretezza della tutela autodisciplinare, rispetto al quale quello della corretta qualificazione della clausola di accettazione si mostra dotato di una strutturale valenza risolutiva. (44) Trib. Milano, 22 gennaio 1976, cit. 49 4.1 La giurisprudenza autodisciplinare si è espressa favorevolmente rispetto all’applicazione dell’art. 1341, comma 1, c.c. nei contratti pubblicitari stipulati secondo moduli o formulari, subordinando l’efficacia della clausola di accettazione alla specifica sottoscrizione della stessa o, in mancanza, alla circostanza che l’inserzionista l’abbia conosciuta o avrebbe dovuto conoscerla utilizzando un minimo di diligenza (45). Il Giurì ha all’uopo precisato che «perché il Giurì abbia il potere di decidere su una pubblicità litigiosa, qualora l’inserzionista non aderisca direttamente all’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria, è sufficiente che allo stesso aderiscano i mezzi attraverso i quali tale pubblicità viene diffusa: mediante la stipulazione del contratto di pubblicità, l’inserzionista accetta, infatti, anche la clausola che lo assoggetta al sistema dell’autodisciplina ex art. 1341, comma 1, c.c.». Il Giurì si è inoltre pronunciato in merito alla dibattuta questione concernente la plausibilità dell’eccezione di carenza di legittimazione passiva sollevata dall’inserzionista, affermando che essa è priva di ogni fondatezza allorquando questi, non avendo sottoscritto la clausola di accettazione o non avendola accettata per facta concludentia, l’abbia in ogni caso colpevolmente ignorata omettendo di usare anche una minima attenzione che gli avrebbe certamente consentito di percepirla (46). La più (45) GRAZZINI, Il contratto pubblicitario stipulato per condizioni generali. L’art. 1341 comma 1 c.c., cit., pag. 21 ss. (46) In questo senso v. decc. nn. 2/1998, 23 gennaio 1998, Quaker Beverages Italia s.p.a., Armando Testa s.p.a. c. Scaringi s.p.a., Magazine s.r.l., Publitalia ’80 s.p.a., Mediaset s.p.a.; 199/1995, 26 gennaio 1996, Comitato di controllo c. Sirc s.p.a., Rcs Pubblicità s.p.a.; 39/1994, 29 marzo 1994, Comitato di Controllo c. Teodoro Mobili, Sapi, Agiap Agenzia Generale Italiana Affissioni e Pubblicità s.r.l.; dec. 124/1987, 2 dicembre 1987, Giorgio Armani s.p.a., Basile s.p.a., Biagiotti Export s.p.a., Byblos s.p.a., Erreuno Scm s.p.a., Fendi Paola e Sorelle s.a.s., Gianfranco Ferré s.r.l., Genny Moda s.p.a., Krizia s.p.a., Missoni s.p.a., Moschino (Moonshadow s.r.l.), Trussardi s.p.a., Gianni Versace s.r.l., Camera Nazionale della Moda Italiana, Claudio 50 vistosa conseguenza ravvisabile in un simile argomentare è probabilmente l’estrema esiguità dei soggetti contrattualmente non vincolati al sistema autodisciplinare. preoccupazioni Qualche Autore antioligopolistiche ha e manifestato financo al riguardo antimonopolistiche, ritenendo di poter assimilare la clausola di accettazione ai limiti convenzionali della concorrenza ( 47 ). A fugare ogni dubbio basti un richiamo all’ormai consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione che ha escluso con fermezza l’applicabilità dell’art. 2596 c.c. alle regole convenzionali finalizzate ad intensificare ed implementare l’effettività della legislazione in materia di correttezza concorrenziale, nel presupposto che tale strumentario pattizio lungi dal limitare la Laviola s.p.a. c. Umberto Ginocchietti, Maglificio di Perugia, Editoriale la Repubblica s.p.a., Società Europea di Edizioni s.p.a. in Riv. dir. ind., 1998, II, pag. 119 ss., con note CALISSE, Cenni sulla giurisdizione del Giurì di autodisciplina pubblicitaria, e di CELONA, Pubblicità denigratoria o diritto alla critica: un limite alla competenza del Giurì. (47) Cfr. PEDRIALI, Profili soggettivi dell’Autodisciplina Pubblicitaria, pag. 148. In proposito non è mancato chi abbia ricondotto la clausola di accettazione al patto limitativo della concorrenza con conseguente applicazione delle prescrizioni di cui all’art. 2596 c.c. Con la già richiamata sentenza del 22 Gennaio 1976 il Tribunale di Milano, sostenendo la tesi della riconducibilità dell’Autodisciplina al fenomeno associativo, ha escluso la configurabilità della clausola di accettazione quale limite pattizio alla concorrenza e ciò per l’irriducibile disomogeneità causale intercorrente tra la prima e il secondo. Mentre il contratto di cui all’art. 2596 c.c. è senz’altro un contratto sinallagmatico o a prestazioni corrispettive, la clausola di accettazione introduce un contratto assimilabile a quelli plurilaterali con comunione di scopo. Pur a voler considerare la clausola di accettazione come patto limitativo della concorrenza, osta ai fini dell’applicabilità della normativa dettata dall’art. 2596 c.c. in ordine al duplice profilo della forma scritta ad probationem e della limitatezza di operatività spaziale e temporale, la fondamentale circostanza che la limitazione convenzionale in parola sia inserita in un contratto avente causa diversa. Invero i patti cui si riferisce la norma in questione, sono quelli che hanno come unico fine quello di limitare o escludere l’attività concorrenziale, e non anche quelli che, pur esplicando un qualche condizionamento alla libertà economica dei soggetti vincolati, perseguano finalità differenti. In questo senso CAMPOBASSO, Diritto Commerciale, Diritto all’impresa, Torino, 1999, pag. 231. 51 concorrenza, costituirebbe piuttosto un prezioso strumento per garantirne la legittima esplicazione (48). 4.2 La tesi secondo cui la clausola di accettazione possa ormai qualificarsi come uso contrattuale ha carattere pervasivo nella giurisprudenza del Giurì, secondo cui «dopo oltre cent’anni di vita degli istituti dell’Autodisciplina pubblicitaria e con la larga eco che questi hanno avuto […] e dopo che per oltre vent’anni, praticamente in tutti i servizi pubblicitari vengono inserite clausole sostanzialmente uniformi di accettazione del sistema di Autodisciplina, ben può dirsi che tale accettazione abbia assunto carattere di norma contrattuale consuetudinaria, e che perciò ogni contratto pubblicitario oggi stipulato, ancorché in ipotesi non la contenga espressamente, comporti tale accettazione» ( 49 ). Un indiscusso accoglimento di questa ipotesi ricostruttiva porrebbe fine ad ogni vacillare del sistema autodisciplinare e ciò è ancora più palese ove si consideri che graverebbe sul convenuto che intenda sollevare l’eccezione di difetto di legittimazione passiva, e non più sull’attore, l’onere probatorio di dimostrare la volontà di escludere la competenza del giudice autodisciplinare (50). Ed inoltre la qualificazione della clausola di accettazione come uso contrattuale intensificherebbe ulteriormente il processo di propagazione multidirezionale (48) Cass., 10 dicembre 1988, n. 6715, in Riv. dir. ind., 1989, II, pag. 233. (49) Tra le altre v. dec., n. 124/1987, cit.. (50) Cass., 5 agosto 1985, in Mass. Foro it., 1985, pag. 4388. Una sparuta dottrina ha sostenuto che limite all’efficacia della clausola d’uso sia, oltreché la manifestazione di volontà contraria, anche l’ignoranza o la sua non conoscibilità. Questa ipotesi interpretativa, che restringerebbe in modo significativo il raggio di azione dell’autodisciplina pubblicitaria, è stata strenuamente avversata da una parte della dottrina secondo cui la mera ignoranza non vale ad escludere il fisiologico operare di qualsivoglia uso contrattuale. In questo senso S ACCO, De NOVA, Il contratto, in Trattato di diritto civile, diretto da SACCO, Torino, 1993, pag. 411. 52 dell’autoregolamentazione oltre gli ambiti già consentiti dall’art. 1341, comma 1, c.c. Riprova ne sia il fatto che, diversamente che nel modello di contratto per condizioni generali, l’estraneità di entrambi i soggetti al Codice di Autodosciplina non costituirebbe più una circostanza impeditiva di carattere sostanziale all’applicazione della normativa autodisciplinare (51). Quantunque la giurisprudenza autodisciplinare che qualifica la clausola di accettazione come uso contrattuale sia nettamente maggioritaria, pare opportuno segnalare una linea di tendenza recentemente sviluppatasi in seno al Giurì che considera tale clausola come uso normativo ( 52 ). Da una simile ricostruzione discenderebbe l’efficacia erga omnes della clausola di accettazione, con la conseguente irrilevanza, ai fini della vincolatività delle norme autodisciplinari, sia della volontà contraria, sia dell’effettiva conoscenza delle stesse da parte dei soggetti agenti (53). L’ipotesi interpretativa della qualificazione della clausola di accettazione come uso normativo si presta ad una fondamentale obiezione. È stato da più parti osservato come il requisito soggettivo per cui gli usi normativi si differenzierebbero da quelli negoziali consista nella convinzione dei soggetti che vi si uniformano di obbedire ad un comando avente carattere propriamente imperativo e non ad una qualsiasi regola di convenienza comportamentale. Negli usi normativi sarebbe cioè presente, con carattere di immanenza ed ( 51 ) Nei contratti caratterizzati dallo schema del negozio seriale, condizione minima affinché la clausola di accettazione in essi inserita possa esplicare gli effetti suoi propri è l’appartenenza dell’inserzionista all’ordinamento autodisciplinare, non potendosi altrimenti determinare un vincolo né in capo al soggetto predisponente, né a fortiori, in capo al contraente esterno. (52) Dec. n. 83/1989, 12 giugno 1989, De’ Longhi s.p.a. c. Ricagni Condizionatori s.p.a., Arnoldo Mondadori Editore s.p.a., Brb. ( 53 ) RODOTÀ, Le fonti di integrazione del contratto, Milano, 1965; ZICCARDI, L’integrazione del contratto, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1969, pag. 108. 53 intrinsecità, un requisito di doverosità e necessarietà dell’azione posta in essere dal soggetto nell’osservanza di una diuturna prassi generale. Venendo infine alla soggezione alla clausola di accettazione, non vi è dubbio che essa si manifesti in modo ormai diffuso e costante, ma non può con altrettanta risolutezza affermarsi che essa venga percepita dalla collettività degli operatori pubblicitari come regola avente i tratti dell’obbligatorietà e della coercitività (54). 5. Assai dibattuta in dottrina e giurisprudenza è stata la questione relativa all’individuazione della natura giuridica dell’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria e dell’attività da questi esplicata. Tre sono le ipotesi interpretative che nel tempo si sono succedute e sovrapposte, l’ipotesi arbitrale, quella associativa e, infine, quella che riconduce l’autodisciplina ad un contratto normativo (55). ( 54 ) Ulteriore conseguenza della qualificazione della clausola di accettazione come uso normativo sarebbe la necessità di un esplicito richiamo legislativo. L’art. 8 del d.lgs. 74/92 in materia di pubblicità ingannevole non opera un simile rinvio, limitandosi a disciplinare gli effetti del pactum de non petendo nel modo che segue: «le parti interessate possono richiedere che sia inibita la continuazione degli atti di pubblicità ingannevole o di pubblicità comparativa ritenuta illecita, ricorrendo ad organismi volontari ed autonomi di autodisciplina. Iniziata la procedura davanti ad un organismo di autodisciplina, le parti possono convenire di astenersi dall’adire l’Autorità Garante sino alla pronuncia definitiva. Nel caso in cui il ricorso all’Autorità sia già stato proposto o venga proposto successivamente da altro soggetto legittimato, ogni interessato può chiedere all’Autorità la sospensione del procedimento in attesa della pronuncia dell’organismo di autodisciplina. L’Autorità, valutate tutte le circostanze, può disporre la sospensione del procedimento per un periodo non superiore a trenta giorni». ( 55 ) Per un’esaustiva disamina dell’ipotesi arbitrale v. SENA, Il sistema dell’Autodisciplina Pubblicitaria, in Riv. dir. ind., 1988, I, pag. 197 ss.; UBERTAZZI, La Giurisprudenza del Giurì di Autodisciplina Pubblicitaria: alcune osservazioni, cit., pag. 2947 ss. In senso contrario FUSI, TESTA, L'autodisciplina pubblicitaria in Italia, Milano, 1983, pag. 4; DI CATALDO, Natura giuridica dell’Autodisciplina Pubblicitaria e delimitazione dell’ambito soggettivo di applicazione del Codice di Autodisciplina, cit., pag. 9 ss. 54 L’idea secondo cui il procedimento autodisciplinare sarebbe assimilabile al fenomeno arbitrale è genitrice di un ulteriore dilemma interpretativo, quello, cioè, della scelta tra ritualità o irritualità dell’arbitrato. Una più spiccata verosimiglianza mostra la tesi secondo cui il procedimento dinanzi al Giurì presenterebbe i caratteri distintivi dell’arbitrato rituale, in considerazione del carattere eminentemente giurisdizionale delle modalità decisorie adottate dal giudice autodisciplinare (56). Purtuttavia l’accoglimento della tesi arbitrale, fosse anche nella forma rituale, condurrebbe ad inaccettabili conseguenze, prima tra tutte quella della necessità della forma scritta della clausola compromissoria a norma dell’art 807 c.p.c. e della doppia sottoscrizione della stessa a norma dell’art. 1341, comma 2, c.c, ove contenuta in condizioni generali di contratto (57). La summentovata stigmatizzazione formale priverebbe l’Autodisciplina di quell’impalpabile fluidità che ne ha consentito la crescita prodigiosa nell’impervio universo della comunicazione commerciale. (56) Tra i molteplici elementi discretivi che differenzierebbero l’arbitrato rituale da quello irrituale, giova rammentare la natura squisitamente transattiva del secondo. Nella quasi totalità dei casi gli arbitri irrituali compongono le controversie affidategli decidendo secondo equità e non secondo diritto. Per una panoramica v. CARNELUTTI, Arbitrato improprio, in Riv. dir. proc., 1962, pag. 197 e SCHIZZEROTTO, Arbitrato improprio e arbitraggio, Milano, 1967. (57) GRAZZINI, Il problema della natura del Giurì di Autodisciplina Pubblicitaria e della “giustizia” autodisciplinare. L’ipotesi arbitrale, cit., p. 29 ss. Il Giurì di Autodisciplina ha più volte sottolineato la propria avversione verso l’ormai obsoleta tesi arbitrale, ribadendo che la clausola di accettazione non possa in alcun modo considerarsi una clausola derogativa della competenza e della giurisdizione, non comportando la stessa alcun deferimento della cognizione ad un organo diverso da quello previsto dall’ordinamento statuale. La clausola di accettazione comporterebbe piuttosto l’operatività di norme dalla natura squisitamente privatistica regolanti la materia pubblicitaria sia da un punto di vista sostanziale, che processuale. Pertanto la clausola di accettazione non abbisogna della doppia sottoscrizione prescritta dall’art. 1341, comma 2, c.c. Questa linea di pensiero è lucidamente esposta nelle decc. nn. 27/1994 e n. 52/1990. 55 Dalla qualificazione della clausola di accettazione come clausola compromissoria conseguirebbe altresì una significativa rimodulazione dei limiti del sindacato del giudice ordinario sulle pronunce autodisciplinari (58). Nel qual caso una simile ricostruzione venisse accolta la definitività delle pronunce del Giurì principierebbe a barcollare, compromettendo la stabilità e la celerità cui il sistema autodisciplinare tutto è improntato (59). La giurisprudenza autodisciplinare, avallata da autorevole e maggioritaria dottrina, ha costantemente disconosciuto la presunta natura arbitrale del procedimento dinanzi al Giurì sostenendo che «l’argomento in ordine al quale la clausola di accettazione non può avere l’effetto vincolante di cui al primo comma dell’art. 1341 c.c., perché essendo qualificabile come clausola vessatoria, essa rientrerebbe nel secondo comma della stessa norma e, pertanto, non potrebbe avere effetto se non specificamente approvata per iscritto, non merita seguito. La clausola di accettazione non è né una clausola compromissoria né una clausola che (58) Gli artt. 827 ss. c.p.c. disciplinano i limiti d’esperibilità delle impugnazioni del lodo arbitrale in modo assai restrittivo. Ai sensi dell’art. 827 c.p.c. «Il lodo è soggetto soltanto all'impugnazione per nullità, per revocazione o per opposizione di terzo. I mezzi di impugnazione possono essere proposti indipendentemente dal deposito del lodo. Il lodo che decide parzialmente il merito della controversia è immediatamente impugnabile, ma il lodo che risolve alcune delle questioni insorte senza definire il giudizio arbitrale è impugnabile solo unitamente al lodo definitivo». (59) L’inquadramento dell’Autodisciplina nell’alveo dell’arbitrato determinerebbe un vero e proprio capovolgimento delle istanze valoriali cui il mondo dell’Autodisciplina si è ispirato sin dalle sue origini. Tempestività, sollecitudine e snellezza del procedimento sono canoni irrinunciabili per tutto il mondo della comunicazione commerciale, essi andrebbero irrimediabilmente perduti ove si concedesse all’autorità giudiziaria statuale di estendere il proprio sindacato su qualsiasi vizio inficiante le pronunce autodisciplinari, essendo a tutti ormai nota l’incresciosa lunghezza e farraginosità della giustizia ordinaria. A ciò si aggiunga che la definitività e l’inappellabilità da cui sarebbero contrassegnate le pronunce del Giurì a norma dell’ultimo comma dell’art. 38 C.A.P. andrebbero ridisegnate secondo la disciplina dell’art. 829 c.p.c. La disposizione in parola varrebbe ad escludere l’impugnabilità delle pronunce del Giurì per motivi di diritto nei soli casi in cui le parti si fossero preventivamente accordate in tal senso, eccezion fatta per i motivi di ordine pubblico. 56 produce deroghe alla competenza dell’Autorità giudiziaria ordinaria. Con essa, infatti, l’inserzionista si obbliga ad osservare i precetti del Codice di Autodisciplina Pubblicitaria secondo l’interpretazione e l’applicazione che ne fa il Giurì, unico organo abilitato nell’ordinamento autodisciplinare a garantirne l’osservanza. L’inserzionista, per contro non assume, con la clausola di accettazione, alcun obbligo che abbia effetto sull’applicazione delle norme dello Stato e sulla giurisdizione o competenza degli organi statuali ai quali sia affidato il compito di garantire l’osservanza di tali norme. Ciò vale in generale e ancor più in particolare per le norme dell’ordinamento dello Stato che riguardano la disciplina della pubblicità: tant’è vero che – come è a tutti noto – vale nei rapporti tra ordinamento statuale e ordinamento autodisciplinare in materia di pubblicità, il principio che, con terminologia propria del diritto antitrust, potremmo chiamare della doppia barriera, secondo il quale l’inserzionista è soggetto all’osservanza sia delle norme autodisciplinari, che di quelle statuali ed al controllo sia del Giurì che dell’Autorità Garante della concorrenza e del mercato. Consegue da ciò che la clausola di accettazione non è subordinata alla doppia sottoscrizione norma dell’art. 1341, comma 2 c.c.» ( 60 ). Con lucido argomentare, la giurisprudenza sopra citata afferma la separatezza dell’ordinamento autodisciplinare rispetto a quello statuale, ricusando in blocco la tesi arbitrale. Accanto all’ipotesi arbitrale si pone quella associativa. Si legge nella sentenza del Tribunale di Milano del 22 gennaio 1976: «[il Codice di Autodisciplina] ha assunto dignità statutaria ed, anzi, integra stabilmente le disposizioni statutarie non soltanto per quanto attiene alle ( 60 ) Dec. n. 54/1996, 5 marzo 1996, Telecom Italia Mobile s.p.a. c. Omnitel Pronto Italia s.p.a. 57 norme di comportamento che i componenti della confederazione sono obbligati ad osservare e a far osservare […], ma anche per quanto attiene al Giurì, che è previsto e disciplinato nel Codice di Autodisciplina per l’attuazione dei suoi principi informatori e per l’applicazione delle sue norme. In altre parole, se il Codice di Autodisciplina integra lo statuto della Confederazione, il Giurì, a sua volta, è uno degli organi confederali» (61). La sentenza in parola, partendo dal presupposto per cui il fenomeno autodisciplinare abbia un’intrinseca vocazione associativa, riconduce i poteri normativi e sanzionatori dell’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria a quelli propri delle associazioni non riconosciute. Pertanto il problema dei limiti del sindacato del Giudice ordinario sulle pronunce dell’organo di giustizia privata autodisciplinare andrà risolto alla stregua di quello del sindacato del giudice ordinario sulle deliberazioni endoassociative. Un orientamento ormai dominante nel formante giurisprudenziale afferma l’identità tipologico-contrattuale delle associazioni riconosciute e non riconosciute, da cui fa discendere l’identità della disciplina applicabile ( 62 ). Di tal guisa le decisioni del (61) Trib. Milano, 22 gennaio 1976, cit., la sentenza in parola si riferiva al Codice di Lealtà Pubblicitaria entrato in vigore nel 1966 per iniziativa della Federazione Italiana Pubblicità, degli Utenti Pubblicità Associati, della Federazione Italiana Editori Giornali e della Rai. (62) GALGANO, Delle associazioni non riconosciute e dei comitati, in Comm. Cod. civ., a cura di SCIALOJA BRANCA, Bologna-Roma, 1976, pag. 182; ID., Delle persone giuridiche, in Comm. Cod. civ., a cura di SCIALOJA BRANCA, Bologna-Roma, 1969, pag. 187. Secondo quest’impostazione andrebbero applicate alle associazioni riconosciute, oltreché le nome inderogabili dettate per quelle riconosciute, anche tutte quelle norme che non regolamentino aspetti attinenti al riconoscimento della personalità giuridica. E pertanto eventuali vizi delle delibere assembleari assunte da associazioni non riconosciute dovranno essere perseguiti attraverso l’esperimento dei consueti rimedi processuali apprestati dalla legge per le associazioni riconosciute. In ispecie dovrà ritenersi pienamente operante la disciplina contenuta all’art. 23 c.c. il quale riconosce la legittimazione attiva all’esperimento dell’azione di annullamento avverso deliberazioni assembleari contrarie alla legge, all’atto costitutivo o allo statuto, agli organi dell’ente, a qualunque associato nonché al pubblico ministero. Negano invece l’applicazione alle 58 Giurì sarebbero assoggettabili al sindacato del giudice statuale, affinché questi possa apprezzarne la conformità e la rispondenza alle regole autodisciplinari. Si segnala infine un’ulteriore e diversa ipotesi interpretativa secondo cui «l’autodisciplina costituirebbe negozio atipico plurilaterale assimilabile al contratto normativo, quale veicolo di emersione della regola privata impiegata come strumento di regolamentazione di determinati settori» (63). associazioni riconosciute delle norme dettate per gli enti personificati, BASILE, Gli enti di fatto, in Trattato di diritto privato, diretto da RESCIGNO, 1982, 2, I, pag. 273 ss e AMATI, Associazioni e tutela dei singoli, Napoli, 1984, pag. 164 ss. (63) GRAZZINI, L’ipotesi del Giurì come organo collegiale di associazione non riconosciuta. La diversa ipotesi secondo la quale l’autodisciplina pubblicitaria originerebbe da un contratto normativo plurilaterale, cit., pag. 32 ss; MESSINEO, Contratto normativo e contratto tipo, Enc. dir., X, Milano, 1961, pag. 116 ss; SENA, Il sistema dell’Autodisciplina Pubblicitaria, cit., pag. 191 ss. 59 CAPITOLO II GLI ATTEGGIAMENTI EROTICI NELLA PUBBLICITÀ SOMMARIO: 1. Premessa. — 2. La Ratio dell’art. 9 CAP. — 2.1. Considerazioni sulla sindacabilità della pubblicità che ricorra a suggestioni erotiche. — 3. La Ratio dell’art. 10 CAP. — 4. Erotismo magnificente e patinato nell’iconografia pubblicitaria. — 4.1. L’aberrante celebrazione della zoofilia erotica o zooerastia. — 4.2. Reminiscenze sadomasochiste. — 5. L’utilizzazione pubblicitaria dell’erotismo per la reclamizzazione di bevande alcoliche, l’art. 22, quinto alinea, CAP. 1. In una celebre sentenza il Giurì ebbe ad affermare che «Non tutto ciò che è lecito in sede di manifestazione del pensiero lo è in pubblicità. Qui, proprio perché la funzione della comunicazione non è speculativa o politica o ideologica, ma commerciale, è giusto esigere che i messaggi non investano direttamente di cariche negative le convinzioni profonde che alimentano e identificano la personalità stessa del cittadino; ed è giusto vietare che si prendano a bersaglio i sentimenti più gelosamente custoditi per fare breccia nell’animo di coloro che non li condividono o li avversano, e attraverso questa breccia fa penetrare una suggestione di consumo preferenziale» (64). Quantunque la pubblicità non possa, e non debba, essere aprioristicamente considerata come intrinsecamente idonea a veicolare soltanto taluni contenuti e non talaltri, stigmatizzando gli eventuali valori etici e morali evocati con un «marchio di infamia», non può purtuttavia disconoscersi l’opportunità che essa sia sottoposta a limiti assai rigorosi ogniqualvolta venga in contrasto con superiori valori che godano del suggello costituzionale. Invero la massima più sopra mentovata riecheggia un atteggiamento ermeneutico ormai (64) Dec. n. 1/1980, 22 gennaio 1980, Comitato di Accertamento c. di Nichy Chini Co., M. & Ad., Editoriale del Corriere della Sera sas. 60 obsoleto, dacché la giurisprudenza costituzionale e la dottrina prevalenti riconducono il fenomeno pubblicitario all’art. 41 Cost. e non più all’art. 21 Cost. ( 65). Anche una più recente giurisprudenza autodisciplinare si orienta in tal senso. Illuminante è, al riguardo, la dec. n. 2/1995, in cui il Giurì sostiene che «La finalità mercantile […] da cui promana il messaggio destituisce di gratuità culturale la critica e la carica di ipocrisia, delegittimandola come manifestazione del pensiero e svelandone la fisionomia di tecnica di persuasione all’acquisto» ( 66 ). Pertanto, se, da una parte, incompatibile con l’ordinamento autodisciplinare potrà essere considerata soltanto la comunicazione pubblicitaria che realizzi una «mercificazione dei sentimenti», dall’altra, ragioni più profonde impongono una maggiore severità in ragione della «selvaggia intrusività, invadenza […] ed inelusibilità» di questo tipo di (65) Corte Cost., 12 luglio 1985, n. 68, in Giur. Cost. 1965, pag. 838. La migliore dottrina osserva come la pubblicità economica, diversamente dalla mera propaganda, tenda a risolversi in un’esposizione, sia pure di dati e notizie, effettuata in modo da, ed al fine di, provocare in altri soggetti «non la riflessione ma l’azione», ed in particolare un azione economica, e che perciò essa, in quanto non solo adatta ad influire sulla volontà altrui ma invece appositamente effettuata per influire sulla volontà altrui, condizionandone le scelte economiche, sia da considerare come «espressione d’intendimento pratico, e non di pensiero». Così, ESPOSITO, La libertà di manifestazione del pensiero, Milano, 1958, pag. 37 ss. Un’altra dottrina non manca di osservare come il fenomeno pubblicitario, sebbene vada correttamente inquadrato nell’ambito delle iniziative connesse allo svolgimento dell’attività economica, presenti indubbiamente anche dei profili attinenti alla libera manifestazione del pensiero. Da ciò discenderebbe l’opportunità di un coordinamento ermeneutico tra l’art. 21 Cost. e l’art. 41 Cost., affinché non sia frustrata l’esigenza che i limiti che gravino sulla pubblicità, siano dei limiti ragionevoli, ovvero dei limiti che trovino una giustificazione in quanto posti a tutela di un bene o di un interesse costituzionalmente rilevane e preminente. In questo senso, CUCCINO, Thanatos e advertising, in Il diritto industriale, n. 11/1997, pag. 985, nota n. 16. (66) Dec. 2/1995, 7 marzo 1995, Comitato di controllo c. Benetton Group s.p.a., Editrice La Stampa s.p.a., Publikompass s.p.a., Colors Magazine s.r.l., Colors Communications s.r.l. 61 comunicazione (67). L’ontologica capacità del messaggio pubblicitario di colpire masse indifferenziate di pubblico unitamente alla carica di coercizione psicologica che esso reca con sé, impone l’opportunità di adoperare parametri di valutazione differenziati per questo tipo di comunicazione (68). ( 67 ) BANORRI, Le modalità di Adesione, in Commentario al Codice dell’Autodisciplina Pubblicitaria, a cura di Ruffolo, Milano, 2003, pag. 204. (68) Ex multis cfr. dec. n. 12/1986, 11 febbraio 1986, Comitato di Controllo c. Fassi s.p.a., Consorzio Canale 5., Italia 1, Retequattro, Business, in cui il Giurì pronunziandosi sul divieto autodisciplinare della volgarità e dell’indecenza, osservò come la misurazione della liceità del ricorso pubblicitario alla suggestione erotica dovesse compiersi adottando come metro non già il livello di indecenza e di volgarità degli spettacoli televisivi più spinti, ma non per questo meno seguiti, oppure, alternativamente, un livello di decenza assai più rigoroso e intransigente che tenesse unicamente conto dell’involontarietà ed inelusibilità dello spettacolo pubblicitario, bensì un livello di decenza apprezzato alla stregua dell’effettiva idoneità del messaggio pubblicitario a «compromettere» o «deteriorare» il generale indice di gradimento della pubblicità stessa. Ed invero, ad avviso di chi scrive, il criterio qualitativo è l’unico in grado di ricondurre la censura alla sua funzione propriamente pubblicitaria, mediante la valutazione intelligentemente ponderata dei profili fenomenologici della fattispecie e della loro concreta attitudine a ledere la sensibilità dei consumatori. Sul punto v. anche dec. n. 117/2001, 29 maggio 2001, Galter srl c. Editoriale Edisport s.p.a., COMEDI s.p.a., in cui il Giurì nell’apprezzare la conformità all’art. 9 CAP di un’immagine raffigurante un giovane che, mostrando un evidente rigonfiamento nei pantaloni all’altezza del pube, visualizza la reazione del ragazzo alla vista delle valige per motociclisti, ovvero il suo stato di eccitazione sessuale, ebbe ad osservare: «Con l’antichissima pronuncia n. 11/75 il Giurì, trovandosi a decidere sulla conformità all’art. 9 del Codice di una pubblicità che raffigurava un uomo con indosso la sola camicia la quale presentava una piega in un punto della figura maschile tale da far chiaramente presumere uno stato di eccitazione sessuale, ha stabilito trattarsi di un’espressione figurativa non giustificabile perché volgare ed estranea alle finalità ed alle esigenze inerenti alla pubblicità del prodotto. Ritenne allora il Giurì che l’immagine fosse tale che, secondo il gusto e la sensibilità dei consumatori, dovesse essere considerata volgare come del resto era dimostrato dai severi commenti rivolti a quel messaggio anche da parte di mezzi che si occupavano specificamente di pubblicità. A distanza di più di 35 anni da quella pronuncia la questione si pone negli stessi termini perché in tutti questi anni quello che nell’ordinamento dello Stato viene individuato come il comune senso del pudore è cambiato moltissimo e sotto molti profili ma non è cambiato con riguardo alla raffigurazione dell’eccitazione sessuale maschile. Ancora oggi dunque può dirsi con assoluta certezza che tale raffigurazione appartiene al campo della pornografia e non a quello dell’erotismo e del riferimento indiretto alla sessualità. Proprio il fatto che il messaggio oggetto della presente vertenza abbia provocato commenti contrapposti è la migliore dimostrazione che esso crea scandalo e che non viene accettato con il senso della normalità. Anche chi difende questo messaggio lo interpreta come il segno di un’ulteriore liberazione ma, proprio per questo, come il superamento di un limite che a tutt’oggi è sentito come doveroso». 62 2. Il giudice autodisciplinare si è in più occasioni trovato ad apprezzare la compatibilità della raffigurazione o del riferimento nella pubblicità a tematiche sessuali con il disposto di cui all’art. 9 CAP, volto a censurare i messaggi contenenti affermazioni o rappresentazioni di violenza fisica o morale tali da doversi ritenere indecenti, volgari o ripugnanti secondo il gusto e la sensibilità dei consumatori. Il fine di tale norma autodisciplinare va ricercato essenzialmente nell’esigenza di tutelare la pubblicità dalla reazione ostile che sarebbe senz’altro provocata da messaggi contenenti una tale carica offensiva da vilipendere la sensibilità dei consumatori e del pubblico in genere, reazione ostile che, suscitando giudizi negativi e manifestazioni di diffusa insofferenza, sarebbe gravemente pregiudizievole per il prestigio ed il decoro di cui l’intero universo pubblicitario dovrebbe godere. Questa succinta premessa consente di individuare un fondamentale criterio ermeneutico da applicare nelle fattispecie che presentino le caratteristiche summentovate, quello, cioè, secondo cui l’art. 9 CAP vada interpretato alla luce dell’art. 1, ed in particolare, del secondo comma «[la comunicazione pubblicitaria] deve evitare tutto ciò che possa screditarla». Lo ratio dalla norma in commento trova ulteriore e prezioso fondamento nella stessa premessa al Codice «[il Codice di Autodisciplina] ha lo scopo di assicurare che la comunicazione commerciale, nello svolgimento del suo ruolo particolarmente utile nel processo economico, venga realizzata come servizio per il pubblico, con speciale riguardo alla sua influenza sul consumatore». Non può purtuttavia sottacersi l’apprezzabile valore ermeneutico promanante da tutte quelle sentenze in cui il Giurì ebbe a precisare come la funzione propria dell’autodisciplina fosse, non già quella di salvaguardare valori morali o etici, non potendo agire il Giurì quale arbitro o censore del buon gusto, quanto piuttosto quella di verificare la compatibilità della 63 comunicazione commerciale con le norme autodisciplinari, nel rispetto della sensibilità dei consumatori e della creatività degli operatori pubblicitari (69). Alla luce delle osservazioni svolte deve concludersi che «il divieto autodisciplinare della volgarità e dell’indecenza non è fine a se stesso e non è neppure strumentale alla salvaguardia di valori sociali considerati in quanto tali. È invece un divieto che ha la sua essenziale ragione d’essere nell’esigenza di tutelare la pubblicità dalla reazione ostile che sarebbe provocata da messaggi capaci di offendere la sensibilità dei consumatori e del pubblico in genere. In questa prospettiva […] la violazione del divieto di utilizzare suggestioni erotiche a fini promozionali in tanto si realizza in quanto sia attendibile l’ipotesi che il messaggio provochi il discredito della stessa pubblicità: la suggestione erotica dunque, per essere vietata, deve essere tale da creare reazioni diffuse di ostilità contro la pubblicità, sul presupposto che il messaggio, per il suo contenuto di rottura, abbia l’effetto di “compromettere” o comunque di “deteriorare” quello che potrebbe essere definito il generale indice di gradimento della pubblicità stessa» (70). 2.1. La tematica sessuale, le suggestioni erotiche, come anche la rappresentazione del nudo o di singoli particolari anatomici in pubblicità, stante la carenza di un’ontologica contrarietà ai principi autodisciplinari codificati, non può essere imbrigliata da un moralismo lezioso ed autoreferenziale, ma «incanalata» verso corrette modalità di estrinsecazione. La determinazione della contrarietà dei singoli messaggi (69) Dec. n. 186/1992, 16 marzo 1993, Comitato di Controllo c. Unil-It s.p.a. Divisione Atkinsons, Telepiù Pubblicità, Publitalia ‘80 s.p.a., Rai Radiotelevisione Italiana s.p.a. (70) Dec. n. 100/1985, 11 febbraio 1986, Comitato di Controllo c. Fassi s.p.a., Consorzio Canale 5, Italia 1, Retequattro, Business. 64 pubblicitari all’art. 9 CAP è operazione ermeneutica assai ardua, a causa dell’impossibilità di assegnare un’univoca valenza definitoria ai concetti di «volgarità» e «indecenza». Occorrerà allora procedere alla ricognizione dei più diffusi criteri interpretativi elaborati dalla giurisprudenza sul tema, tenendo in debita considerazione l’irriducibile ricchezza euristica scaturente da un’analisi della fattispecie attenta e doviziosa, al fine di individuare quegli elementi che si pongano in rapporto di sintomaticità con la condotta violativa. In più occasioni il Giurì ha posto in evidenza come non competa all’autodisciplina pubblicitaria operare una patinata censura dei beni o servizi reclamizzati, rientrando nella competenza del Giurì soltanto la puntuale verifica della corretta esplicazione del messaggio pubblicitario che di quei beni o servizi sia volto a rappresentare le caratteristiche merceologiche. Il Giurì, infatti, ha come compito esclusivo quello della valutazione di conformità della pubblicità dei prodotti alle norme dell’autodisciplina, e non quella di una valutazione dei prodotti in sé considerati (71). (71) Per una panoramica sull’argomento v. dec. n. 11/1998, 29 febbraio 1988, Comitato di Controllo c. Edizioni Walk Over, in cui il Giurì enunciava con straordinaria chiarezza, il fondamentale discrimen tra prodotto reclamizzato e messaggio pubblicitario, all’uopo individuando i limiti entro cui potesse legittimamente estrinsecarsi il proprio potere cognitorio. Con le parole del Giurì, «non può negarsi che quando si tratti di pubblicità di prodotti che in sé appaiano in contrasto con i princìpi che presiedono agli artt. 8, 9 e 10 CAP, le cui intrinseche caratteristiche, cioè, siano specificamente destinate a soddisfare bisogni determinati da superstizione, credulità, a rispondere a una domanda di violenza, volgarità, indecenza, può essere forte la tentazione di usare lo strumento dell’autodisciplina pubblicitaria per colpire la diffusione di tali prodotti, colpendone e impedendone una pubblicità che per illustrarne le caratteristiche non può a sua volta, in qualche misura, non presentare caratteri di superstizione, violenza, volgarità e così via, o almeno richiamarli. Ma il Giurì ritiene fermamente che il rispetto della sua sfera di competenza gli imponga di interpretare le norme prima menzionate in un modo che non trasformi l’autodisciplina pubblicitaria in uno strumento di censura capace di incidere non sulle espressioni pubblicitarie, bensì sui prodotti reclamizzati. Il che significa che se un prodotto è volgare, indecente, attiene alla 65 Oggetto di censura è stato, al contrario, il riferimento a motivi di carattere erotico e sessuale manifestamente estranei alla natura o alla funzione del prodotto reclamizzato, utilizzati arbitrariamente al solo scopo di suscitare la maggiore curiosità e sorpresa nel pubblico. Un siffatto impiego della suggestione erotica, distrae la pubblicità dalla funzione che la stessa è chiamata a svolgere in quanto servizio socialmente utile, piegandola a finalità meramente commerciali (72). Il Giurì ha più volte espresso il proprio biasimo al riguardo, deprecando la diffusa prassi invalsa nel mondo della pubblicità di sfruttare immagini erotiche al fine di raggiungere un accrescimento del lucro commerciale, mediante la sofistica ingenerazione di pulsioni consumistiche fini a sé stesse. Non può pertanto dubitarsi della manifesta contrarietà all’art. 9 CAP del messaggio pubblicitario contenente riferimenti erotici al solo scopo di intensificare, con elementi epidermici, effimeri ed occasionali, l’impatto di richiamo che la pubblicità può ben sviluppare per altre e diverse vie (73). superstizione o si richiama alla violenza, e proprio per tali sue caratteristiche trova un mercato, non competendo al Giurì di impedirne la circolazione, dovrà essere consentito a chi ne faccia commercio anche di reclamizzarlo, evidenziandone le caratteristiche medesime, purché nei limiti di obiettive esigenze informative: senza di che sarebbe la circolazione del prodotto a essere impedita. […] Sia consentito aggiungere che già gli artt. 8, 9 e 10 CAP impongono al Giurì gravosissime valutazioni della pubblicità di ordine ideologico, morale e religioso, vale a dire un compito e una responsabilità che esorbitano quelli di un normale giudice di fatti e di norme giuridiche. E che appare gravemente ingiusto e inaccettabile qualsiasi tentativo, comunque motivato, di ampliare i poteri del Giurì pretendendo da esso valutazioni di questo tipo che non riguardino i messaggi pubblicitari considerati in sé e nelle funzioni informative che devono adempiere, ma riguardino invece i prodotti; e in particolare riguardino prodotti come pubblicazioni a stampa la cui valutazione da parte del Giurì si tradurrebbe con ogni evidenza in quella censura ideologica, morale o religiosa appunto, che è la prima e più tipica negazione della libertà». (72) Dec. 35/1973, 9 luglio 1973, Comitato di Accertamento c. Quarry Jeans s.p.a., G. & C., Editoriale L’Espresso s.p.a., Publietas s.p.a. (73) In questo senso v. dec. n. 36/1973, 5 luglio 1973, Comitato di Accertamento c. Maglificio e Calzificio Torinese s.p.a. 66 In particolare, implicazioni erotiche e rappresentazione del nudo sono stati ritenuti espressamente estranei alla pubblicizzazione dei capi di abbigliamento. Sul punto la giurisprudenza autodisciplinare è assai copiosa (74). All’uopo non può non menzionarsi la dec. n. 1999/2003 con riguardo alla campagna pubblicitaria Sisley, rilevata su molteplici riviste e quotidiani ( 75 ). La campagna consta di sette messaggi. Il primo, raffigura una giovane donna, presumibilmente all’interno di un’arena, seduta per terra a gambe inverosimilmente divaricate di fronte ad un toro di cui si scorgono solo le corna. La modella, vestita soltanto un paio di calze autoreggenti color carminio, un’impalpabile vestaglia slacciata ed un paio di mutandine nere, protende la lingua verso l’animale con espressione inebriata di lussuria. Le modalità comunicazionali mancano di ogni eleganza e moderazione, recando un’invereconda rappresentazione della donna, che obnubilata dalla dissolutezza più scellerata, offre le sue grazie allo scellerato animale. A suggellare la già intensa repulsione suscitata dall’immagine, vi è il vistosissimo «riferimento delle corna in primo piano». ( 74 ) A titolo meramente esemplificativo v. dec. n. 196/2000, 27 giugno 2000, Comitato di Controllo c. Benetton Group s.p.a., Edif s.r.l., Rcs Editori s.p.a. Settore Pubblicità; dec. n. 99/2001, 30 marzo 2001, Comitato di controllo c. Benetton Group s.p.a., Energy Project s.r.l., Gruppo Editoriale L’Espresso s.p.a. – divisione la Repubblica, A. Manzoni & c. s.p.a., A. Mondadori Editore s.p.a., Mondadori Pubblicità s.p.a. relativa a due messaggi pubblicitari Sisley, pubblicati su D (inserto di la Repubblica) n. 238 del 13 febbraio 2001, Grazia n. 7 del 20 febbraio 2001, Panorama n. 8 del 22 febbraio 2001; dec. n. 133/2002, 21 maggio 2002, Comitato di Controllo c. Benetton Group s.p.a., Energy Project s.r.l., Rcs Periodici s.p.a., Rcs Pubblicità s.p.a., La Repubblica s.p.a., A. Manzoni & C. s.p.a., A. Mondadori Editore s.p.a., Mondadori Pubblicità s.p.a., apparsa in numerosi periodici, tra i quali: “Io Donna” n. 11, data copertina 16 marzo 2002; “Amica” n. 10, data copertina 6 marzo 2002 e n. 12, data copertina 20 marzo 2002; “Panorama”, data copertina 7 marzo 2002. (75) Dec. n. 199/2003, Comitato di Controllo c. Benetton Group s.p.a., Edizioni Condé Nast s.p.a., Rcs Periodici s.p.a., Rcs Quotidiani s.p.a., Rcs Pubblicità s.p.a., Gruppo Editoriale L’Espresso s.p.a. – Divisione la Repubblica, A. Manzoni & C. s.p.a. 67 Il secondo messaggio mostra una giovane modella che, fissando con intensità il pubblico di lettori, «allusivamente infila il dito medio tra le labbra socchiuse» ad evocare una «trasparente fellatio». Il terzo dei messaggi raffigura un uomo, verosimilmente un torero all’esito di un sanguinoso combattimento, con la camicia maculata di macchie vermiglie. Un’altra immagine, la quarta, ritrae una giovane donna in bikini che, reggendo con le esili dita la lama di una spada, ne adagia la punta aguzza sulla lingua «in posizione di evidente profferta». La medesima donna è protagonista del quinto messaggio, dove giace su di un letto, sfoggiando con magnificenza le sue grazie flessuose. L’ultimo dei messaggi esibisce una donna assai compiaciuta, mentre l’uomo che la porta in spalle le infila una mano tra le cosce, gli sguardi dei due sono «allo stesso tempo provocanti e canzonatori». Le rappresentazioni summentovate, a detta del Comitato di Controllo, si pongono in contrasto con l’art. 9 CAP, il quale vieta l’utilizzo in pubblicità di «rappresentazioni (...) che, secondo il gusto e la sensibilità dei consumatori, debbano ritenersi indecenti, volgari e ripugnanti». La postura e la gestualità delle protagoniste femminili rappresentano «situazioni di ostentato erotismo», mentre gli annunci che ritraggono la donna con la lama acuminata della spada sulla lingua e l’uomo brutalmente macchiato di sangue si atteggiano quali «rappresentazioni di violenza fisica e morale». Gli annunci di questa campagna, soggiunge il Comitato, ledono profondamente la dignità della donna, ponendosi in contrasto con l’art. 10 CAP, il quale a sua volta impone il rispetto della «dignità umana in tutte le sue forme ed espressioni». Ritiene inoltre il Comitato che simili rappresentazioni possano «ferire la sensibilità di un pubblico di minori», incitando al 68 compimento di possibili atti emulativi, in contrasto con l’art. 11 CAP. Ancora «il turbamento e la repulsione provocati dalle immagini descritte risultano acuiti dalla loro totale gratuità, poiché nulla sembra giustificare la scelta di esse se non l’intento di raggiungere il maggior impatto possibile». Il Giurì ritiene i messaggi componenti la campagna pubblicitaria in questione, eccettuati il terzo ed il settimo, contrastino con gli artt. 9, 10, 11 e 1 del Codice di Autodisciplina Pubblicitaria, e ne dispone la cessazione. Miglior sorte hanno avuto quei prodotti che, per le proprie intrinseche caratteristiche merceologiche o per le finalità seduttive perseguite, quali profumi o lingerie, non possono prescindere dal ricorso a suggestioni sessuali, seppur entro i limiti del buon gusto. Euristicamente gravida ai fini della presente indagine è la dec. n. 67/1992, in cui il Giurì affermava l’imprescindibilità di una distinzione «fra l’uso della suggestione sessuale per pubblicizzare prodotti non direttamente correlati alla funzione diretta o indiretta del sesso, e l’uso della suggestione sessuale nella pubblicità di prodotti il cui impiego è invece correlato con la funzione sessuale», precisando, altresì, che «nel primo caso è ovvio che il limite è più rigoroso perché la suggestione sessuale è rappresentata del tutto al di fuori della funzione descrittiva del prodotto. Nel secondo caso invece il ricorso alla suggestione sessuale è più libero, quanto meno di quel tanto in più che è reso necessario a fini descrittivi. […] Sennonché, pur con la maggiore libertà che è data dallo scopo descrittivo, la suggestione sessuale non può essere rappresentata in qualsiasi modo: un limite essendo comunque deducibile precisamente da quella sensibilità dei consumatori alla quale il Giurì deve riferirsi per garantirne la 69 salvaguardia contro le offese peggiori» (76). Particolare importanza è stata attribuita anche alle modalità espressive impiegate per la realizzazione del messaggio pubblicitario. Il Giurì ha sovente mandato assolte pubblicità che, pur contenendo esplicite allusioni erotiche, fossero state realizzate con tale eleganza e raffinatezza formale da escludere ogni reazione ostile del pubblico. Trattamento altrettanto benevolente hanno ricevuto quelle pubblicità che facessero uso morigerato e sobrio della suggestione erotica, ricorrendo ad un linguaggio simbolico la cui seducente ricercatezza ed eccellenza allegorica fossero tali da escludere aprioristicamente qualsiasi censura. Al riguardo il Giurì ha avuto occasione di sottolineare lo iato gnoseologico che separa il linguaggio che utilizzi elementi di tipo cognitivo-razionale e quello che, al contrario, faccia uso di strutture simboliche e archetipali, che agiscono ad un livello più sotterraneo e misterico, interrogandosi sulla legittimità di un intervento sanzionatorio anche nei confronti di queste ultime. In precedenti decisioni il Giurì ha optato per la non perseguibilità del linguaggio puramente simbolico, al fine di evitare palesi situazioni di impasse e di paralisi del lavoro creativo, precisando al contempo che sarebbe stato in ogni caso vietato l’uso del simbolo quando questo fosse apparso immediatamente trasparente e quando il contrasto avesse favorito in modo inequivocabile la diretta decodifica del referente, cui il simbolo allude (77). Diversamente ha opinato il Giurì con riguardo al linguaggio simbolico la cui elaborazione metaforica lasci trasudare un certo intellettualismo estetizzante, di talché l’interpretazione del referente rimanga ammantata dall’organza onirica e surreale del sogno (78). (76) Dec. n. 67/1992, 22 maggio 1992, Comitato di Controllo c. Blufin s.p.a., Modenese & Modenese s.r.l., Rcs Pubblicità s.p.a. (77) Dec. n. 67/1992, cit. (78) Dec. n. 168/1989, 19 dicembre 1989, Comitato di Controllo c. di Make Up 70 Maggiore tolleranza, il Giurì ha dimostrato nei confronti di pubblicità che, pur contenendo suggestioni erotiche, facessero leva sull’umorismo e la satira del costume, suscitando nel pubblico ilarità e non, invece, ostilità (79). Dell’ulteriore e fondamentale parametro di giudizio, quello dell’influenza che la pubblicità è effettivamente e concretamente in grado di esercitare sul consumatore, si dirà diffusamente più oltre, stante l’opportunità di una separata trattazione. 3. CAP, Avendo riguardo all’ambito di applicabilità dell’art. 10 deve osservarsi preliminarmente che la giurisprudenza autodisciplinare si è espressa in modo contrastante. Una prima corrente di pensiero, di matrice squisitamente etica, ritiene che le convinzioni del pubblico, qualora rientranti tra i «valori tendenzialmente assoluti e di rango superiore», debbano godere della protezione autodisciplinare, anche ove, per ipotesi, da una loro lesione non discenda alcuna apprezzabile conseguenza pregiudizievole sul piano effettuale ( 80 ). Studio Diego Dalla Palma, Borg M.P., Arnoldo Mondadori Editore s.p.a., Editoriale la Repubblica s.p.a., Rcs Pubblicità s.p.a., A. Manzoni & C. s.p.a. ( 79 ) BANORRI, Gli atteggiamenti erotici nella pubblicità: arbitrarietà del riferimento a motivi di carattere erotico e sessuale ed estraneità con la natura dei prodotti reclamizzati, in Commentario al Codice dell’Autodisciplina Pubblicitaria, a cura di Ruffolo, Milano, 2003, pag. 217 ss. (80) Dec. n. 73/1988, 29 giugno 1989, Comitato di Controllo, Carpigiani Bruto Macchine Automatiche s.p.a. c. Sanson Industria Dolciaria s.p.a., Rai Radiotelevisione Italiana s.p.a., Bjkee. La giurisprudenza autodisciplinare è solita annoverare tra i «valori tendenzialmente assoluti e di rango superiore» le convinzioni religiose, che il Codice di Autodisciplina protegge «non già come un bene della collettività italiana o della sua maggioranza, bensì, in armonia con la Costituzione e sulla scia della concezione liberale della tutela del sentimento religioso come un bene individuale, che viene riconosciuto, in modo assolutamente paritario, a tutti i cittadini, senza distinzioni di sorta fra le possibili opzioni religiose […]. Nella concezione liberale della tutela delle convinzioni religiose, accolta dal Codice di Autodisciplina, vi è un solo limite intrinseco alla tutela: la volgarizzazione innocua del dato religioso». Sull’argomento v. dec. n. 73/1988, cit. 71 L’antecedente logico di un tale argomentare risiede nella stessa ratio dell’art. 10 CAP, la quale impone la tutela dei consumatori in quanto titolari di un vero e proprio «diritto a non essere urtati nelle più profonde convinzioni e nella propria dignità umana da campagne commerciali» (81). Accanto a questo filone, sostanzialmente fondato sull’idea che l’art. 10, come anche l’art. 9 CAP, vada ricondotto ad una matrice di tutela dei più generali interessi dei cittadini, esiste un’altra corrente di pensiero, «alquanto differente nel fondamento ma spesso non dissimile nei risultati», secondo cui la ratio di queste norme non è meramente strumentale alla salvaguardia di valori sociali considerati in quanto tali ma «consiste nell’esigenza di tutelare la pubblicità dalla reazione ostile che sarebbe provocata da messaggi capaci di offendere la sensibilità dei consumatori e del pubblico in genere» ( 82 ). Questa seconda posizione rivela una maggiore coerenza con lo spirito normativo sottostante all’intero Codice di autodisciplina. Ed invero, «l’assunto ex art. 1 CAP, secondo il quale la pubblicità deve evitare tutto ciò che possa screditarla, Nella dec. n. 27/1995, 2 maggio 1995, Comitato di controllo c. Casa Damiani s.p.a., Publitalia ‘80 s.p.a. il Giurì si sofferma sull’accezione semantica della locuzione “Tutti”, affermando che tale locuzione è da riferirsi non solo a chi nutre sentimenti religiosi o semplice rispetto per i sentimenti altrui ma anche a chi è indifferente o irrispettoso della sensibilità religiosa altrui […], a tutti costoro va assicurata la tutela di questo bene considerato tra quelli prioritari, ai quali cioè è stata attribuita una precedenza ideale per motivi di maggiore validità, importanza o urgenza. Un importante corollario a questo principio è stato posto dalla successiva dec. n. 219/1995, 7 novembre 1995, Comitato di controllo c. Swish Jeans Rome s.r.l., Saatchi & Saatchi Advertising s.p.a., in cui si legge «All’Autodisciplina pubblicitaria non si può dare il carico di salvaguardare la patologia o l’ottica individuale nel sentire la religione, dovendo limitare il proprio intervento, se richiesto, alla miglior difesa dei valori religiosi storici generalmente condivisi […]. Tuttavia, quello della sensibilità individuale, ma anche dei limiti del buon gusto, o del fastidio personale e dell’indignazione circoscritta, è un territorio che il Giurì deve ritenere al di fuori del proprio ambito di dovuta tutela e nell’ambito del quale il giudizio finale non può che essere espresso dalla risolutiva risposta d’acquisto, positiva o negativa, del consumatore». (81) Dec. n. 73/1988, cit. (82) Per un approfondimento cfr. CUCCINO, cit., pag. 988. 72 ha un valore ermeneutico prioritario, che gli deriva da precise realtà storiche e ideologiche, rispetto a qualsiasi altra norma, […]. In altre parole, l’art. 1 delinea l’ambito teleologico […], alla luce del quale devono essere percorsi gli spazi interpretativi connessi all’applicazione delle rimanenti norme del Codice. Riconoscere nell’autotutela del sistema il bene da perseguire prioritariamente, non significa sminuire o svuotare del tutto l’importanza degli altri valori ugualmente tutelati. Significa solo fissare un parametro di riferimento, un criterio più circoscritto, se si vuole perfino solo di natura pragmatica, idoneo cioè a fornire all’interprete delle chiavi di valutazione dei messaggi, da un lato, di più agevole applicazione; da un altro, più coerenti e consone alla matrice privata del sistema autodisciplinare» ( 83 ). Dietro il velleitarismo concettuale dei tentativi di astrazione assolutizzante di taluni valori dai quali emergono profili apprezzabili in chiave eminentemente ideologica e morale, si cela, implacabile, il pericolo di una pletorica autoreferenzialità della tutela autodisciplinare, pericolo, questo, estrinsecantesi nell’assurda pretesa che la pubblicità sia «migliore della società da cui scaturisce!» (84) (85). 4. Non può certo negarsi che la comunicazione pubblicitaria abbia sempre mostrato una qualche affezione per l’iconografia erotica, purtuttavia, in tempi più recenti, tale affezione si è tramutata in una sorta di rovello ossessivo e morboso. La stragrande maggioranza degli inserzionisti ricorre alla rappresentazione dell’erotismo per reclamizzare servizi e prodotti di ogni sorta, ostentando una autoreferenzialità (83) Op. et loc. supra cit. (84 ) Op. et loc. supra cit. (85 ) Per quanto attiene ai profili di sindacabilità delle pubblicità coinvolgenti le convinzioni etiche e morali dei cittadini, valgano le medesime considerazioni svolte con riguardo all’art. 9 CAP. Sul tema v. infra § 2.1. 73 selvaggia e trascendendo i limiti della decenza e del cattivo gusto imposti dalle norme autoregolamentari. I casi esaminati nella trattazione che segue varranno ad affinare il fuoco euristico circa le tendenze ermeneutiche svelatesi nel seno della giurisprudenza autodisciplinare italiana sul tema in argomento. Più volte il Giurì si è trovato ad apprezzare la conformità all’ordinamento autodisciplinare delle immagini pubblicitarie utilizzate da Benetton per le sue campagne. Tra le pronunce di maggior caratura si annoverano le decisioni nn. 196/2000, 99/2001 e 133/2002 (86). La prima delle decisioni summentovate concerne un inserto pubblicitario raffigurante il corpo di una donna colta nell’atto di carezzare con la mano cinta di preziosi gioielli la zona pubica. La modella, vestita di una sola maglietta di tulle e un paio di mutandine, è seduta a gambe divaricate sul bordo di una piscina. Accanto alla figura è pubblicata la ricetta della Bob’s Cheesecake (87). Ad avviso del Comitato di Controllo l’immagine risulta marcatamente volgare e supera i limiti del buon gusto e della decenza poiché nell’effigiare in modo lezioso nient’altro che una pratica onanistica, lascia trapelare l’assoluta incongruenza fra questa e il prodotto reclamizzato, donde la violazione degli artt. 9 e 1 CAP. Le modalità espressive impiegate, soggiunge l’organo di controllo, sono invero parecchio ridondanti, siccome ispirate all’iperbolica sublimazione della lascivia e della più triviale scostumatezza, mostrando un’intrinseca idoneità a gettare discredito sulla pubblicità come istituzione. L’inusuale accostamento degli elementi figurativi celebra una passione logorante: la donna è ritratta senza volto, le gambe sono innaturalmente divaricate e sollevate verso l’alto, la mano è schiacciata sul pube dal peso di pacchiani (86) Rispettivamente, dec. n. 196/2000, cit; dec. n. 99/2001, cit; dec. 133/2002, cit. (87) Dec. n. 196/2000, cit. 74 monili. Ogni cosa evoca una gestualità erotizzante e stucchevole, esasperata dalle cromie sfavillanti del rosso carminio. Nell’opinione della resistente la tesi del Comitato è quantomeno velleitaria ed ambiziosa, dal momento che non tiene in minima considerazione la fondamentale circostanza che l’ambientazione prescelta dall’inserzionista fosse quella di una piscina, e che, pertanto, la rappresentazione di una donna in abiti succinti dovesse essere considerata assolutamente pertinente e non sovrabbondante. In subordine la resistente contestava la circostanza, di raro interesse comparatistico, che il medesimo inserto pubblicitario, sottoposto al vaglio dell’organo di autodisciplina pubblicitaria inglese, l’Asa Advertising Standard Authority, fosse uscita immune da censure di sorta. Cionondimeno, adducendo argomentazioni alquanto tendenziose e formalistiche, la stessa resistente auspicava, contestualmente prospettandone l’irrinunciabile convenienza, una decisione conforme al precedente inglese da parte del giudice autodisciplinare italiano, al fine di scongiurare l’insorgere di un conflitto giurisprudenziale all’interno della European Advertising Standard Alliance, cui aderiscono sia l’Istituto di Autodisciplina pubblicitaria, sia l’Advertising Standard Authority. Esaurita la discussione tra le parti, il Giurì, dopo aver precisato che «la circostanza che la pubblicità non sia stata censurata dall’istituto inglese di autodisciplina è del tutto irrilevante, diverse essendo cultura e sensibilità dei vari Paesi, anche in relazione all’abitudine del pubblico alla diffusione di immagini di un certo tipo», dichiara l’annuncio in contestazione in contrasto con l’art. 9 CAP, «poiché rappresenta e suggerisce atteggiamenti volgari», e con l’art. 1, «poiché l’immagine - essendo priva di ogni funzionalità in relazione all’esigenza di illustrare natura e pregi del marchio Sisley - tende a imprimerne nella mente il ricordo, strumentalizzando sensibilità, pruderie 75 o debolezze del pubblico, gettando discredito sulla comunicazione pubblicitaria» (88). Il secondo caso che ci si accinge ad esaminare, stabilito con dec. n. 133/2002 e concernente alcuni messaggi pubblicitari facenti parte di un’unica campagna Sisley, si connota per la preponderante presenza di riferimenti a pratiche onanistiche assai spinte, presentando molteplici profili di stridente dissonanza con le norme autodisciplinari. I cinque messaggi pubblicitari sono pervasi da una marcata omogeneità tematica, un leit motiv estrinsecantesi in una martellante riproposizione motivica enfatizzata da ardenti contrasti cromatici (89). Nel primo messaggio viene rappresentata una scena di marcato autoerotismo: una donna in posizione supina introduce la mano sinistra tra le gambe in prossimità della zona pubica. La postura e la gestualità ( 88 ) Per completezza espositiva, sembra opportuno precisare che nel caso di specie il Comitato di Controllo chiedeva la condanna della Rcs e della Edif, proprietarie dei mezzi di comunicazione sui quali è stata pubblicata la pagina pubblicitaria in contestazione, oltreché per la violazione degli artt. 9, 1, anche per l’asserita violazione dell’art. 11 CAP. La disposizione da ultimo richiamata tutela i bambini e gli adolescenti stabilendo che «una cura particolare deve essere posta nei messaggi che si rivolgono ai bambini e agli adolescenti o che possono essere da loro ricevuti. Questi messaggi non devono contenere nulla che possa danneggiarli psichicamente, moralmente o fisicamente e non devono inoltre abusare della loro naturale credulità o mancanza di esperienza, o del loro senso di lealtà. In particolare questa comunicazione commerciale non deve indurre a: violare norme di comportamento sociale generalmente accettate; compiere azioni o esporsi a situazioni pericolose; ritenere che il mancato possesso del prodotto oggetto della comunicazione significhi inferiorità, oppure mancato assolvimento dei loro compiti da parte dei genitori; sminuire il ruolo dei genitori e di altri educatori nel fornire valide indicazioni dietetiche; adottare l’abitudine a comportamenti alimentari non equilibrati, o trascurare l’esigenza di seguire uno stile di vita sano; sollecitare altre persone all’acquisto del prodotto oggetto della comunicazione. L’impiego di bambini e adolescenti nella comunicazione deve evitare ogni abuso dei naturali sentimenti degli adulti per i più giovani». Tuttavia il Giurì ritiene che nel caso sottoposto alla sua cognizione non ricorrano gli estremi per l’applicazione della disposizione in commento, poiché la circostanza di fatto che i prodotti Sisley fossero indirizzati agli adolescenti non è stata tempestivamente contestata con il ricorso introduttivo, né su di essa si è raggiunta la prova nel corso del giudizio. (89) Dec. 133/2002, cit. 76 della donna sono tutte improntate alla più evidente lascivia. Il volto è acceso in un’espressione bramosa di lussuria, le labbra aperte invocano trepidanti i piaceri carnali, mentre gli occhi dissuggellano un’intimità solitaria e melanconica (90). Il secondo messaggio rappresenta un giovane con l’indice e il medio della mano sinistra uniti davanti alla bocca e la lingua infilata tra le dita, protesa verso il lettore, dando così luogo a una raffigurazione chiaramente allusiva, talmente volgare da non poter essere tollerata e accettata in ambito pubblicitario. L’immagine, già di per sé raccapricciante, è inserita in uno scenario cupo, lugubre e financo funereo che evidenzia oltremisura il nichilismo psicologico riflesso negli occhi del giovane. Il terzo messaggio rappresenta il medesimo modello seduto a gambe divaricate, che indossa solo un paio di slip neri, e ha una mano appoggiata sul pube. Da un lato degli slip fuoriesce una banana, chiara suggestione fallica. Privo di quella giocosità burlesca e dilettevole che avrebbe potuto attenuarne la carica erotica, anche questo messaggio, ad avviso dell’organo inquirente, ostenta le più intime costumanze erotiche, squarciando il velo della segretezza e del pudore nel più deprecabile dei (90) Il Comitato di Controllo ritiene che il contrasto del messaggio in parola con le norme autodisciplinari sia insanabile, arguendo che «anche se in pubblicità non esistono normalmente tabù, i gesti inerenti la sessualità devono continuare ad appartenere alla sfera personale e alla riservatezza delle persone: quando tali gesti vengono enfatizzati come nel messaggio pubblicitario in oggetto, finiscono per suscitare reazioni innegabilmente negative». Il Comitato ritiene, altresì, che l’atteggiamento della ragazza ritratta nel messaggio pubblicitario leda profondamente la dignità della donna, ponendosi così in contrasto con l’art. 10 CAP. Infine, soggiunge, l’allusione a situazioni così intime in ambito pubblicitario, non può che provocare forte disorientamento nel pubblico, specialmente ove trattasi di un pubblico di adolescenti, che non hanno ancora avuto modo di sviluppare quelle barriere di protezione e di elaborazione critica verso simili immagini, di cui dispongono gli adulti. 77 modi (91). Il quarto messaggio della campagna pubblicitaria rappresenta, in due distinte fotografie, una adolescente sullo sfondo di un muro dai colori cupi. Nella prima immagine, la ragazzina indossa un completo intimo trasparente dalle tinte molto tenui, e lascia scoperto un seno, mentre rivolge lo sguardo intenso verso il lettore, con le labbra lucide e dischiuse. Nella seconda foto, la modella è ripresa di schiena, con la stessa biancheria intima, le braccia e le gambe aperte appoggiate sopra il muro, come imprigionata, e la testa reclinata indietro ( 92 ). In entrambe le rappresentazioni fotografiche la modella, imbrigliata in una cornice di sopruso e coercizione, pare volersi concedere al suo carnefice per assecondarne la fame famelica, in un caso, offrendo la nudità del suo seno opulento, nell’altro, assumendo una posa che soltanto l’esistenza di salde catene a torcerne le membra, avrebbe potuto consentire. Da non trascurare, nella seconda immagine, la postura del capo, reclino all’indietro, in segno di arrendevolezza e acquiescenza. L’ultima rappresentazione pubblicitaria rappresenta – su due pagine – i piedi di una donna calzati da eleganti sandali dai tacchi a spillo sulla schiena di un ragazzo, e sprofondati nella pelle. L’immagine presenta una trasgressività estrema e ributtante, risultando pregna di una simbologia (91) Con riguardo a questo particolare aspetto, il Comitato di Controllo precisa che «anche se il tema della sessualità non è di per sé estraneo al mondo della pubblicità, cionondimeno, le raffigurazioni proposte dalla Sisley hanno un vero contenuto pornografico, oltre a essere discreditanti e pretestuose». E ancora, «non vi è dubbio che la pubblicità in oggetto superi i confini di liceità tracciati dal Codice e dalla giurisprudenza autodisciplinare a tutela del pubblico». ( 92 ) Illuminanti al riguardo sono le parole del Comitato di Controllo, il quale ritiene «evidente il richiamo a suggestioni erotiche appartenenti alla sfera della violenza e del sadomasochismo». Il Comitato opina che le due immagini, anche «viste in rapporto con le altre della campagna Sisley, presentino profili di ambiguità non accettabili, per le modalità con le quali viene usato il corpo di una adolescente, in pose ammiccanti, idonee a evocare suggestioni inadeguate sia per un pubblico di adulti, sia, a maggior ragione, per un pubblico di adolescenti […]». 78 inneggiante alla violenza ed alle pratiche sadomasochistiche. I tacchi delle scarpe indossate dalla donna trapassano la pelle del giovane, giungendo alla carne e procurandogli non poca sofferenza fisica, cionondimeno la sua espressione pare di godimento quasi gaudente, a significare che questi, lungi dal voler sottrarsi al lancinante dolore, ne tragga piuttosto beatitudine e appagamento. Il Giurì, esaminati gli atti e sentite le parti, dichiara i messaggi litigiosi non conformi agli artt. 9, 10, 11, e 1 CAP, ordinandone l’immediata cessazione (93). Molteplici sono le assonanze tra questa pronuncia e la dec. n. 99/2001 di poco precedente, ambedue inserendosi nel quadro di un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato ( 94 ). La decisione in oggetto riguarda due messaggi pubblicitari apparsi su alcuni noti periodici. Il primo messaggio raffigura una giovane donna che tiene nella mano destra un fiore, caratterizzato da un lungo pistillo arancione, mentre infila la mano sinistra nello spacco della gonna, in atteggiamento di spiccato autoerotismo. Il Comitato di Controllo ritiene che i messaggi in discorso si pongano in contrasto con gli artt. 9, 10 e 1 CAP. Secondo la tesi prospettata dalla parte inquirente, le modalità visive con le quali è rappresentato il tema sessuale sono oltremodo «enfatizzate e proposte con connotati degradanti, al solo scopo di richiamare l’attenzione sulla (93) Di seguito le argomentazioni, invero di agevole intuizione, poste dal Giurì a base della sua decisione: l’intera campagna pubblicitaria violerebbe l’art. 10 del Codice di Autodisciplina che tutela la dignità della persona perché raffigura la donna in modo offensivo e indecoroso senza giustificazione alcuna, l’art. 9 perché volgare e indecente, l’art. 11 perché il prodotto reclamizzato, e cioè la linea di abbigliamento Sisley, destinata a un pubblico di giovani e giovanissimi, può avere effetti negativi su soggetti ancora immaturi e facilmente influenzabili dalla crudezza e gratuità dell’immagine e, infine, l’art. 1 perché il messaggio, che ha il solo effetto di provocare turbamento e repulsione, è idoneo a screditare l’intero sistema pubblicitario. (94) Dec. n. 99/2001, cit. 79 comunicazione pubblicitaria». Poiché nessun collegamento è dato scorgere tra la scelta comunicazionale adottata e i prodotti pubblicizzati, quest’ultima si connota per una autoreferenzialità sovrabbondante che non può in alcun modo essere tollerata dall’ordinamento pubblicitario, ponendosi con esso in plateale contrasto. Ciò, in quanto il lungo pistillo, lungi dal rappresentare un mero elemento ornamentale, costituirebbe un’effige fallica difficilmente equivocabile, mentre la gestualità sensuale della mano sinistra della donna, immessa nella gonna all’altezza del pube, evocherebbe l’idea del luogo a cui lo stesso è destinato. Il secondo messaggio è composto da due immagini, che occupano due pagine consecutive del giornale: la prima rappresenta un ragazzo in piedi, con maglietta e pantaloni bianchi, che impugna con entrambe le mani, all’altezza del pube, un fiore di colore rosa intenso, con un pistillo color oro. Nella seconda, appare soltanto il fiore rosa in primo piano, sempre impugnato dalle mani del ragazzo, sullo sfondo bianco dei pantaloni. Il Comitato ritiene che questo secondo messaggio abbia carattere «allusivo ed esibizionistico, simboleggiando nel fiore l’organo genitale maschile, anche qui al solo scopo di richiamare l’attenzione del pubblico». Inoltre, non vi sarebbe «alcuna connessione fra le immagini ed il marchio dell’inserzionista, sicché i richiami sessuali appaiono del tutto gratuiti e volgarmente incentrati sugli organi genitali». Il Comitato persevera nelle sue argomentazioni, ponendo l’accento sulla circostanza, certo non trascurabile, che l’attenzione del consumatore sia capziosamente catturata dalla presenza di due elementi iconografici: il vigoroso contrasto cromatico tra il bianco quasi argenteo dei pantaloni e il rosa esuberante del fiore, da una parte, e l’espressione animalesca, quasi ferina, che abbrutisce il volto del giovane, dall’altra. Il giudice pubblicitario dichiara i due annunci in contrasto con l’art. 9 CAP, «perché 80 volgari e indecenti, nonché con l’art. 1 del medesimo codice, perché l’utilizzazione superflua, negli annunci pubblicitari, di immagini e concetti scabrosi, al solo scopo di rafforzarne l’impatto emotivo sul pubblico, getta discredito sulla pubblicità». Non vi ravvisa invece violazione dell’art. 10 CAP, «poiché l’evocazione di temi scabrosi non è realizzata con modalità tali da mettere in questione la dignità della persona, violandone l’intimità, la riservatezza o il decoro». La dec. n. 92/2001 ha ad oggetto un inserto pubblicitario ritraente «una ragazza dalla vita all’inguine, vestita con un blue jeans slacciato, con una mano ingioiellata con le dita infilate in uno slip nero» ( 95). E la pubblicità reca all’altezza del pube la headline “trasgredisci con Emporio Recarlo”. Il Comitato di Controllo, osservato preliminarmente che il tema della sessualità non sia aprioristicamente ed acriticamente precluso alla comunicazione pubblicitaria, chiarisce che nel caso in esame l’immagine «trascende il limite del semplice cattivo gusto e della decenza», e «raffigura un gesto di autoerotismo volgare ed indecente», senza che vi sia collegamento alcuno tra la rappresentazione in parola e il prodotto reclamizzato, di qui il contrasto con l’9 CAP. L’ulteriore violazione dell’art. 11 CAP deriverebbe, a detta del Comitato, dall’ostentazione esibizionistica e magnificante di atteggiamenti improntati al più volgare autoerotismo, con potenziale turbamento delle convinzioni etiche e morali della collettività e grave nocumento per la maturazione sessuale e psichica dei minori. Il messaggio litigioso non si limiterebbe, infatti, a rappresentare staticamente un’immagine chiaramente suggestionante e allusiva, ma si spingerebbe ben oltre, incitando i giovani adolescenti ad emulare gli atteggiamenti oggetto di raffigurazione, ne sarebbe limpida (95) Dec. 92/2001, 20 marzo 2001, Comitato di controllo c. Recarlo s.r.l., Rcs Editori s.p.a. – Settore Periodici, Rcs Editori s.p.a. – Settore Pubblicità. 81 dimostrazione la scritta “Trasgredisci con Emporio”. Opina il Comitato che le modalità comunicative utilizzate dall’inserzionista siano prive di qualsivoglia pregevolezza, rivelandosi financo grossolane, idonee per ciò stesso a gettare discredito sulla pubblicità, in violazione dell’art. 1 CAP. Il Giurì di Autodisciplina non condivide integralmente la decodifica operata dall’organo inquirente, considerando il messaggio litigioso contrario all’art. 9 del CAP, ma soltanto limitatamente alla scritta summentovata, e non anche con riguardo alla parte iconografica. All’uopo il Giurì mette a fuoco la fondamentale circostanza che «la pubblicità litigiosa non contenga una raffigurazione di autoerotismo: perché la mano della ragazza è diretta verso il basso, ma a partire dall’altezza dell’ombelico, ed ha infilate nello slip soltanto l’ultima falange di due dita, onde per entrambe le ragioni il gesto certamente non è direttamente espressivo di un atto di autoerotismo». È bensì vero però, che l’headline riqualifica il messaggio in senso metaforico e traslato. Il collegio conclude, come più sopra anticipato, affermando: «la pubblicità litigiosa non è interamente confliggente con l’art. 9 CAP; lo è principalmente per la parola “trasgredisci”, associata con l’immagine; e non costituirebbe un illecito autodisciplinare ove la pubblicità eliminasse le parole “trasgredisci con”». Rientra a pieno titolo in questo gruppo di sentenze, aventi ad oggetto tematico la rappresentazione dell’erotismo in pubblicità, anche la dec. n. 316/2000, concernente due inserti pubblicitari, Honeysuckle e Virgin, apparsi su taluni noti periodici (96). Il primo di essi ritrae in primo (96) Dec. 316/2000, 7 novembre 2000, Comitato di Controllo c. Benetton Group s.p.a., Gruppo Editoriale L’Espresso s.p.a. Divisione la Repubblica, A. Manzoni & C. s.p.a., Rcs Editori s.p.a. Settore Periodici, Cairo Pubblicità s.p.a. relativa ai messaggi pubblicitari Honeysuckle e Virgin, pubblicati rispettivamente su “D”, supplemento de “la Repubblica delle Donne” n. 215, data copertina 29 agosto 2000 e di “Io donna” n. 39, data di copertina 23 settembre 2000. 82 piano una fanciulla vestita soltanto di una «canottiera rosso fuoco, che ne mette in risalto il seno procace, e la mano di un uomo che le cinge da dietro un seno, premendolo». Il Comitato ritiene, anzitutto, la scelta comunicazionale, «oltre che palesemente in contrasto con l’art. 9 del Codice di Autodisciplina, anche in violazione dell’art. 1 dello stesso Codice in quanto getta discredito sulla pubblicità in generale. Data la spersonalizzazione del messaggio […], l’annuncio può […] essere decodificato nel senso di un gesto di sopraffazione e di molestia subìto dalla donna in spregio […] a quanto previsto all’art. 10». La scelta iconografica pare invero assai deplorevole, poiché estrinsecantesi nell’arbitraria estrapolazione di una scena erotica dal naturale contesto intimo, e nella sua collocazione in gigantometrie affissionali esposte al grande pubblico dei consumatori. Di qui la spregevole volgarità di cui il Comitato si duole, ulteriormente aggravata dalla pleonastica superfluità della rappresentazione, idonea, per le modalità scandalistiche utilizzate, a screditare l’intero mondo pubblicitario. Il secondo messaggio oggetto di contestazione mostra «i glutei e le gambe di una donna prona adagiata su un letto di ottone, che indossa solo una maglia leopardata e un collant di rete nera sotto al quale sono visibili gli slip bianchi e, infine, un paio di stivali neri di pelle con tacco alto, sottolineati dalle gambe piegate all’indietro leggermente aperte. L’assenza dell’indumento inferiore, privando di funzione gli stivali di pelle nera, ne esalta, a detta del Comitato, la valenza di richiamo erotico. Tra l’altro l’immagine è accompagnata da un’headline smaccatamente allusiva, che si rifà all’ambiguo nome di un cocktail Virgin». L’ostentazione del lusso, l’ambientazione sfarzosa, l’oro dell’arredamento rendono la scena alquanto preziosa, esaltandone il carattere già di per sé erotizzante e 83 feticista oltre ogni tollerabilità. Quello che viene effigiato è un vero e proprio culto della lussuria più sfrenata, che irride al pudore virgineo con acre sarcasmo. Pertanto il messaggio in esame si pone in contrasto con gli art. 9, 10 e 1 CAP. Il Giurì, respinte le doglianze avanzate dalla resistente, la quale lamentava la manifesta tendenziosità ed l’infondatezza delle motivazioni prospettate dal Comitato, dichiara il contrasto della pubblicità litigiosa con gli articoli di cui sopra e ne dispone la cessazione. Desta particolare interesse anche la dec. n. 98/2001 avente ad oggetto un messaggio pubblicitario della nota casa di moda Emanuel Ungaro, apparso su riviste di straordinaria diffusione (97). Tale annunzio ritrae una fanciulla inginocchiata a gambe divaricate con una mano infilata all’altezza del pube sotto un vestito evanescente. L’espressione che si coglie sul volto della giovane donna è di estatico rapimento. La postura di servile proscinesi della modella «effigia una situazione di ostentato autoerotismo risultando nel complesso marcatamente indecente e ben la di là del limite del cattivo gusto», ponendosi in aperto contrasto con l’art. 9 CAP. Opina il Comitato che l’atteggiamento erotico ritratto nell’immagine pubblicitaria in discorso appartenga alla sfera più segreta dell’intimità femminile, di talché una simile raffigurazione integrerebbe senz’altro una grave offesa alla dignità della donna, contravvenendo all’art. 10 CAP. L’assoluta irrelazione al prodotto pubblicizzato dell’immagine rappresentata, soggiunge l’organo di controllo, aggrava ed acuisce il turbamento ed il fastidio provocati da quest’ultima, scalfendo l’alta estimazione di cui la comunicazione pubblicitaria tutta dovrebbe ( 97 ) Dec. 98/2001, 29 marzo 2001, Comitato di controllo c. Emanuel Ungaro s.p.a., Gruppo Editoriale L’Espresso s.p.a., divisione La Repubblica, A. Manzoni & C. s.p.a., Rcs Editori s.p.a., Settore Periodici, Rcs Editori s.p.a., Settore Pubblicità. I periodici in questione sono “Anna” n. 9 del 2/3/2001 e “D” di Repubblica n. 236 del 30 gennaio 2001. 84 godere, in contrasto con l’art. 1 CAP. Il Giurì accoglie le istanze del Comitato di Controllo e dispone l’immediata cessazione del messaggio pubblicitario e la contestuale pubblicazione per estratto della decisione sui mezzi in cui il messaggio è stato pubblicato (98). Con questa sentenza il Giudice pubblicitario richiama l’attenzione dell’inserzionista sulla natura eminentemente pattizia dell’istituzione autodisciplinare, affinché non sia gettata nell’oblio l’intima consapevolezza che proprio da quella discenderebbe l’abbassamento della soglia di tolleranza nei confronti degli atteggiamenti posti in essere dai soggetti operanti nell’universo pubblicitario, essendosi questi liberamente e spontaneamente vincolati ad un’etica comportamentale codificata: «Non vi è nulla di eroico, né di coraggioso nel proporre una simile trovata pubblicitaria, posto che la tolleranza verso la pornografia va ben oltre questi livelli, sicché nessuna sanzione è prevista al riguardo dal nostro ordinamento statuale. Piuttosto la tematica odierna riporta alle radici dell’istituzione autodisciplinare, ossia di una libera pattuizione tra soggetti operanti nel campo pubblicitario che si dotano volontariamente di un codice di lealtà pubblicitaria, per evitare appunto condotte opportunistiche che di primo acchito premiano colui che ottiene l’effetto di attrarre l’attenzione del pubblico sulla propria inserzione, ma che nel medio lungo periodo conducono a screditare l’intero comparto». (98) In motivazione osserva il giurì come ai fini della pubblicazione di cui all’art. 40 CAP «non rilevi solo il carattere plateale della violazione degli articoli citati, ma rilevi anche la reiterazione di forme di comunicazione pubblicitaria, troppo palesemente in contrasto con le regole dell’Autodisciplina per lasciare dubbi sull’intenzionalità dolosa di sottrarsi ad esse. Il che in un sistema come quello autodisciplinare equivale al programma di lasciare ad altri l’incombenza di preservare l’alto livello del settore tenendo per sé i vantaggi della spregiudicatezza». È a tutti noto che la Emanuel Ungaro, quantunque sia diverse volte incorsa nella riprovazione del Giudice pubblicitario, non abbia mai dato segno di resipiscenza alcuna, continuando ad adottare per le sue campagne pubblicitarie una linea comunicazionale tutta improntata alla più tracotante magnificazione dell’erotismo. 85 Soltanto di qualche anno più tardi è la dec. n. 215/2003 in cui il Giurì ebbe ad condannare un annuncio pubblicitario che esibiva un nudo femminile che giace in posizione orizzontale avviluppato nell’oscurità. La modella regge nella mano sinistra il profumo reclamizzato la cui lussuosa confezione splende di una brillantezza preziosa che ne imperla la pelle lattescente (99). Secondo la lettura data dal Comitato il messaggio si pone in stridente contrasto l’art. 9 CAP, poiché la simbologia adoperata conduce fatalmente il lettore ad una decodifica in chiave erotica, e più specificamente, onanistica, dello stesso. Le fattezze dell’ampolla dorata evocano senza dubbio quelle falliche, quanto poi alla sua collocazione, avvinta nel grembo della donna e tra le due dita, non può dubitarsi che preluda ad una volgare pratica onanistica, la cui intrinseca grossolanità è acuita dalla scintillante luminescenza irradiata dall’ampolla, che porta in ulteriore evidenziazione l’atto rappresentato. L’immagine si pone altresì in contrasto con l’art. 10 CAP «poiché la raffigurazione della donna come mera sezione corporea, deprivata della sua identità individuale, risulterebbe offensiva della dignità della persona umana». Da ultimo, rileva il Comitato la totale pretestuosità e gratuità della rappresentazione, «donde anche la violazione dell’art. 1 CAP, potendo l’immagine suscitare nel pubblico reazioni di rifiuto tali da comportare discredito per la pubblicità». La controparte si duole della manifesta infondatezza delle censure mosse dall’organo inquirente avendo cura di rilevare che, quantunque la simbologia del messaggio in contestazione possa essere interpretata (99) Dec. n. 215/2003, 11 febbraio 2004, Comitato di Controllo c. Gianfranco Ferré s.p.a., Les Gitanes s.r.l., Rcs Periodici s.p.a., Rcs Pubblicità s.p.a., Publitalia ’80 s.p.a. con riguardo al messaggio pubblicitario “Essence d’eau Gianfranco Ferré”, rilevato sul mensile Amica, n. 11, novembre 2003. 86 secondo una lettura sessuologica di matrice freudiana, cionondimeno vi sarebbero due ulteriori chiavi di lettura cui condurrebbe l’analisi semiotica dei messaggi: «un’interpretazione psicologica, che delinea la [...] capacità del prodotto di apportare alla donna che lo usa emozioni sorprendenti e quasi magiche, che si irradiano nel corpo [...], come il riverbero luminoso della boccetta. Un’interpretazione simbolico- antropologica, che sottolinea la capacità, insita nel prodotto, di apportare “energia vitale” alla donna che ne fa uso». Il Giurì, esaminati gli atti e sentite le parti, dichiara il contrasto della pubblicità litigiosa con l’art. 9 CAP e respinge ogni altra istanza. 4.1. Non di rado il linguaggio pubblicitario ricorre alla rappresentazione delle pratiche zoosessuali più raccapriccianti, il cui carattere intrinsecamente perverso è tanto più evidente ove si consideri che la stragrande maggioranza dei casi, molti dei quali saranno esaminati nella presente trattazione, si caratterizza per la carenza di qualsivoglia legame, anche transeunte od occasionale, tra l’iconografia impiegata e il prodotto reclamizzato. L’antesignana delle pubblicità contenenti reminiscenze di questo tipo, è la pubblicità “Beat stories from big sur”, la cui assiomatica autorevolezza quale precedente è indubitabile ( 100 ). L’iconografia rappresenta una giovane donna vestita interamente di nero che stringe tra le braccia un agnellino. Tra le gambe divaricate della modella si intravede lo slip macchiato di sangue. Anche l’animale reca vistose tracce vermiglie intorno alla bocca, lievemente socchiusa. A parere del Comitato di (100) Dec. n. 377/1999, 23 novembre 1999, Comitato di Controllo c. Benetton Group s.p.a., Energy Project s.p.a., A. Mondadori Editore s.p.a., Mondadori Pubblicità S.p.a., con riguardo al messaggio Sisley “Beat stories from big sur”. diffuso su “Panorama” n. 41, data di copertina 14 ottobre 1999. 87 Controllo, quali che siano gli intenti comunicazionali posti alla base del messaggio litigioso, le possibili soluzioni interpretative suggerite dalla crudezza espressionista dello stile sono essenzialmente due: o la ragazza esibisce una perdita di sangue mestruale oppure lascia intendere di essere stata brutalmente deflorata. Accostamento assai ardito è poi quello tra l’inequivoca volgarità posturale della figura femminile, evocatrice di suggestioni che appartengono alla sfera della violenza sadomasochista più truculenta, le chiazze rubiconde che costellano l’immagine, e l’agnellino, icastico paradigma di purezza e candore. Il realismo cromatico ed immaginifico della rappresentazione enfatizza oltremodo la già stridente cesura concettuale tra lussuria e castità, celebrando l’aberranza sessuale in un’iconografia di rara violenza morale e psicologica. Una simile ricognizione ermeneutica non può che condurre, a detta del Comitato, a ritenere il messaggio in contestazione in stridente contrasto con gli artt. 1, 9, 10 e 11 CAP. Il Giurì, dichiarata la contrarietà del messaggio litigioso con le norme autodisciplinari di cui sopra, ingiunge alle convenute di desistere dall’ulteriore pubblicazione del messaggio litigioso (101). La giurisprudenza sul tema è copiosa. Gioverà pertanto proseguire con l’analisi di due pronunce particolarmente rappresentative, la dec. n. (101) In motivazione il Giurì si sofferma sulla platealità della condotta violativa posta in essere dall’inserzionista, asseverando che «il messaggio risulta offensivo non solo per l’estrema gratuità che lo contraddistingue [dal momento che] non è ravvisabile nesso alcuno tra la rappresentazione e la linea di prodotti cui fa riferimento, ma per l’enfasi che, visivamente, viene attribuita all’immagine, con il particolare dello slip portato in primo piano e quindi imposto come “centrale” al consumatore. Alla posizione di centralità visiva corrisponde una posizione di “centralità” interpretativa nel senso che neppure la persona più distratta e assente può sfuggire all’impatto - disturbante - con l’immagine. Il fatto di parlare del ciclo mestruale femminile o di analizzare le conseguenze, a livello genitale, di una deflorazione acquista un valore diverso a seconda che se ne parli a livello scientifico, a un pubblico preparato a valutare criticamente i fatti o invece in un contesto pubblicitario, a un pubblico non selezionato e usando, per veicolare il messaggio, una rappresentazione della femminilità totalmente avulsa dalla finalità comunicativa relativa al prodotto». 88 238/2001 e la dec. n. 119/2001 (102). La decisione di cui sopra riguarda quattro messaggi Sisley facenti parte della campagna pubblicitaria Hungry for love diffusa, oltreché sul sito internet dell’inserzionista, su numerosi supplementi a quotidiani e periodici. L’ambientazione prescelta è di raro vigore evocativo, trattandosi, per l’appunto, di un fienile. Il primo messaggio, che occupa due intere pagine della rivista, ritrae da una parte le sole gambe di una donna brutalmente sbattuta sul fieno e dall’altra un particolare della precedente immagine con in primissimo piano i piedi della donna calzati da eleganti scarpe. Il tessuto scuro delle calze è solcato da rivoli lattei e opalescenti. Secondo l’interpretazione offerta dal Comitato di Controllo anche il lettore più sprovveduto comprenderebbe che le macchie perlacee in questione altro non sono se non una facinorosa raffigurazione di liquido seminale. A ciò si aggiunga l’ulteriore e non trascurabile considerazione secondo cui il fienile è, almeno in un certo immaginario, luogo emblematico di consumazione della passione erotica. Secondo questa lettura la peculiare ambientazione del messaggio pubblicitario acuisce oltremodo quei caratteri di ripugnanza ed inopinabile sconvenienza che già sono presenti nell’iconografia principale. La giovane pare assumere una condotta psichica disumanizzata e spersonalizzate, le fattezze di ancella e schiava ne enfatizzano la sostanza puramente oggettuale. Il secondo annunzio propone, nella medesimezza dell’ambientazione, una giovane donna vestita di un solo maglione bianco che cinge con le braccia un maiale, mostrandone con sguardo sgomento la (102) Rispettivamente, dec. n. 238/2001, 13 novembre 2001, Comitato di controllo c. Benetton Group s.p.a., Energy Project s.r.l., R.C.S. Periodici s.p.a, R.C.S. Pubblicità s.p.a., Gruppo Edit. L’Espresso s.p.a., div. la Repubblica, A. Manzoni & C. s.p.a. e dec. 119/2001, 11 maggio 2001, Comitato di controllo c. Benetton Group s.p.a., Energy Project s.r.l. Alessi s.p.a., SMA s.p.a., Jolly Pubblicità s.p.a. 89 testa ed il muso. Anche in questo caso la donna è effigiata come una vittima sacrificale offerta sull’altare dalla più abietta delle devianze zoosessuali. Una lussuria lacerante vena ogni singolo particolare dell’immagine lasciando intendere che tra la giovane donna e l’animale cui è avvinghiata vi sia un’intima intesa erotica. Benché gli occhi vitrei della donna si rivolgano direttamente al lettore, da essi trapela un inquietante immobilismo emotivo cui si contrappone, superba, l’ostentazione della conquista compiuta. L’accostamento tra la bella fanciulla e il maiale produce uno sconvolgente effetto visivo, proponendo in modo neppure tanto larvato una inaccettabile equivalenza semantica. Il terzo messaggio ritrae una giovane donna intenta a cavalcare su una sella poggiata sulla schiena di un uomo nudo, mentre con la mano gli stringe una ciocca di capelli come fosse una criniera. Accanto alla consueta celebrazione di una sessualità degradata, si affacciano impudenti i temi del sadomasochismo e del feticismo. La donna è il carnefice, l’uomo la vittima. La metafora non lascia spazio a interpretazioni alternative, ritraendo con realismo verista una scena che, a detta del Comitato, assume «un connotato fortemente disturbante e idoneo a turbare la sensibilità del pubblico». I quattro messaggi pubblicitari costituiscono un unicum e vanno pertanto valutati congiuntamente quali estrinsecazione della medesima strategia comunicazionale (103). Ad opinione del Comitato di Controllo ( 103 ) Il quarto dei messaggi facenti parte della campagna pubblicitaria in commento non contiene riferimenti di tipo zoosessuale, cionondimeno ragioni di ordine sistematico impongono di accennarvi anche fugacemente. Il messaggio de quo mostra il volto e il busto di una giovane donna con un golfino scollato, che si rivolge al pubblico con atteggiamenti seducenti e fortemente allusivi, esibendo tra le labbra socchiuse una vistosa croce legata ad una collana. Secondo l’opinione del Comitato di Controllo l’immagine in parola «risulta offensiva dei sentimenti e le convinzioni religiose dei credenti perché unisce due temi, la religiosità e la provocazione sessuale che non hanno alcuna correlazione oggettiva se non quella di creare una provocatoria distonia idonea a 90 tutta la campagna Sisley si porrebbe in contrasto con gli artt. 9, 10 e 1 CAP. Con l’art. 9 CAP, per l’ossessiva riproposizione di immagini tanto volgari da trascendere i limiti del cattivo gusto e, nel contempo, da superare in modo indecoroso e sovrabbondante i confini della decenza; con l’art. 10 CAP, perché propugna un modello comportamentale irrispettoso della dignità umana, platealmente mercificata e ridotta a mero inventario di «reperti anatomici» e «pezzi di carne»; con l’art. 1 CAP, infine, perché intensamente discredita il mondo pubblicitario dal suo stesso ventre, attraverso l’impiego di tecniche aggressive e altamente suggestionanti di memorizzazione del marchio. Il Giurì, accogliendo integralmente la prospettazione offerta dal Comitato di Controllo, ordina la cessazione della campagna pubblicitaria in contestazione per violazione degli artt. 9, 10 e 1 CAP (104). suscitare offesa ai valori». In quest’ultimo esempio l’assoluta arbitrarietà dell’accostamento proposto porge il fianco a contestazioni difficilmente superabili, mostrando tutta la sconsideratezza e l’insensatezza del capriccio. (104) Non può essere sottaciuta l’ormai annosa questione concernente la posizione processuale della Benetton Group s.p.a. nel giudizio autodisciplinare. Quello appena trattato è l’ennesimo caso in cui la Benetton, disconoscendo la competenza del Giurì ad emettere decisioni nei suoi confronti, eccepisce la sua non assoggettabilità alle norme del Codice di Autodisciplina. In particolare, nelle questioni preliminari di rito, la Benetton contestava la propria carenza di legittimazione passiva, all’uopo rilevando e la carenza del criterio di collegamento diretto per avvenuto recesso della stessa società convenuta dall’Unione Pubblicità Associati, con efficacia dall’1 gennaio 1993, e la mancanza del criterio di collegamento indiretto per aver la stessa doviziosamente e cautelarmente pattuito una deroga espressa alla clausola di accettazione del Codice di Autodisciplina. Giusta la costante e monolitica giurisprudenza del Giurì sul punto, deve senz’altro ritenersi che la mancata o cessata associazione all’Unione Pubblicità Associati non sia, di per sé stessa, condizione sufficiente a giustificare un esonero dell’utente dei servizi pubblicitari dall’osservanza del Codice di Autodisciplina. Diversamente deve opinarsi ove l’utente abbia tempestivamente dato prova di aver stipulato con il medium un apposito patto contrario all’applicazione di quella condizione generale del contratto di inserzione che prevede la cogenza dell’obbligo di osservanza del Codice di Autodisciplina e delle pronunce del Giurì. Nel caso di specie il collegio giudicante, considerando pienamente assolto il suddetto onere probatorio e, per lo stesso motivo, ritenendo fondata l’eccezione opposta dalla resistente, ha riconosciuto il difetto di legittimazione passiva della Benetton e contestualmente affermato la legittimazione 91 La seconda decisione in commento riguarda nuovamente una pubblicità Sisley, rilevata, questa volta, su affissioni cartellonistiche nelle città di Genova e Milano. La pubblicità in contestazione ritrae, in primo piano su fondo nero, la parte inferiore del volto di una ragazza fotografata di profilo nell’atto di protendere in avanti la lingua a sfiorare la testa di un serpente, ghermendolo con la mano destra ( 105 ). Nell’opinione del Comitato di Controllo, tutti gli elementi figurativi che caratterizzano l’immagine sono deprecabilmente piegati all’apologica sublimazione di un erotismo imbarbarito e costellato d’infinite crudezze. La stigmatizzazione dell’espressione estatica della ragazza, la lingua turgida e sfavillante protesa verso il serpente, la stretta efferata della mano, sono tutti elementi iconici riecheggianti una simbologia chiaramente fallica, essendo a tutti noto come il serpente costituisca un’effigiazione pararealistica dell’organo genitale maschile, resa ancor meno misterica, nel caso di specie, dall’enormità delle dimensioni e dall’intenso contrasto cromatico. Diversamente argomentando, la convenuta ripudiava la tesi accusatoria definendola capricciosa, capziosa, oltreché spudoratamente fantasiosa. Opina la resistente che la pubblicità contestata, gravida com’è passiva dei proprietari dei mezzi, affermando la propria giurisdizione soltanto limitatamente a questi ultimi. Indubitabile forza dirimente al riguardo, ha avuto la circostanza che tutti i contratti pubblicitari sottoscritti da Benetton, con le società Rcs Editori s.p.a. per “Io donna” e “Corriere della Sera” e con Manzoni & C. s.p.a. per “D – la Repubblica delle Donne”, siano stati stipulati mediante trasmissione alle stesse di ordini contenenti una espressa clausola derogatoria, a tenor della quale «vengono espressamente escluse l’accettazione del Codice di Autodisciplina Pubblicitaria nonché la competenza degli organi dal medesimo […] previsti […]». La reiterazione programmatica di illeciti autodisciplinari da parte della Benetton, congiuntamente alla circostanza che la stessa abbia volontariamente receduto dall’Unione Pubblicità Associati, rende assai più deprecabile ed indecorosa la condotta dell’inserzionista, ponendola in un circuito elusivo della cui preordinazione pare arduo potersi dubitare. Ai fini di una più approfondita indagine euristica si vedano anche le decisioni nn. 119/ 2001, 99/2001, 316/2000, 196/2000, 277/1999, 27/1994 e 2/1995 e 213/1999. (105) Dec. n. 119/2001, cit. 92 di affascinanti suggestioni iperboliche, vada intesa come parodia sarcastica e dissacrante, il cui unico scopo comunicazionale è quello di rappresentare, attraverso un’allegoria giocosa e dilettevole, il tema della supremazia della virtù sul peccato. La tecnica impiegata, prosegue la resistente, è quella dell’ossimoro allegorico, di tal guisa che la donna simboleggerebbe l’onesta, la probità e la rettitudine morale ed il serpente il pervertimento, il traviamento e la depravazione del vizio. Non per nulla la figura aggraziata ed avvenente della protagonista femminile vuole ricordare il personaggio biblico di Eva nel giardino dell’Eden, come lo stesso claim in calce all’immagine testimonia. Il Giurì, disattendendo le richieste della Sisley, ritiene di dover condividere integralmente la tesi accusatoria. Pertanto, dichiara il contrasto del messaggio litigioso con l’art. 9 CAP, perché manifestamente volgare ed indecente, con l’art. 10, perché platealmente offensivo della dignità della donna; con l’art. 11, in quanto i messaggi affissionali in commento «possono essere ricevuti dai bambini e dagli adolescenti, e soprattutto dai ragazzi nel periodo difficile della preadolescenza»; con l’art. 1, infine, per l’evidente pretestuosità e l’acclarata univocità del contenuto pornografico, giusta l’ontologica correlazione sistematica tra le norme autoregolamentari. In un’altra occasione il Giurì mandava assolta una pubblicità televisiva contenente allusioni zoofile, ritenendola immune da censure per via della rara ricercatezza e dei preziosismi che ne caratterizzavano la forma ( 106 ). La parte iconografica della pubblicità di cui trattasi rappresentava «un serpente che, fuoriuscendo dal corpo di una donna ingabbiato in un involucro di sabbia, sgretolava la spessa incrostazione (106) Dec. n. 288/2002, 17 gennaio 2003, Comitato di controllo c. ITF s.p.a. e Les Gitanes s.r.l., Publitalia ’80 s.p.a., in relazione al telecomunicato «Roberto Cavalli profumo», rilevato sulle reti Mediaset nel dicembre 2002. 93 che lo rinchiudeva, facendo lentamente comparire le sembianze della bellezza femminile prima intrappolata. Man mano che il corpo si liberava, la musica si intensificava ed il serpente continuava a muoversi sinuosamente sul corpo della protagonista, che mostrava una sorta di piacere per quello che le stava accadendo». A detta dal Comitato di Controllo «il contesto narrativo suggeriva una lettura in chiave fallica del serpente», avendo l’inserzionista scelto di raffigurare il corpo di una donna quasi dormiente, avviluppata in un torpore vellutato, la quale alla «visitazione del rettile» principia a ridestarsi ridente. Dalla donna sgorga ora una sconosciuta linfa vivificante. L’espressività eminentemente metaforica dell’iconografia simboleggia un rito iniziatorio volto a fecondare il corpo femminile, altrimenti privo di ogni avvenenza e beltà. Ad avviso dell’organo di controllo, il telecomunicato oggetto di contestazione, oltreché idoneo a suscitare un sentimento di ripugnanza per l’arbitraria e gratuita oggettualizzazione del corpo della donna, appare improntato all’impudicizia e spudoratezza più biasimevoli, ponendosi in contrasto con artt. 9 e 10 del Codice di Autodisciplina. Il telecomunicato, inoltre, ostenta un’immagine assai spaventosa e terrifica ed appare gravido di plurimi «risvolti suggestivi» di ardua decodificazione per un pubblico di minori, ponendosi pertanto in contrasto anche con gli artt. 8 e 11 CAP. Non ritenendo di dover condividere le argomentazioni del Comitato, il Giurì afferma che «la contestazione formulata dall’organo di controllo appare incentrata su una lettura impropria del messaggio perché non tiene conto del concept sotteso sin dalle prime immagini, fra lo sgretolarsi di una strana statua di sabbia e la presenza del serpente, inteso nel suo significato di fautore e fattore di cambiamento, che contribuisce a far emergere una figura femminile di dolce e composta bellezza, che 94 accompagna lo scivolamento del rettile con movenze, di forte carica erotica, prive peraltro di qualsiasi carica volgare e di richiami direttamente sessuali. Le immagini che qualche istante dopo concludono la sequenza, il serpente che avvolge la bottiglia del profumo pubblicizzato, stemperano ulteriormente il significato sessuale del messaggio attraverso la centralità attribuita al ruolo del serpente che avvolge la bottiglia e ne disegna il tappo. Il tutto attraverso mezzi espressivi di innegabile eleganza stilistica». Purtuttavia, prosegue il Giurì, poiché la parte centrale del telecomunicato rappresenta «una immagine di impudicizia», quantunque l’erotismo sia sobriamente mantenuto ad un «livello di lucida eleganza», non è opportuno che venga immessa in un «circuito comunicazionale generalista». Esaurita la disamina dei profili fenomenologici della fattispecie, il Giurì dichiara che il telecomunicato litigioso non contrasta con gli artt. 8, 9, 10 e 11 del Codice di Autodisciplina Pubblicitaria «limitatamente ad una programmazione che escluda la fascia oraria 10.30 – 20.30». Adombrati da infiorettature mielate e stucchevoli, simili riecheggiamenti zoofili si riscontrano anche nella strategia comunicazionale di un’altra celebre maison, la Emanuel Ungaro. Particolarmente indicativa al riguardo è la pronuncia n. 94/2000 (107). Le immagini diffuse nella campagna pubblicitaria in contestazione mostrano una donna e un cane in atteggiamenti ambigui, ai limiti della pornografia. La prima immagine raffigura la donna che stringe a sé un cane, (107) Dec. n. 94/2000, 7 aprile 2000, Comitato di Controllo c. Emanuel Ungaro s.p.a., Zenith Media s.p.a., A. Mondadori Editore s.p.a., Mondadori Pubblicità S.p.a., Rcs Editori s.p.a. Settore Periodici, Rcs Editori s.p.a. Settore Pubblicità, Cairo Pubblicità s.p.a. La campagna pubblicitaria in questione è apparsa sui periodici “Grazia” n. 7, data di copertina 22 febbraio 2000 e n. 9, data di copertina 7 marzo 2000, nonché “Io donna” numeri 9 e 11/2000, “Anna” n. 8, data di copertina 21 febbraio 2000 e “Marie Claire” del marzo 2000. 95 carezzandone il muso a ravvicinata distanza dalla propria bocca. L’espressione della modella è di estatico rapimento, mentre il suo volto, esageratamente proteso verso il muso dell’animale, brama, febbricitante, effusioni amorose (108). La seconda immagine ritrae la medesima modella che guarda a bocca socchiusa il cane intento a leccarle la caviglia. Dal viso della donna traspare un sentimento di profondo compiacimento e approvazione. Le labbra rosso vermiglio sono appena dischiuse in una posa di fascinosa sensualità. Secondo l’organo di controllo «l’immagine […] è fortemente caratterizzata da quella volgarità, ripugnanza e insensibilità per la dignità della donna che gli articoli 9 e 10 Codice di Autodisciplina intendono sanzionare. Non è tanto l’animale colto nell’atto di leccare, con la lingua fortemente portata in evidenza, i piedi della donna, quanto gli occhi socchiusi e la bocca semiaperta di questa ad accentuare gli aspetti erotici dell’intesa. In altri termini, è l’atteggiamento della donna, che sembra simulare una partecipazione vicina all’orgasmo, che segna fortemente il messaggio e che rappresenta il plus inaccettabile che impone l’intervento inibitorio» (109). Ancora, nel terzo messaggio, la donna si lascia leccare il collo dall’animale cingendolo con le gambe inverosimilmente divaricate. I due corpi, gracile e delicato quello della modella, corpulento e maestoso quello del cane, sono avviluppati in una stretta traboccante di passione in cui le rispettive fisicità si mescolano ( 108 ) Con le parole del Comitato: «l’accento è posto sull’accostamento fra la bocca aperta dell’animale, con la lingua avvicinata al viso della donna dalle labbra semiaperte che segnano l’immagine, così rappresentando una situazione che è qualche cosa di più della simulazione di un bacio non superficiale fra donna e cane. Gli occhi socchiusi e l’atteggiamento intenso della donna completano il quadro del quale è quindi difficile negare la portata volgare e indecente, alla quale l’immagine sul numero 8 di “Anna” aggiunge una nota di ripugnanza nel momento che fa apparire la lingua del cane fra le dita della donna, assieme a una traccia rossastra che segna il dorso della mano, lasciando nell’indistinto l’origine di tale traccia». (109) Dec. 84/2000, 7 aprile 2000, cit. 96 l’una nell’altra. La quarta immagine mostra il cane, la cui testa è cinta da un collare irto di chiodi, che giace sulla schiena della donna calpestandole un seno con la zampa. Il richiamo alle pratiche sadomasochistiche è inequivocabile. Così anche nell’ultimo messaggio pubblicitario in cui la modella abbraccia con i piedi il collo dell’animale interamente coperto da un’inquietante maschera chiodata. Nell’opinione del Comitato «la mascheratura dell’animale sembra accentuare i risvolti sadomasochisti e a nulla rileva che la donna sia correttamente vestita con pantaloni e giacca, giacché l’accento è tutto concentrato sul viso sognante, che sembra far trasparire un ambiguo compiacimento per il contatto dell’animale alle sue spalle, in posizione dominante e a zampe divaricate, come divaricate sono le gambe della donna, in atteggiamento di offerta» (110). In questo caso come nel precedente, l’impiego di oggetti appartenenti all’oscuro universo del sadomaso rende ancor più conturbante l’iconografia adoperata, già di per sé ambigua (111). (110) Dec. 84/2000, 7 aprile 2000, cit. (111 ) La resistente articola le proprie difese su tre ordini di ragioni. In primo luogo osserva che l’accostamento tra l’icona di una donna avvenente, vestita con sobrietà ed eleganza, e un cane di razza è frutto di una precisa scelta iconografica finalizzata a trasmettere un ideale di seducente ricercatezza. L’abbinamento in questione è tutt’altro che anomalo e artificiale, essendo piuttosto ispirato alla tendenza della donna di oggi a prediligere il cane di grossa taglia, di aspetto membruto e poderoso, anziché il cane di piccola taglia che la accompagnava in passato. In secondo luogo si duole la resistente delle manchevolezze disseminate nella tesi accusatoria, giacché in essa neppure è menzionata la circostanza che gli atteggiamenti effigiati nella pubblicità litigiosa, rifuggendo ogni ostentazione ed eccesso, si limitano a riprodurre servilmente quel sentimento di affetto, pur caratterizzato da una qualche fisicità, che da sempre caratterizza il rapporto fra l’uomo e il cane (non per nulla quest’ultimo è definito per antonomasia «il miglior amico dell’uomo»). Infine, la controparte deplora l’arbitraria scelta del Comitato di considerare le cinque immagini pubblicitarie come estrinsecazione di un identico «nucleo subliminale», preterendo di apprezzare il significato di ciascuna, isolatamente considerata. In particolare, osserva la difesa, l’immagine del cane che lecca i piedi alla donna riproduce una situazione piuttosto comune, carente di implicazioni anche solo vagamente erotiche. Anche l’annuncio nel quale il muso del cane e le labbra della ragazza appaiono ravvicinati risponde a quella consueta fisicità che tende, del tutto fisiologicamente, a umanizzare il rapporto fra uomo e animale. Ancora, 97 Secondo il Giudice pubblicitario la campagna pubblicitaria in contestazione, valendosi della proposizione sistematica di un modello di sessualità evidentemente imbarbarita e tralignata, ostenta crudezze tali da ledere profondamente la dignità dell’essere umano e della donna in particolare. La perversa morbosità dell’iconografia unitamente alla smaccata stucchevolezza dello stile scade nella più turpe ripugnanza, contravvenendo alle più profonde convinzioni morali e civili dei cittadini e screditando la pubblicità come istituzione. Il Giurì, esaurita la fase cognitoria, dichiara la pubblicità litigiosa in contrasto con gli artt. 9, 10 e 11 CAP e applica la sanzione inibitoria (112). Più recentemente, il Giurì condannava una pubblicità raffigurante una giovane donna in posa assai provocante con un cane lupo intento ad annusarle la zona pubica, con il muso proteso verso l’alto (113). Ritenendo il messaggio manifestamente contrario all’art. 9 CAP, l’organo di controllo emette ingiunzione di desistenza contro l’inserzionista affinché questi desista dall’ultronea pubblicazione del messaggio litigioso. l’immagine del cane che appoggia le zampe sulle spalle della ragazza completamente vestita riproduce l’idilliaca affettuosità che lega l’animale al padrone, scevra da viziosità e pervertimenti. Quest’ultima osservazione deve a fortiori reiterarsi, soggiunge la resistente, in difesa dell’ultima delle immagini, quella del cane con copricapo armato che giace accovacciato ai piedi della donna, di cui si scorgono soltanto le gambe elegantemente calzate. L’immagine si ispira liberamente ai cruenti combattimenti tra cani, in cui gli animali sono protetti da apposite maschere, al fine di evitare lesioni traumatiche che potrebbero rivelarsi letali. (112) L’ordine di cessazione ha interessato tutti e cinque i messaggi pubblicitari poiché è stato ritenuto dal Giurì che gli stessi presentassero un collegamento sequenziale e funzionale, stante il contesto temporale delle pubblicazioni concentrato in poche settimane, l’unicità della platea di lettori, nonché la medesimezza delle modalità comunicazionali prescelte, caratterizzate da intensa capacità suggestiva ed evocativa oltreché da un «forte stimolo subliminale di spinta erotizzazione». (113) Dec. n. 58/2010, 5 luglio 2010, Comitato di Controllo c. Texunion s.p.a.; la Repubblica s.p.a., A. Manzoni & C. s.p.a., Rcs Periodici s.p.a., Rcs Pubblicità s.p.a., relativa ad un messaggio rilevato su “Io Donna” e “D” de “La Repubblica”, entrambe con data di copertina 17 aprile 2010. 98 L’organo di controllo fornisce una lettura eminentemente sensoriale e, più precisamente, olfattiva dell’immagine, giungendo ad affermare che l’espediente iconico impiegato, quantunque di indiscussa raffinatezza, è gravido di un erotismo parecchio inquietante, giacché evoca perversioni arcane e recondite. Non emergerebbero invece, a detta del Comitato, elementi «idonei a riscattare la volgarità dell’immagine». L’inequivoca posa di profferta sessuale della modella, l’espressione bramosa di concupiscenza, ma, soprattutto, la postura dell’animale con il muso proteso verso il ventre della donna, sono tutti elementi che conducono ad una decodifica volgare del messaggio, resa ancor più intellegibile dall’headline che recita «Naughty Dog». Il Presidente del Comitato di Controllo, considerando insoddisfacenti le motivazioni addotte dall’opponente, si rivolge al Giurì affinché si pronunci sul caso. Il Giurì, posta l’accento sull’essenzialità di un’analisi complessiva del messaggio, procede ad esaminare i profili fenomenologici della fattispecie mettendo a fuoco la stretta correlazione semasiologica tra parte iconica e verbale. All’uopo afferma il Giurì: «l’immagine è quella di una ragazza a gambe divaricate che con le mani trattiene verso l’alto delle cosce un vestito mini, in un atteggiamento innaturalmente provocante, accentuato dalla flessione delle ginocchia. Gli occhi della ragazza guardano verso il vuoto e non certo verso il cane nei cui confronti essa non ha nessuna mimica soggiogatrice, mentre i capelli sono agitati da un vento evidentemente falso come tutto l’ambiente di interno in cui sembra svolgersi la scena. Tutto appare dunque costruito allo scopo di evidenziare la corrispondenza fra il muso appuntito del cane e in particolare il suo naso proteso e le parti intime della ragazza, facendo così di esse il vero centro focale dell’annuncio […]. Il testo, dal canto suo, gioca sulla parola inglese “naughty” che, se originariamente aveva il 99 senso dispregiativo di “cosa o persona da nulla” […], nel tempo è andata sviluppando il suo campo semantico, sempre in ambito negativo, fino a coprire un ventaglio molto ampio da “disobbediente, monello ecc.”, in genere riferito a bambini, a “indecente, cattivo, immorale ecc.”, che è oggi il significato prevalente […]. Se già l’immagine da sola orienta volutamente la decodifica verso il significato volgare, il suo accostamento alla parola “naughty” non fa che rafforzare […] questa lettura, così da trascendere di molto il limite del cattivo gusto per entrare decisamente nel campo della volgarità e dell’indecenza, aggravate dal fatto che non vi è nessuna logica comunicazionale che le possa giustificare e che non vi è nessun elemento che ne stemperi la portata». Il Giurì condanna la pubblicità litigiosa perché manifestamente in contrasto con l’art. 9 CAP e irrora la sanzione inibitoria. 4.2. L’impiego di suggestioni sadomasochistiche in pubblicità è caratterizzato da un’iconografia ricca di crudezze raccapriccianti magistralmente celate da imbellettature barocche, manierismi affettati e infiorettature di ogni sorta. Al fine di mettere a fuoco alcune tra le questioni più spinose del tema che ci occupa, si prenderà in considerazione un gruppo di sentenze particolarmente rappresentative, precisamente, le decisioni nn. 398/98, 31/2001, 40/2001, 217/1995, 119/2005 (114). La prima pronuncia si occupa della conformità alle norme ( 114 ) Rispettivamente, dec. n. 398/1998, 15 dicembre 1998, Comitato di Controllo c. Rocam s.r.l., Alessi s.p.a.; dec. n. 31/2001, 6 febbraio 2001, Comitato di Controllo c. Weissenfels, Agenzia Casiraghi Greco & s.r.l., R.C.S. Editori s.p.a. – Settore Quotidiani, R.C.S. Editori s.p.a. – Settore Pubblicità; dec. n. 40/2001, 23 febbraio 2001, Comitato di Controllo c. BIBIGI’ s.r.l., Gruppo editoriale L’Espresso s.p.a. – Divisione la Repubblica, A. Manzoni & C. s.p.a., A. Mondadori Editore s.p.a., Mondadori Pubblicita’ s.p.a. con riguardo all’annuncio pubblicitario della Bibigì Gioielli “Dono morbido ” – diffuso su D. n. 223 del 24 ottobre 2000, il Venerdì n. 660 del 10 novembre 2000 e Grazia n. 49/50 del 19 dicembre 2000; Dec. n. 217/1995, 20 100 autodisciplinari di una pubblicità che ritrae quattro persone, fotografate di profilo dalla vita in giù, nude e incatenate tra di loro per le caviglie: tre uomini di colore e una donna bianca (115). La donna bianca è marchiata su di un gluteo con il logo “Sharra Pagano”. L’headline a fianco dell’immagine recita: “Marchiamo solo le pelli migliori”. Il Comitato di Controllo ritiene la pubblicità litigiosa in stridente contrasto con gli artt. 10 e 1 CAP e chiede pertanto che ne sia ordinata cessazione unitamente alla pubblicazione dell’emananda decisione su un mezzo di ampia diffusione, ex art. 40 CAP. Ad avviso dell’organo inquirente la pubblicità in parola violerebbe le norme autoregolamentari sotto molteplici profili. In primo luogo «la contrapposizione tra la superiorità della razza bianca, la cui pelle sarebbe migliore, e quella nera configura pubblicità discriminatoria»; in secondo luogo «la marchiatura del corpo della donna, così assimilata a un animale, e la costrizione delle catene che la collegano alla razza inferiore, evocano le atrocità dei campi di concentramento», attraverso una indecorosa oggettualizzazione spersonalizzante; in ultimo «per la sua strutturazione e per l’evidenza del mezzo che la ospita» […], la pubblicità è idonea a originare nel pubblico sentimenti di disprezzo verso l’intero universo pubblicitario, e ciò in contrasto con l’art. 1. La parte resistente chiede il rigetto delle domande attoree argomentando che la pubblicità oggetto di contestazione abbia carattere umoristico e satirico. D’altro canto, si osserva, il termine razzismo ha ormai perduto qualsiasi valenza originaria e pertanto, essendo la pubblicità riferita a un’azienda che si occupa di pellame, appare superfluo osservare che anche la più ottobre 1995, Comitato di controllo c. Fiorucci s.r.l., Affitalia s.r.l.; dec. n. 119/2005, 8 novembre 2005, Comitato di Controllo c. Yokohama Italia s.p.a, Agenzia Idue s.n.c., Rcs Pubblicità s.p.a., Rcs Quotidiani s.p.a., con riguardo ad un messaggio pubblicitario rilevato sul Corriere della Sera del 16 giugno 2005. (115) Dec. n. 398/1998, cit. 101 sprovveduta delle consumatrici interpreti il messaggio come informativo sull’utilizzo di ottima materia prima e non, invece, come foriero di un intollerabile atteggiamento razzista. Il Giurì non ritiene plausibile la tesi della difesa poiché «la satira proprio per la sua essenziale componente artistica, deve essere condotta con moduli fittizi e irrazionali e deve essere scandita su sequenze di elementi finti o esagerati al dichiarato scopo di irridere del personaggio o della vicenda. Per essere tale, la satira deve sfociare nell’inverosimile». Nel caso in esame, prosegue il Giurì, «non pare proprio che il contrasto bianco/nero e le pelli umane marchiate possano essere considerati elementi “finti o esagerati” […], atteso che, nel mondo moderno, nonostante le petizioni di principio, il tema dell’integrazione razziale è ancora attuale; così come è ancora attuale il problema della schiavitù che, seppure mascherata da nuove e sofisticate forme, è, oggi, di significativa attualità». Per i suesposti motivi il Giurì ordina la cessazione della pubblicità denunciata per contrasto con gli artt. 1 e 10 CAP e dispone la pubblicazione della decisione per estratto su “La Sicilia” e sul “Giornale di Sicilia”. La seconda pronuncia riguarda un messaggio pubblicitario che mostra «l’immagine di una donna di colore che, ripresa di schiena totalmente nuda, porta addosso soltanto delle catene da neve agganciate ai fianchi, che le scendono sopra i glutei» (116). Ad avviso del Comitato di Controllo l’immagine in parola è in contrasto con gli artt. 10 e 1 CAP. Gli addebiti mossi dall’organo inquirente si concentrano sul carattere eminentemente evocativo e suggestivo del messaggio litigioso, il quale, richiamando alla memoria il tema della schiavitù, ingenera nel consumatore un sentimento di accorata mestizia, unitamente a quello di viscerale disistima dell’intero universo pubblicitario. La verosimiglianza (116) Dec. n. 31/2001, cit. 102 della tesi accusatoria è suffragata da plurimi argomenti. Il Comitato rileva che «la donna raffigurata in catene non solo è nuda ma è altresì nera, particolare questo che concorre a rafforzare nel lettore l’idea di una donna prigioniera e schiava ma nel contempo attraente e gradevole a vedersi annullando, proprio con il patinato sex-appeal dell’immagine, il normale senso critico e con esso la possibilità di percepire il disvalore della condizione umana degradata. L’immagine della donna nuda, già di per sé gratuita in quanto priva di qualsivoglia collegamento con il prodotto […], è nel caso di specie certamente censurabile in quanto la bellezza del corpo femminile è strategicamente utilizzata per evocare suggestioni sessuali e riportare alla mente del pubblico l’asservimento caratteristico della schiavitù, con evidente spregio per la dignità – prima ancora che della donna – degli esseri umani in genere». Imprudente e financo temerario sarebbe, soggiunge il Comitato, misconoscere che la simbologia impiegata dall’inserzionista, sovraccarica di inequivocabili richiami sadomasochistici e segregazionistici, scolpisca un’immagine della donna estremamente avvilente ( 117 ). Il Giudice autodisciplinare, esaurito il (117) La difesa ritiene manifestamente infondata la tesi accusatoria, deplorandone gli intenti di strumentalizzazione moralizzatrice ed ideologica. Una siffatta operazione ermeneutica si porrebbe in contrasto con la più autorevole giurisprudenza comunitaria, secondo cui «oltre alle limitazioni poste dalle norme statali all’applicazione del diritto comunitario, devono essere eliminate pure le norme poste da associazioni o organismi di diritto pubblico nell’esercizio della loro autonomia giuridica che contrastino, appunto, con il diritto comunitario». Il riferimento è, chiaramente, alle istituzioni autoregolamentari e alle norme da essi emanate. Pertanto la difesa chiede che «la tutela del consumatore venga contemperata in sede interpretativa con i diritti di libertà di iniziativa economica, di tutela della concorrenza, di libera prestazione dei servizi e soprattutto di libertà d’espressione che derivano all’odierna convenuta avanti al Giurì direttamente dall’ordinamento comunitario; senza contare che molti di tali diritti sono pure protetti in sede statuale addirittura da normativa di rango costituzionale». V. sent. Walrave, Corte Giustizia Comunità Europee, 36/72, in Foro It., 1975, IV, 81. Il Giurì non trascura di rilevare la pletorica sovrabbondanza delle obiezioni dedotte dalla parte resistente, precisando che quello della non contrarietà delle norme autodisciplinari all’ordinamento comunitario è principio di ius receptum, atteggiandosi 103 contraddittorio tra le parti in contesa, dichiara la pubblicità litigiosa in contrasto con l’art. 10 del Codice, ordinandone contestualmente la cessazione (118). Un posto di indiscusso rilievo, per il prezioso valore euristico e per la lucida intellegibilità delle argomentazioni in essa sviluppate, occupa la dec. n. 217/1995. La sentenza in parola riguarda un messaggio pubblicitario della nota maison Fiorucci, il quale mostra la parte posteriore di una donna nuda, con le mani legate da un paio di manette in pelouche rosa dietro la schiena e tese verso l’esterno come a volersi liberare dalla costrizione (119). L’accusa ritiene l’immagine in commento in palese contrasto con l’art. 10 CAP e chiede pertanto che il Giurì ne disponga la cessazione unitamente alla pubblicazione dell’emananda decisione. L’effigie «comunica una sgradevole sensazione di violenza e di degradazione, in quanto il simbolismo della donna nuda e delle manette produce inevitabilmente, non essendo veicolato da nessun contesto, facili suggestioni e associazioni - nudità e manette come emblema di possibile perversione sessuale, sadismo, masochismo - che una vasta subcultura ha reso familiari e che rappresentano uno svilimento della dignità della persona umana». Così come il profluente simbolismo erotizzante, osserva come estrinsecazione del più generale principio di prevalenza della legislazione comunitaria su qualsiasi disposizione statale con essa incompatibile, abbia la stessa valore di legge, regolamento e, financo di disposizione costituzionale. Invero, prosegue il Giurì, la difesa è caduta in una contraddizione in termini poiché nel messaggio oggetto di contestazione «non è in causa la libertà di pensiero ex art. 21 della Costituzione, ma semmai la libertà dell’azione pubblicitaria che per lunga giurisprudenza statuale rientra nell’art. 41 relativo alla libertà d’impresa». Per una panoramica sull’argomento v. infra § 1. (118) In motivazione il Giurì ha osservato che, nel caso di specie, la violazione delle convinzioni morali, civili e religiose protette dall’art. 10 si atteggerebbe quale specificazione di quanto previsto in via generale l’art. 1 CAP, pertanto una ulteriore sottolineatura in riferimento alla norma citata sarebbe voluttuaria e ridondante. (119) Dec. n. 217/1995, cit. 104 il Comitato, anche la medesimezza del colore delle manette e del marchio, entrambe di un seducente rosa pallido, riecheggia l’idea di mercificazione e «asservimento al prodotto», rendendo ancora più gravosa e dolente la sensazione di coercizione, schiavitù e soggiogazione evocata dall’ammanettamento. Alle accuse mosse dall’organo inquirente, la resistente replica svelando l’unica ipotesi esplicativa della «tanto palese quanto insanabile contraddizione tra manette, violenza, degradazione, sadismo, masochismo […] da una parte, e pelouche rosa dall’altra». Ricorda la resistente che è proprio la suddetta contraddizione a spogliare l’immagine dal suo «tradizionale significato di violenza, costrizione e […] sadomasochismo», dacché le manette raffigurate, sia per la carezzevole delicatezza del peluche, sia per la soavità del rosa, richiamano alla mente una sensazione avvolgente e vellutata, quasi melliflua. Quanto all’erotismo che aleggia sulla figura, prosegue la difesa, si tratta di un erotismo elegante e raffinato, denso di amenità e piacevole lepidezza. Pertanto la figura in questione, «nel quadro della maturazione e della spregiudicatezza della nostra attuale società, non è né idonea a offendere convinzioni morali o civili, quelle religiose appaiono del tutto estranee, né irrispettosa della dignità della persona umana». A ulteriore riprova della fondatezza della tesi difensiva, la resistente non tralascia di mentovare una nota sentenza della Corte di Cassazione del 30 settembre 1986, in cui il Supremo Consesso recepiva il principio secondo cui: «Il nudo è parte ineliminabile della nostra cultura: si esprime pacificamente sulle spiagge e nella pubblicità, negli spettacoli e nei libri, nella casa e nella palestra, dove si è rivalutata l’antica cura del corpo. Parallelamente, viene vissuto senza particolari pregiudizi lo specifico uso di esso nelle forme dell’erotismo, distinguendosi con sufficiente chiarezza collettiva le sue espressioni naturali dalle violenze e dalle sopraffazioni». 105 Il Giurì, rifuggendo intenti moraleggianti o fustigatori, assolve la pubblicità litigiosa perché in essa non ricorre alcun contrasto con le prescrizioni autoregolamentari, né per quanto concerne l’asserita idoneità della stessa a recare offesa alle convinzioni morali e civili dei cittadini, né tantomeno per quanto riguarda l’offesa alla dignità della persona umana, la quale «non viene lesa ma semmai arricchita quando, senza volgarità né costrizione, l’ironia trova posto nella sessualità e nella pubblicità». Proprio l’assenza di ironia o di qualche elemento giocoso e vitale, ha condotto per contro il Giurì a condannare un messaggio pubblicitario della Bibigì Gioielli raffigurante una adolescente «semisdraiata su di un divano di pelle nera, nuda dalla vita in su, che – con espressione rassegnata e visibilmente infelice – ostenta sulla pelle bianchissima un collare in pelle nera intorno al collo, in cui sono incastonati vistosi aculei, ed un anello al dito della mano, posta in primo piano a coprire un seno, mentre in corrispondenza dell’altra mano, appoggiata sul pube, si legge la scritta “Dono morbido”» ( 120). Secondo l’organo inquirente dall’attenta analisi dell’immagine in parola emerge con evidenza lapalissiana il contrasto della stessa con l’art. 10 CAP. Una tale decodifica è confermata dall’ambientazione figurativa ed espressiva dominata dalla centralità icastica del collare irto di preziosi aculei, il quale evoca senza ombra di dubbio «suggestioni erotiche, nella sfera della violenza e del sadomasochismo». La donna è ritratta in condizione di silente sudditanza, defraudata della propria sostanza pensante e cristallizzata in pura res. Si aggiunga altresì che la scritta dell’headline enfatizza oltremodo lo stridore tra la docile arrendevolezza della giovane fanciulla, la cui gestualità ai limiti della incorporeità celestiale simula turbamento, e gli (120) Dec. n. 40/2001, cit. 106 acuminati aculei d’oro. Un raffinato gioco di contrasti affiora nell’immagine diffondendosi nei minimi particolari iconici, tanto che persino il capezzolo lasciato scoperto dalla donna, pare ergersi duro e appuntito come gli aculei del gioiello reclamizzato. Il Giurì, nell’esaminare i profili fenomenologici della fattispecie, ripercorre sostanzialmente le argomentazioni svolte dall’accusa, affermando in primo luogo che «nell’ambito della sua varia produzione l’inserzionista ha scelto, oltre ad un anello, un collier in forma di collare […]. L’oggetto è di per sé idoneo ad evocare significati e simboli ambigui, se indossato – come nel caso – da una ragazza adolescente, a torso completamente nudo, per di più magro e diafano, ai limiti dell’anoressia, con espressione […] che certamente non è allegra […]. Sul tutto campeggia la scritta “Dono morbido”, ove di morbido ci sono solo la ragazza (quasi bambina) ed il divano, in contrasto con la durezza delle punte del collare e delle pietre. Pare innegabile il suggerimento dell’idea della donna come oggetto e non soggetto di dono, e l’evocazione di orientamenti ambigui, se si considera l’aspetto immaturo e adolescenziale della ragazza ed il contrasto fra la sua delicatezza-morbidezza e l’immagine degli aculei intorno al collo […]. Nulla modera od alleggerisce tali sensazioni, introducendo nella raffigurazione una nota ironica, od un qualunque elemento gioioso e vitale, che appaia in linea con l’idea del dono. Pur essendo l’annuncio fondato sui contrasti […], tali contrasti affiorano solo nei colori e nell’immagine esterna; non nei suoi significati, i quali sembrano invece univoci nella loro ambiguità, e non compatibili con il rispetto per la donna […] e con le esigenze di difesa della sua dignità». Il Giurì, accogliendo integralmente gli argomenti sviluppati dalle tesi accusatorie, dichiara il contrasto della pubblicità litigiosa con l’art. 10 107 CAP e ne dispone l’immediata cessazione. L’ultima delle sentenze prende in esame un messaggio pubblicitario volto a reclamizzare pneumatici di ultima generazione. L’immagine ritrae, in primissimo piano, i piedi di una donna calzati da eleganti stivali di pelle nera, con in evidenza i tacchi a spillo che sprofondano nelle natiche carnose di un’altra donna ( 121 ). Ad avviso del Comitato di Controllo l’immagine in parola è pervasa di allusioni ad una «sessualità trasgressiva e deviata», i richiami sadomasochistici sono riproposti con esuberante ridondanza, risultando profondamente disturbanti in ispecie per un pubblico di minori. Rileva inoltre il Comitato che l’immagine de qua è profondamente offensiva della dignità della donna, la quale, deprivata della propria dimensione emotiva e psicologica, è ritratta come prodiga dispensatrice di lussuriose prestazioni sadomasochistiche. Il Giudice autodisciplinare condanna la pubblicità litigiosa per contrasto con gli artt. 9, 10 e 11 CAP, emanando contestuale sanzione inibitoria (122). (121) Dec. n. 119/2005, cit. ( 122 ) In motivazione il Giurì si sofferma diffusamente su quegli aspetti della fattispecie da cui trasuda con tutta chiarezza la contrarietà alle norme autoregolamentari della pubblicità incriminata: «Il messaggio è quello che appare e non richiede raffinate chiavi di decodifica per scoprirne sensi occulti o significati simbolici anche perché le immagini, prive di un rapporto di funzionalità in relazione all’esigenza di illustrare pregi e caratteristiche del prodotto pubblicizzato, esonerano da ulteriori approfondimenti. Pertanto […] lo spot viola l’art. 9 del CAP. Quanto all’art. 10 il messaggio, volto a pubblicizzare una nuova generazione di pneumatici, mostra in primo piano l’immagine di un paio di stivali con tacchi a spillo che trivellano le natiche di un corpo femminile in posizione prona. Difficile non cogliere in questa rappresentazione un’evidente strumentalizzazione della sessualità che vista la lontananza di quanto rappresentato dal prodotto reclamizzato, ha il solo scopo di catturare attraverso un messaggio intrigante, l’attenzione del pubblico. Palese è la violazione dell’art. 10 del CAP che tutela la dignità della persona in tutte le sue forme ed espressioni in un’immagine che ricorre all’utilizzo improprio di una parte - le natiche - di un corpo femminile, rappresentato in posizione supina, con il tacco a spillo di uno stivale che entra in una natica, indicativa di un rapporto di violenza e di sopraffazione. Né è stato indicato dalla resistente il percorso attraverso il quale si dovrebbe dedurre che la natica in questione appartenga ad un 108 5. Sovente gli inserzionisti ricorrono ad un’iconografia smaccatamente erotica per reclamizzare le bevande alcoliche. Questo fenomeno può essere correttamente definito come una peculiare declinazione del più ampio filone pubblicitario sessuofilo. In particolare occorre volgere l’attenzione al quinto alinea dell’art. 22 CAP, il quale è diretto ad evitare l’impatto negativo della pubblicità sul pubblico, vietando il ricorso ad elementi, cui la collettività è particolarmente sensibile, idonei a far credere che il consumo della bevanda alcolica possa determinare un miglioramento della capacità umane, segnatamente, «lucidità mentale», «efficienza fisica» e «sessuale» e che il suo mancato consumo determini una condizione di inferiorità psicologica o sociale. La norma in commento vuole evitare «la suggestione che in pubblicità può essere anche più efficace (negativamente efficace) del messaggio dichiarato in termini razionalmente espliciti». L’antesignana di questo genere è la pubblicità “Pernod”, dec. n. 37/1979, 11 dicembre 1979, Comitato di Accertamento c. di Publi-Market s.r.l., Rizzoli Editore s.p.a., in cui il Giurì ebbe ad affermare che «l’uso dell’alcol non deve essere configurato come strumentale al soddisfacimento di bisogni irrazionali insuscettibili di autocontrollo da parte del consumatore; e che l’uso pubblicitario della suggestione emotiva, in quanto tende a sottrarre la individuo - maschio o femmina che sia - che si è autonomamente determinato a porsi in tale mortificante posizione [...]. A fronte di siffatti messaggi nei quali parti varie del corpo femminile, tutte direttamente o indirettamente ammiccanti alla sfera sessuale, sono usate per reclamizzare merci varie, viene da pensare che il fatto che le donne possiedano un corpo, al di là della sua utilizzazione pubblicitaria, sia un fatto puramente casuale e d’importanza secondaria. Il corpo femminile non è più un oggetto, nel senso tradizionale del termine, si è trasformato in puro linguaggio di mercato. Ed è in questo che consiste la violazione del rispetto dovuto alla persona in tutte le sue forme ed espressioni. Per quanto concerne l’art. 11, il Giurì ritiene giustificato il pensiero del Comitato di Controllo a giudizio del quale il messaggio sarebbe altamente diseducativo per i minori e i giovani perché può rappresentare per essi un modello fortemente attraente per l’intrinseca carica di trasgressione delle regole sociali e dei valori condivisi che esso contiene». 109 congruità dell’uso del prodotto a ogni possibilità di verifica razionale, non può essere consentito nel settore delle bevande alcoliche perché espone il destinatario al rischio di soggiacere alla sollecitazione oltre il limite della nocività», rimarcando altresì che la pubblicità del “Pernod” sfugge a questo tipo di censure poiché «si vale di un tipo di linguaggio alieno, per i meccanismi culturali che ne condizionano la comprensione e ricezione, da immediate incidenze emotive suscettibili di liberare e amplificare istanze irrazionali smodate, scorrette o irresponsabili». Così anche la dec. n. 5/1980, in cui il Giurì, rigettando le censure mosse dal Comitato di Controllo, mandò assolto il messaggio contestato, così argomentando: «[giacché] le qualità […] illustrate [per reclamizzare il prodotto, Stock 84] appartengono all’ambito delle sensazioni gustative, che sono molto soggettive e difficilmente descrivibili in termini oggettivi e razionali, il ricorso a similitudini e metafore sia di tipo linguistico che figurativo appare una soluzione abbastanza consueta in questo tipo di pubblicità» ( 123 ). Similmente nella dec. n. 41/1984, in cui il Giurì ritenne di condividere la tesi difensiva secondo cui il messaggio litigioso inneggia ad un «moderato edonismo» utilizzando dei raffinati simbolismi che «non possono però declinarsi nel senso dell’abbandono, dell’ebbrezza, di momenti magici: infatti, le immagini riguardano attività che richiamano per loro natura il controllo razionale, l’equilibrio, la padronanza di sé» (124). Pertanto il Giurì escluse nel caso di specie, considerata anche la nota politica comunicazionale della Martini & Rossi, che «l’indubbia carica suggestiva delle situazioni raffigurate agisca nel senso di evocare pericolosi incoraggiamenti dell’euforia o ebbrezza prodotte (123) Dec. n. 5/1980, 6 marzo 1980, Comitato di Accertamento c. Stock s.p.a., Associati s.p.a., Arnoldo Mondadori Editore, (124) Dec. n. 41/1984, 10 luglio 1984, Comitato di Accertamento c. Martini & Rossi Ivlas s.p.a., Arnoldo Mondadori Editore, Rusconi Editore s.p.a. 110 dall’assunzione di alcolici». Infine nella la dec. n. 36/2003, il Giurì ritenne che l’annuncio andasse esente da censure perché scevro di qualsivoglia riferimento che incitasse all’«eccesso di spensieratezza» o che dissimulasse «un richiamo subdolamente suggestivo all’euforia» (125). L’espediente espressivo dei due nudi rappresentati sulla bottiglia, lungi dal simboleggiare in modo grossolano e triviale un amplesso, istituendo per questa via il paventato nesso funzionale tra il consumo di alcol e l’efficienza sessuale, è esempio di raffinata eleganza ed encomiabile morigeratezza. In motivazione si legge: «l’annuncio non presenta nessuna scena di consumo dello spumante, i personaggi non sono scomposti e non danno segni di ebbrezza [...]. Non è vietato qualsiasi nesso fra l’atto d’amore e l’alcol, ma soltanto il nesso dell’invito al consumo in funzione dell’efficienza sessuale. Qualunque incontro amoroso, e anche la prima notte di nozze, può cominciare con lo spumante, la cui rappresentazione non è pertanto proibita, a meno che vi sia l’induzione al consumo smodato e al collegamento con l’efficienza sessuale, che qui mancano». Più recenti sono le pronunce nn. 105/2004 e 118/2005 ( 126 ). La prima, in relazione ad un telecomunicato trasmesso sulle reti Rai nel mese di gennaio 2004, «si apre con l’immagine della bottiglia di Talea lievemente inclinata, dalla quale sgorga la bevanda cremosa, che scorre lentamente lungo il corpo nudo di una donna distesa, coprendone via via i fianchi, il seno ed i glutei come un indumento morbido e lucente. Al termine della scena la voce fuori campo conclude “Talea cream liqueur – A velvet sensation”». A detta del Comitato di Controllo il filmato ( 125 ) Dec. n. 36/2003, 7 febbraio 2003, Comitato di Controllo s.p.a. c. Stock s.p.a., Hachette Rusconi s.p.a. e Hachette Rusconi Pubblicità s.p.a., (126) Rispettivamente dec. n. 105/2004, 23 aprile 2004, Comitato di Controllo c. Illva Saronno s.p.a. e Agenzia A. Testa s.p.a., RAI-Radiotelevisione Italiana s.p.a. e dec. n. 118/2005, 19 luglio 2005, Comitato di Controllo c. Stock s.p.a., Ag. Euro RSCG Milano s.r.l., Radio Deejay, A. Manzoni e C. s.p.a., 111 inneggia al suggestivo intreccio «improprio, fisico e sensoriale» tra il nudo della donna e il liquore reclamizzato. Ed in effetti, prosegue il Comitato, la bevanda cosparge come il velluto la pelle della donna, facendone la preziosa vetrina della più seducente magnificazione dell’ebrezza euforica. Per questi motivi il telecomunicato in oggetto si porrebbe in palese contrasto e con l’art. 10 e con l’art. 22 CAP, il quale «impone alla pubblicità delle bevande alcoliche obblighi particolari, come quello di non contrastare l’affermazione di modelli di consumo ispirati a misura, correttezza e responsabilità». La memoria difensiva della controparte intende persuadere il Giurì della manifesta pretestuosità delle censure mosse dall’organo inquirente, ricorrendo all’uopo alle preziose chiarificazioni del prof. Sassoon, il quale nella sua relazione afferma che «il plus “vellutato” viene rappresentato di necessità esternamente, con una metafora di livello artistico ed elegante sia nel “girato”, sia nella musica». Questa è ciò che viene definita «una catacresi, cioè la figura retorica che usa una parola o una cosa in un senso diverso dal consueto: la sensazione vellutata del prodotto è rappresentata dallo scorrere del liquore sulla pelle nuda, la suggestione onirica accentua la descrittività della prestazione del prodotto, morbido e vellutato: e la donna non è un oggetto, come vorrebbe il Comitato, ma un soggetto che apre gli occhi dopo l’assaggio». Ad ulteriore riprova della plausibilità di questa tesi, la controparte cita numerosi casi di precedenti in cui il Giurì ebbe ad assolvere l’inserzionista, disattendendo le richiesta avanzate dal Comitato di Controllo, a titolo meramente esemplificativo si ricordano le decc. nn. 37/1979, 5/1980, 41/1984 e 36/2003. Il Giudice autodisciplinare, respingendo la tesi accusatoria, assolve la pubblicità litigiosa. La dec. n. 118/2005, riguarda taluni radiocomunicati, facenti parte 112 della medesima campagna pubblicitaria, per Vodka Keglevich. Sostiene il Comitato che i messaggi contestati si pongano in plateale contrasto con gli artt. 9, 10, comma 2, 11, 22 e 1 CAP. Con riguardo all’art. 9 CAP, rileva il Comitato che i messaggi litigiosi trascendono «i limiti del cattivo gusto e i confini della decenza», giacché ritraggono con indecorosa grossolanità atteggiamenti amorosi di una donna in preda a «continue ed irrefrenabili pulsioni erotiche». Quanto all’art. 10, comma 2, ritiene l’organo di controllo che l’espediente espressivo estrinsecantesi nell’esibizionistica teatralizzazione del piacere libidinoso della donna, debba considerarsi altamente sgradevole e financo odioso per il radioascoltatore, posto che le suddette manifestazioni erotiche secondo il comune sentire debbano essere contenute nell’ambito «della riservatezza e dell’intimità». Venendo poi alla violazione dell’art. 11 CAP, afferma il Comitato che la ricezione dei comunicati, per la loro intensa capacità suggestiva, possa, mediante la sgargiante magnificazione di comportamenti deplorevoli, procurare nocumento alla sensibilità di un pubblico di bambini e adolescenti che non dispone di quei meccanismi cognitivi di elaborazione critica e razionale «di input particolarmente erotici e aggressivi come quelli in oggetto né barriere di protezione nei confronti di stimoli che non prestandosi ad una decodifica ragionata, sviluppano al massimo i loro effetti negativi». Ancora, per quanto concerne l’art. 22 CAP, a detta dell’accusa, i radiocomunicati in esame istituirebbero una proibita correlazione funzionale tra il consumo della bevanda alcolica reclamizzata e l’eccellenza della prestazione erotica, scemando grandemente l’obbligo imposto dalla norma summentovata di non intralciare l’affermazione di modelli di consumo ispirati a morigeratezza, irreprensibilità e responsabilità. Infine, per quanto riguarda l’art. 1, il Comitato sostiene che il turbamento e il fastidio 113 provocati dai messaggi siano tali da gettare discredito sulla pubblicità come istituzione. La controparte respinge le asseverate censure dell’organo inquirente, mediante un approccio ermeneutico che valorizza l’arguzia cameratesca e paradossale dei comunicati, al fine dimostrarne l’innocuità comunicazionale. All’uopo la resistente rammenta un noto caso in cui il Giurì ebbe ad assolvere il telecomunicato del Mirto Zedda Piras, in cui veniva rappresentato con struggente eleganza verista un amplesso appassionato, perché privo di qualsivoglia simbolismo iconico che potesse suggerire modelli comportamentali improntati a dissolutezza o licenziosità, stante e l’assenza di un nesso strumentale tra la scena erotica e il consumo di alcol e la sporadicità della rappresentazione della bottiglia, che appariva soltanto in pochissimi fotogrammi (127). Il Giurì, dopo avere prudentemente esaminato le argomentazioni esposte dalle parti, pur deprecando il tono di cattivo gusto che aleggia nei messaggi contestati, ritiene che nel caso in esame «quel tanto di espressioni volgari siano riscattate da un trattamento spiritoso, che risolve il messaggio con fantasia ed estro», rendendo arduo anche al più serioso e moralista degli spettatori di scorgervi una offesa alla dignità della donna ex art. 10 CAP. Similmente il Giurì esclude un contrasto dei radiocomunicati sottoposti alla sua cognizione con l’art. 22 CAP dacché difetterebbe sia una significativa connessione teleologica tra il prodotto reclamizzato e l’efficienza sessuale, sia un’esortazione, ancorché tacita all’ebrezza euforica. Per gli stessi motivi ritiene il Giurì che non ricorrano nel caso di specie quelle modalità espressive denigratorie ed oltraggiose della pubblicità come istituzione ex art. 1 CAP. Purtuttavia riscontra una potenziale violazione dell’art. 11 CAP, per la tendenziale lesività dei (127) Dec. n. 254/2002, 10 dicembre 2002, Comitato di controllo c. Zedda Piras s.p.a., Publitalia ’80 s.p.a., RAI – Radiotelevisione Italiana s.p.a. 114 radiocomunicati nei confronti di bambini e adolescenti, «la cui incompleta maturazione del giudizio critico e la spontanea curiosità verso l’erotismo» possono indurre ad una decodifica distorta, antieducativa e psichicamente deleteria degli stessi, e ne dichiara pertanto il contrasto con la disposizione summentovata, disponendone la contestuale la cessazione limitatamente alla fascia oraria radiofonica fra le ore 14 e le ore 20. 115 CAPITOLO III NUDO DI DONNA SOMMARIO: 1. Il mercimonio della dignità umana. La reificazione del corpo della donna in pubblicità. — 2. Le prime sentenze sul tema. — 3. Una preziosa ricognizione ermeneutica: i canoni della disumanizzazione della persona ed ostentazione di meri reperti anatomici. — 4. Il tema della morte in pubblicità. Necrofilia e nudo di donna. 1. È senz’altro evidente che «il nudo femminile, ancor più di quello maschile, è ormai protagonista indiscusso delle forme espressive della nostra società – soprattutto se l’immagine è realizzata con gusto e stile – e, come tale, non poteva non far ingresso in pubblicità, sempre più espressione simbolica ed evocativa, associata all’immagine di un prodotto. Il nudo è entrato a tal punto nella normalità, da spogliarsi di qualsiasi connotazione negativa: la rappresentazione del corpo femminile nudo non è di per sé immorale, né priva di dignità, non significando necessariamente trasgressione, offesa, provocazione, salvo quando l’immagine sia pretestuosa o gratuita rispetto al prodotto pubblicizzato» (128). Se, dunque, sarebbe quantomeno anacronistico e obsolescente censurare tout court il nudo in pubblicità, dovendo la stessa adeguare le sue forme espressive e i suoi contenuti all’evoluzione storica e culturale dei costumi della società da cui sgorga, non può, d’altro canto, ammettersi l’uso di immagini che trasmodino nella volgarità e nel cattivo gusto, nonché nella strumentalizzazione e nell’asservimento della persona al ( 128 ) BANORRI, Le modalità di Adesione, in Commentario al Codice dell’Autodisciplina Pubblicitaria, a cura di Ruffolo, Milano, 2003, pag. 229. 116 prodotto reclamizzato ( 129 ). Il nudo in sé considerato «non ha necessariamente carattere sessuale od offensivo: in questi annunci, mancando in essi la strumentalizzazione della donna, la provocazione e l’arbitrarietà, la rappresentazione del corpo nudo non è di per sé lesiva della dignità della donna» (130). Sulla base di questo assunto il Giurì ha mandato assolto un messaggio pubblicizzante una coppetta di mousse al cioccolato ricoperta di panna montata, che mostra a tutta pagina su tonalità assai scure il corpo nudo di una donna di colore, ripresa di profilo, con una striscia di panna montata che scende da una spalla. L’immagine è accompagnata dalla scritta “Pensiero stupendo” (131). Ad avviso del Comitato la pubblicità in oggetto realizza, in un contesto espressivo assai opulento e raffinato, una deprecabile mercificazione dell’immagine della donna, metamorfosata subdolamente in preziosa mercanzia. La strategia comunicazionale (129) L’importanza dell’opera svolta dagli organismi di autoregolamentazione in materia di pubblicità sessista, vieppiù essenziale in considerazione della pigrizia silente del formante legislativo avviluppato da omai diversi lustri in una manta di accidiosa riluttanza, ha ricevuto suprema consacrazione nella Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, n. 210, 11 maggio 2011, il cui art. 17, rubricato «Partecipazione del settore privato e dei mass media», enuncia: «Le Parti incoraggiano il settore privato, il settore delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione e i mass media, nel rispetto della loro indipendenza e libertà di espressione, a partecipare all’elaborazione e all'attuazione di politiche e alla definizione di linee guida e di norme di autoregolazione per prevenire la violenza contro le donne e rafforzare il rispetto della loro dignità. Le Parti sviluppano e promuovono, in collaborazione con i soggetti del settore privato, la capacità dei bambini, dei genitori e degli insegnanti di affrontare un contesto dell'informazione e della comunicazione che permette l’accesso a contenuti degradanti potenzialmente nocivi a carattere sessuale o violento». (130) Dec. n. 256/1996, 5 novembre 1996, Comitato di Controllo c. Allied Domecq Italia s.p.a., Rusconi Editore s.p.a., Rusconi Pubblicità s.p.a. ( 131 ) Dec. n. 304/2001, 14 dicembre 2001, Comitato di controllo c. Parmalat s.p.a., Agenzia Saatchi & Saatchi s.p.a., A. Mondadori Editore s.p.a., Mondadori Pubblicità s.p.a., in relazione al messaggio pubblicitario Parmalat “Pensiero stupendo. Coppa Malù cacao”, rilevato su “Donna Moderna” del 7 novembre 2001. 117 impiegata dall’inserzionista, soggiunge il Comitato, prende vita non già da una metafora, quanto piuttosto da un’affascinante sinestesia, di talché il piacere che dovrebbe riversarsi sulla mousse reclamizzata si trasferisce, tramutato in famelica concupiscenza, sulla donna. In questa cornice iconografica l’espressione “Pensiero stupendo” «potenzia l’offesa che deriva dall’improprio accostamento donna-prodotto, poiché sembra attribuirvi un connotato positivo […]. La dignità della persona è lesa non soltanto dalla reificazione della modella, ma anche dal conseguente livello di lettura dell’immagine, che richiama ad un’idea di possesso e di appropriazione ulteriormente fisica, aggravata legittimata dalla dall’acquisto superfluità e del prodotto», sovrabbondanza del riferimento razziale. Della verosimiglianza di una tale lettura non può dubitarsi sol che si tenga a mente che, nel caso di specie, la donna è raffigurata in posa assai ammaliante e seducente, con in evidenza le labbra turgide e i seni fiorenti. Il Giurì, discostandosi sensibilmente dalle argomentazioni dell’accusa, ritiene che la pubblicità litigiosa non presenti profili di contrarietà all’art. 10 CAP. Ispirandosi al pensiero di Lévi-Strauss, antropologo francese di chiara fama, il Giurì afferma che «è abituale […] una certa, frequentissima correlazione donna-prodotto, che è molto radicata nella tradizione occidentale, non soltanto perché nei messaggi pubblicitari, fin dai tempi del manifesto di fine Ottocento, bellezza e bontà tendono a identificarsi, oppure perché, come hanno sostenuto per molti decenni diverse scuole di applicazione della psicologia, la presenza di una bella modella trasferirebbe l’impulso erotico sul prodotto. Probabilmente, la ragione è più profonda e radicata nell’antropologia. Se le donne […] sono state il primo strumento di scambio fra i gruppi, la prima “moneta” della quale per gli uomini era evidente il valore, esse 118 sono state anche il primo segno che ha permesso la comunicazione. Da questa funzione primaria di segno, l’antropologa Ida Magli ha dedotto che l’immagine della donna conserva ancora la capacità di dare forza a qualsiasi messaggio pubblicitario, non tanto per il suo richiamo sessuale, ma perché è fondazione concreta e simbolica di ciò che la pubblicità persegue, il comunicare. Però, perché nella società di oggi ciò costituisca mercificazione offensiva per la dignità femminile, occorre il concorso di elementi che disturbino e offendano, per esempio […]. Elementi di questo genere mancano totalmente nella campagna in esame, che anzi si vale di una fotografia notevole con aspetti formali elevati e con particolari sicuramente non offensivi» (132). Che un certo grado di mercificazione sia ontologicamente connaturato a ogni pubblicità, qualunque sia il settore merceologico oggetto di pubblicizzazione, è concetto ben chiaro al Giurì che all’uopo ammonisce: «la mercificazione va intesa cum grano salis: una certa reificazione c’è sempre, nel senso del rapporto fra messaggio e prodotto» (133). Vi è, purtuttavia, un limite invalicabile, di là del quale il mercimonio della dignità della persona umana è irreversibile. Esistono, infatti, modalità espressive ed iconografiche che veicolano una tale carica degradante da vilipendere la dignità umana e ciò secondo un duplice registro: – la disumanizzazione della persona, che consiste nel privare la persona o le persone pubblicitariamente coinvolte nei messaggi di quello spirito (anima), che distingue l’uomo da qualsiasi altro essere vivente; – la scomposizione del corpo umano in “parti di carne” provocatoriamente esibite nella esplicita dimenticanza che la persona (132) Per una lettura approfondita cfr. LÉVI-STRAUSS, Le strutture elementari della parentela, Milano, 1969. (133) Dec. n. 304/2001, cit. 119 riveste una valenza ben superiore a quella derivante dalla combinazione della diverse parti anatomiche, dal che nasce appunto la sua particolare dignità (134). (134) Dec. n. 100/2001, 10 aprile 2001, Comitato di controllo c. Gianni Versace s.p.a., R.C.S. Editori s.p.a. – Settore Periodici, R.C.S. Editori s.p.a. – Settore Pubblicità, Cairo Pubblicità s.p.a., A. Mondadori Editore s.p.a., Mondadori Pubblicità s.p.a., La Repubblica s.p.a., A. Manzoni & C. s.p.a., EDIF s.r.l., relativa alla campagna pubblicitaria Versace apparsa su Io Donna nn. 8 e 9; Grazia nn. 7 e 9; “D” de “La Repubblica”, data di copertina 20 febbraio 2001 e “Elle”, data di copertina marzo 2001. Accanto ai canoni su cui sopra, il Giurì ha sovente richiamato quello del contesto lessicologico in cui la pubblicità è ambientata. Emblematica al riguardo è la dec. n. 38/2006 avente ad oggetto il telecomunicato “Patatina Amica Chips”, ritenuto dal Comitato di Controllo manifestamente contrario agli artt. 9, 10 e 1 CAP. Il messaggio pubblicitario è ambientato nel lussureggiante giardino di una villa, in cui appare il noto attore di film pornografici Rocco Siffredi ai bordi della piscina, circondato da avvenenti donne pressoché disabbigliate. Il protagonista, con fare alquanto ammiccante, afferma: “Io di patatine ne ho prese tante... non riesco a stare senza... le ho provate tutte, americane, tedesche, olandesi... con la sorpresa[…]; le mangiavo così senza complimenti, anche tre alla volta, ma nessuna è come questa”. Ad un certo punto l’inquadratura si sofferma su di una donna piacevolmente seduta sull’altalena che prende una patatina dalla mano del pornoattore, il quale si volta con sguardo ammiccante verso lo spettatore. La rappresentazione si conclude con le frasi: “Fidati di chi le ha provate tutte. Amica Chips è la migliore” ed il pay-off “A chi piace la patatina”. Sostiene il Comitato che tutti gli elementi iconici e verbali convergano inequivocabilmente verso una scelta creativa assai deprecabile, perché finalizzata alla stigmatizzazione coattiva del marchio, stigmatizzazione realizzata mediante «una doppia figura retorica: da un lato la metafora, che associa la patatina all’organo genitale femminile; dall’altro la sineddoche, che designa con la parte (l’organo sessuale femminile, chiamato metaforicamente “patatina”) il tutto (la donna)». Ad avviso del Comitato l’allusione summentovata – dissimilmente dal linguaggio erotico o scatologico popolaresco, in cui potrebbe assumere valenze diverse, alcune delle quali non implicanti necessariamente una svalutazione della dignità della persona – si pone in un contesto lessicologico ben preciso, quello, cioè, delle citazioni della cinematografia erotica, di talché la grossolanità e la trivialità del messaggio non ne è attutita, ma enfatizzata grandemente. Secondo l’opponente la pubblicità contestata si connoterebbe per la virtuosa «castigatezza della dimensione visiva», nonché per la leggiadra spensieratezza pastorale dell’ambientazione, pertanto le affermazioni del Comitato sarebbero apodittiche e prive di qualsivoglia fondamento. All’uopo viene sottolineata l’oggettiva impossibilità di scorgere alcuna esplicita suggestione sessuale e per l’atteggiamento «decorosissimo» delle fanciulle, le quali si dilettano beate in un incantevole prato verdeggiante, e per il discreto riserbo delle inquadrature. Pertanto ritiene l’opponente che il Comitato voglia trascinare il Giurì ad ergersi a giudice della morale contravvenendo alla ormai costante giurisprudenza autodisciplinare formatasi sul tema in argomento, secondo cui «il Giurì non può farsi arbitro o censore del buon gusto, dovendo invece limitarsi a verificare la 120 2. Le prime pronunzie del Giurì sul tema si contraddistinguono per la sostanza fluttuante e assai mutevole della parte argomentativa, non di rado estremamente concisa e poco articolata. Ciò è essenzialmente dovuto all’assenza di una corrente di pensiero solida e euristicamente gravida di preziosi criteri interpretativi. Perché si formi un orientamento giurisprudenziale costante, bisogna attendere fino alla storica pronuncia n. 100/2001, in cui il Giurì ebbe ad individuare quei canoni ermeneutici cui si sarebbe ispirata tutta la giurisprudenza successiva. Tra le prime sentenze, particolarmente significativa per le tematiche che implicitamente affronta, è la dec. n. 91/1996, relativa ad un manifesto pubblicitario di un’associazione animalista che, per far campagna contro compatibilità della comunicazione pubblicitaria alle norme del codice, nel rispetto sia della sensibilità dei consumatori, sia della creatività degli operatori pubblicitari» (dec. n. 186/1992, 16 marzo 1993, Comitato di Controllo nei confronti di Unil-It s.p.a. Divisione Atkinsons, Telepiù Pubblicità, Publitalia ‘80 s.p.a., Rai Radiotelevisione Italiana s.p.a.). Il Giurì ritiene che la pubblicità litigiosa sia intrisa di un sessismo denigratorio e deplorevole che, quantunque percepibile soltanto sul piano lessicologico, rimarchevolmente stigmatizzerebbe una inaccettabile discriminazione tra i sessi, sovraccaricata dalla riconduzione della scenografia al contesto pornografico. Ambiente in cui, notoriamente, la donna è marginalizzata nel ruolo di schiava e meretrice e deprivata della propria capacità di autodeterminarsi. Per i suesposti motivi, il Giurì, ritenuta la pubblicità litigiosa contraria alle prescrizioni di cui agli artt. 9 e 10 CAP, ne dispone l’immediata cessazione. Dec. n. 38/2006, 13 marzo 2006, Comitato di Controllo c. Amica Chips s.p.a., Publitalia ’80 s.p.a., RTL 102.5, Open Space Pubblicità. Con eloquenza particolarmente faconda si è espresso il Giurì anche nelle dec. nn. 190/1997, 20 giugno 1997, Comitato di Controllo c. Volteco World Technology s.p.a., Forlati Zera, Rcs Pubblicità s.p.a.; 298/1996, 11 febbraio 1997, Comitato di Controllo c. Tecnoblock Italia s.r.l., Visualia s.r.l., Editoriale Domus s.p.a.; 31/1985, 2 luglio 1985, Comitato di Controllo nei confronti di Salfa s.r.l., Arnoldo Mondadori, Editoriale L’Espresso, Rscg, Sma, Igap, Gig; 144/1999, 26 marzo 1999, Comitato di Controllo c. Febal Cucine s.p.a., Rcs Editori s.p.a. Settore Quotidiani, Rai Radiotelevisione Italiana s.p.a.; 14/1986, 25 febbraio 1986, Comitato di Controllo nei confronti di Sidalm s.p.a., Consorzio Canale 5, Italia 1, Rete 4, Pirella Göttsche; 8/1980, 22 gennaio 1980, Comitato di Accertamento nei confronti di Nichy Chini Co., M. & Ad., Editoriale del Corriere della Sera s.a.s.; 239/1999, 22 luglio 1999, Comitato di Controllo c. Campari s.p.a., D’Adda Lorenzini Vigorelli, Publitalia ’80 s.p.a. 121 le pellicce, effigia una nota attrice nuda, esibendo e ingrandendo il nudo genitale e sottolineandolo con la frase assai ambigua “L’unica pelliccia che non mi vergogno d’indossare” ( 135 ). Ad avviso dell’organo di controllo «il manifesto si pone come il primo caso di ostentazione in pubblicità di un nudo genitale e ha suscitato la preoccupazione di molti cittadini che si sono rivolti al Comitato. Per quest’ultimo, il poster è indecente e volgare, e quindi in contrasto con l’art. 9: l’indecenza consiste nell’ostentazione degli organi sessuali e la volgarità è da riferirsi alla frase pubblicitaria, dove il riferimento genitale diventa doppio senso. Il poster contrasta anche, ad avviso del Comitato, con l’art. 11 perché può suscitare reazioni di turbamento negli adolescenti. Infine, per la finalità scandalistica e trasgressiva dell’operazione pubblicitaria, il poster appare screditante per la pubblicità e quindi è in contrasto anche con l’art. 1». La qualificazione negativa è determinata dall’insieme di più elementi e, in questo caso, dal fatto che la postura della donna raffigurata nel manifesto è fatta per mettere in primo piano il pube. La posizione della nota attrice, (135) Dec. n. 91/1996, 30 aprile 1996, Comitato di Controllo c. Ifaw International Fund for Animal Welfare, Saatchi & Saatchi Advertising s.p.a., Publiflor s.p.a., A&P s.r.l. Il caso in esame impone talune preliminari considerazioni circa la riconducibilità della c.d. «pubblicità sociale» alle norme autodisciplinari. L’accresciuta importanza della comunicazione non strettamente asservita a scopi commerciali, ma volta a creare adesione ad iniziative o a diffondere bisogni, modelli di comportamento, ha portato, nel 1995, all’introduzione dell’art. 46 CAP, il quale afferma la sottoposizione alle norme del CAP di «qualunque messaggio volto a sensibilizzare il pubblico su temi di interesse sociale, anche specifici, o che sollecita, direttamente o indirettamente, il volontario apporto di contribuzioni di qualsiasi natura, finalizzate al raggiungimento di obiettivi di carattere sociale […]». Ai margini della c.d. «pubblicità sociale», si collocano i messaggi di pura opinione, vera e propria manifestazione del pensiero sfuggente, volti a stimolare l’adesione ad un credo religioso, come così a propagandare un’idea in senso lato politica od a stimolare un comportamento sociale senza alcun riflesso consumistico. Questi ultimi non hanno natura pubblicitaria e pertanto, giusta una costante giurisprudenza autodisciplinare, non sono assoggettabili al sindacato del Giurì. In BANORRI, cit., pag. 204. 122 «sbattendo il sesso in faccia, attiva tutta una serie di effetti sessuali, non necessariamente correlati all’intenzione del manifesto». Il Comitato chiede che il Giurì dichiari il contrasto con gli art. 9, 11 e 1 CAP. Il Giurì osserva anzitutto che il manifesto denunciato non persegue i consueti fini commerciali, bensì fini d’interesse generale, difendendo una causa, quella animalista, della cui nobiltà non è dato dubitare. Cionondimeno, prosegue il Giurì, nel caso di specie non può escludersi la violazione delle norme autodisciplinari e ciò in quanto «la postura della donna e il ricorso all’ingrandimento artificiale di un particolare corporeo non lasciano dubbi sulla volgarità del messaggio visivo […]. Gli elementi visivi sopra indicati, uniti alla battutaccia da trivio che costituisce il testo del manifesto, mettono in causa il rispetto alla dignità della donna che non dev’essere offesa neppure per fini non commerciali e a scopi condivisi da buona parte dell’opinione pubblica. Il ricorso a questi deplorevoli mezzi espressivi fa sì che il manifesto possa gettare discredito sulle attività e sulle tecniche di comunicazione pubblicitaria». Pertanto il Giurì, disattendendo le contestazioni della resistente, incentrate perlopiù sul carattere squisitamente etico e morale della pubblicità litigiosa volta a «tutelare tutti gli animali, [quali] esseri viventi e senzienti», dichiara il contrasto con gli artt. 9 e 1 CAP e dispone la cessazione della stessa. Parimenti rilevante è la dec. n. 167/1996, concernente la conformità all’art. 10 CAP di talune pubblicità su cartelloni murali raffiguranti i seni di una giovane donna e un metro che ne misura le dimensioni, accompagnato dallo slogan “le misure giuste per il tuo arredamento” (136). Il Comitato di Controllo osservando preliminarmente che la (136) Dec. n. 167/1996, 18 ottobre 1996, Comitato di Controllo c. Lolli Industria per l’arredamento, Variety Sport & Immagine s.r.l. 123 rappresentazione di un nudo femminile non costituisce di per sé stessa un’offesa alla dignità della persona umana, integrando sempre e comunque una violazione dell’art. 10, prosegue considerando come la pubblicità contestata focalizzi l’attenzione del passante su di un particolare anatomico del corpo femminile in modo assolutamente gratuito, non essendo ravvisabile alcun collegamento fra il seno di una donna e le cucine pubblicizzate, e senza che vi sia alcuna apprezzabile ragione per raffigurare il primo al fine di reclamizzare le seconde. D’altro canto, anche l’accostamento fra il seno rappresentato e un metro che ne misura le dimensioni appare non necessario per reclamizzare il prodotto e per ciò stesso gratuitamente volgare. Il giudice pubblicitario rileva come nel caso di specie la violazione dell’art. 10 CAP sia ulteriormente aggravata dalla circostanza che la pubblicità in contestazione «sia costituita da grandi cartelloni […] affissi sulle strade di Roma, e dunque visibili a tutti, e anche ai meno disposti a tollerare rappresentazioni di questo genere» e, congiuntamente, dalla circostanza «che la pubblicità sia stata svolta […] nella capitale della cattolicità, notoriamente abitata da un numero non piccolo di religiosi, le cui convinzioni morali, civili e religiose sulla dignità della persona potrebbero essere a fortiori offese dalla pubblicità litigiosa». Il Giurì dichiara pertanto il contrasto della pubblicità contestata con l’art. 10 CAP e ne ordina la cessazione. Soltanto qualche anno più tardi è la decisione n. 210/1998 relativa ad un filmato pubblicitario di orologi dal titolo “Puoi scavare la pelle; non puoi raggiungere l’anima”, esibisce un corpo di donna sfigurato da una profonda cicatrice chirurgica che ne solca la carne bianca dallo sterno all’ombelico (137). Secondo il Comitato di Controllo il messaggio si pone (137) Dec. n. 210/1998, 3 luglio 1998, Comitato di Controllo c. di Lorenz s.p.a., 124 in contrasto con l’art. 9 CAP, dovendosi ravvisare nell’immagine propugnata l’idoneità a «turbare la normale sensibilità del pubblico dei consumatori», attesa la sconvolgente enfatizzazione delle sensazioni di «dolore fisico, di ferita, di violenza», la cui ostentazione appare disturbante e financo ripugnante. Sotto un ulteriore profilo, il Comitato denuncia il contrasto del messaggio con l’art. 1 CAP posto che «il contenuto e la gratuità della rappresentazione, tesa a catturare l’attenzione dei consumatori colpendone negativamente la sensibilità, sono esempio di una forma comunicazionale che danneggia il credito dell’istituzione pubblicitaria». Il Giurì, accoglie integralmente le denunce mosse dall’organo inquirente e ordina l’immediata cessazione della pubblicità litigiosa per violazione degli artt. 9 e 1 CAP. 3. Assai sovente il Giurì ha ravvisato il perseguimento pervicace ed ardimentoso di quell’opera di disumanizzazione e, pertanto, di degrado della persona umana, di cui al primo dei registri più sopra mentovati, nella comunicazione pubblicitaria delle case di moda più in vista. Paradigmatico è il caso della campagna pubblicitaria Versace, in cui le diverse immagini, ambientate in identiche camere da letto, tipicamente d’albergo, mostrano due modelle pressoché bulimiche, abbandonate su preziosi drappi di seta (138). L’una, di cui si scorge appena il volto dal pallore latteo, «appare semivestita e riversa in modo innaturale», con le gambe divaricate, lo sguardo intorpidito da una leggiadra mestizia. Dell’altra, «ripresa da dietro senza volto con indosso solo reggicalze e scarpe nere, è offerta un’immagine che, per la postura volutamente Rcs Editori s.p.a. Settore Quotidiani, Rcs Editori s.p.a. Settore Pubblicità, A. Mondadori Editore s.p.a., Mondadori Pubblicità s.p.a. (138) Dec. n.100/2001, cit. 125 volgare e la prospettiva scelta, ha indubbiamente natura pornografica». Nell’opinione del Comitato tali immagini si porrebbero in stridente contrasto con gli artt. 9, 10 e 1 CAP. L’intera campagna si atteggia quale celebrazione di «un erotismo inquietante e perverso», le raffigurazioni provocano una «disturbante sensazione di profferta di corpi», attraverso la più degradante e svilente reificazione della persona umana. In entrambe le scene aleggia un melanconico oblio dell’anima, sopita in un torpore disumanizzante. La donna è mercificata, il suo corpo provocatoriamente sezionato in «parti di carne». Una siffatta magnificazione della «suggestione sessuale» è altresì idonea a screditare la comunicazione pubblicitaria, in palese contrasto con l’art. 1 CAP. La parte resistente, pur non sconfessando il carattere eminentemente erotico e trasgressivo delle immagini contestate, insiste cionondimeno sulla palese inettitudine delle stesse, per la seducente ricercatezza artistica che le contraddistingue, a suscitare ripugnanza e turbamento. Con riferimento a tali immagini, il Giurì, ripercorrendo le argomentazioni del Comitato di Controllo, ha condannato le «modalità subdole che attentano alla dignità più volte richiamata, avvalendosi del corpo umano come strumento di mercificazione fine a se stesso, privandolo appunto della dignità in questione», rimarcando come in tale comportamento illecito sia incorsa la pubblicità Versace «che – superando il dettato dell’art. 9 – ha infranto l’art. 10 seconda parte del CAP». Il Giurì non ha invece ritenuto che la pubblicità in parola giungesse ad infrangere l’art. 1 CAP, recando discredito all’attività pubblicitaria in generale. Lo stesso principio ha, per contro, condotto all’assoluzione di un messaggio diffuso su un noto periodico e su taluni cartelloni affissionali, in cui viene data bella mostra di un prosperoso seno femminile 126 agghindato da uno stringato reggiseno blu (139). L’headline recita “Pensa al suo ego. Regalale Blu ego, il suo numero di telefono”. Immediatamente sotto sono riportate le cifre del numero telefonico 120-60-90 che rimandano rispettivamente, alle auspicate misure anatomiche del seno, del girovita e dei fianchi della donna. La didascalia sottostante recita: “Stai cercando un regalo su misura per lei? Blu ego è l’unico numero che inventi tu, decidi tu, scegli tutto tu. Solo con Blu puoi scegliere il numero che vuoi tra gli oltre 20 milioni disponibili. Ma decidi in fretta, perché qualcun altro potrebbe avere la tua stessa idea e una fidanzata con le stesse misure della tua. Se vuoi saperne di più chiama il numero verde...”. Secondo il Comitato di Controllo il messaggio litigioso opera un’indebita strumentalizzazione del corpo della modella, pur in assenza di un apprezzabile collegamento funzionale con il servizio reclamizzato, donde la violazione dell’art. 10 CAP. Nella memoria difensiva la resistente rileva l’insidiosa tendenziosità e parzialità della lettura data dall’organo inquirente, poiché questi avrebbe arbitrariamente estrapolato il messaggio in questione dal più ampio contesto di cui lo stesso faceva parte, contravvenendo al «principio interpretativo secondo il quale i messaggi debbono essere decodificati quanto meno anche in funzione della loro reciproca interazione». La resistente si sofferma diffusamente sulla circostanza che l’intera campagna promozionale si svolga su uno sfondo di giocosa ironia – emblematica sarebbe la raffigurazione di un «emulo di James Bond, del tutto improponibile per movenze e prestanza fisica» sulla cui valigetta sono impressi i numeri telefonici comprensivi dello 007 – non mancando inoltre di rammentare, invero assai opportunamente, il fondamentale ( 139 ) Dec. n. 39/2001, 23 febbraio 2001, Comitato di Controllo c. Blu s.p.a., Agenzia Leo Burnett Co. s.r.l., Editrice La Stampa S.p.A., PK-Publikompass s.p.a. 127 assunto recepito dalla giurisprudenza autodisciplinare già nella dec. n. 239/1999, secondo cui «non ogni caduta di gusto e non ogni rugosità di linguaggio o di situazione, né ogni forma di insensibilità nell’interpretare valori e doveri sociali riconducibili alle convinzioni morali, civili e religiose ed alla dignità della persona ricadono sotto la sanzione dell’art. 10 del Codice di Autodisciplina» (140). Pertanto, conclude la resistente, nel caso di specie non può assumersi lesa la dignità della persona umana, giacché una qualche forma di mercificazione è necessariamente tollerata in pubblicità, almeno fintantoché le immagini non «propongano modelli di degradazione, di depravazione umana, di gratuito sfruttamento della fisicità a servizio necessitato del messaggio», tali da rendere quantomeno imperatorio l’intervento del Giurì. Il Giurì, ritenuta infondata nel merito la domanda del Comitato di Controllo, assolve la pubblicità litigiosa, dichiarandola conforme all’art. 10 CAP. Similmente, è stata scagionata la pubblicità televisiva “Lemonsoda, Oransoda, Pelmosoda”, il cui esordio è dominato dal primissimo piano di un seno femminile, alquanto procace, che ondeggia ritmicamente. L’inquadratura si allarga progressivamente e mostra la donna seduta su un gommone condotto da un giovane la cui espressione languida e vogliosa è completamente obnubilata dal movimento ondulatorio del seno, fintantoché, finalmente persuaso a distoglierne lo sguardo, il giovane beve dalla bottiglia un sorso della bibita reclamizzata. Interviene la voce fuori campo che afferma: «Bevi Oransoda, Lemonsoda, Pelmosoda e scopri sulle etichette come vincere un gommone con motore Suzuki» (140) Dec. n. 239/1999, 22 luglio 1999, Comitato di Controllo c. Campari s.p.a., D’Adda Lorenzini Vigorelli, Publitalia ’80 s.p.a. 128 (141). Ritiene il Comitato che il filmato pubblicitario in oggetto costituisca una deprecabile strumentalizzazione del corpo femminile, recando grave nocumento alla «dignità della persona e ponendosi in contrasto con l’art. 10, 2° comma, CAP». Inoltre il continuo ondulare del seno della donna evocherebbe un’allusione sessuale di grande suggestione visiva, manifestamente esorbitante i limiti imposti dall’art. 9 CAP. Per tutta risposta la società resistente replica che le argomentazioni sulle quali si fonda l’accusa sono oscurate da un incresciosa precomprensione valutativa, non potendo non tenersi nella benché minima considerazione che il tono goliardico e financo cameratesco del filmato, così com’è avviluppato in una manta di amabile ironia, sia di per sé stesso sufficiente a scagionare la pubblicità litigiosa. Destano vivissimo interesse le argomentazioni poste dall’organo giudicante alla base della pronuncia in parola e per la raffinatezza dello sforzo esegetico e per la lucidità ed intellegibilità del pensiero. Sostiene il Giurì «che la pubblicità in esame – benché innegabilmente ispirata dalla ricerca di un impatto forte presso il pubblico, grazie ad un certo grado di spregiudicatezza concentrata nella scena iniziale –, non si spinga oltre i limiti imposti dall’ordinamento autodisciplinare […]. Per apprezzare gli eventuali profili di contrasto con le norme autodisciplinari, il filmato va considerato e valutato nel suo complessivo sviluppo. Indubbiamente lo spot fa leva su un elemento di attrazione del pubblico di natura edonistica e sensuale: tale è la rappresentazione in primissimo piano di un seno in costume, procace e sobbalzante, oltretutto esposto all’esordio della (141) Dec. n. 147/2003, 22 luglio 2003, Comitato di Controllo c. Campari s.p.a., Publitalia ’80 s.p.a., con riguardo ad un telecomunicato reclamizzante le bibite “Lemonsoda, Oransoda, Pelmosoda”, diffuso da Campari Italia s.p.a. e trasmesso sulle Reti Mediaset nel mese di giugno 2003. 129 narrazione, in modo “criptico” ed aperto a qualche interpretazione maliziosa. Peraltro la successiva sequenza, che svela piuttosto rapidamente la situazione, interrompe l’inquadratura, scioglie la curiosità ed indirizza inequivocabilmente il filmato sui binari di una comunicazione ironica e scherzosa: questa si basa sul meccanismo dello svelamento improvviso del contesto, e sull’immagine dello sguardo inebetito del ragazzo, elementi dall’effetto comico che suscitano per reazione un naturale, immediato sorriso in una ideale platea media di pubblico. L’utilizzazione nella comunicazione pubblicitaria di elementi di richiamo sessuale, come l’ostentazione di parti anatomiche tradizionalmente espressione della bellezza femminile, non può ritenersi di per sé motivo di indecenza, volgarità o ripugnanza della rappresentazione. Tale utilizzazione è, ormai, largamente diffusa nei settori della comunicazione, non solo in pubblicità, ed è tendenzialmente accettata dalla sensibilità del pubblico medio. Naturalmente ciò che ha rilievo, ai fini della valutazione demandata al Giurì, sono il modo e la forma della rappresentazione. Ciò chiarito, il Giurì reputa che lo spot in esame, in virtù del suo complessivo registro scherzoso, per così dire goliardico, contiene in sé l’antidoto ad un eccessivo indulgere in allusioni sessuali lascive o morbose. Anche altri elementi, ad avviso del Giurì, contribuiscono a far prevalere nel messaggio un carattere solare, di ammiccamento genuino e diretto: il contesto vacanziero e balneare della narrazione, un certo taglio giovanilistico del filmato, uno stile a cui non è forse estranea la citazione in chiave ironica di modelli cinematografici cosiddetti trash. Sotto un ulteriore profilo, si deve escludere che il filmato presenti situazioni tali da implicare o alludere ad aspetti di violenza fisica o morale, di sopraffazione del protagonista maschile sulla donna, di sudditanza o di sofferenza di quest’ultima. Per quanto concerne, in 130 particolare, la censura riferita ad una strumentalizzazione o mercificazione del corpo femminile, essa appare eccessiva in relazione alla pubblicità in esame, tenuto conto delle considerazioni sopra esposte circa il carattere giocoso del filmato, e considerato che, nell’attuale evoluzione del gusto e della sensibilità, lo stesso pubblico femminile in ampia misura (anche se non generalizzata) accetta, e spesso apprezza, nella comunicazione, l’esaltazione edonistica della bellezza del corpo femminile, se scevra da elementi di offesa e di volgarità. Anche l’accusa di gratuità del contenuto del messaggio, che aggraverebbe il lamentato carattere volgare ed offensivo, per quanto non appare convincente, posto che, da un lato, la narrazione è in effetti collegata ad un aspetto dell’oggetto pubblicizzato […] e, dall’altro lato, l’utilizzo di contenuti narrativi o comunque di idee creative volutamente svincolate dal prodotto, o collegate ad esso solo da un riferimento labile, costituisce uno stile pubblicitario che trova illustri precedenti (si pensi alle scenette di Carosello nella TV degli anni ’60 e ’70). I rilievi formulati prescindono, ovviamente, da qualsiasi valutazione estetica o presa di posizione circa il grado di buon gusto o meno del filmato, che si compiace di sfiorare (o, se si vuole, di “citare”) la cifra del grossolano e che certo potrà per questo suscitare in una parte del pubblico reazioni di scarso gradimento». Ciò che il Giurì ritiene di escludere, in base alle motivazioni espresse, è che la pubblicità in esame violi i canoni prescritti dagli artt. 1, 9 e 10 CAP (142). (142) Similmente nella già citata pronuncia n. 239/1999, Comitato di Controllo c. Campari s.p.a., D’Adda Lorenzini Vigorelli, Publitalia ’80 s.p.a., anch’essa riguardante un filmato pubblicitario Campari per le bibite “Oransoda”, “Lemonsoda” e “Pelmosoda”, rilevata sulle reti Mediaset nel mese di giugno 1999, il Giurì si sofferma sulla questione della ricognizione, talvolta assai ardua, dei limiti applicativi dell’art. 10 CAP. E ciò al fine di scongiurare che ogni «rugosità» di linguaggio, quantunque idonea a suscitare qualche disagio o reiezione della comunicazione pubblicitaria, possano essere indiscriminatamente e aprioristicamente sanzionate ex art. 10 CAP. All’uopo afferma il Giurì che «Per accertare la violazione dell’art. 10 occorre che dal complesso della 131 Simili considerazioni hanno condotto il Giurì a scagionare due manifesti pubblicitari, entrambi ritraenti su di un elegante sfondo purpureo dei corpi di donna completamente nudi (143). Drappi di capelli scendono sulle spalle delle modelle come pesante velluto, le nudità sono per lo più adombrate dalle mani assai sottili, mentre lo sguardo si rivolge ammiccante verso il lettore. «Sul corpo longilineo viene proiettata una luce più chiara che disegna i contorni geometrici delle caldaie pubblicizzate, in modo da incorniciare perfettamente le forme femminili, dal petto fino a sopra le ginocchia. L’immagine della ragazza è riquadrata in alto a sinistra da una stilizzazione della caldaia, in alto a destra dalla scritta “nessuna la vede”, che continua in basso a sinistra con la scritta “tutti la vogliono”, che a sua volta termina con la medesima stilizzazione della caldaia che compare in alto a sinistra. L’annuncio termina con la banda finale nera che reca a sinistra la scritta spaziozero s’incassa e scompare». L’immagine, a detta del Comitato, violerebbe l’art. 10, comunicazione, dal concept trasferito al pubblico si staglino situazioni, immagini e linguaggio idonei a suscitare un turbamento emozionale legato direttamente alla lesione degli interessi primari ai quali si è fatto riferimento. Oltre questa linea di confine, la grossolanità della situazione, l’insensibilità nell’interpretare valori e doveri sociali, sfuggono alla competenza del Giurì e la sanzione è legata al mercato e alla non “produttività” della comunicazione, in termini di promozione del prodotto e del servizio. Vi è un’ulteriore sottolineatura, che non può essere ignorata quando si fa riferimento alla comunicazione pubblicitaria commerciale e non istituzionale o sociale. Il messaggio pubblicitario commerciale è caratterizzato, per sua natura, da una qualche dissonanza idonea a richiamare l’attenzione e a mantenerla attiva per il tempo necessario ad attivare la comunicazione. Se usa codici rappresentativi di tipo realistico non può fare a meno di esprimere differenze rispetto all’ovvio e al banale, ai fini di intrigare il destinatario sul contenuto del messaggio. Con la necessaria conseguenza che ammettere la possibilità di utilizzare situazioni e linguaggi del reale, possibilità che nessuno ha mai messo in discussione, significa accettare l’ingresso di dissonanze, discrasie e ambiguità per evitare che il messaggio promozionale si trasformi in qualche cosa di diverso o si riduca a una mera registrazione dei mercuriali di una certa area commerciale». (143) Dec. n. 144/2001, 27 maggio 2002, Comitato di Controllo c. Hermann s.r.l., IGP Decaux s.p.a. 132 comma 2, CAP poiché realizza una svilente strumentalizzazione ed una mercificazione dell’immagine della donna, ulteriormente aggravata dalla intensa allusività delle scritte che ne sovrastano il nudo. Il Giurì, di contro, ritiene che nelle immagini in parola non ricorra alcun profilo di non conformità tale da giustificare qualsivoglia intervento sanzionatorio o inibitorio. Ciò perché, quantunque l’inserzionista abbia impiegato un nudo di donna per reclamizzare un prodotto non strettamente correlato ai bisogni ed alle esigenze del pubblico femminile, deve purtuttavia riconoscersi, prosegue il Giurì, che la raffigurazione del nudo femminile si connoti per l’inusuale eleganza e sobrietà della figura. Attraverso l’impiego di tecniche assai raffinate, quali il body painting e il bodylighting, la figura femminile, dalle rotondità scultoree quasi granitiche, è imperlata da una luce sapientemente chiaroscurata ed impreziosita dal contrasto cromatico tra il candore pallido della pelle e il rosso purpureo dello sfondo. L’espressività che promana dall’immagine è casta, per nulla sconveniente o ripugnante. Più recentemente il Giurì ha scagionato la pubblicità Zicaffè ritenendo sufficiente ad escludere la meritevolezza della risposta sanzionatoria l’eleganza e la raffinatezza della forma espressiva impiegata. La pubblicità de qua esibisce la schiena, fino ai glutei, di una avvenente donna di colore, schiena sulla quale sono adagiati, seguendo la linea dorsale, dei grossi chicchi di caffè; le immagini sono corredate dal claim “Piacere nero” ( 144 ). L’immagine in parola viola l’art. 10 CAP, poiché, opina il Comitato, attraverso una sineddoche corporale di straordinaria bellezza, riduce «la figura femminile a mero oggetto del (144) Dec. n. 80/2010, 14 settembre 2010, Comitato di Controllo c. Zicaffè s.p.a., con riguardo ad una pubblicità affissionale rilevata nel mese di giugno 2010 nella città di Palermo. 133 desiderio provocando la mercificazione della persona ed il degrado della sua dignità». La parcellizzazione del corpo della donna unitamente alla correlazione iconografica e cromatica di un mero particolare anatomico con il prodotto reclamizzato, finisce con il realizzare una deprecabile abnegazione dell’integrità materiale e financo spirituale della persona. Nell’opinione del Giudice pubblicitario la cartellonistica contestata non è censurabile alla stregua delle norme autodisciplinari. All’uopo il Giurì non trascura di rilevare, pur con un certo biasimo, il carattere eminentemente pretestuoso ed apodittico all’argomento difensivo della stone therapy, dal momento che tale pratica gode di modestissima notorietà e che il posizionamento dei chicchi di caffè accompagna lo sguardo del lettore conducendolo attraverso tutta la sinuosità scultorea della schiena della donna. Purtuttavia, il Giurì, non ritiene la pubblicità litigiosa meritevole della consueta sanzione inibitoria, rimarcando che: «deve […] darsi onestamente e realisticamente atto che la pubblicità, se non meramente informativa, ha per finalità istituzionale quella di persuadere all’acquisto del bene o del servizio o esaltandone i pregi prestazionali (per lo più ricorrendo ad un linguaggio iperbolico – la pubblicità comparativa, se legittima, implica, per converso, una dose rilevante di informazione) o instaurando nel consumatore una traslazione di desiderio da un oggetto o da una situazione gradita ai più, in una data cultura, all’oggetto o al servizio che l’autore della comunicazione intende promuovere. Che questa traslazione del desiderio attinga spesso agli appetiti sensoriali e, tra questi, alla libido è notorio». Ed ancora «Lo scrutinio non può che vertere sulle modalità di trattamento iconografico e verbale degli appetiti: e come nessuno si sognerebbe di considerare riprovevole l’immagine di una guantiera in argento di saumon fumé per trasferire l’appetito su una dozzinale crema spalmabile al salmone, 134 nessuno potrebbe rifiutare che l’immagine di un bel corpo, maschile o femminile, in sé suscettibile di ammirazione e di desiderio umani e quindi rispettabili come qualsiasi altra umana, fisiologica inclinazione, inneschi l’ammirazione e il desiderio per dei capi d’abbigliamento o per dei prodotti cosmetici. La sensualità del caffè, bevanda più dell’ordine del piacere che di quello dell’alimentazione, ben può essere legittimamente evocata dalla perfezione plastica di una schiena femminile – come lo era già stata dalla venustà di un volto femminile “in un mare” di chicchi di caffè – declinando e mescolando più desideri: quello naturalissimo suscitato da un bel corpo e quello del caffè […]. E come la traslazione del desiderio dal corpo umano al prodotto è uno stilema tanto diffuso quanto indifferente per la dignità della persona; così è solo se il desiderio per il prodotto scaturisce da una condotta, da una postura, da un contesto degradanti della persona (antonomasticamente perché la postura, la condotta o il contesto fanno della persona – da intendersi come sintesi di coscienza e volontà e da non confondersi con il corpo – un mezzo e non un fine) che la traslazione merita la riprovazione dell’ordine autodisciplinare» (145). (145) In termini sostanzialmente analoghi si è espresso il Giurì con riguardo ad alcune immagini pubblicitarie raffiguranti soggetti a mezzo busto di differente età e sesso, con i volti celati, quasi fosse un passamontagna, da uno slip, escludendo che le suddette immagini, ancorché di forte impatto visivo, importassero una avvilente disumanizzazione della persona. Il tema del messaggio in questione, ovvero quello del volto mascherato, viene esplicitato sotto il titolo della trasmissione pubblicizzata “Comizi d’Amore”, nel payoff, che recita: “Dove il sesso non è bandito”. Secondo il Comitato di Controllo il messaggio in parola viola gli art. 9 e 10 CAP. Ed invero, argomenta l’organo di controllo, «l’uso di soggetti con il viso coperto da slip, oltre a suscitare immediatamente sensazioni disturbanti nei destinatari, lede la dignità della persona» poiché «la diretta applicazione sul volto di un indumento intimo normalmente utilizzato per coprire i genitali, crea […] un inevitabile accostamento tra il viso della persona ed i genitali stessi». Questo «cortocircuito visivo e concettuale» visceralmente degrada la dignità umana, anche perché veicola una visione della sessualità/genitalità come principale canale attraverso cui guardare al mondo. La parte iconica del messaggio evoca una «fortissima e olfattiva fisicità» che procura financo disgusto, prestandosi ad 135 Orbene, il Giurì, nelle molte occasioni in cui è stato investito della verifica di conformità alle prescrizioni degli artt. 9 e 10 CAP di messaggi pubblicitari raffiguranti nudi di donna, ha chiarito importanti aspetti applicativi delle norme autodisciplinari in commento, indicandone l’esatto ambito di applicabilità alla luce dei due criteri ermeneutici più volte richiamati ( 146 ). Si pongono in questo solco le decisioni nn. 365/2000, 129/2001, 165/2001, 232/2001, 289/2001 e 153/2004 (147). una decodifica dal significato univoco. La suddetta decodifica, prosegue il Comitato, non verrebbe esclusa neppure ove si tenesse in debita considerazione la facezia scatologica o le presunte finalità didascaliche della parte testuale del messaggio. Il Giurì ritiene di essenziale importanza, per la risoluzione del quesito sottopostogli, quello cioè della riconduzione della pubblicità litigiosa all’umorismo scatologico o all’erotismo deviato e feticista, ricorrere ad una interpretazione complessiva della stessa, all’uopo rammentando che «è bensì vero che la comunicazione pubblicitaria, come qualsiasi altra comunicazione di pensiero, è soggetta alle regole dell’interpretazione e fra queste a quella che impone di ricostruire il contenuto del messaggio tenendo conto dell’interazione reciproca dei singoli elementi espressivi che vengono recepiti dal consumatore in un contesto unitario; ma è anche vero che la suddetta regola soprattutto manifesta la sua importanza quando la valutazione complessiva conduce a ricostruire il significato del messaggio diversamente da quello che risulterebbe da una valutazione frazionata» (dec. n. 43/1982, 13 dicembre 1982, Argenterie Christofle s.p.a. contro Cesa s.p.a., Arnoldo Mondadori Editore s.p.a., Editoriale del Corriere della Sera s.a.s.). Questo avvertimento, nell’opinione del Giudice autodisciplinare, sembra particolarmente prezioso nel caso in esame, «laddove la estrapolazione del solo visual potrebbe far pensare a un gioco infantile di dubbio gusto, ma la lettura del messaggio nel suo complesso, visual e testo, fa interpretare lo slip come allusione al passamontagna dei banditi, la parola bandito esplicita il proprio doppio senso e tutto l’insieme chiarisce l’intenzionale riferimento alle prevenzioni esistenti nei confronti del parlare liberamente di sesso». Per questi motivi, il Giurì, a maggioranza del collegio, dichiara la pubblicità contestata conforme al Codice di Autodisciplina Pubblicitaria. Dec. n. 10/2007, 6 marzo 2007, Comitato di Controllo c. Discovery Italia s.r.l., Agenzia D’Adda Lorenzini Vigorelli BBDO, Soc. Quadro Adv. s.r.l., Hachette Rusconi Editore s.p.a., Hachette Pubblicità s.p.a., RCS Periodici s.p.a., RCS Pubblicità s.p.a., A. Mondadori Editore s.p.a., Mondadori Pubblicità s.p.a. in relazione ai messaggi diffusi a mezzo stampa su: “Gente” n. 46, data copertina 16 novembre 2006; “Io Donna”, data copertina 25 novembre 2006; “Chi” n. 47, data copertina 29 novembre 2006 e su diffusa cartellonistica. (146) V. infra § 1. (147) Rispettivamente dec. n. 365/2000, 19 dicembre 2000, Comitato di Controllo c. Radio Kiss Kiss s.r.l., Damir s.r.l.; dec. n. 129/2001, 29 maggio, Comitato di controllo c. Barel s.n.c., RCS Editori s.p.a. – Sett. Periodici, RCS Editori s.p.a. – Sett. Pubblicità; 136 La prima decisione riguarda alcuni manifesti affissionali raffiguranti in primissimo piano «l’immagine di una donna, sdraiata e con la testa sollevata, con le gambe nude divaricate, rivolte verso l’osservatore e salenti verso l’alto (148). La donna presenta un apparecchio radiofonico appoggiato sulla zona pubica». L’headline reca la scritta “Kiss Kiss me baby”. Il Comitato di Controllo ritenendo i messaggi pubblicitari in contrasto con gli artt. 9, 10 e 1 CAP, chiedeva che ne fosse disposta la cessazione unitamente alla pubblicazione per estratto dell’emananda decisione ex art. 40. Ad avviso del Comitato di Controllo anche il solo atteggiamento lascivo e ammiccante della modella, ritratta in posizione ginecologica, sarebbe di per sé sufficiente a far intendere in modo univoco il significato scandalistico e ripugnante del messaggio litigioso. Invero anche gli altri elementi figurativi convergono verso codesta ipotesi interpretativa, l’accostamento tra lo sguardo concupiscente e supplichevole della donna e la scritta “Kiss Kiss me baby”, istituisce un collegamento immediato tra il pube della donna e il prodotto reclamizzato, trasfigurando il primo in lucente vestibolo di mercimonio. Secondo la parte resistente la ricostruzione operata dall’organo di dec. n. 165/2001, 24 luglio 2001, Comitato di controllo c. Onceas s.p.a., Agenzia Milano AD s.r.l., Marketing Finanza Italia, Media Group Int. s.r.l., Gruppo Editoriale L’espresso – divisione la Repubblica, A. Manzoni e C s.p.a. relativa ad un inserto pubblicato su “Pubblicità Italia” n. 21 dell’11 giugno 2001 e su “la Repubblica” del 30 giugno 2001; dec. n. 232/2001, 9 ottobre 2001, Comitato di controllo c. Diamond s.r.l., Agenzia Opinion Leader s.r.l., R.C.S. Editori s.p.a. – Settore Periodici, R.C.S. Editori s.p.a. – Settore Pubblicità; dec. n. 289/2001, 4 dicembre 2001, Comitato di controllo c. Du Pont de Nemours International, La Repubblica s.p.a., A. Manzoni & C. s.p.a., R.C.S. Editori s.p.a. – Settore Periodici, R.C.S. Editori s.p.a. – Settore Pubblicità, A. Mondadori Editore; s.p.a., Mondadori Pubblicità s.p.a., relativa ad un messaggio pubblicitario rilevato su “D” di “la Repubblica”, data di copertina 16 ottobre 2001; “Io Donna” n. 34 e n. 41 e “Grazia” n. 44, data di copertina 6 novembre 2001 e dec. n. 153/2004, Comitato di Controllo c. Teobras s.r.l., IGP Decaux, IPAS, relativa ad una campagna pubblicitaria rilevata su cartelloni pubblicitari a Milano nel mese di giugno 2004. (148) Dec. n. 365/2000, cit. 137 controllo è assai poco pregevole, dal momento che non coglie la brillante comicità del messaggio in contestazione. La postura delle gambe della modella, lungi dal voler lasciare intendere un atteggiamento di profferta sessuale, si limita a imitare, in forma goliardica, «la struttura delle due antenne dell’apparecchio radio accostato al […] grembo [della donna]». La resistente, all’uopo richiamando alcuni precedenti del giudice ordinario, rimarca altresì come l’interpretazione del Comitato si atteggi in modo piuttosto eccentrico rispetto alla «ratio sottesa nella legge n. 66 del 1996, che attribuisce rilievo come bene protetto non più alla moralità pubblica, ma alla persona umana e al suo diritto di gestire con libera scelta la propria sessualità». Il Giurì, esaminate attentamente le tesi contrapposte, dichiara la contrarietà dell’advertising agli artt. 9, 10 e 1 CAP. Non ritiene invece il Giurì di dover procedere all’irrorazione dell’ulteriore sanzione della pubblicazione per estratto dell’emanata sentenza, ex art. 40 CAP. Ciò in quanto è dato rinvenire un ravvedimento operoso nell’atteggiamento psicologico e materiale dell’inserzionista, il quale, in coincidenza con la discussione della vertenza, ha sollecitamente provveduto alla sospensione unilaterale della campagna pubblicitaria fondata sulla cartellonistica al fine di riparare agli effetti pregiudizievoli che la stessa aveva frattanto procurato ai consumatori, dando segno di resipiscenza ed encomiabile contegno processuale. In senso conforme si è pronunciato il giudice autodisciplinare nella dec. n. 129/2001, relativa al messaggio pubblicitario Barel “L’arte del ferro battuto. Unico, irripetibile”, raffigurante «una donna senza volto, completamente nuda, ripresa dal seno a metà polpaccio, distesa a cavalcioni della testata in ferro battuto di un letto» (149). La postura della (149) Dec. n. 129/2001, cit. 138 modella è assolutamente inequivoca, evocando «un atto di esibizione autoerotica», «aggravata dall’effetto penetrativo dell’ansa tubolare della testata, che affonda tra le gambe e la zona pubica, realizzando anche un effetto di violenza fisica». Non vi è alcun collegamento tra la scena ritratta e il prodotto reclamizzato, di talché deve inferirsi l’ampollosa superfluità della raffigurazione in discorso. Le modalità espressive utilizzate trascendono i limiti imposti dal decoro e dalla decenza mediante la rievocazione di una libido atavica e primordiale, suscitando sensazioni assai conturbanti. Per questi motivi il Comitato di Controllo ritiene che il messaggio litigioso si ponga in contrasto con gli artt. 9 e 10, comma 2, CAP. Il collegio giudicante, considerando meritevoli di accoglimento le censure mosse dall’accusa, opina che, sebbene la calligrafia estetizzante della fotografia non consenta di ravvisare nella pubblicità litigiosa gli estremi della volgarità e dell’indecenza, di cui all’art. 9 CAP, nondimeno deve ritenersi integrata la violazione dell’art. 10, comma 2, CAP. Con le parole del Giurì: «La figura di una donna nuda, distesa a cavalcioni sulla stanga in ferro della testata di un letto, appare del tutto innaturale ed ha palesemente lo scopo di evocare suggestioni di tipo sessuale, per richiamare l’attenzione sul prodotto ed imprimerne nella mente il ricordo. Il corpo raffigurato è inequivocabilmente femminile, evidenziando l’immagine del seno nudo, con il capezzolo proteso verso la testata del letto. La posizione della donna è del tutto innaturale ed irrealistica, ed appare palesemente utilizzata al solo scopo di indurre ad associare il prodotto pubblicizzato al corpo ed ai genitali femminili. Il messaggio veicola indubbiamente […] una palese strumentalizzazione del corpo femminile, che appare in contrasto con l’art. 10, 2° comma, CAP». Il 139 Giurì, pertanto, dichiara il suddetto contrasto e dispone l’immediata cessazione della pubblicità contestata. In un’altra occasione il Giurì ha censurato un messaggio pubblicitario basato sull’evidenziazione in primissimo piano di due glutei femminili racchiusi in un cerchio, alla cui sinistra compare un rullino “Fujifilm” e sovrapposto al centro il marchio “Gimme five” con l’impronta di una mano destra stilizzata ( 150). Questo grande cerchio è sormontato in alto a sinistra da una body copy che testualmente recita: “è partita “Gimme five”, la grande promozione estiva Fujifilm che ti fa vincere suggestivi viaggi per due persone”. Segue lo slogan “ecco cosa ti serve per vincere la Giordania”; la pubblicità reca ulteriormente un cerchio con un’immagine dei templi di Petra in Giordania e chiude con il pay off “Fujifilm, Sviluppa la passione”. Ad avviso del Comitato di Controllo il messaggio in questione si fonda sulla ridondante enfatizzazione di un particolare anatomico, la cui rappresentazione è «completamente svincolata dalla necessità di reclamizzare il concorso ed imposta con prepotenza allo sguardo dell’osservatore, ciò che determina una gratuita ed inaccettabile mercificazione e reificazione del corpo femminile», secondo una filosofia iconografica che dovrebbe ormai essere antiquata e finanche antidiluviana. La degradante trivialità del messaggio litigioso è ulteriormente aggravata, soggiunge il Comitato, dal parallelismo creato tra i glutei della giovane donna e la fortuna necessaria per vincere il viaggio sponsorizzato. Per i suesposti motivi il Comitato ritiene che la pubblicità in parola violi gli artt. 9 e 10 CAP. Il Giurì – dopo aver espresso il proprio apprezzamento per l’eleganza stilistica della pubblicità litigiosa, caratterizzata dall’assoluta perfezione delle tecniche fotografiche, dalla seducente ricercatezza delle reminiscenze cromatiche (150) Dec. n. 165/2001, cit. 140 tra visual e scritto, nonché dalla pregevolezza dell’architettura formale, sapientemente e simmetricamente strutturata – non manca di rilevare come questi apprezzamenti personali positivi non possano tuttavia esimere il Giurì «dal verificare serenamente se il messaggio litigioso sia o non conforme al codice di autodisciplina pubblicitario. E questa verifica conduce a dare una risposta negativa». Secondo una consolidata giurisprudenza autodisciplinare, prosegue il Giurì, le norme di cui agli artt. 9 e 10 CAP si atteggiano quale estrinsecazione modale del più generale principio affermato dall’art. 1, secondo cui la pubblicità «deve evitare tutto ciò che possa screditarla». Da qui la possibilità di dedurre che «la ratio dell’art. 1 suggerisce subito che questa regola e le sue specificazioni puntuali degli artt. 9 e 10 vogliono evitare anche il discredito della pubblicità che possa derivare da una sua valutazione negativa ad opera non solo della collettività generale tutt’intera ma anche di gruppi più circoscritti, che tuttavia non siano espressivi di minoranze patologiche». Nel caso di specie, continua il Giurì, non può dubitarsi della meritevolezza dell’intervento sanzionatorio, giacché non occorre alcuna «ontologica necessità» di pubblicizzare il prodotto reclamizzato con tale esuberanza ed euforia espressiva al solo fine di attirare l’attenzione del pubblico. Il Giurì, esaminati gli atti e sentite le parti, dichiara la pubblicità litigiosa in contrasto con gli artt. 9 e 10 CAP e ne ordina la cessazione. Identica sorte ha avuto un messaggio pubblicitario ritraente una giovane donna centroamericana in un succinto bikini, con le gambe innaturalmente divaricate, tra le quali è posta una bottiglia della birra pubblicizzata ( 151 ). Accanto all’immagine l’headline recita: “Fatti la cubana”. Il Comitato di Controllo considerate congiuntamente la postura della modella, inneggiante alla più lubrica salacia, e l’headline dal (151) Dec. n. 232/2001, cit. 141 significato inequivoco, ritiene che non occorra alcun dubbio sulla decodifica in senso marcatamente volgare e scurrile del messaggio litigioso e chiede pertanto che ne sia ordinata la cessazione per contrasto con gli artt. 9 e 10 del CAP. Nell’opinione del Comitato l’immagine della donna procacemente disabbigliata va interpretata alla stregua della scritta “Fatti la cubana”, ponendosi con essa in rapporto d’inestricabile correlazione semantica. Il Giurì, accolta la domanda dell’organo inquirente, pone l’accento sulla circostanza «che l’annuncio, pur contravvenendo tanto all’art. 9 […] quanto al 10 […], è riprovevole soprattutto perché, operando l’identificazione della modella con la birra, per di più attraverso un doppio senso volgare, realizza un caso di mercificazione della donna, purtroppo analogo ai molti che negli ultimi anni sono già stati sanzionati dal Giurì» e dispone pertanto la cessazione della pubblicità in contestazione (152). La dec. n. 289/2001, ha ad oggetto un messaggio pubblicitario che ritrae la schiena nuda di una giovane donna genuflessa, con fianchi e glutei in elevazione, sulla quale vi è la scritta Tactel “Cover me with something that understands my body language” ( 153 ). Ad avviso del Comitato, la modella, della quale non si scorge il volto, sarebbe colta in un gesto di umiliante proscinesi nell’atto di concedere i suoi fianchi (152) Un autorevole precedente in tal senso è costituito dalla dec. n. 7/1975, 17 settembre 1975, Comitato di Accertamento nei confronti di Diffusion Post s.r.l., Gm s.r.l., A. Mondadori Editore s.p.a., relativa ad un messaggio pubblicitario apparso su di un noto periodico, che ritraeva una ragazza completamente nuda a cavalcioni si di una sedia, in gesto di chiara profferta sessuale. L’immagine era accompagnata dell’headline “Fattela anche tu... la sedia del regista”. Il Giurì in quell’occasione ebbe ad affermare che l’annuncio litigioso fosse da considerarsi contrastante con l’art. 9 CAP in quanto allusivamente volgare. Il gioco di parole contenuto nell’headline non lasciava alcun dubbio al riguardo, «soprattutto se posto in relazione alla fotografia della ragazza svestita, la quale di per sé può anche non essere censurabile, giacché il nudo non necessariamente integra gli estremi della volgarità, ma che - nel generale contesto del messaggio - contribuisce ad accentuare il tono ambiguamente scurrile». (153) Dec. n. 289/2001, cit. 142 lussureggianti quale «mero supporto di uno scritto». La postura della donna è di totale subordinazione, evocando un serpeggiante servilismo erotico, la cui decodifica è tanto più intellegibile, ove si consideri il significato, invero assai degradante e avvilente, dello scritto. Il Giurì, osserva preliminarmente che, quantunque nel caso di specie non possa disconoscersi la preziosità della forma, esplicantesi tanto nella sublime eleganza e raffinatezza della fotografia, quanto nella linearità minimalista del disegno in cui si fondono fotografia e scritto, deve cionondimeno ritenersi integrata la violazione lamentata dell’art. 10 comma 2, proprio in considerazione della cristallina limpidezza anzidetta che enfatizza oltremodo il messaggio di sudditanza della donna veicolato dalla pubblicità litigiosa. Per questi motivi il Giurì, dichiarato il contrasto della pubblicità de qua con l’art. 10, comma 2, CAP, ne dispone la cessazione (154). (154) Le preziose riflessioni del Giurì forniscono un’analisi fenomenologica della fattispecie assai attenta: «È proprio questa riuscita simbiosi che fa emergere in modo trasparente la rappresentazione degradante ed umiliante della donna con il capo nascosto e ridotto a terra, fra le mani incrociate dietro la nuca, con solo fianchi e glutei in elevazione, e nella quale la schiena è utilizzata come mero supporto per uno scritto, oltretutto di significato pesantemente ambiguo. È ben vero che lo scritto, ed in particolare il termine “cover me” […] potrebbe essere letto in chiave diversa, anche in ragione di una lingua non usuale per il pubblico italiano, così indotto a raccordare il termine con le parole successive che ne dissolvono il riferimento al significato di “accoppiamento animale”, ma tale spiegazione nulla toglie al significato umiliante e degradante dell’immagine in sé considerata. Pesante simbologia della “donna oggetto” il cui corpo può essere offerto come supporto per scritte pubblicitarie ed il cui capo e viso possono essere nascosti sino a scomparire per dare rilievo, anche nella postura, solo a fianchi e glutei, portati in primo piano. Il fatto che tutto sia rappresentato con un certo grado di eleganza, in una atmosfera azzurro scuro, sfumata sino ad un blu profondo, facendone smarrire alcuni contorni […], non fa venir meno la sindacabilità sotto il profilo denunciato. Se è vero infatti che la raffinatezza espressiva può essere idonea a collocare l’immagine su un piano diverso da quello suscettibile di offendere il buon gusto […] non è men vero che nella specie l’elemento caratterizzante, quello destinato a colpire l’osservatore, esaltato dalla limpidezza del mezzo espressivo, è quello al quale ha fatto riferimento il Comitato. La donna, vista in un atto di asservimento e sottomissione, senza viso e cervello, in cui la sola evidenza è quella offerta da glutei e fianchi: le parti 143 Analogamente, il giudice pubblicitario ha ritenuto non conforme all’impianto autodisciplinare la campagna pubblicitaria Miss Bikini che «mostra, fisicamente e metaforicamente, un corpo di donna ridotto a richiamo dell’ossessivo desiderio maschile espresso come una palpazione di gruppo consentita dalla donna che resta estranea alla relazione» ( 155). Il Presidente del Comitato di Controllo, ritenendo l’immagine manifestamente contraria agli artt. 10, 11 e 1 CAP, ingiungeva all’inserzionista, ex art. 39 CAP, di desistere dalla ultronea diffusione di detta pubblicità su ogni mezzo. Nell’immagine cartellonistica il corpo della donna è oggetto di una «gestualità fortemente invasiva», l’impulso erotico è rappresentato come assolutamente incontenibile e irrefrenabile, veicolando un modello comportamentale «degradante, squalificante e pericoloso». La totale estraneità emozionale della donna rispetto alla vicenda raffigurata – percepibile dallo sguardo dormiente e ozioso e dal sorriso marmoreo della stessa – acuisce il paventato rischio di decodifica del messaggio nel senso di una legittimazione normalizzante del più turpe degli abusi, quello estrinsecantesi in una capricciosa fruizione del corpo femminile quale mera realtà inorganica, deprivata di ogni capacità volitiva e psicologica. L’offesa e il pericolo, seguita il Comitato, «sono infine aggravati dalle caratteristiche del mezzo utilizzato, che per le sue enormi dimensioni, si impone brutalmente alla visione dei passanti, specie se minori». In sostanza, ad avviso dell’accusa, le fotografie in esame presentano un rischio concreto di una decodifica analogica delle immagini che può messe in evidenza nella fotografia. Il linguaggio del corpo, che sembra collegarsi allo scritto, quest’ultimo con la dose di ambiguità sopra rimarcata, è quindi solo quello stagliato dalle immagini poste in primo piano». (155) Dec. n. 153/2004, cit. 144 indurre in un pubblico ancora immaturo un senso di compiacimento se non di emulazione verso comportamenti gravemente trasgressivi e irrispettosi nei confronti della donna. Il Giurì, con seducente argomentare, afferma che «per uscire dalle secche del semplicistico criterio ermeneutico della libera interpretazione, occorre fare riferimento ai principi della percezione visiva e della sua organizzazione, da tempo elaborati dalla psicologia della forma […] per la corretta lettura di un’immagine. Alla luce di questi criteri, un’immagine è qualcosa di più e di diverso rispetto alla semplice somma delle parti da cui è costituita. I processi mentali della conoscenza, e in particolare dell’esperienza percettiva, si organizzano in configurazioni unitarie la cui totalità è qualitativamente differente dalla somma dei singoli elementi che la compongono e prescinde da mediazioni, scomposizioni, ricostruzioni e così via. Come una melodia non è la somma delle note che la compongono e non può venir suddivisa in esse senza perdere la sua caratteristica di fondo, così l’immagine ‘significa’ per il senso globale che comunica la forma nel suo complesso. Quello che conta è dunque la struttura, la natura intrinseca del complesso globale stesso. L’analisi strutturale dell’esperienza parte quindi dall’insieme e non dalle parti ed è il tutto che dà significato alle parti e non viceversa […]». In particolare, per quanto attiene alla contestata violazione dell’art. 11 CAP, il Giurì ricorda, ancora una volta, la fondamentale e non trascurabile circostanza «che il consumo di materiale pubblicitario da parte di adulti e minori si differenzia in modo significativo. L’adulto possiede un sistema cognitivo ed emozionale pienamente sviluppato che gli consente di ‘gestire’ una gran mole di stimoli complessi e gli offre la possibilità di analizzare il messaggio in modo critico e di limitarne il condizionamento. I bambini e gli adolescenti (anche se per ragioni in parte diverse) hanno invece serie 145 difficoltà alla decodifica del messaggio che li può lasciare confusi e indifesi perché crea una sorta di realtà parallela che, essendo vivida e di facile interpretazione, può prevalere, con conseguenze facilmente intuibili, sull’effettivo dato di realtà. A questo proposito non è irrilevante il mezzo attraverso il quale è veicolato il messaggio perché la modalità prescelta può determinarne le modalità di fruizione. Nel caso in esame, la scelta è caduta sul manifesto di enormi dimensioni, una forma che […] si impone con prepotenza alla visione da parte dei passanti, colpendoli emotivamente con le immagini rappresentate, senza alcuna possibilità di sottrarlo alla vista dei bambini o adolescenti. L’univocità di decifrazione è aggravata da una specifica caratteristica del messaggio Teobras […] e cioè l’assenza di ogni comunicazione scritta di commento o di suggerimento interpretativo. La concentrazione sul canale visivo, il più immediato, riduce lo spettatore al mero rango di vedente, togliendogli ogni possibilità di interpretazione simbolica. A differenza del messaggio ‘parlato’ o audiovisivo, la comunicazione che si affida alla sola visualità è priva della possibilità di esprimere analogie, contrasti, legami causali o altri tipi di rapporti». Ancora, «questa modalità riduttiva di comunicazione che […] contrasta con l’art. 10 del Codice di Autodisciplina Pubblicitaria per gli elementi di svalutazione della figura femminile che propone, se fruito da un pubblico recettivo, acritico e sensibile come quello dei minori può diventare, anche a ragione della indiscriminata visibilità del manifesto, veicolo di turbamento psichico e di errati convincimenti sul modello di comportamento maschile e sull’immagine e il ruolo della figura femminile». Il Giurì pertanto dichiara la pubblicità contestata in contrasto con gli artt. 10 e 11 CAP, ordinandone contestualmente la cessazione. Un’analisi a parte merita la dec. n. 226/2002 per l’imponenza della 146 condotta violativa posta in essere dall’inserzionista, estrinsecantesi nell’utilizzazione in una comunicazione pubblicitaria dell’immagine di una donna sul cui corpo è ricalcata la suddivisione della carne bovina nei vari tagli con cui tale carne viene commercializzata. Secondo il Comitato il messaggio pubblicitario in commento è «caratterizzato da un collage di disegni e fotografie disparate e non pertinenti le une con le altre sì che ogni elemento della composizione acquista un significato a se stante. In tale situazione iconografica in cui il singolo elemento, essendo decontestualizzato rispetto agli altri con i quali non presenta alcun nesso concettuale, assume rilievo individuale l’immagine di un corpo nudo di donna vistosamente suddiviso in vari tagli di carne, con richiamo al cosiddetto taglio di bue». Tale icona realizza, a detta del Comitato, «un inaccettabile svilimento del corpo umano poiché nell’identificare parti anatomiche del corpo femminile con il caratteristico nome inglese dato a vivande da tavola evoca una situazione di mercificazione che lede moralmente ed offende la dignità del soggetto rappresentato, ossia della donna considerata alla stregua di un animale da allevamento» (156). Una siffatta scelta iconografica sfoggia un’irriverenza così intensamente dissacrante, da assurgere a caso emblematico di violazione degli artt. 9 e 10 CAP. In motivazione la parte resistente oppone che le immagini del collage si pongono in rapporto di reciproca interrelazione contestualizzante, dacché evocano le medesime suggestioni, che lungi dall’essere biasimevoli o truculente, appartengono agli ideali di «tolleranza, amore, rispetto, fratellanza tra culture, persone e popoli». Nel (156) Dec. n. 226/2002, 10 dicembre 2002, Comitato di Controllo c. A&A s.p.a. – Aspesi, R.C.S. Periodici s.p.a., R.C.S. Quotidiani s.p.a., R.C.S. Pubblicità spa relativo ad un messaggio pubblicitario apparso su “Il Corriere della Sera” nei giorni 7 e 10 ottobre 2002, nonché su “Io Donna” n. 37 del 14 settembre 2002. 147 merito enuncia il Giurì «che è naturalmente vero che quello realizzato per scopi pubblicitari è un patchwork e che in tale tipo di composizione artistica, come è nella sua natura, le diverse immagini e disegni non presentano tra loro sinapsi logiche, ma si tratta di accostamenti suggeriti anche da effetti cromatici ed emotivi. Non per questo tuttavia si deve negare che si tratti di un insieme che va colto come tale; […] Si deve tuttavia considerare che nell’inserire nel patchwork l’immagine della donna tatuata come una mucca da macello se ne è attuata una duplice decontestualizzazione. La prima e più ovvia consiste nella destinazione a scopi pubblicitari della composizione stessa. Collocata in tale contesto comunicativo ogni messaggio acquista una valenza specifica, e, sotto il profilo istituzionale, si impongono, a tutela e protezione del consumatore medio, cautele che in genere non sono necessarie nel puro campo della produzione artistica. Le seconda, più sottile, nasce dal fatto che il richiamo ai simboli dei movimenti culturali nati in America negli anni sessanta, assai evidente nella composizione in esame, sembra trascurare che tali movimenti ebbero diverse valenze. L’opponente sottolinea, in fin dei conti giustamente, che il senso complessivo del patchwork è l’atmosfera rilassata, amichevole e tollerante della cultura dei “figli dei fiori”. Sicuramente questo è il messaggio che si voleva veicolare e che in larga misura la composizione veicola effettivamente. Tuttavia in quei movimenti era anche presente una vena di critica radicale alla ipocrisia caratterizzante i residui della morale di origine vittoriana che ancora dominavano il perbenismo della middle class. A questo filone critico probabilmente appartiene l’archetipo dell’immagine in questione, ma che si tratti di un significato del tutto perduto nel frattempo, lo dimostra la difficoltà della parte opponente a rintracciarlo. Men che meno si può pretendere che il lettore di un settimanale colga da solo simili 148 intendimenti critici, tanto più che la maggior parte dei simboli utilizzati, che sono meglio coglibili anche dal lettore non dotato di grande provvedutezza storico culturale, sono uniformemente orientati in altro senso, ossia richiamano gli ideali di fratellanza e tolleranza nati dal movimento dei diritti civili e poi trasformatisi in uno stile di vita. Da ciò discende che, estraniata da ogni intendimento critico, l’immagine del corpo nudo di una donna su cui sono sovraimpressi i tagli di carne bovina diviene solo una inaccettabile offesa alla dignità della donna e si pone quindi in radicale contrasto con l’art. 10 CAP a norma del quale la pubblicità deve rispettare la dignità della persona umana in tutte le sue forme ed espressioni; nonché con il connesso principio di cui all’art. 9 che vieta rappresentazioni di violenza fisica o morale che secondo il gusto e la sensibilità dei consumatori debbano ritenersi volgari o ripugnanti». Il Giurì, pertanto, dichiara la non conformità della pubblicità litigiosa agli artt. 9 e 10 CAP e ne dispone la cessazione. 4. L’utilizzazione pubblicitaria del tema della morte è piuttosto diffusa, tanto da consentire l’individuazione di supposto filone necrofilo, caratterizzato e dalla esibizione di modelle nude in contesti funerei o mortuari e dalla commistione tra elementi tanatologici ed erotici. Prescindendo dalle questioni che attengono alla valenza commercial-comunicazionale di questo presunto trend, ovvero se rappresentare la morte in pubblicità sia in grado di produrre un ritorno apprezzabile in termini commerciali, rimane tuttavia, in un’ottica di valutazione giuridico-autodisciplinare, da verificare la liceità di tali 149 operazioni, i criteri idonei per poterli valutare (157). Al fine di svolgere una ricognizione ermeneutica dei principi giurisprudenziali elaborati sul tema, occorrerà valutare quei casi in concomitanza dei quali il mercimonio del corpo della donna è stato realizzato attraverso il ricorso pubblicitario a riferimenti tanatologici. Paradigmatica in tal senso è la dec. n. 165/1999, in cui il messaggio litigioso raffigura il corpo ormai esanime di una giovane donna scalza con la testa adagiata all’interno del forno di una cucina a gas. All’immagine è sovrapposta la scritta “Fashion is dead” ( 158 ). Le modalità espressive impiegate rivelano una sconcertante crudeltà, esaltando con rara enfasi l’antitesi tra la condizione di caducità dell’essere umano e la perpetuità delle scarpe reclamizzate, suggerendo una scala di valori intollerabile per la coscienza morale e religiosa della stragrande maggioranza dei fruitori. Tale contrasto è ulteriormente aggravato dal violento realismo cromatico con cui è trattato il tema della morte, la cui rappresentazione appare tanto veristica da procurare turbamento e angoscia. Ad avviso del Comitato l’annuncio si porrebbe in contrasto con gli artt. 10 e 1 CAP perché «utilizza a meri fini commerciali un tema socialmente difficile e delicato come il suicidio, che nelle convinzioni morali, civili e religiose dei cittadini è considerato un atto innaturale e sconvolgente, da circoscrivere nell’ambito del privato e della riservatezza. […] La scelta di rappresentare un suicidio non è determinata da alcuna necessità di illustrazione del prodotto reclamizzato, dal momento che nessuna funzione strumentale è (157) Così CUCCINO, Thanatos e advertising, in Il diritto industriale, n. 11/1997, pag. 983. (158) Dec. n. 165/1999, 11 giugno 1999, Comitato di Controllo c. DD s.r.l, Rcs Editori s.p.a. Settore Periodici, Cairo Pubblicità s.p.a., Rcs Editori s.p.a. Settore Quotidiani, Rcs Editori s.p.a. Settore Pubblicità. La pubblicità era apparsa su l’inserto “Io donna” del “Corriere della Sera” del 27 febbraio 1999 e sull’inserto “Sette” de “Il Corriere della Sera” del 19 marzo 1999. 150 dato scorgere tra il primo e il secondo: […] La contrapposizione dell’headline “Fashion is dead” alle scarpe da ginnastica si risolve in un’inammissibile forma di banalizzazione della morte, determinando una repulsione nel pubblico che si ripercuote nell’immagine della pubblicità come istituzione». D’altro canto, osserva il Comitato, la pubblicità può «generare sgomento o alterazioni emotive ancor più incisive nel pubblico non maturo, in primis quello infantile», e contrasta dunque con l’art. 11 CAP. Esaminate attentamente le tesi contrapposte, enuncia il Giurì che «la posizione e l’espressione esanime del braccio abbandonato della ragazza raffigurata al centro del messaggio suggeriscono chiaramente a chiunque che la ragazza è morta, e si è anzi suicidata. Il messaggio litigioso vuole inoltre accreditare l’idea che una persona può anche morire, anche se giovane, e anche con un suicidio, ma che al contrario le scarpe reclamizzate non possono morire e non muoiono. Ora il tema della morte e a maggiore ragione quello del suicidio sono temi certamente molto delicati. L’inserzionista non aveva alcuna necessità di avvalersi del tema della morte per reclamizzare le caratteristiche, i pregi e il marchio dei propri prodotti. In questa situazione già l’utilizzazione dei temi della morte e del suicidio confligge con gli artt. 10 e 1 CAP. E questo conflitto è, se possibile, ulteriormente aggravato dall’enfasi con cui l’annuncio propone una scala di valori (tra la morte e le scarpe reclamizzate) che appare subito inaccettabile alla coscienza civile e a quella religiosa della maggior parte del Paese». Pertanto il Giurì, condanna la pubblicità litigiosa per contrasto con gli artt. 10 e 1 CAP (159). ( 159 ) Per quanto attiene invece alla lamentata violazione dell’art. 11, il Giurì ritiene che essa non possa configurarsi nel caso sottoposto alla sua cognizione perché «l’annuncio [è] veicolato attraverso un mezzo che non è fisiologicamente frequentato dai minori». 151 Evocano il tema del suicidio due messaggi pubblicitari oggetto della dec. n. 304/2000 ( 160 ). In commento al primo messaggio il Comitato rileva che l’immagine del volto terrorizzato di una donna immersa nella vasca da bagno, con bolle d’aria che escono dalla bocca sottolineata dall’headline “Stress?”, in caratteri molto marcati, vorrebbe effigiare il carattere insopportabile dello stress, che spinge la donna al suicidio. Il secondo messaggio rappresenta una giovane donna con il tubo flessibile della doccia avvolto intorno al collo, sempre con la scritta “Stress?” in forte rilievo, a suggerire anche qui l’idea del suicidio, provocato dal sovraffaticamento fisico e psicologico della vita moderna. Parimenti i testi che accompagnano le immagini, e in particolare il pay-off dell’intera campagna “Tutta un’altra vita”, suggeriscono anch’essi il concetto della morte e della rinascita. Ambedue i messaggi si pongono, a detta del Comitato, in contrasto con gli artt. 10 e 1 CAP. L’assenza di qualsivoglia spiegazione idonea a giustificare l’accostamento tra il tema del suicidio e il prodotto reclamizzato, non ravvisandosi alcuna funzione esplicativa o illustrativa del primo rispetto al secondo, determina un profondo e irrecuperabile svilimento della dignità umana, mortificando le convinzioni morali e religiose dei fruitori delle pubblicità in parola. Di diverso avviso è la resistente, la quale sostiene che le immagini asseritamente in contrasto con le norme autodisciplinari, stante il loro carattere irrealisticamente fiabesco, sarebbero evidentemente iperboliche e ironiche, di talché devono considerarsi assolutamente inidonee a suscitare i sentimenti di profondo turbamento lamentati dall’accusa. Le ( 160 ) Dec. n. 304/2000, 20 ottobre 2000, Comitato di Controllo c. Glass Idromassaggio s.p.a., Bianchi & Kerrigan, Rcs Editori s.p.a. Settore Periodici, Rcs Editori s.p.a. Settore Pubblicità, A. Mondadori Editore s.p.a., Mondadori Pubblicità s.p.a., relativa a due messaggi pubblicitari appardi sui periodici “Anna” n. 31 del 31 luglio 2000 e “Panorama” n. 31 del 3 agosto 2000. 152 modalità figurative adottate, prosegua la resistente, sono di grande pregio artistico dacché enfatizzano con calligrafia estetizzante il contrasto tra la doccia/vasca tradizionale, ormai obsoleta e antiquata, e quella pubblicizzata, assai più confortevole. Ad avviso del Giurì vi è un’irriducibile differenza tra i due inserti. Il primo messaggio, quantunque l’immagine in esso raffigurata sia irrealistica e fantasiosa, dal momento che «la donna non potrebbe mai affogarsi, sommergendosi da sola», pare simboleggiare una morte imminente ed autoprovocata. Un simile effetto è ottenuto attraverso l’evidenziazione dell’espressione sgomenta che sorge sul volto della donna e di ulteriori elementi evocativi che accrescono l’atmosfera funerea della scena. Pertanto, in ossequio al principio secondo cui «la comunicazione pubblicitaria va interpretata alla stregua delle emozioni, dei significati e dei simboli che evoca, non solo in base ai suoi contenuti razionali», nel caso di specie deve senz’altro concludersi per l’irriducibile prevalenza della sensazione emotiva dell’affogamento sulla «percezione razionale del carattere irrealistico di quanto è raffigurato», non residuando spazi per cogliere il carattere iperbolico dell’immagine. Nel secondo messaggio, al contrario, la postura e l’atteggiamento della donna, con il braccio destro alzato sopra la testa, a reggere la doccia da cui scorre l’acqua, e l’altra mano che sostiene un lembo della tenda «escludono ogni possibile riferimento alla morte o a intenzioni suicide», occorrendo molta fantasia per rinvenire nel flessibile della doccia avvolto intorno al collo un elemento che possa suggerire l’idea della morte autoindotta per strangolamento. Il Giurì dichiara il primo messaggio in contrasto con l’art. 10 CAP e ne dispone la cessazione, non ravvisando invece estremi meritevoli di censura nel secondo. Soltanto un anno più tardi il Giurì condannava la pubblicità 153 “Aspesi” con motivazioni del tutto analoghe. La campagna pubblicitaria de qua è composta da due annunci ( 161 ). Nel primo, ambientato in un’elegante stanza da letto, l’iconografia è dominata dalle tonalità turchesi dell’acqua che incontenibile sommerge gran parte dell’arredamento versandosi dalle finestre e dal soffitto e giungendo a coprire il bordo del letto, mentre una giovane donna giace sul talamo nunziale con gli occhi innaturalmente sbarrati e i «capelli scomposti, sparsi sul viso», lasciandosi subissare dall’acqua che invade la stanza. Ad avviso del Comitato, l’immagine evoca «l’idea del suicidio, della passività autodistruttiva, della persona ridotta emotivamente ai margini dei valori umani». Nel secondo messaggio pubblicitario la protagonista, in piedi accanto al letto con lo sguardo abbacinato dal fuoco, «stringe nella mano destra una scatola di fiammiferi e nell’altra un fiammifero acceso, mentre un incendio divampa all’interno della stanza». L’immagine è predominata dalle tonalità del carminio, il cui folgorante splendore si scioglie in una costellazione di fiamme ardenti, riecheggiando l’idea dell’incendio causato da persona gravemente disturbata. Secondo il Comitato entrambi gli annunci si porrebbero in stridente contrasto con gli artt. 11 e 12 CAP ( 162 ). Il Giurì osserva (161) Dec. n. 316/2001, 14 dicembre 2001, Comitato di controllo c. A & A s.r.l. – Aspesi, Rcs periodici s.p.a., Rcs pubblicità, relativa a due messaggi della campagna pubblicitaria della “Aspesi”, pubblicati su “Amica” n. 43 del 24 ottobre 2001 e su “Io Donna” n. 42 del 20 ottobre 2001. ( 162 ) Il testo dell’art. 12, rubricato “Salute, sicurezza e ambiente”, recita: «La comunicazione commerciale relativa a prodotti suscettibili di presentare pericoli, in particolare per la salute, la sicurezza e l’ambiente, specie quando detti pericoli non sono facilmente riconoscibili, deve indicarli con chiarezza. Comunque la comunicazione commerciale non deve contenere descrizioni o rappresentazioni tali da indurre i destinatari a trascurare le normali regole di prudenza o a diminuire il senso di vigilanza e di responsabilità verso i pericoli». La disposizione in parola non è venuta in rilievo sovente nella presente trattazione, poiché lambisce soltanto occasionalmente e in modo assai marginale il tema che ci occupa. 154 preliminarmente che ai fini del presente giudizio di liceità non rileva «il carattere più o meno realistico delle immagini, quanto le emozioni che esse sono idonee a suscitare, pur nella loro irrealtà; interessano non i dati logici, ma quelli emozionali; i significati, i simboli negativi e traumatizzanti, gli eventuali disvalori, che le immagini esprimano, così indirettamente propagandandoli, al mero scopo di imprimere nelle menti il marchio pubblicizzato e i prodotti a cui è associato». Il Giurì, nel suo prudente apprezzamento, ritiene che entrambi i messaggi litigiosi valichino i limiti imposti dall’art. 10 e 11 CAP. Quanto alla violazione dell’art. 10 CAP, essa deve rinvenirsi nel primo messaggio perché in esso emerge in tutta la sua drammaticità cruenta e conturbante la passività autodistruttiva e nel secondo perché «i significati di cui sopra appaiono ancor più accentuati, con l’aggravante che la distruttività della persona non appare rivolta solo contro se stessa, ma si manifesta contro il mondo esterno, mediante il gesto di appiccare un incendio e la raffigurazione impressiva del risultato raggiunto». Nulla osta, soggiunge il Giurì, all’accertamento della violazione dell’art. 10 CAP, ai sensi dell’art. 37, 4° comma, lett. c), pur se non ritualmente contestata nel ricorso introduttivo, in quanto è rilevabile senza necessità di apposita istruttoria. Quanto alla violazione dell’art. 11 CAP, essa è ravvisabile sol che si consideri la non trascurabile circostanza che la pubblicità litigiosa è stata pubblicata su rotocalchi facilmente accessibili agli adolescenti e in ispecie alle giovani fanciulle sulle quali le suggestioni evocate, quantunque irrealistiche, potrebbero nondimeno fomentare il compimento di atti emulativi. Non si rinviene invece alcuna violazione dell’art. 12. Per questi motivi, il Giudice autodisciplinare dichiara la non conformità della pubblicità litigiosa agli art. 10 e 11 e ne ordina la cessazione. 155 La pronuncia che si procede ad esaminare, dec. n. 71/2000, ebbe una grande eco nell’ambiente pubblicitario ( 163). La campagna, volta a (163) Dec. n. 71/2000, 10 marzo 2000, Comitato di Controllo c. Cesare Paciotti s.p.a., Edizioni Condé Nast s.p.a., A. Mondadori Editore s.p.a., Mondadori Pubblicità s.p.a. , Rcs Editori s.p.a. Settore Periodici, Rcs Editori s.p.a. Settore Pubblicità. Gli annunci pubblicitari in questione erano apparsi su “Grazia” n. 7, data di copertina 22 febbraio 2000, e “Amica” n. 8, data di copertina 23 febbraio 2000, e “Vogue”, data di copertina gennaio-febbraio 2000. In un’altra occasione il Giurì condannò un inserzionista che, con più velata sobrietà, si dilettava nell’arte di effigiare la protagonista dei propri messaggi pubblicitari come una bambola di porcellana imbellettata di tutto punto, afflitta delle stigmate sanguinanti. Il messaggio pubblicitario in parola raffigurava l’immagine di una giovane donna, avvolta in una sottile camicia di voile, con lo sguardo e il volto rivolti verso le proprie mani, che risaltavano in primo piano, con le dita accostate al seno e impreziosite da un anello di rubini e brillanti, mani sulle quali si scorgevano due profonde ferite insanguinate. Secondo il Comitato di Controllo il messaggio litigioso è censurabile ai sensi degli artt. 9 e 10 CAP. L’eccentrico accostamento tra il prodotto reclamizzato ed un corpo femminile segnato da laceranti ferite «costituivano una parte iconografica dell’annuncio oggettivamente idonea a provocare una sensazione di forte disagio nell’osservatore». Soggiunge il Comitato che le piaghe che insistevano sul dorso delle mani rievocavano, nemmeno tanto sommessamente, le stigmate di Cristo, suscitando un sentimento di viscerale ripugnanza per la profanazione del sentire religioso e per la strumentalizzazione ai fini meramente commerciali di «eventi soffusi di sacralità». Sensibilmente differente è l’interpretazione data dalla parte resistente, secondo cui il messaggio contestato, lungi dal suscitare riprovazione per la presunta quanto pretestuosa volgarità e ripugnanza dell’immagine, avrebbe dovuto essere letta nel suo insieme, e non mediante l’arbitraria estrapolazione di un singolo particolare iconografico, la cui funzione, peraltro era soltanto quella di enfatizzare il rosso sfavillante del rubino reclamizzato. Inoltre la vaporosa leggiadria delle maniche di voile, acuiva l’eterea evanescenza della figura, smorzando ulteriormente la violenza cromatica generata dal rosso carminio delle ferite. Orbene, da questa analisi degli elementi figurativi, soggiunge la resistente, emerge con lapalissiana evidenza che la donna è rappresentata quale icona virginale, quasi celestiale, il cui contegno di eterea pudicizia emana una lucente spiritualità: «unendo sacralità e gioiello in un’iconografia casta e soffusa di un alone di luce, stagliava la figura di una donna che, di fronte alle ferite mercificanti delle abituali strumentalizzazioni commerciali, si raccoglieva nell’intimità e nella sicurezza di valori certi. In questo contesto il collegamento fra iconografia della figura di donna e preziosità del gioiello non poteva ritenersi gratuito ma funzionale al fine della presentazione del prodotto». Il Giurì dichiara la non conformità del messaggio pubblicitario all’art. 10 CAP, non ravvisando invece profili di violazione dell’art. 9, e ne dispone l’immediata cessazione. V. dec. n. 126/2000, 5 maggio 2000, Comitato di Controllo c. Zancan s.p.a., Rcs Editori s.p.a. Settore Periodici, Cairo Pubblicità s.p.a., relativo ad un annuncio pubblicitario apparso su “Io donna” n. 12 del 2000. 156 pubblicizzare una linea di articoli di abbigliamento e accessori, «si articola in diversi messaggi che ambientano la collezione Paciotti in un cimitero nel quale si scorgono lapidi, tombe, una bara ricoperta di fiori e una fossa ancora aperta». Sostiene il Comitato che «tutte le immagini contestate raffigurano modelle, in pose improbabili e fuor di luogo in un contesto cimiteriale: sedute sulle tombe, con gambe nude fino all’inguine e divaricate, o inginocchiate davanti a una tomba aperta, o sedute accanto a una bara, a gambe aperte a mostrare l’inguine o che “sfilano”, con grande indifferenza, camminando su una lastra tombale. Tutte calzano vistose e coloratissime scarpe di pelle di serpente». L’accostamento della scena sepolcrale a immagini pregne di richiami erotizzanti «irride al concetto della morte e offende la sensibilità del pubblico», contravvenendo alle disposizioni di cui agli artt. 9 e 10 CAP. Tale contrasto diventa intollerabile proprio a causa delle peculiari modalità figurative ed espressive adottate, la cui unica finalità è quella di scioccare attraverso la profanazione di valori universalmente avvolti da sacralità e rispetto. Da sempre cimiteri e sepolcri sono luoghi deputati ad accogliere la morte e a simboleggiarne il valore sacrale. Infatti l’immediatezza del contrasto tematico è resa ancor più evidente dalla contrapposizione tra la macabra oscurità della scena cimiteriale e i colori sfavillanti dei preziosi pellami sfoggiati dalle modelle, nella più totale incuria della sacralità che avvolge la scena. I messaggi contestati violano anche l’art. 11 CAP nella misura in cui sviliscono sensibilmente la credibilità della pubblicità tutta. La parte resistente si duole delle censure mosse contro i messaggi litigiosi lamentando l’inutile verbosità delle stesse. Invero i personaggi sono «elegantemente ma sobriamente vestiti», afferma la resistente, e hanno «un contegno certamente consono» all’ambientazione cimiteriale. Inoltre «le immagini sepolcrali […] non creano un’atmosfera di tristezza 157 toccante che suscita emozione o provoca angoscia o turbamenti in chi le osserva. Le immagini non sono crude, né rozze, ma si collocano in una dimensione aspaziale e atemporale, goticamente glamour e, in quanto tali, non possono arrecare offesa alle altrui convinzioni religiose e morali». Per tali motivi le modalità espressive adottate devono essere considerate espressione di raffinata ricercatezza, rivelandosi assolutamente inidonee a procurare quell’avvilente reificazione dei luoghi tombali che la parte inquirente contesta. Il Giurì, ritenendo meritevoli di accoglimento le censure avanzate dal Comitato, dichiara la campagna pubblicitaria in contrasto con gli artt. 9, 10 e 1 del Codice di Autodisciplina e ne dispone la cessazione (164). ( 164 ) In motivazione il Giurì spiega perché ritiene sanzionabili le modalità espressive impiegate nella pubblicità de qua, ammonendo ancora una volta che il suo sindacato può legittimamente dispiegarsi soltanto in riferimento al peculiare atteggiarsi delle summentovate modalità espressive e non anche con riguardo alla scelta di un particolare tema pubblicitario. Enuncia il Giurì che «non è forse inutile cercare di capire le ragioni per cui la pubblicità, sempre più spesso, ricerca l’attenzione del pubblico ricorrendo alla proposta di situazioni che suscitano sentimenti intensi, a prescindere dalla loro valenza positiva/negativa. La ragione è presto detta: da molto tempo, la ricerca sulla psicologia del ricordo ha dimostrato che la memorabilità dell’evento/immagine/situazione aumenta all’aumentare del livello di arousal che accompagna l’osservazione. Più il contesto osservativo è emotivamente carico (senza diventare eccessivo, perché altrimenti l’effetto si inverte), maggiore è la probabilità che si attivi la traccia mnestica. Questo significa che la salienza dell’ambientazione (difficile, per esempio, non restare colpiti da quella in esame) induce un aumento di attenzione che “trascina” e fa aumentare la memorabilità anche degli oggetti inseriti nel contesto. […] La valutazione della liceità dell’utilizzo in pubblicità del tema della morte rappresenta un aspetto del più vasto insieme costituito da tutte quelle manifestazioni pubblicitarie che realizzano deliberatamente “incursioni” in aree afferenti alla sfera etica e religiosa, dove il messaggio diventa censurabile quando […], per l’ambientazione o per il testo, produce l’impressione “di un’inammissibile volgarizzazione in formule e luoghi che sono considerati, dalla generalità, avvolti da sacralità e il cui collegamento con prodotti commerciali può provocare, nella generalità, un’esperienza sgradevole di un sentimento, come quello religioso». A confermare questa impostazione il Giurì cita la dec. n. 5/1989, in cui enunciava che il collegamento di momenti e luoghi sacrali con un prodotto commerciale non può non comportare un vissuto di profanazione del senso religioso, di deificazione dei beni di consumo. Ciò premesso, ad avviso del Giurì, «nelle immagini contestate si riscontra il ricorso a modalità espressive sanzionabili. Si utilizza non la 158 morte in senso astratto, ma la sepoltura: elemento realistico che chiama in causa il culto dei morti, cioè un valore universalmente diffuso. L’impressione globale che emerge dall’ambientazione è quella di un’inammissibile reificazione di luoghi che per la generalità del sentire comune meritano rispetto. Collegarli con la pubblicità di prodotti commerciali suscita la sensazione della profanazione di sentimenti, come quello del culto dei morti, che non tollerano attacchi di questo tipo. Come più volte ribadito dalla giurisprudenza autodisciplinare, per valutare l’applicabilità dell’art. 10 bisogna prescindere dal fatto che la sensibilità di alcuni sia stata ferita o rispettata: l’esistenza di un parziale consenso o dissenso è un fenomeno fisiologico che non vale, in sé, a motivare un contrasto con l’art. 10. Quello che rileva è il comune sentire dei cittadini, il fatto che una certa pubblicità venga sentita come lesiva di un patrimonio comune e condiviso e che è interesse di tutti non vedere mercificato o svilito. Come giustamente ha stabilito la pronuncia n. 219/1995, “all’Autodisciplina non si può dare il carico di salvaguardare la patologia o l’ottica individuale nel sentire la religione, dovendo limitare il proprio intervento, se richiesto, alla migliore difesa dei valori storici generalmente condivisi [...] quello della sensibilità individuale, dei limiti del buon gusto è un territorio che il Giurì deve ritenere al di fuori del proprio ambito di dovuta tutela”. Proprio perché la funzione del tipo di comunicazione che si sta esaminando è puramente commerciale, è giusto esigere che i messaggi proposti al pubblico non investano negativamente le convinzioni profonde che costituiscono un patrimonio comune condiviso dalla generalità. È pur vero che disposizioni normative che fanno riferimento a concetti come l’indecenza, la volgarità, la ripugnanza, le convenzioni morali sono, per loro natura, di non agevole decifrazione, specie quando l’iter decisionale imponga l’individuazione di un punto di riferimento che funga da linea di demarcazione. In questi casi, per evitare il rischio di risposte soggettive, il criterio di valutazione diventa quello del “sentire medio”, inteso come la risposta prevalente in un dato momento in una certa comunità». 159 CAPITOLO IV L’UTILIZZAZIONE PUBBLICITARIA DEL CORPO DELLA DONNA NEL REGNO UNITO ALLA LUCE DELLA PIÙ RECENTE CASISTICA DELL’ADVERTISING STANDARDS AUTHORITY. SOMMARIO: 1. Premessa metodologica. — 2. Principi generali. — 3. L’utilizzazione pubblicitaria del corpo della donna nel Regno Unito alla luce della più recente casistica dell’Advertising Standards Authority. — 4. I principali criteri ermeneutici elaborati dalla giurisprudenza autodisciplinare d’oltremanica sul tema. Gratuità del riferimento a motivi di carattere erotico e financo pornografico ed estraneità con la natura dei prodotti reclamizzati. Destinatari della pubblicità. — 5. Opportuni rilievi comparatistici sul concreto estrinsecarsi dell’autoregolamentazione pubblicitaria in Italia e nel Regno Unito con particolare riguardo alla pubblicità sessista. 1. Uno sguardo alla giurisprudenza autodisciplinare inglese sul tema della rappresentazione pubblicitaria della donna svela un primo interessante dato comparatistico, giacché, sebbene i parametri valutativi impiegati dall’Advertising Standards Authority per la risoluzione delle controversie siano tendenzialmente analoghi a quelli invalsi nella prassi autodisciplinare italiana, cionondimeno, gli esiti applicativi di quei medesimi criteri ermeneutici sono sovente assai diversi. Sotto quest’aspetto deve osservarsi come l’attività cognitoria del giudice pubblicitario inglese sia caratterizzata della meditata ponderazione dei più sottili aspetti fenomenologici della fattispecie in un’ottica di affascinante pragmatismo, rifuggendo ogni tentazione di velleitaria autoreferenzialità. Da ciò discende che nel Regno Unito i limiti alla pubblicità suggestiva che si intrometta nella sfera dei valori più sacri – investendo di cariche negative le più profonde convinzioni che alimentano ed indentificano la personalità stessa del cittadino – siano, in un’ottica 160 squisitamente applicativa, dei limiti proteiformi, suscettibili di essere plasmati plasticamente secondo le peculiari sfaccettature del caso. Prezioso corollario a una tale impostazione è la straordinaria sensibilità dell’autodisciplina inglese alle esigenze di razionalizzazione ed efficientismo del marketing pubblicitario. Ancorché pienamente consapevole che ogni espediente adoperato nelle campagne pubblicitarie rileva primariamente ed essenzialmente come artificio posto in essere dall’inserzionista al fine di ricevere un ritorno apprezzabile in termini commerciali, il giudice pubblicitario inglese, mostra di tenere in grande considerazione, oltreché, le esigenze del consumatore, anche quelle dell’inserzionista. All’uopo occorre fare un’ulteriore precisazione circa la struttura delle decisioni dell’ASA, ontologicamente contrassegnate dalla totale assenza della motivazione o dalla presenza di apparati motivazionali assai contratti. A fronte degli sforzi ermeneutici profusi dal Giurì italiano nella costruzione di architetture argomentative esaurienti ed approfondite, il giudice autodisciplinare inglese predilige uno stile redazionale stringato, quasi minimalista, rendendo non poco arduo il compito dei commentatori di individuare le motivazioni su cui si fonda la decisione. Nonpertanto la certezza del diritto pubblicitario inglese, la prevedibilità delle sue soluzioni applicative ed il corretto funzionamento dell’intero ordinamento autodisciplinare sono garantiti dalla inconsueta e cristallina intellegibilità che esibisce il Code of Non-broadcast Advertising, Sales Promotion and Direct Marketing così come anche dell’UK Code of Broadcast Advertising, il cui articolato normativo è contrassegnato da una mirabile sintesi di sistematicità strutturale e semplicità formale. 161 2. Scopo dell’autodisciplina pubblicitaria inglese, come anche di quella italiana, è garantire che la pubblicità venga realizzata come servizio al pubblico, con speciale riguardo alla sua influenza sul consumatore. Pertanto l’autodisciplina tutela non soltanto l’interesse, di natura eminentemente concorrenziale, dell’imprenditore a non essere pregiudicato dalla comunicazione pubblicitaria altrui, ma anche quello del fruitore del messaggio a non subire forme di sviamento nelle proprie scelte di consumo e a non essere turbato nelle proprie convinzioni morali o ideali. All’uopo la premessa all’art. 1 CAP code enuncia: «The central principle for all marketing communications is that they should be legal, decent, honest and truthful. All marketing communications should be prepared with a sense of responsibility to consumers and society and should reflect the spirit, not merely the letter, of the Code» ( 165 ). Parimenti sintomatiche del carattere garantistico e vieppiù solidaristico dell’autodisciplina pubblicitaria sono le disposizioni contenute nel testo della medesima norma, il quale recita: «1.1 Marketing communications should be legal, decent, honest and truthful. 1.2 Marketing communications must reflect the spirit, not merely the letter, of the Code. ( 165 ) Similmente, la lett. a) delle Norme Preliminari e Generali al Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale prescrive che «Il Codice di Autodisciplina ha lo scopo di assicurare che la comunicazione commerciale, nello svolgimento del suo ruolo particolarmente utile nel processo economico, venga realizzata come servizio per il pubblico, con speciale riguardo alla sua influenza sul consumatore. Il Codice definisce le attività in contrasto con le finalità suddette, ancorché conformi alle vigenti disposizioni legislative; l’insieme delle sue regole, esprimendo il costume cui deve uniformarsi l’attività di comunicazione, costituisce la base normativa per l’autodisciplina della comunicazione commerciale». Questa straordinaria assonanza è il frutto dell’opera di armonizzazione ed europeizzazione dei diritti autodisciplinari nazionali condotta dall’EASA al fine di garantire, attraverso la tendenziale standardizzazione normativa sul piano codificatorio, una sostanziale uguaglianza di tutela sul piano effettuale. 162 1.3 Marketing communications must be prepared with a sense of responsibility to consumers and to society. 1.4 Marketers must comply with all general rules and with relevant sector-specific rules. 1.5 No marketing communication should bring advertising into disrepute […]» (166). Euristicamente gravida ai fini della presente trattazione, è la disposizione di cui all’art. 4 CAP code, la quale enuncia: «Marketers should take account of the prevailing standards in society and the context in which a marketing communication is likely to appear to minimise the risk of causing harm or serious or widespread offence. 4.1 Marketing communications must not contain anything that is likely to cause serious or widespread offence. Particular care must be taken to avoid causing offence on the grounds of race, religion, gender, sexual orientation, disability or age. Compliance will be judged on the context, medium, audience, product and prevailing standards. Marketing communications may be distasteful without necessarily breaching this rule. Marketers are urged to consider public sensitivities before using potentially offensive material. The fact that a product is offensive to some people is not grounds for finding a marketing communication in breach of the Code. 4.2 Marketing communications must not cause fear or distress without justifiable reason; if it can be justified, the fear or distress should (166) Si confrontino le clausole di cui ai punti 1.1 e 1.5 CAP code con l’art. 1 del Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale, secondo cui «La comunicazione commerciale deve essere onesta, veritiera e corretta. Essa deve evitare tutto ciò che possa screditarla». 163 not be excessive. Marketers must not use a shocking claim or image merely to attract attention. 4.3 References to anyone who is dead must be handled with particular care to avoid causing offence or distress. 4.4 Marketing communications must contain nothing that is likely to condone or encourage violence or anti-social behaviour. 4.5 Marketing communications, especially those addressed to or depicting a child, must not condone or encourage an unsafe practice […]. 4.6 Marketing communications must not encourage consumers to drink and drive. Marketing communications must, where relevant, include a prominent warning on the dangers of drinking and driving and must not suggest that the effects of drinking alcohol can be masked. 4.7 Marketers must take particular care not to include in their marketing communications visual effects or techniques that are likely to adversely affect members of the public with photosensitive epilepsy». In particolare l’art. 4.1, comma 2, enuncia uno dei fondamentali canoni ermeneutici della giurisprudenza inglese, quello, cioè, dell’assoluta irrilevanza ai fini dell’autodisciplina pubblicitaria del mero cattivo gusto. Questo stesso principio, ancorché non formalmente codificato, è stato saldamente recepito dalla giurisprudenza del Giurì: «[…] principio fondamentale dell’ordinamento autodisciplinare […] secondo il quale il compito dell’Autodisciplina non è di farsi arbitro del buon gusto dei pubblicitari, ma di censurare quelle manifestazioni di volgarità e indecenza che possono far sorgere sentimenti ostili verso la pubblicità. L’ironia a sfondo sessuale deve ritenersi lecita. […] Il Giurì è certo di non dover essere il giudice del cattivo gusto. In un’altra occasione il Giurì ha ribadito che «[…] prende […] in esame il concetto di cattivo gusto riferito a quello di volgarità. Premesso che il Codice di 164 autodisciplina pubblicitaria debba tutelare le minoranze, ma non i singoli eventualmente scandalizzati, la condanna sembra necessaria quando si va oltre il cattivo gusto e si reca offesa a molte persone. La volgarità evocata dall’art. 9 insieme ai concetti di indecenza e ripugnanza deve intendersi, a parere del Giurì, come un limite estremo: perché si configuri la volgarità prevista dall’art. 9 occorre che, nell’immagine o nel discorso pubblicitario, ci siano elementi molto negativi. […] Il Giurì non si ritiene giudice del buon gusto, ma dell’aderenza dei messaggi allo spirito del Codice di autodisciplina pubblicitaria». Ancora, «appare abbastanza evidente che le espressioni verbali [“Toccalo”. “Accarezzalo”. “Stringilo”. “È il piacere infinito”] utilizzate sono state scelte per la loro ambiguità, cioè per il fatto che si prestano a essere decodificate in una duplice direzione: o quella più “triviale”, in cui l’oggetto del “toccare”, “accarezzare”, “stringere”, così come del “piacere infinito”, possiede indubbie connotazioni sessuali; oppure quella strettamente merceologica in cui l’oggetto delle predette azioni è il prodotto pubblicizzato. Del resto è ampiamente noto che il carattere “ambiguo” dei segni, la loro apertura a una polivalenza di significati e di percorsi di lettura è uno dei tratti distintivi del linguaggio espressivo in generale e quindi anche del linguaggio pubblicitario in particolare. I segni che presentano ambiguità e doppi sensi sono particolarmente funzionali al discorso persuasorio, come quello pubblicitario, poiché aumentano il carattere di originalità del messaggio, attirano maggiormente l’attenzione (specie in un contesto molto affollato e competitivo) e sono di conseguenza più memorizzabili» (167). Questa ricognizione, ancorché contratta, rappresenta icasticamente (167) Rispettivamente dec. n. 258/1997, 17 ottobre 1997, Comitato di Controllo c. Swish Jeans s.r.l., Saatchi & Saatchi Advertising s.p.a., A&P s.r.l., Alessi s.p.a., Publiflor s.r.l., Sma s.p.a., Affitalia s.r.l., Giengi s.r.l., Sia s.r.l., Editrice Il Messaggero s.p.a., Piemme s.p.a.; dec. n. 190/1997, 20 giugno 1997, Comitato di Controllo c. 165 l’atteggiamento della giurisprudenza autodisciplinare italiana rispetto al principio dell’insindacabilità del semplice cattivo gusto in pubblicità. Atteggiamento costante ed irriducibilmente monolitico. 3. Anche nella comunicazione pubblicitaria inglese è dato scorgere una morbosa forma di affezione per l’iconografia erotica. L’erotizzazione di elementi iconici e fraseologici si estrinseca in modalità assai varie, quali la densità di espliciti riferimenti sessuali e financo pornografici, l’ostentazione seducente del nudo femminile e, non ultima, l’ambiguità del contesto lessicologico. Cionondimeno è dato osservare come alcune caratteristiche delle pubblicità che ci accingiamo ad esaminare si ripropongano in maniera costante e reiterata, quasi ad integrare un elemento strutturale ed intrinseco delle stesse. Tra queste caratteristiche si annovera certamente la tendenziale gratuità dell’implicazione erotica rispetto alla natura del prodotto reclamizzato. Esaurita questa breve premessa, si valuteranno alcuni dei casi giurisprudenziali più rappresentativi affrontati dall’Advertising Standards Authority, al fine di mettere a fuoco i profili fenomenologici della fattispecie valorizzati dal giudice inglese nella propria attività cognitoria. Un manifesto, sponsorizzante un “Lap Dence Club” reca la scritta “Corporate Gentleman’s Entertainment Club Oops …!” (168). L’annuncio mostra l’immagine di una donna nuda dalla vita in giù con la biancheria intima abbassata in corrispondenza dell’inguine. In luogo del viso e della parte superiore del corpo della modella compare un disegno a fumetti Volteco World Technology s.p.a., Forlati Zera, Rcs Pubblicità s.p.a. e dec. n. 145/1988, 24 gennaio 1989, Comitato di Controllo c. Fratelli Piacenza s.p.a., Life Media Network s.r.l., Arnoldo Mondadori Editore s.p.a., Editoriale L’Espresso s.p.a., Editrice La Stampa s.p.a., Publietas s.p.a., Publikompass s.p.a.. ( 168 ) ASA Adjudication on Club Spice Ltd, n. 126665, 4 August 2010, in www.asa.org.uk. 166 ritraente una donna nuda intenta a danzare. Immediatamente sopra la scritta “Oops ...”. L’annuncio in questione è stato accusato per il suo carattere eminentemente sessista, offensivo e umiliante per le donne, giacché l’ostentazione delle nudità femminili e le forti allusioni sessuali ne rendono sconsigliabile la visualizzazione pubblica. L’ASA condanna la pubblicità litigiosa per contrasto con l’art. 5.1 CAP Code, ritenendo che «[…] the woman was pictured naked and considered her pose and the removal of her underwear were likely to be seen as sexually suggestive. […] the nudity in the ad reflected the nature of Club Oops, but considered that the depiction of the woman in such a provocative pose with her underwear pulled down around her thighs, was likely to be seen as unduly explicit and degrading to women. We concluded that the image was likely to cause serious or widespread offence and concluded it was unsuitable for public display». In un’altra occasione il giudice autodisciplinare inglese ha escluso la sanzionabilità di un manifesto pubblicizzante le attività di una scuola di ballo che mostra una donna, ripresa dalla vita in su, appoggiata ad una parete (169). La donna è interamente nuda, la pelle ed i capelli bagnati e lucidi. Accanto all’immagine vi è la scritta: “Come worship me www.comeworshipme.com 0191 XXX XXXX”. Ad avviso dei denuncianti, l’annuncio pubblicitario sarebbe in contrasto con gli artt. 5.1 e 5.2 CAP Code, perché, stante il suo contenuto volgare e grossolano, profondamente inidoneo alla visualizzazione da parte di un pubblico di minori. (169) ASA Adjudication on Platinum Dance Studio, n. 73463, 25 February 2009, in www.asa.org.uk. 167 Sotto un altro profilo è stato sottolineato il carattere gravemente offensivo del manifesto in parola rispetto alla fede cristiana, giacché la scritta “Come worship me”, echeggerebbe reminiscenze idolatriche. L’ASA assolve la pubblicità litigiosa, ritenendo assai improbabile che dall’immagine in contestazione potesse derivare qualsivoglia pregiudizio ad un pubblico di adolescenti e preadolescenti. Inoltre, sulla scorta delle argomentazioni addotte dalla resistente, il giudice autodisciplinare inglese esclude che la scritta di cui sopra offenda le più profonde convinzioni religiose dei credenti cristiani, all’uopo sottolineando che la summentovata scritta intendesse piuttosto enfatizzare l’importanza del benessere fisico e psicologico in relazione al raggiungimento o accrescimento dell’autostima della persona. Enuncia il giudice: «We noted their assertion that the woman on the poster reflected the sort of positive self-image they wished to promote. Although we accepted the image might be distasteful to some, we considered it was unlikely to cause serious or widespread offence or harm to children. […] We noted Platinum Dance Studio’s assertion that the phrase “Come worship me” was used to encourage people to worship and appreciate themselves. Although we accepted that the concept of worship played an integral part in the language and ceremony of many religions, we noted that its use was not limited to a religious context, and the term was also commonly used as a figure of speech in everyday language. We therefore concluded that the phrase “Come worship me” alongside the image was unlikely to cause widespread offence». L’advertising inglese non è neppure estranea all’impiego di riferimenti sadomasochistici, che abbondano copiosamente nella grafica pubblicitaria. L’ASA ha censurato l’annuncio “Retell” che, per reclamizzare un sistema di gestione delle chiamate, mostra una grande 168 fotografia di una donna nuda con il fondoschiena in primissimo piano (170). La modella è avvolta da pesanti catene e i suoi glutei sono marchiati con la scritta “Access denied”, letteralmente. Il messaggio in parola, a detta dei denuncianti, si porrebbe in stridente contrasto con l’art. 5.1 CAP Code perché inequivocabilmente sessista e discriminatorio verso le donne. Il Giudice autodisciplinare inglese accoglie il ricorso. Quantunque il riferimento alla sodomia sia velato, alla stregua di un’interpretazione legata al dato realistico, deve sicuramente riconoscersi che la fotografia – e segnatamente l’espediente iconico della marchiatura della donna unitamente a quello dell’incatenamento – procuri una sensazione assai conturbante per i destinatari della pubblicità. L’attitudine della pubblicità litigiosa a turbare gravemente la sensibilità dei consumatori è quanto più visibile ove si consideri l’assenza di qualsiasi apprezzabile collegamento tra l’immagine impiegata e il prodotto reclamizzato. Pertanto il giudice ritiene che l’inserzionista, obnubilato dalla inestricabile necessità di ottenere un effetto visivamente e simbolicamente scioccante, abbia di gran lunga travalicato il limite del buon gusto, trascendendo nell’ indecenza: «although the ad’s image was not explicit, the “access denied” sign across the naked woman’s bottom implied anal sex. That sign, in conjunction with the chains wrapped around the naked woman’s body, suggested the woman was a sex object and were likely to be seen as demeaning and objectifying women. We noted nudity and sex had no relevance to the product advertised. We concluded that Retell had gone too far in their bid to attract attention and that the commercial e-mail, for an advertiser whose products would be of interest to those wishing to (170) ASA Adjudication on Retell Ltd, n. 11735, 27 April 2010, in www.asa.org.uk. 169 install call management systems, was likely to cause serious offence to some recipients». Particolare scalpore ha destato anche l’annuncio su stampa relativo alla famosa pellicola “Antichrist” apparso su molteplici testate nazionali inglesi, quali “The Times”, “The Guardian” e “The Independent” (171). In esso sono raffigurati un uomo e una donna completamente nudi nell’atto di copulare ai piedi di un albero, dal cui tronco fuoriescono inaspettatamente delle fantomatiche mani. L’immagine è accompagnata dalla scritta: “When nature turns evil, true terror awaits […] 18 contains strong real sex, bloody violence and self mutilation”. L’annuncio contiene altresì alcune citazioni delle recensioni quali, a titolo meramente esemplificativo: [...] Cinema at its most extreme […] the strangest and most original horror movie of the year […] nothing can prepare you for the experience of Antichrist. Nothing […] the most shocking film in the history of the cannes film festival […]”. Le segnalazioni ravvisano nell’immagine in parola una pura esaltazione della pornografia. L’eccessivo realismo con cui è raffigurato l’amplesso tra i due amanti desta malumore e forte sbigottimento nel pubblico, in ispecie nei più giovani, veicolando una rara crudezza emotiva. L’Artificial Eye Film Company (AEFC) replica che l’immagine utilizzata per pubblicizzare l’uscita del film nel Regno Unito è la medesima di quelle diffuse a livello internazionale. La resistente sottolinea altresì la circostanza che l’immagine in contestazione sia stata accolta con entusiasmo dalla stampa nazionale, stante il carattere (171) ASA Adjudication on Curzon Artificial Eye Ltd, n. 100412, November 2009, in www.asa.org.uk. 170 squisitamente onirico e surreale dell’ambientazione e la raffinatezza estetica della forma. Il magico antropomorfismo dell’albero, che fantasiosamente si apre ad un abbraccio, così come le cromie crepuscolari ed ombrose dell’immagine, non consentirebbero di ravvisarvi alcuna idoneità a suscitare pulsioni erotiche. Infine la resistente pone l’accento sull’ulteriore circostanza che le testate su cui è apparso l’annuncio, siano editorialmente indirizzate ad un pubblico di adulti. Il Giudice pubblicitario esclude ogni violazione del CAP Code, così argomentando: «ASA considered that the ad, which had a dark tone, was unlikely to cause sexual excitement and was therefore not pornographic. We were of the view that The Times, The Guardian and The Independent were read mostly by adults and, although the possibility of children seeing the ad in those publications could not be ruled out, we considered it unlikely. If children did see the ad, we considered it was not particularly explicit and the dream-like context, introduced by the hands protruding from the tree (or roots), had the effect of making the image of the naked couple seem removed from reality. We noted the film itself contained graphic scenes of sex, and considered that readers would understand that the image of the naked couple in the ad was relevant to the advertised product. We considered that the ad did not go too far in its depiction of the film's content, and was unlikely to be seen as irresponsible or cause serious or widespread offence to readers of The Times, The Guardian and The Independent». In un’altra occasione l’ASA assolve un annuncio di due pagine dal titolo “Where are all the men? Staying in just got fun” che esibisce l’immagine di una donna in lingerie all’interno di un night club deserto (172). Segue la scritta “The 6 channel line up. The world’s most beautiful ( 172 ) ASA Adjudication on Playboy TV UK Ltd, n. 121345, 14 July 2010, in 171 women come to your screen and bring you the best in quality erotic entertainment Watch the hardest British sex featuring the UK’s filthiest talent Three channels of themed programming showing wall to wall nonstop sex Watch the best Top Shelf girls being absolutely filthy every night of the week”. L’annuncio sarebbe gravemente offensivo e denigratorio per le donne ed il suo contenuto intellegibilmente sessista. Inoltre l’annuncio in parola, ancorché volto a reclamizzante un canale televisivo a pagamento per soli adulti, il Playboy TV UK Ltd, sarebbe in grado di raggiungere un pubblico indifferenziato, stante la sua pubblicazione su una comune rivista. Per questi motivi, a detta dei denuncianti, la pubblicità litigiosa si porrebbe in contrasto con gli artt. 2.2, 5.1 e 5.2 CAP code. In primo luogo l’inserzionista pone l’accento sulla circostanza che l’espediente iconico impiegato, così come la parte testuale, abbia carattere meramente strumentale rispetto allo scopo di illustrare la tipologia e l’alta qualità dei servizi offerti dal canale a pagamento sponsorizzato. In secondo luogo, rileva l’ulteriore circostanza che la rivista sulla quale l’annunzio è pubblicato, sia distribuita unicamente ad un pubblico maschile adulto in luoghi quali palestre, lounge degli aeroporti e sedi aziendali. L’ASA, respingendo pressoché integralmente le doglianze dei denuncianti, manda assolta la pubblicità in contestazione, statuendo: «[…] We understood that, although the free magazine was potentially available to a large variety of consumers, it was targeted at men who were interested in sport and efforts had been made to distribute in accordance with that demographic. We understood the phrases “filthiest talent” and www.asa.org.uk. 172 “Top Shelf girls being absolutely filthy every night of the week” to be enticements to readers to trial the adult subscription service and considered that the ad itself was not commenting on women in general or inviting readers to view all women in that way and was unlikely to be seen by most readers as sexist and degrading. Although we understood that some people might have found the ad and the product which it promoted to be distasteful, we considered that it did not contain explicit imagery or text that was likely to cause serious or widespread offence to readers of Sport. We concluded that the ad was unlikely to cause serious or widespread offence to readers of Sport magazine and was unlikely to be seen as sexist and degrading. On this point, we investigated the ad under CAP Code clauses 5.1 and 5.2 (Decency) but did not find it in breach. We noted, although young boys may have been interested in the content of Sport, the magazine was targeted at adult males and the manner of distribution meant that it was unlikely that children would be directly handed a copy or would be able to pick it up from the other locations in which it was available. We concluded that, because children were unlikely to see the ad, it was acceptable for publication in Sport magazine. On this point, we investigated the ad under CAP Code clause 2.2 (Responsible advertising) but did not find it in breach […]». Ancora maggiore tolleranza ha mostrato il giudice autodisciplinare inglese verso quelle pubblicità reclamizzanti prodotti che esibiscano, per le proprie intrinseche caratteristiche merceologiche, una naturale correlazione con l’uso di implicazioni sessuali, di talché queste perdano il loro carattere di manifesta superfluità e sovrabbondanza, svolgendo, 173 rispetto alle esigenze di pubblicizzazione dei suddetti prodotti, un ruolo ancillare e servente. All’uopo si ricorda il filmato televisivo reclamizzante un gel intimo “Durex Play O”, il quale ritrae le espressioni estatiche di alcune donne in stato di evidente eccitamento parossistico, mentre una voce fuori campo declama: “Feel like never before. durex Play O. Pleasure enhancing gel for women. durex play. All you need” (173). L’annuncio, secondo alcuni denuncianti, si porrebbe in aperto contrasto con gli artt. 6.1 e 7.4.7 BCAP TV code e con gli artt. 4.1.1 e 4.2.3 BCAP TV Scheduling code. L’emittente rileva la circostanza che l’annuncio in contestazione sia stato trasmesso dopo le 22.00 su Channel 4 durante il programma “Gordon Ramsey’s F word”, programma consigliato alla sola visione di un pubblico adulto perché caratterizzato da un linguaggio assai spinto e ricco di suggestioni sessuali. L’ASA ritiene la pubblicità litigiosa in conformità con i dettami del BCAP TV code e BCAP TV Scheduling code e, pertanto, non dispone alcuna misura sanzionatoria, all’uopo argomentando: «[…] the viewers saw the ad after 10pm but were of the opinion that it was unsuitable for broadcast at any time. […] the viewers' concern, and appreciated that advertisers and broadcasters needed to be aware of the sensitive nature of ads for this type of product. We considered that this ad was not overtly graphic, contained no explicit material and was unlikely to cause offence, provided it was scheduled appropriately. […] However, […] Channel 4 had broadcast the ad shortly after 10pm in the first instance and shortly after 10.30pm in the second instance. We checked the audience index (173) ASA Adjudication on SSL International plc, n. 110449, 10 Marzo 2010, in www.asa.org.uk. 174 figures for those ad breaks in the relevant programmes, and noted that they did not attract a significant proportion of younger viewers, and concluded that neither programme had demonstrated a particular appeal to younger children. Although the ad was broadcast by Channel 4 earlier than Clearcast's scheduling advice, in consideration of the child audience index figures for the ad breaks and surrounding programmes, we considered that it had been scheduled appropriately and was unlikely to cause offence to viewers. We investigated the ad under CAP (Broadcast) TV Advertising Standards Code rule 6.1 (Offence) and 7.4.7 (Use of scheduling restrictions) and Rules on the Scheduling of Television Advertisements rule 4.1.1 (Particular separation of advertisements and programmes and 4.2.3 (Treatments unsuitable for children) but did not find it in breach». È stato ritenuto parzialmente conforme alle norme autoregolamentari uno spot reclamizzante un profumo che mostra la cantante Beyoncé interamente nuda nel bel mezzo di una stanza (174). La donna indossa un abito di seta rossa e, camminando verso la telecamera, si accarezza il collo con la mano, mentre con l’altra disegna una scia di fiamme infuocate sulla parete. Immediatamente dopo, la donna, muovendo la mano lungo il collo fino a sfiorare il seno, si appoggia dapprima ad una finestra per cominciare poi una danza assai sensuale con in primissimo piano i seni e le gambe. Il filmato si chiude con l’immagine della cantante che si allontana dalla fotocamera, mentre il pavimento cede sotto i suoi passi. In questa atmosfera di fascinosa ed incantevole austerità, la donna sussurra: “Catch the fever”. Risponde una voce ( 174 ) ASA Adjudication on Coty UK Ltd17, n. 136170, November 2010, in www.asa.org.uk. 175 maschile fuori campo: “Beyoncé Heat. The first fragrance, by Beyoncé”. L’annuncio violerebbe gli artt. 6.1, 7.4.1. e 7.4.7 BCAP TV Code nonché con l’art. 4.2.3 BCAP TV Scheduling Code. L’ASA osserva preliminarmente che l’immagine contestata, quantunque contenga traboccanti suggestioni erotiche, cionondimeno si pone in stretta correlazione con il prodotto reclamizzato, rimarcando all’uopo la invero notoria circostanza che le tecniche di pubblicizzazione dei profumi impongono sempre più spesso il ricorso ad immagini ammalianti e seduttive. Alla luce di codeste considerazioni l’annuncio, benché possa risultare sgradevole per alcuni, non è certamente in grado di causare un’offesa grave e diffusa per il più vasto pubblico, e non si pone pertanto in contrasto con l’art. 6.1. BCAP TV. L’ASA ritiene invece che nel caso di specie ricorra la violazione degli artt. 7.4.1., 7.4.7 del BCAP TV Code e dell’art. 4.2.3 BCAP TV Scheduling Code. «We noted several complainants had told us their children had seen the ad broadcast during the middle of the day around family programmes. We also noted that Clearcast had given the ad an exkids scheduling restriction, meaning it could not be broadcast in or around childrens programming. Although we considered that the ad was unlikely to be harmful to adults or older children, we considered that Beyoncé’s body movements and the camera’s prolonged focus on shots of her dress slipping away to partially expose her breasts created a sexually provocative ad that was unsuitable to be seen by young children. We considered that the ad should not have been shown before 19.30 due to the sexually provocative nature of the imagery. On this point the ad breached the CAP (Broadcast) TV Advertising Standards Code rules 7.4.1 (Mental harm), 7.4.7 (Use of scheduling 176 restrictions) and CAP (Broadcast) Rules on the Scheduling of TV Advertisements rule 4.2.3 (Treatments unsuitable for children)». È stata altresì riconosciuta la liceità dell’impiego di una similitudine smaccatamente erotica per effigiare le profittevoli aspettative di guadagno correlate ad un investimento azionistico. Il manifesto affissionale in questione esibisce la fotografia di una donna che indossa una stoffa sottile e vaporosa che ne rivela le nudità ( 175 ). L’immagine è percorsa dalle impronte di baci stampati con un rossetto sfavillante. L’headline recita “Sex sells […] almost as much as our websites […]”. L’annuncio, secondo i denuncianti, si porrebbe in contrasto con gli artt. 2.2 e 5.1 CAP Code, integrando un’aggressione sessista e misogina. La resistente spiega che l’immagine contestata, invero assai audace, applicava la diffusa formula “Sex sells” al fine di illustrare la lucrosa effervescenza del proprio mercato azionario e la conseguente possibilità di guadagno per chi vi avesse investito. L’ASA respinge in blocco le censure mosse dai denuncianti, sulla base di un duplice rilievo: «Although distasteful to some, we considered most people who saw the ad would understand it primarily as an ironic take on the idea that sex sells, particularly because the text stated “Sex sells […] almost as much as our website”. Moreover, we did not consider the pose of the model explicit. We therefore concluded the ad was suitable for public display and not in breach of the Code. We investigated the ad under CAP Code (Edition 11) clauses 2.2 (Social responsibility) and 5.1 (Decency) but did not find it in breach». Una recentissima pronuncia ha mandato assolto uno spot televisivo pubblicizzante il sito web Confused.com, un sito di comparazione per assicurazioni automobilistiche, che rappresenta un robot intento a bussare (175) ASA Adjudication on Retell Ltd, n. 11735, 27 April 2010, in www.asa.org.uk. 177 alla finestra di una macchina parcheggiata con all’interno un uomo ed una donna (176). L’uomo, seduto al posto di guida della vettura, manifesta un certo imbarazzo, mentre la donna, seduta sul sedile del passeggero con la testa china come a praticare una fellatio, si ricompone improvvisamente, impaurita e sbigottita al contempo. Inizia uno scambio di battute tra l’automa e l’uomo: “I’ve run your details through my extensive circuits resulting in a saving of £225 on your car insurance” - “That’s alright, that is” - “Who is our daddy?”- “I don’t know”. Il messaggio conterrebbe suggestioni erotiche che rimandano ad una sessualità decadente ed ormai imbarbarita. La donna, colta in un gesto di erotica sudditanza, è ritratta in modo offensivo e degradante. Di qui il contrasto con gli artt. 32.3, 4.1, 4.2 e 4.8 BCAP code. Secondo la resistente il filmato pubblicitario non conterrebbe alcun esplicito riferimento sessuale, non essendovi alcun elemento iconico atto a disvelarne l’asserito carattere erotico, nondimeno, pur a volerne ipotizzare una siffatta natura, non può disconoscersi la circostanza che la donna si sia spontaneamente e liberamente determinata a praticare la supposta fellatio e pertanto nessuna offesa alla sua dignità può essere invocata. L’ASA assolve il messaggio pubblicitario asseverando che «on close inspection, the woman was shown to rise from the footwell on her side of the vehicle. Notwithstanding that, we acknowledged the complainants’ concerns that the presentation of the ad included an implied reference to oral sex. We acknowledged that the dishevelled appearance of the couple; the positioning of the woman; the surrounding location; and the reaction of the couple added to that impression. (176) ASA Adjudication on Inspop.com Ltd, n. A13-235255, 16 October 2013, in www.asa.org.uk. 178 However, we noted the ad contained no explicit reference to sex and no explicit sexual imagery. Whilst we acknowledged that some viewers might find the ad distasteful, we considered it was unlikely to cause serious or widespread offence. On this point, we investigated the ad under BCAP Code rules 4.1 and 4.2 (Harm and Offence) but did not find it in breach. […] We noted the ad depicted the woman in a state of alarm at the appearance of the robot. We acknowledged that some viewers would interpret the ad as a reference to oral sex. However, we considered the ad did not depict the woman as a sexual object, nor did it suggest that the woman was in distress. On that basis, we concluded that the ad was not likely to be viewed as degrading to women. On this point, we investigated the ad under BCAP Code rules 4.1 and 4.2 (Harm and Offence) but did not find it in breach». Altro tema conduttore dell’advertising inglese è rappresentato dal consueto accostamento tra il consumo di alcol e l’efficienza sessuale, una correlazione tanto stretta da richiedere un’iconografia gravida di implicazioni erotiche. All’uopo si esaminano tre casi sintomatici dell’atteggiamento severo e persino rigoristico del giudice inglese. Il primo caso ha ad oggetto un manifesto affissionale, volto a sponsorizzare un evento del locale notturno “SEX - the Saturday Entertainment Xperience”, il quale mostra delle immagini di giovani donne che indossano una lingerie assai seducente ( 177 ). A fianco all’immagine un cerchio più grande ed uno più piccolo con la scritta “I love […] S.E.X (R)” e, immediatamente sotto, l’ulteriore scritta “The Saturday Entertainment Xperience!”, “Leeds’ Wildest Saturday Night (177 ) ASA Adjudication on Taking Liberties Ltd, n. 70200, 11 March 2009, in www.asa.org.uk. 179 Party - Saturdays! The biggest saturday night party in leeds – Now ar Baja!!!" e, in caratteri più piccoli, “£1 Shots! Sambuca - Tequila - Yes!” and “£2 Vodka Redbull - Yes!” L’annuncio si porrebbe in stridente contrasto con gli artt. 5.1, 2.2 e 5.2 CAP code, poiché l’accostamento al nudo femminile dell’headline “I love S.E.X.” produce un effetto di trasbordante volgarità, tanto più che l’annuncio, essendo esposto alla visione di un pubblico indifferenziato, potrebbe essere visto dai più piccoli, con effetti per loro assai pregiudizievoli. Sotto un altro aspetto, i denunciati incriminano la pubblicità de qua poiché, istituendo un legame funzionale tra il consumo di alcol e l’efficienza sessuale, viola il principio solidaristico della Social responsibility. L’inserzionista, dopo aver chiarito che l’annuncio pubblicitario fosse stato esposto in luoghi frequentati unicamente da universitari e matricole, ragion per cui ne riteneva alquanto improbabile la visualizzazione da parte di adolescenti e preadolescenti, rimarca che «[…] they did not believe the ad was sexual in nature; that it did not link the drinks advertised with seduction, sexual activity or sexual success; that it did not suggest the drinks advertised enhanced attractiveness, masculinity or femininity or that drinking alcohol was the reason for the success of any personal relationship. They said they did not believe advertising the price of drinks made the women appear more attractive or that it implied the price of the drinks was key to sexual success or removing inhibitions. They said the prices of the drinks were displayed as factual information without any link to the women and that the circles were completely independent parts of the design, not linked in any way with the models. They said it was common place to use attractive, appealing and young models in advertising and that the ad stated the four key points for 180 advertising a club night: what, where, when and how much. They said they believed the “I love S.E.X. - the Saturday Entertainment Xperience” was well known in Leeds and believed it would be widely recognised as a reference to the slogan “I love New York”. They did not believe anyone would think their brand was connected with the sex industry or that it aspired to be sexual in nature». In ordine al primo quesito l’ASA afferma che «[…] the ad was for a party event. We considered that most of the people who saw the poster would be unlikely to think the women’s clothing or pose indecent or provocative. We acknowledged the use of the phrase “I love S.E.X” and the style of the women’s clothing might not be to everyone’s taste but concluded that, in the context of an ad for a party event, those elements were unlikely to be considered inappropriate for children or more widely offensive by most people». Il giudice pubblicitario esclude pertanto che sotto questo primo profilo possa essere integrata la violazione degli artt. 2.2 (Social responsibility) 5.1 e 5.2 (Decency) CAP code. Per quanto attiene all’altro profilo di censura, quello della presunta istituzione di un significativo nesso causale tra il consumo di alcol e l’efficienza erotica, l’ASA ritiene integrata la violazione dell’art. 2.2 CAP code: «[…] the poster advertised a party night. We noted the advertiser’s comments but considered, nevertheless, that, while the clothing and poses of the women were not in themselves likely to be considered sexually provocative or sexually explicit, their appearance was likely to be considered attractive and appealing to young people wanting to meet and socialise. We considered that to show the images in conjunction with the phrase “I love S.E.X.” evoked an atmosphere of sociability that focused at least in part on sexual activity. We considered that, in the context 181 established by those elements of the ad, the circles that stated “£1 Shots! Sambuca - Tequila - Yes!” and “£2 Vodka Redbull - Yes!” went beyond advertising alcohol at the event simply in the context of price or entertainment and linked it with sexual activity». Il secondo caso riguarda un telefilmato reclamizzante il noto liquore Baileys. Lo spot mostra una successione di immagini in cui appaiono diverse labbra femminili illuminate da un fascio di luce e delle gocce di liquido che vengono irrorate sopra di esse ( 178 ). Sullo sfondo scuro è rappresentata una bottiglia di Baileys ed una goccia del pregiato liquore che cade in un bicchiere di cristallo. Una voce fuori campo sussurra: “Listen to your lips”. Lo spot effigia con rara enfasi evocativa una scena a carattere esplicitamente sessuale, valendosi, in ultima analisi, di una vera e propria citazione pornografica. Inoltre lo spot in parola istituisce un legame tra alcol e consumazione del rapporto erotico, del quale è effigiata l’eiaculazione maschile, ponendosi in violazione con gli art. 6.1 e 11.8.1 CAP code. L’inserzionista precisa che la strategia comunicazionale impiegata da Baileys si è sempre valsa di una precisa iconografia volta a enfatizzare le caratteristiche del prodotto, quali la consistenza cremosa ed il gusto soave del liquore nonché la sensualità ed il fascino dell’opulenta confezione, rimarcando che «the ad concept was based entirely upon the beautiful appearance, texture and taste of the Baileys liquid. […] the sensuousness of Baileys has been a key part of the brand's communication for many years, […] sensory perception was the focus of the TV ad and the use of lips, symbolising the taste and texture of Baileys, accompanied (178) ASA Adjudication on Diageo Great Britain Ltd, n. 75903, 18 February 2009, in www.asa.org.uk. 182 by the phrase “Listen to your lips”, was highly relevant in that context». L’ASA assolve la pubblicità litigiosa argomentando che, sebbene appaia verosimile l’osservazione secondo cui alcuni spettatori possano intendere la successione sequenziale come eroticamente allusiva, nondimeno sembra assai improbabile che questi stessi spettatori non dispongano di quelle elementari strutture cognitive che consentano loro di comprendere che l’immagine sia finalizzata ad evidenziare la vellutata delicatezza del liquore, piuttosto che ad insinuare pretestuosi legami con la copulazione o la pornografia. L’ultimo caso riguarda un manifesto reclamizzante la birra “Courage”, che esibisce un uomo dall’espressione angosciata e irrequieta, seduto su di un divano con accanto una lattina ed un boccale di birra. In piedi innanzi a lui vi è una donna con indosso un vestito assai succinto. Accanto all’immagine, un fumetto fuoriesce dal boccale di birra: “Take courage my friend”. La pubblicità in parola violerebbe l’art. 56.8 CAP Code, perché la scritta “Take courage my friend” si atteggerebbe quale inappropriata forma di subdolo incitamento ed incoraggiamento al consumo della bevanda reclamizzata, bevanda alla quale sarebbero attribuite proprietà benefiche quali, come nel caso in esame, l’accrescimento l’autostima della persona. L’uomo, bevendo la birra, acquisterebbe la spavalderia necessaria per rivelare alla donna l’inadeguatezza del vestito o farle delle advance. Rileva la resistente che la scelta dell’headline, lungi dal voler esaltare qualsivoglia potere disinibitore dell’alcol, fosse finalizzata ad incoraggiare la scelta della birra “Courage” sulle altre in commercio, precisando: «the Courage brand was known as an easy going every day beer, for easy going every day people and its heritage was about 183 celebrating and enjoying times with friends in the local community pub. They said their recent advertising picked up the theme from their advertising from the 1950s to 1980s by using the strapline “Take Courage”, which was a call to action to choose Courage over other beers. [We] took a number of steps, including legal advice, to ensure there was no breach of the Code and no reference to bravery in the poster and that the brand name was used appropriately. [We] believed the poster featured a situation many men could relate to, where the man was likely to be asked what he thought of the woman's new dress. We believed it was clear from the expression on his face that he would rather be elsewhere and not facing the dilemma. [We] carried out several pieces of consumer research before publication but there had been no suggestion that the poster implied the beer would give the man courage, change his mood or give him confidence. [We] did not believe this was implied by the text “Take courage my friend”, which they said was simply a call to choose Courage beers over competitor brands». L’ASA ritiene che nel caso sottoposto alla sua cognizione, l’analisi congiunta degli elementi iconici e verbali, conduca inequivocabilmente ad una codifica del messaggio in contrasto con le norme di cui all’art. 56.8 CAP code. Pertanto condanna la pubblicità litigiosa enunciando sinteticamente i motivi della decisione: «[…]we considered that the combination of the text and the image of the man with an open beer and half empty glass of beer was likely to be understood by consumers to carry the clear implication that the beer would give the man enough confidence to tell the woman that the dress was unflattering. We did not consider that consumers generally would believe that the poster suggested that the man would be unnecessarily negative or take advantage of the woman, but would simply tell the truth. Although we understood the 184 humorous intention of the scenario, we concluded that the poster breached the Code by suggesting that the beer could increase confidence». 4. Alla luce della giurisprudenza autodisciplinare inglese dianzi esaminata, è possibile ora svolgere talune considerazioni sui principali criteri ermeneutici sviluppatisi in seno ad essa. In primo luogo deve osservarsi come le linee conduttrici che percorrono le argomentazioni addotte dall’ASA per valutare la conformità delle pubblicità recanti implicazioni erotiche e/o l’uso del corpo della donna, siano tutte intimamente permeate da tre fondamentali criteri: quello della gratuità del riferimento sessuale rispetto alle caratteristiche merceologiche del prodotto reclamizzato, o alle caratteristiche intrinseche ed estrinseche del servizio oggetto di reclamizzazione; quello del travalicamento del limite del mero cattivo gusto irrilevante e trascendimento inescusabile nell’indecenza; quello, infine, della concreta riferibilità della pubblicità ad un pubblico indifferenziato o, viceversa, a classi di consumatori aprioristicamente determinate. Il primo criterio interpretativo è certamente quello di più immediata percezione, giacché la gratuità dell’impiego di elementi iconici o verbali che abbiano afferenza con la sfera sessuale, è ictu oculi evidente laddove il prodotto od il servizio pubblicizzato non esibisca, per le sue peculiari caratteristiche, un legame immediato con siffatti elementi. Come si è evidenziato nel corso della presente trattazione, i prodotti per i quali è emersa una maggiore apertura del giudice pubblicitario in ordine al giudizio di congruità e non manifesta superfluità dei riferimenti erotici anzidetti, sono perlopiù quelli finalizzati alla cura e all’estetica del corpo, quali profumi, deodoranti, lingerie, o quelli che, come i profilattici, 185 impongano imprescindibilmente un esplicito riferimento all’attività sessuale affinché siano soddisfatte le esigenze descrittive e funzionali della pubblicità reclamizzante il prodotto stesso. Non di rado gli inserzionisti ricorrono ad una calligrafia erotizzante al solo fine di catalizzare i processi di memorizzazione del marchio che si esplicano nella psiche del consumatore a livello subcosciente e subliminale, in un momento ancora antecedente rispetto a quello del possibile dispiegarsi di qualsivoglia giudizio critico mediato da una cognizione pensata e raziocinante. L’ontologica intrusività ed inelusibilità della pubblicità accentua oltremodo l’intensità degli effetti pregiudizievoli che potrebbero scaturire dalla mera visualizzazione del messaggio. Nessun problema interpretativo sorge laddove non vi sia neppure un legame occasionale o transeunte tra le caratteristiche del prodotto/servizio reclamizzato e la grafica erotica prescelta, così anche nel caso in cui vi sia un legame strutturalmente forte, cristallizzato nella stessa natura o funzione del prodotto/servizio, talché ogni ulteriore indagine divenga disutile e financo pretestuosa. Diversamente deve opinarsi per quei casi in cui il legame tra prodotto/servizio reclamizzato e riferimento sessuale sia percepibile soltanto a livello metaforico o di similitudine ( 179 ). In situazioni del genere, affinché la sua valutazione prudenziale non si metamorfosi in mero arbitrio trascendendo i limiti della ragionevolezza, della logicità e della coerenza della decisione, il giudice deve, con prodigalità di argomenti, rendere intellegibili le ragioni del proprio convincimento. Del secondo criterio si è già detto in precedenza, pertanto si rinvia a quanto osservato in sede di commento dell’art. 4 CAP code. (179) ASA Adjudication on Retell Ltd, cit., in www.asa.org.uk. 186 Il terzo criterio elaborato dalla giurisprudenza inglese, quello dell’individuazione dei destinatari della pubblicità in relazione alle concrete modalità estrinsecative della stessa, si pone in stretta correlazione con il principio di offensività. Il giudizio afferente alla concreta attitudine del messaggio pubblicitario a recare offesa ai suoi fruitori si atteggia quale giudizio di prognosi postuma. Pertanto il giudice autodisciplinare dovrà, secondo criteri epistemologici predeterminati, svolgere una valutazione ex ante al fine di verificare l’astratta idoneità del messaggio pubblicitario ad essere visualizzato da un certo target di consumatori. Quella in parola è un’operazione che il giudice inglese è solito condurre con raro rigore, come la casistica esaminata chiaramente dimostra ( 180 ). Particolare rilievo ai fini del giudizio prognostico ha la circostanza che il messaggio pubblicitario sia esposto alla visualizzazione di un pubblico indifferenziato, nel qual caso l’esposizione dello stesso anche agli adolescenti e preadolescenti determina, ove ricorra almeno uno degli ulteriori elementi caratterizzanti la condotta violativa, l’opportunità del rimedio sanzionatorio. All’uopo l’art. 5 CAP code recepisce il fondamentale principio secondo cui «Care should be taken when featuring or addressing children in marketing communications. The way in which children perceive and react to marketing communications is influenced by their age, experience and the context in which the message is delivered. Marketing communications that are acceptable for young teenagers will not necessarily be acceptable for younger children. The ASA will take those factors into account when assessing whether a marketing communication complies with the Code» ( 180 ) Al riguardo v. ASA Adjudication on Playboy TV UK Ltd, cit., in www.asa.org.uk. 187 (181). Similmente l’art. 5 BCAP code, il quale ammonisce: «Children must be protected from advertisements that could cause physical, mental or moral harm. […] The context in which an advertisement is likely to be broadcast and the likely age of the audience must be taken into account to avoid unsuitable scheduling. Advertisements that are suitable for older children (181 ) Il testo dell’articolo così recita: «For the purposes of the Code, a child is someone under 16. 5.1 Marketing communications addressed to, targeted directly at or featuring children must contain nothing that is likely to result in their physical, mental or moral harm: 5.1.1 children must not be encouraged to enter strange places or talk to strangers 5.1.2 children must not be shown in hazardous situations or behaving dangerously except to promote safety. Children must not be shown unattended in street scenes unless they are old enough to take responsibility for their own safety. Pedestrians and cyclists must be seen to observe the Highway Code 5.1.3 children must not be shown using or in close proximity to dangerous substances or equipment without direct adult supervision 5.1.4 children must not be encouraged to copy practices that might be unsafe for a child 5.1.5 distance selling marketers must take care when using youth media not to promote products that are unsuitable for children. 5.2 Marketing communications addressed to, targeted directly at or featuring children must not exploit their credulity, loyalty, vulnerability or lack of experience: 5.2.1 children must not be made to feel inferior or unpopular for not buying the advertised product 5.2.2 children must not be made to feel that they are lacking in courage, duty or loyalty if they do not buy or do not encourage others to buy a product 5.2.3 it must be made easy for children to judge the size, characteristics and performance of advertised products and to distinguish between real-life situations and fantasy 5.2.4 adult permission must be obtained before children are committed to buying complex or costly products 5.3 Marketing communications addressed to or targeted directly at children: 5.3.1 must not exaggerate what is attainable by an ordinary child using the product being marketed 5.3.2 must not exploit children’s susceptibility to charitable appeals and must explain the extent to which their participation will help in any charity-linked promotions». Cfr. anche le disposizioni di cui all’art. 5 BCAP code che reiterano pressocché pedissequamente quelle dianzi citate. 188 and young persons but could distress younger children must be sensitively scheduled or placed. This section should therefore be read in conjunction with Section 32: Scheduling. Care must be taken when scheduling advertisements that could frighten or distress children or could otherwise be unsuitable for them: those advertisements should not be scheduled or placed in or around children’s programmes or in or around programmes likely to be seen by significant numbers of children. Care must also be taken when featuring children in advertisements». La concreta riferibilità di un messaggio pubblicitario ad un pubblico non indiffernziato viene generalmente valutata in relazione al mezzo su cui lo stesso messaggio è pubblicato. Pertanto per le pubblicità televisive o radiofoniche si avrà riguardo al programma nel cui spazio pubblicitario le stesse sono inserite, oltreché alla fascia oraria di riferimento ( 182 ). Similmente, per le pubblicità su rivista dovranno tenersi in considerazione la natura del contenitore pubblicitario ed il target di lettori cui è indirizzato. Ancora, per le pubblicità cartellonistiche si farà riferimento al luogo in cui le stesse sono esposte etcetera. ( 182 ) V. a titolo meramente esemplificativo la disposizione di cui all’art. 23 BCAP code, il quale regola in modo analitico le modalità di pubblicizzazione dei servizi di intrattenimento a sfondo erotico: «23.1 Radio Central Copy Clearance – Advertisements for telecommunications-based sexual entertainment services must be centrally cleared. 23.2 Television only – Advertising for telecommunications-based sexual entertainment services is only acceptable on: 23.2.1 Encrypted elements of adult entertainment channels, or 23.2.2 Channels that are licensed for the purpose of the promotion of the services and are appropriately positioned and labelled within an “Adult” or similar section of an Electronic Programme Guide. 23.3 Television only – Advertising for telecommunications-based sexual entertainment services must not be broadcast before 9pm or after 5:30am. On Digital Terrestrial Television, advertising for telecommunications-based sexual entertainment services must not be broadcast before 12am or after 5:30am». Simili disposizioni sono dettate per le pubblicità sponsorizzanti programmi o telefilmati pornografici dall’art. 30 BCAP code. 189 5. In apertura si è evidenziata la sostanziale medesimezza della tutela apprestata dall’ordinamento autodisciplinare inglese ed italiano in ambito pubblicitario. Devono ora lumeggiarsi le ragioni per cui da tessuti codicistici così simili scaturiscano prassi applicative sovente differenti, accrescendo sensibilmente le difficoltà di una corretta anamnesi sul piano effettuale. All’uopo si considereranno i tre criteri sopra mentovati al fine di individuare il differente approccio ermeneutico ad essi da parte della giurisprudenza inglese e di quella italiana. Un primo elemento di differenziazione tra le prassi applicative dei due paesi si scorge allorchè la pubblicità esaminanda contenga recrudescenze verbali o iconiche tali da trascendere nell’indecenza non scusabile. Secondo la più recente giurisprudenza autodisciplinare italiana, una sifatta scelta comunicazionale, sarebbe di per sé sufficiente a giustificare l’intervento inibitorio, esonerando il giudice da ulteriori verifiche che si rivelerebbero manifestamente sovrabbondanti ( 183 ). Diversamente opina il giudice inglese, secondo cui il solo elemento fraseologico o iconico non potrebbe in nessun caso essere valutato prescindendo da un’accurata indagine sugli effetti pregiudizievoli che lo stesso possa concretamente dispiegare, avuto riguardo alla classe di (183) V. ing. n. 8/2013, 28 gennaio 2013, Comitato di Controllo c. Piazza Italia s.p.a., in www.iap.it., relativamente al messaggio pubblicitario “L’Italia va a puttane? Fateci pagare le tasse.” rilevato su “Chi” n. 50, data copertina 12 dicembre 2012, in cui il Comitato di Controllo afferma che «il messaggio di per sé considerato, a prescindere dalla campagna in cui si colloca, si pone in contrasto con le disposizioni del Codice, in particolare con l’art. 9, a causa dell’esplicita volgarità del termine utilizzato. Il fatto che espressioni intrinsecamente scurrili possano essere largamente utilizzate nel linguaggio corrente, non significa che esse conservino la medesima valenza e neutralità se trasposte nel linguaggio pubblicitario che, in quanto forma di comunicazione pubblica, è peraltro suscettibile di raggiungere un pubblico indifferenziato». 190 consumatori cui è diretto ed alla intrinseca pertinenzialità rispetto all’oggetto di reclamizzazione (184). Da quanto appena esposto, emerge con lapalissiana evdenza che il ragionamento del giudice inglese sistematicamente rifugge dall’impiego di presunzioni, talchè l’apporto conoscitivo e probativo che sgorga dal tessuto del materiale pubblicitario è sempre attentamente esplorato. Un atteggiamento sensibilmente dissimile esibisce la giurisprudenza italiana che ammete il ricorso a presunzioni allorchè il trascendimento nell’indecenza sia non meramente sgradevole, ma così odiosamente deprecabile da rendere superflui e defatiganti ulteriori sforzi ermeneutici, ponendosi la condotta violativa in assoluto contrasto con le norme autoregolamentari. Da ciò può inferirsi che nella prassi appicativa italiana i criteri elaborati dalla giurisprudenza autodisciplinare al fine di esplicare correttamente il proprio sindacato sulle pubblicità sessiste assumono rilevanza mariginale dinanzi a pubblicità che, intrise delle più turpi nefandezze, siano manifestamente contrarie ai principi autodisciplinari (185). (184) Cfr. ASA Adjudication on Retell Ltd, n. 11735, 27 April 2010, cit. in cui l’ASA manda assolta l’espressione pubblicitaria “Sex Sells” rilevando che quantunque la stessa sia idubbiamente scurrile e grossolana, nondimeno, valutata negativamente la ricorrenza del requisito di gratuità rispetto al servizio reclamizzato, deve concludersi per la non censurabilità dell’espressione de qua. ( 185 ) A titolo meramente esemplificatovo v. ing. n. 11/2013, 1 febbraio 2013, Comitato di Controllo c. Oriocenter, in www.iap.it., in relazione al messaggio pubblicitario “Shopping Selvaggio. Oriocenter Shopping Center”, rilevato su affissioni nella città di Milano nel mese di gennaio 2013, ritenuto manifestamente contrario all’art. 10 CAP perché «veicola un contenuto svilente della dignità della persona, che viene dipinta alla stregua di un animale, mosso unicamente dalla pulsione dello shopping». L’immagine censurata esibisce «in primo piano una donna a quattro zampe, con un minivestito a stampa animalier, accovacciata dinanzi a vari oggetti […] mentre tiene tra le labbra […] una collana di perle e rivolge lo sguardo obliquamente, come un animale in allerta». 191 Lo stesso non può dirsi per quelle pubblicità che richiedano, per l’assenza di estremismi espressivi immediatamente percepibili, una riflessione ponderata al fine di superare l’ontologica indeterminatezza e vaghezza semantica dei canoni della decenza e della volgarità per verificarne il travalicamento rilevante nel caso concreto. In questi casi l’organo giudicante non può prescindere da un’indagine fenomenologica secondo regole prudenziali, imponendosi al giudice l’obbligo di indulgere alla verifica che una violazione in concreto sia prodotta e non semplicemente presunta, secondo i principi ermeneutici cristallizzati nella giurisprudenza autodisciplinare e dalla stessa formalmente enunciati. Pertanto può rettamente concludersi che in casi contrassegnati da una più spiccata complessità sia rinvenibile una sostanziale omogeneità della prassi applicativa dell’autodisciplina italiana e di quella d’oltremanica, entrambe contraddistinte da un accertamento del fatto condotto alla luce di precisi criteri interpretativi e scevro da presunzioni di sorta. Ciò posto, deve senz’altro precisarsi che, stante la natura squisitamente logico-deduttiva della decisione giudiziale, assimilabile ad un processo inferenziale di tipo sillogistico, l’eventuale impiego di presunzioni si colloca nella fase dell’accertamento del fatto oggetto di controversia e, ove il suo carattere apodittico non fosse meramente apparente, si destituirebbe di fondamento razionale l’intero ragionamento del giudice. Dell’attenzione riposta dall’autodisciplina inglese ed italiana in ordine alla ricognizione delle classi di consumatori raggiungibili dalle pubblicità sessiste si è detto in precedenza, all’uopo preme rammentare 192 che l’indagine in parola consente di apprestare una tutela della cui effettività ed incisività non è dato dubitare, giacchè ove le suddette pubblicità siano idonee a raggiungere un pubblico di adolescenti e preadolescenti, o financo bambini, saranno senz’altro colpite da sanzione inibitoria. Dalle riflessioni appena sviluppate può inferirsi la significatività epistemica del multiforme atteggiarsi della giurisprudenza autodisciplinare d’oltremanica rispetto a quella italiana. Lo screziato panorama del diritto vivente dischiude percorsi di indagine assai affascinanti, nondimeno, la prevedibilità delle soluzioni applicative è presidiata dal viscerale attaccamento del diritto giurisprudenziale al precedente vincolante, lume che rischiara i sentieri ermeneutici più adombri, graziosamente elargendo impreteribile. 193 all’interprete una bussola CONCLUSIONI «Io tengo in conto di sozza villania le due preposizioni diverse da ogni civiltà, e non men assurde che bestiali, che un autor oltramontano ebbe l’impudenza di consegnare ad un suo dettato, di cui oggimai, e meritevolmente, e spersa ogni memoria, cioè che tra il cervello e l’organo della favella del bel sesso non passa alcuna relazione, e che fra tutti i membri del corpo femminile il solo impassibile è la lingua. Ognuno sentenzia delle cose secondo la propria esperienza; ed a vero dire un uomo cotanto scortese da mettere in un fascio le donne tutte, non meritava di essere fatto lieto della conoscenza di quelle che gli potessero somministrare diverso argomento pei suoi giudizii; ma tal sia di lui» (VIEUSSEUX, Memorie sul progetto de’ due canali navigabili fra l’Oceano Atlantico e il Pacifico, Opera del Signor Robinson, in Antologia: giornali di scienze lettere ed arti, tomo XXVI, Firenze, 1827, pag. 125 ss.). L’ardita modernità di un tale argomentare desta non poco sgomento, giacchè, come si è avuto modo di illustrare, l’iconografia pubblicitaria odierna è pervasa da un’inestirpabile tendenza reificatrice nell’effegiazione della donna, sempre più spesso oggetto di spudorato mercimonio. Ritratta ora come sventurata ancella, ora come ammaliatrice avvenente e procace ella, avviluppata nel più sordido isolamento empatico, è in ogni caso deprivata di qualsivoglia sostanza intellettiva e raziocinante. Dianzi ad una siffatta spregiudicatezza che metamorfosa le più incredibili recrudescenze con calligrafia estetizzante, l’opera cui sono dediti gli organi di autodisciplina pubblicitaria è quantomai irrinunciabile, vieppiù in considerazione del lantanico silenzio delle leggi. 194 INDICE BIBLIOGRAFICO CONTRIBUTI DOTTRINALI AMATI, Associazioni e tutela dei singoli, Napoli, 1984. BANORRI, Le modalità di Adesione, in Commentario al Codice dell’Autodisciplina Pubblicitaria, a cura di Ruffolo, Milano, 2003, pag. 229. BASILE, Gli enti di fatto, in Trattato di diritto privato, diretto da RESCIGNO, 1982, 2, I, pag. 273 ss. BIANCA, Diritto civile. Il contratto, Milano, 1987. MOSCARINI, I negozi a favore di terzo, Milano, 1970. 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Mondadori Editore s.p.a., Mondadori Pubblicità s.p.a., La Repubblica s.p.a., A. Manzoni & C. s.p.a., EDIF s.r.l.. Dec. n. 117/2001, 29 maggio 2001, Galter srl c. Editoriale Edisport s.p.a., COMEDI s.p.a.. Dec. 119/2001, 11 maggio 2001, Comitato di controllo c. Benetton Group s.p.a., Energy Project s.r.l. Alessi s.p.a., SMA s.p.a., Jolly Pubblicità s.p.a. Dec. n. 129/2001, 29 maggio, Comitato di controllo c. Barel s.n.c., RCS Editori s.p.a. – Sett. Periodici, RCS Editori s.p.a. – Sett. Pubblicità. Dec. n. 144/2001, 27 maggio 2002, Comitato di Controllo c. Hermann s.r.l., IGP Decaux s.p.a. Dec. n. 165/2001, 24 luglio 2001, Comitato di controllo c. Onceas s.p.a., Agenzia Milano AD s.r.l., Marketing Finanza Italia, Media Group Int. s.r.l., Gruppo Editoriale L’espresso – divisione la Repubblica, A. Manzoni e C s.p.a.. Dec. n. 232/2001, 9 ottobre 2001, Comitato di controllo c. Diamond s.r.l., Agenzia Opinion Leader s.r.l., Rcs. Editori s.p.a. – Settore Periodici, Rcs. 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Dec. n. 215/2003, 11 febbraio 2004, Comitato di Controllo c. Gianfranco Ferré s.p.a., Les Gitanes s.r.l., Rcs Periodici s.p.a., Rcs Pubblicità s.p.a., Publitalia ’80 s.p.a.. Dec. n. 105/2004, 23 aprile 2004, Comitato di Controllo c. Illva Saronno s.p.a. e Agenzia A. Testa s.p.a., RAI-Radiotelevisione Italiana s.p.a.. Dec. n. 153/2004, Comitato di Controllo c. Teobras s.r.l., IGP Decaux, IPAS. 204 Dec. n. 118/2005, 19 luglio 2005, Comitato di Controllo c. Stock s.p.a., Ag. Euro RSCG Milano s.r.l., Radio Deejay, A. Manzoni e C. s.p.a.. Dec. n. 38/2006, 13 marzo 2006, Comitato di Controllo c. Amica Chips s.p.a., Publitalia ’80 s.p.a., RTL 102.5, Open Space Pubblicità. Dec. n. 10/2007, 6 marzo 2007, Comitato di Controllo c. Discovery Italia s.r.l., Agenzia D’Adda Lorenzini Vigorelli BBDO, Soc. Quadro Adv. s.r.l., Hachette Rusconi Editore s.p.a., Hachette Pubblicità s.p.a., RCS Periodici s.p.a., RCS Pubblicità s.p.a., A. Mondadori Editore s.p.a., Mondadori Pubblicità s.p.a.. 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