Tesi di dottorato, L`utilizzazione del corpo delle donne

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PALERMO
SCUOLA DI DOTTORATO IN DIRITTO SOVRANAZIONALE E
DIRITTO INTERNO
DOTTORATO DI RICERCA IN DIRITTO COMPARATO – IUS 02
XXIV CICLO
L’UTILIZZAZIONE DEL CORPO DELLE
DONNE NELLA PUBBLICITÀ. QUESTIONI
GIURIDICHE E DEONTOLOGICHE.
Tutor
Chiar.mo Prof. Alberto Gianola
Dottoranda
Maria Bannino
Coordinatore
Chiar.mo Prof. Guido Smorto
ANNO ACCADEMICO 2013 - 2014
INDICE
INTRODUZIONE ...................................................................................
1
CAPITOLO I
L’AUTODISCIPLINA PUBBLICITARIA
SEZIONE I
LE ORIGINI DEL FENOMENO AUTODISCIPLINARE
1. Brevi considerazioni introduttive ............................................................
2. I primi Codici di Autoregolamentazione in materia pubblicitaria ..........
3. L’European Advertising Standards Alliance: il processo di
europeizzazione e i diritti statali .............................................................
2
4
12
SEZIONE II
L’AUTODISCIPLINA PUBBLICITARIA NEL REGNO UNITO
1. L’Advertising Standards Authority .........................................................
2. L’UK Code of Non-broadcast Advertising, Sales Promotion
and Direct Marketing ..............................................................................
3. L’UK Code of Broadcast Advertising .....................................................
4. Cenni sul sistema sanzionatorio ..............................................................
15
17
22
27
SEZIONE III
L’AUTODISCIPLINA PUBBLICITARIA IN ITALIA
1. Premessa .................................................................................................
2. Le finalità dell’Autodisciplina pubblicitaria: dal Codice di Lealtà
Pubblicitaria al nuovo Codice di Autodisciplina della
Comunicazione Commerciale ................................................................
3. Modalità di adesione all’Autodisciplina pubblicitaria: l’adesione
per via associativa e l’adesione per sottoscrizione della
clausola di accettazione ..........................................................................
4. Qualificazione giuridica della clausola di accettazione: lo schema
del contratto a favore di terzo .................................................................
4.1. Il contratto pubblicitario stipulato per condizioni generali ..................
4.2. La clausola di accettazione come clausola d’uso o uso normativo ......
5. Ipotesi interpretative sulla natura giuridica dell’Autodisciplina
pubblicitaria ............................................................................................
30
31
38
43
47
49
51
CAPITOLO II
GLI ATTEGGIAMENTI EROTICI NELLA PUBBLICITÀ
1. Premessa .................................................................................................
2. La Ratio dell’art. 9 CAP. ........................................................................
2.1 Considerazioni sulla sindacabilità della pubblicità che ricorra
2
57
60
a suggestioni erotiche ...........................................................................
3. La Ratio dell’art. 10 CAP .......................................................................
4. Erotismo magnificente e patinato nell’iconografia pubblicitaria ............
4.1. L’aberrante celebrazione della zoofilia erotica o zooerastia ................
4.2. Reminiscenze sadomasochiste .............................................................
5. L’utilizzazione pubblicitaria dell’erotismo per la reclamizzazione di
bevande alcoliche, l’art. 22, quinto alinea, CAP .....................................
61
68
70
84
97
106
CAPITOLO III
NUDO DI DONNA
1. Il mercimonio della dignità umana. La reificazione del corpo della
donna in pubblicità ..................................................................................
2. Le prime sentenze sul tema .....................................................................
3. Una preziosa ricognizione ermeneutica. I canoni della disumanizzazione
della persona e della ostentazione di meri reperti anatomici ..................
4. Il tema della morte in pubblicità. Necrofilia e nudo di donna ................
113
118
122
146
CAPITOLO IV
L’UTILIZZAZIONE PUBBLICITARIA DEL CORPO DELLA DONNA NEL
REGNO UNITO ALLA LUCE DELLA PIÙ RECENTE CASISTICA
DELL’ADVERTISING STANDARDS AUTHORITY
1. Premessa metodologica ........................................................................... 157
2. Principi generali ...................................................................................... 159
3. L’utilizzazione pubblicitaria del corpo della donna nel Regno Unito alla
luce della più recente casistica dell’Advertising Standards Authority .... 163
4. I principali criteri ermeneutici elaborati dalla giurisprudenza autodisciplinare
d’oltremanica sul tema. Gratuità del riferimento a motivi di carattere
erotico e financo pornografico ed estraneità con la natura dei
prodotti reclamizzati. Destinatari della pubblicità .................................. 182
5. Opportuni rilievi comparatistici sul concreto estrinsecarsi
dell’autoregolamentazione pubblicitaria in Italia e nel Regno Unito
con particolare riguardo alla pubblicità sessista .................................... 187
CONCLUSIONI ..................................................................................... 191
INDICE BIBLIOGRAFICO ....................................................................... 192
INTRODUZIONE
3
Il presente lavoro vuole mettere a fuoco, attraverso un approccio
metodologico squisitamente casistico-giurisprudenziale, il concreto
esplicarsi dei più rilevanti indirizzi ermeneutici sviluppatisi in seno alla
giurisprudenza autodisciplinare italiana ed inglese in relazione alla
rappresentazione pubblicitaria della donna.
Preliminarmente si offre uno sguardo di panoramica sulle principali
questioni giuridiche poste dal fenomeno autoregolamentare in ambito
pubblicitario, con particolare riferimento alle incresciose vicissitudini che
hanno interessato il formante legislativo, disvelando la profonda
inidoneità e financo inettitudine del consueto strumento legale rispetto
alla regolamentazione del mondo pubblicitario.
I capitoli centrali del lavoro si occupano di studiare profusamente i
casi che esibiscono una più spiccata pregevolezza euristica al fine di
individuare
le
principali
tendenze
interpretative
del
Giurì
di
Autodisciplina Pubblicitaria e svolgere le opportune considerazioni circa
le condizioni di sindacabilità della pubblicità che ricorra a suggestioni
smaccatamente erotiche o sadomasochistiche ovvero contenente patinate
reminiscenze zooeraste.
Nella parte conclusiva si lumeggiano i percorsi giurisprudenziali
dell’Advertising
pubblicitaria
Standards
della
donna,
Authority
portando
sul
in
tema
evidenza
dell’effigiazione
la
sostanziale
medesimezza della tutela autoregolamentare apprestata dall’ordinamento
autodisciplinare d’oltremanica rispetto a quello italiano e, specularmente,
la significativa diversità dei risultati applicativi raggiunti sul piano
effettuale.
CAPITOLO I
4
L’AUTODISCIPLINA PUBBLICITARIA
SEZIONE I
LE ORIGINI DEL FENOMENO AUTODISCIPLINARE
SOMMARIO: 1. Brevi considerazioni introduttive. — 2. I primi Codici di
Autoregolamentazione in materia pubblicitaria. — 3. L’European Advertising Standards
Alliance: il processo di europeizzazione e i diritti statali.
1.
Con le parole di Guy de Maupassant: «La grande trovata
moderna, signori miei, è la pubblicità: essa è il dio del commercio e
dell’industria contemporanei. Fuori della pubblicità non c’è salvezza.
D’altronde, l’arte della pubblicità è difficile, complicata, e richiede un
tatto grandissimo. I primi che hanno usato questo nuovo procedimento lo
hanno fatto brutalmente, richiamando l’attenzione col chiasso, coi colpi di
grancassa e di cannone. […] oggi lo schiamazzo è sospetto, i manifesti
vistosi fanno sorridere, i nomi gridati per le strade suscitano più
diffidenza che curiosità. Con tutto ciò, bisogna attirare l’attenzione
pubblica e, dopo averla colpita, bisogna convincerla» (1).
Il rilievo secondo cui lo stesso mondo pubblicitario abbia ritenuto
doveroso dotarsi di un sistema di autoregolamentazione che potesse
garantire l’onestà, la veridicità e la correttezza dei messaggi commerciali,
è un dato di particolare suggestione. L’autoregolamentazione mira
essenzialmente a disciplinare lo svolgimento di attività aventi ad oggetto
la comunicazione commerciale a fini pubblicitari secondo regole
provenienti
dall’interno
delle
categorie
professionali
interessate.
L’autodisciplina pubblicitaria porta con sé un’affascinante tendenza al
travalicamento e, più precisamente, allo svilimento degli angusti confini
(1) GUY DE MAUPASSANT, Mont-Oriol, 1887.
5
del metodo legislativo, estrinsecandosi, nella stragrande maggioranza dei
casi, in un sistema di autoregolamentazione pura (2).
Tale sistema di intervento ha ad oggetto una forma di
comunicazione non di rado invadente ed aggressiva, connotata da una
notevole forza persuasiva e da capacità suggestive assai penetranti che
determinano una grave asimmetria nel rapporto comunicativo.
2.
Le riflessioni che di seguito vengono riportate destano
vivissimo interesse per la magistrale eloquenza con cui evidenziano il
(2) In ambito internazionale il primo codice di autodisciplina pubblicitaria fu il
Code de pratiques loyales en matière de publicité, adottato dalla Camera di Commercio
Internazionale nel 1937. In Italia il processo che condusse all’istituzionalizzazione del
controllo sulla pubblicità fu lungo e tortuoso. Il primo documento in cui è dato di
rinvenire una lucida, seppur embrionale, formalizzazione del problema codificatorio,
dopo l’emanazione di molteplici documenti che non ebbero alcun seguito, si pensi, a
titolo esemplificativo, al Codice Morale della Pubblicità del 1951, fu certamente
costituito dalla relazione presentata da Roberto Cortopassi in occasione del settimo
Congresso nazionale della Pubblicità, tenutosi a Ischia nell’ottobre 1963 e recante il
titolo “Responsabilità della Pubblicità nei confronti del consumatore”. L’illuminante
dibattito fiorito in quegli anni attorno all’ormai improcastinabile problema della
necessità di una tutela istituzionalizzata dell’universo pubblicitario culminò nella
promulgazione, nel 1966, del Codice di Lealtà pubblicitaria per iniziativa della
Federazione Italiana Pubblicità, degli Utenti Pubblicità Associati, della Federazione
Italiana Editori Giornali e della Rai. Il suddetto Codice esplicava la propria efficacia nei
confronti di un cospicuo numero di operatori pubblicitari puntualmente individuati,
definendosi «normativo per utenti, agenzie, consulenti di pubblicità, gestori di veicoli
pubblicitari di ogni tipo e per tutti coloro che lo abbiano accettato direttamente o tramite
la propria associazione».
In quella relazione si osservava con un certo distacco emotivo l’intima
correlazione tra l’inarrestabile sviluppo del fenomeno pubblicitario e il brulicante
proliferare di posizioni critiche, ritenute tali «da richiedere una meditata
considerazione». Venivano altresì prese in considerazione le forme degenerative che
avviluppavano la comunicazione pubblicitaria, forme degenerative che i rudimentali
quanto inefficaci sistemi di controllo allora esistenti, non erano in grado di eliminare.
Dopo una copiosa disamina degli esiti infausti e vieppiù fallimentari dei
precedenti interventi in ambito pubblicitario, la relazione, raccogliendo il prezioso
monito del Codice della Camera di Commercio Internazionale, concludeva auspicando
«l’impegnativo accordo di tutte le categorie su una raccolta di poche e chiare norme che
prescrivano e regolamentino il ricorso ad una pubblicità leale quale unica valida tutela
sia della concorrenza imprenditoriale sia dei fondamentali interessi del consumatore».
6
carattere squisitamente autopoietico dell’autodisciplina pubblicitaria,
enucleando le cause principali che indussero gli operatori del settore a
tentare di risolvere essi stessi i problemi giuridici sottesi al mondo della
pubblicità mediante l’adozione di regolamenti di autodisciplina. «A
nessuno meglio che ai suoi operatori, infatti, appariva chiaro che la
pubblicità, per il grande potere suggestivo, per la capacità di influire sulla
libera determinazione dei suoi destinatari e per l’enorme forza di
penetrazione, poteva trasformarsi – se utilizzata senza esclusione di colpi
–
in una vera e propria arma totale, capace di alterare a tal punto
l’equilibrio dell’economia da causare la propria stessa distruzione. E
poiché la legge si rivelava carente o inadeguata nel porre il fenomeno
sotto controllo, si rendeva necessario che fossero proprio le categorie
interessate ad assoggettarsi volontariamente a talune regole fondamentali
da esse emanate, indispensabili per il corretto esercizio di questa forma di
comunicazione. In alcuni casi può anche avere giuocato, in favore
dell’autocontrollo, l’intento di prevenire interventi legislativi che
istituissero divieti o censure da parte dei pubblici poteri […]. In ogni caso
alla creazione di regolamenti di autodisciplina non fu neppure estraneo un
intento che oggi chiameremmo di “pubbliche relazioni”: è noto infatti che
l’opinione pubblica ha spesso considerato negativamente la pubblicità
[…]. L’opera moralizzatrice dell’autodisciplina, come del resto emerge
dal preambolo di diversi codici morali, si proponeva anche di rimuovere
molti dei pregiudizi gravanti su questo tipo di comunicazione, di farla
accettare dal pubblico, di creare intorno ad essa un clima di fiducia» (3).
(3) FUSI, TESTA, cit., pag. 20. Si confrontino al riguardo il preambolo alla prima
versione del British Code of Advertising Practice, a tenore del quale «no advertisement
likely to bring advertising into contempt or to reduce public confidence in advertising
should at any time be permitted […] advertisements should be presented in such a way
that they do not weaken the acceptance of advertising as an essential service to industry
and the public economy» e l’analoga formula contenuta nel Codice di Lealtà
7
Per codesti motivi le tre fondamentali categorie di operatori
pubblicitari, imprenditori-utenti, le agenzie, i professionisti pubblicitari in
genere, nonché i mezzi di diffusione, optarono per un sistema di
autocontrollo che garantisse il rispetto delle regole da essi stessi emanate,
mediante la predisposizione di infrastrutture di natura eminentemente
parasociale (4).
Uno dei più antichi organismi autodisciplinari fu l’Advertising Club
of America costituitosi nel 1905. Quantunque rappresentasse soltanto un
embrionico esemplare del fenomeno autoregolamentare, l’Advertising
Club of America già annoverava tra i suoi scopi istituzionali quello di
Pubblicitaria italiano, nell’edizione del 1971, secondo cui scopo del codice «è di far sì
che la pubblicità, che ha un ruolo essenziale per lo sviluppo dell'economia e per la
creazione di maggior benessere, ed è insieme un servizio socialmente utile per
l’informazione del consumatore, eviti tutto ciò che la possa screditare e che sia
incompatibile con i suoi fini».
( 4 ) FUSI, TESTA, cit., pag. 21. Secondo un’autorevole dottrina, «While most
studies focus on its functioning, there is growing discussion of advertising selfregulation as alternative or complement to government regulation and – to a lasser
extent- of its role as an agent of public policy […]. In the latter case, self- regulation
becomes explicitly embedded in the goals and instruments used by goverment in order to
ensure good advertising behavior. [...] The system [of Self-regulation] refers to the
control of bisness conduct and performance by business itself rather than by government
or by market. In its pure form, industry assumes full responsibility […]. Control is
exerved by one’s peers so that outsiders such as consumer representatives and/or
government officials are kept out of the development, use, and enforcement of an
industry’s code of practice and/or guidelines. This pure approach does not preclude
informal consultation with outsiders but it excludes a formal decision-making ole for
them. […] To its proponents, pure self-regulation presents the following general
advantages over regulation.
1. Self-regulation is faster and cheaper as well as more efficient end effective […]
than government regulation because industry knows better what the problems and their
proper remedies are. Should the industry lack information or expertise about certain
matters […] they can be obtained by taping experts or by commissioning studies.
2. It does not replace regulation but complements the latter, going beyond the
minimum prescrived by law. Actually, in Belgium and France, the self-regulation system
even applies legal standards-besides its own codes and guidelines-in appraising apparent
violations of good advertising behavior […]». In questo senso v. BODDEWYN,
Advertising Self-Regulation: Private Government and agent of Public Policy, in Journal
of Public Policy & Marketing, 1985, pag. 129 ss.
8
promuovere l’adozione di regole comportamentali ispirate ai canoni di
lealtà, veridicità, onestà e correttezza cui uniformare la comunicazione
pubblicitaria. In quegli stessi anni fiorirono plurime iniziative
autodisciplinari, tra le quali preme menzionare il Curtis Advertising Code
del 1910, il Printer’s Ink Statute del 1911 e lo Standards of Newspaper
Practice del 1914. Il tratto distintivo di queste opere si rinviene nella
viscerale violenza moralizzatrice che le contraddistingue, essendo il
medesimo il substrato etico-sostanziale da cui traggono linfa (5). Bisogna
tuttavia attendere il 1924 perché venga alla luce lo Standards of practice
dell’American Association of Advertising Agencies, il primo completo
codice di comportamento, che, sottoposto a successivi interventi
manipolativi di aggiornamento e riedizione, rappresenta ancora oggi il più
autorevole testo di norme deontologiche in materia di comunicazione
commerciale.
Nel 1880 nacque in Inghilterra il primo comitato di autocensura
pubblicitaria, istituito dalle aziende di pubblicità murale e affissionale,
risale invece al 1925 il primo codice di autodisciplina emanato dalla
Association
of
Publicity
Clubs.
Un
controllo
sistematico
ed
istituzionalizzato sull’attività pubblicitaria si ebbe soltanto nel 1926 con
la costituzione dell’Advertising Association, che tra i suoi scopi enunciava
«To promote public confidence in advertising through the correction or
suppression of abuses wich undermine that confidence» ( 6 ). All’uopo
veniva istituito l’Advertising Investigation Department. Nel 1961 venne
alla luce il British Code of Advertising Practice Committee, l’attuale
Committee of Advertising Practice, e con esso nacque il primo codice
(5) ROSDEN-ROSDEN, The Law of advertising, New York, 1981, pag. 40; FUSI,
Panorama internazionale dell’autosciplina pubblicitaria, in Riv. dir. int., 1975, I, pag.
62.
(6) FUSI, TESTA, op. ult. cit.
9
autodisciplinare britannico, il British Code of Advertising Practice. Il
Codice si occupava della regolamentazione di tutta la pubblicità a stampa
e, nel 1962, venne istituita l’Advertising Standards Authority (ASA) al
fine di vigilare sulla corretta applicazione del nuovo sistema normativo.
Nel 1974 il meccanismo di finanziamento dell’autodisciplina
pubblicitaria britannica venne ulteriormente potenziato, grazie alla
Advertising Standards Board of Finance (ASBOF). Il nuovo sistema si
fondava essenzialmente sull’imposizione di un prelievo automatico dello
0,1% su tutti gli annunci pubblicitari. Fu il sacro sigillo di una nuova e
preziosa consapevolezza da parte dell’opinione pubblica inglese, quella
della vitale importanza dell’autoregolamentazione per il mondo
pubblicitario.
L’ASA
principiò
ad
estendersi
considerevolmente,
incrementando il proprio personale, intensificando ed estendendo i
controlli
preventivi
ed
il
sistematico
monitoraggio
dell’attività
pubblicitaria.
La necessità di ampliare il ruolo del sistema fino a comprendervi il
promotional marketing, condusse, nel 1974, all'istituzione del primo Code
of Sales Promotion Practice.
Dal 1962, il sistema di autoregolamentazione crebbe in statura e
autorevolezza, giungendo a godere del grande prestigio che ancora oggi
ne contraddistingue l’attività presso le più diffuse categorie di operatori
pubblicitari. L’efficientismo e la celerità delle procedure garantivano che
la tutela del consumatore fosse piena ed effettiva.
Gli interventi della legislazione comunitaria in materia rafforzarono
vieppiù il ruolo strategico dell’ASA come principale istituzione di
rifermento in materia di pubblicità ingannevole nei media non
radiotelevisivi, accanto all’Office of Fair Trading (OFT).
Nel 2003 il Communications Act istituiva la Ofcom, conferendo
10
all’istituto poteri autoregolamentari in tema di normazione pubblicitaria
per le campagne trasmesse a mezzo di emittenti televisive e radiofoniche.
Ben presto l’attività regolamentare posta in essere dalla Ofcom non fu più
di competenza esclusiva di quest’ultima. Si istaurò una proficua
concertazione tra la Ofcom e l’ASA, di talché nel 2004 l’Authority
inglese vide ampliato il suo mandato fino a ricomprendervi il sindacato
sulle pubblicità televisive e radiofoniche, che in precedenza ricadevano
sotto la competenza della Independent Television Commission o della
Radio Authority.
Il sistema di nuovo conio prevedeva un ventaglio di controlli
preventivi che avrebbero potuto sfociare in misure sanzionatorie assai
afflittive, quali la riprogrammazione, la modificazione o addirittura la
cessazione della pubblicità incriminata.
Nel caso in cui la sanzione non fosse stata ottemperata
spontaneamente dall’emittente televisiva o radiofonica condannata,
l’ASA avrebbe potuto valutare discrezionalmente l’opportunità di
rivolgersi alla Ofcom, affinché questa istruisse apposito procedimento
giurisdizionale.
Dal suo canto il Broadcast Committee of Advertising Practice
(BCAP), cui aderivano, come a tutt’oggi, inserzionisti, agenzie ed
emittenti televisive e radiofoniche avrebbe garantito un controllo
endoprocedimentale ex ante su tutte le attività prodromiche alla creazione
della pubblicità radiotelevisiva.
Oggi il sistema di autoregolamentazione copre la non-broadcast
advertising, sales promotion oltreché molti aspetti del direct marketing,
potendo godere del supporto di una serie di altre iniziative di
autoregolamentazione da parte dell'industry, nonché dei vari servizi
offerti dalla Direct Marketing Association.
11
Dalla sua limitata competenza originaria, il sistema autodisciplinare
britannico si è progressivamente evoluto fino a disciplinare qualsiasi
forma di comunicazione commerciale, sia essa broadcast o non
broadcast. Con un camaleontico metamorfismo ed una plasticità assai
rare, il sistema di autoregolamentazione d’oltremanica garantisce il suo
costante aggiornamento, attraverso la riedizione dei suoi codici, e,
soprattutto, l’ardita modernità con cui affronta le sfide poste dai media
digitali e dalla crescita dell’online marketing communication.
Quantunque il mondo della pubblicità sia visceralmente cambiato
dal quel lontano 1960, in cui un embrionico tentativo di autonormazione
pubblicitaria cominciò a delinearsi, lo scopo dell’autodisciplina inglese
rimane lo stesso delle sue auree origini: garantire la più alta integrità, la
rettitudine e la probità della comunicazione commerciale, nel
contemperamento degli interessi sia del consumatore sia delle imprese.
Nel 1913 in Francia la Chambre Syndacale de la Publicité di Parigi
aveva intrapreso iniziative volte alla predisposizione di una normativa
etica della comunicazione pubblicitaria, ma è soltanto nel 1937, con la
promulgazione del Code de pratiques loyales en matière de publicité da
parte della Chambre de Commerce Internationale, che si assiste alla
nascita del primo codice autoregolamentare dotato di una qualche
sistematicità e organicità normativa: alla enunciazione di una serie di
regole deontologiche dont l’observation sera obtenue par voie de
pression morale, seguiva un apparato normativo che regolamentava la
procedura istitutiva di un organo d’autocontrollo con funzioni giuridiche
d’onore (7).
Il Code de pratiques loyales en matière de publicité, più volte
emendato in momenti successivi, divenne presto il Codice deontologico
(7) FUSI, TESTA, cit., pag. 22.
12
cui avrebbero fatto riferimento i diversi paesi europei per l’emanazione
dei propri codici di autoregolamentazione. In esso si fondevano gli ideali
morali ed etici di una medesima koinè, ispirata al supremo valore di una
comunicazione pubblicitaria scevra da abusi. La profluente diffusione
della pubblicità e delle sue tecniche persuasive e suggestive, imponeva il
contemperamento delle esigenze suddette con quelle eminentemente
efficientiste imposte dalle logiche di mercato. Apparirono così numerosi
codici di autodisciplina settoriali che, in seguito al progressivo
irrobustimento delle strutture parasociali della pubblicità, si estesero ad
una platea sempre più vasta di operatori. Taluni ordinamenti
demandarono la risoluzione delle controversie pubblicitarie alle stesse
associazioni, più spesso vennero istituiti degli appositi organismi
giudicanti. In ogni caso è solo di rado che tali questioni vennero
sottoposte alla cognizione dei tribunali, rivelandosi assorbente l’esigenza
di non ingerenza del potere statuale nella giustizia autoregolamentare, di
matrice privatistico-contrattuale. Nella stragrande maggioranza dei casi i
codici di autoregolamentazione di tradizione europea considerano
irrilevante l’elemento psicologico dell’infrazione, configurando delle
forme di responsabilità oggettiva ( 8 ). Altro principio cardine è quello
( 8 ) Può essere utile, nell’ambito della presente ricostruzione, fornire rapidi
accenni sulla questione della rilevanza dell’elemento subbiettivo nell’illecito
disciplinare. Regola generale è quella secondo cui il rispetto delle regole
dell’autodisciplina, cui l’attività pubblicitaria deve uniformarsi, prescinda dalla
valutazione della buona fede del soggetto che pone in essere un determinato
comportamento. Comunque si atteggi l’elemento subbiettivo dell’inserzionista, sia esso
cioè doloso o colposo, ciò che rileva è unicamente il significato oggettivamente espresso
dall’inserto pubblicitario, rimanendo l’elemento psicologico irrilevante sia quanto a
intensità sia quanto a sussistenza di fronte all’esigenza di far cessare il comportamento in
contrasto con le norme autoregolamentari. Con riguardo all’orientamento espresso dalla
giurisprudenza autodisciplinare italiana sul tema v. ex multis dec. n. 32/1980, 16
dicembre 1980, C.d.A. c. Filotecnica Salmoiraghi; Ed. Edime; dec. n. 40/1978, 28
novembre 1978, Bic Italia c. Gilette Italy, dec. n. 19/77, 21 dicembre 1877, Bayer Italia
c. Schiapparelli Stab. Chimici Riuniti; Gruppo G.
13
dell’inversione dell’onus probandi, di talché spetterebbe alla parte
convenuta dimostrare la conformità della pubblicità oggetto di
contestazione alle norme comportamentali che si assumono violate. Per
quanto concerne le sanzioni generalmente comminate, esse si individuano
nell’ordine di cessazione, con il quale viene inibito ai mezzi di diffusione
di reiterare ulteriormente la pubblicità censurata, e, nei casi più gravi,
nella pubblicazione della decisione. Tuttavia, nonostante qualche
diversità nelle soluzioni adottate, «il substrato delle varie istituzioni è
comune, lo scopo perseguito è dovunque quello di far sì che la pubblicità
si attenga ai canoni di lealtà, veridicità, onestà e correttezza, e lo schema
fondamentale delle raccolte rimane sostanzialmente quello della Chambre
de Commerce Internationale; cioè una serie di regole di comportamento,
articolate in varie previsioni, cui spesso si accompagnano regolamenti di
settore […], al cui rispetto tutte le categorie pubblicitarie sono impegnate
attraverso una manifestazione di volontà di natura negoziale» (9).
3.
Nel 1989, un preesistente organismo informativo facente
capo all’European Advertising Tripartite, è stato sostituito dall’European
( 9 ) FUSI, TESTA, cit., pag. 23. Un’autorevole conferma in tal senso proviene
dall’EASA Statement of Common Principles and Operating Standards of Best Practice,
approvato del 2002 dall’European Advertising Standards Alliance. Si tratta di un
importante documento propositivo che enuncia gli standard comportamentali cui devono
uniformarsi i codici deontologici dei diversi Stati in materia di etica pubblicitaria. L’art.
24 del documento in parola, intitolato “Codes, their development and review”, così
recita: 24.1 “Self-regulatory codes are based on the following basic principles,
enshrined in the general Code of Advertising Practice of the International Chamber of
Commerce: “the content of advertising should be legal, decent, honest and truthful with
a due sense of social responsibility and respect for the rules of fair competition.
24.2 All codes must be applied both in the spirit and to the letter.
24.3 Codes should reflect national culture, law, and commercial practices,
within the spirit of mutual recognition.
24.4 SROs should ensure that self-regulatory principles for advertising
content are applied to new areas of advertising and commercial communications.
24.5 Self-regulatory rules and procedures should be regularly reviewed in
the light of regulatory, social and technological developments, including consumer
attitudes to advertising”.
14
Advertising Standards Alliance, che, per i Paesi con lingua di origine
latina, ha assunto la denominazione di Alliance Européenne pour
l’Ethique en Publicité. A sommo sugello di un lungo cammino, nel
gennaio del 1994, otteneva il riconoscimento giuridico quale associazione
internazionale in base al diritto belga, Stato presso il quale ha la sua sede.
Nel 2002 l’Alliance si è profondamente rinnovata, mutando
radicalmente la propria struttura associativa. Ora
accanto
alle
rappresentanze delle autodiscipline siedono negli organismi direttivi
anche i rappresentanti dell’industry pubblicitaria ovverossia utenti,
agenzie e mezzi. Tutte le componenti del mondo pubblicitario hanno
infatti deciso di far confluire le proprie energie in un’unica
organizzazione che è diventata «la singola voce autorevole del mondo
pubblicitario» (10).
Tra gli scopi essenziali dall’European Advertising Standards
Alliance si annoverano quello di riunire periodicamente le organizzazioni
europee del mondo pubblicitario che adottano e riconoscono i Codici di
autodisciplina pubblicitaria; quello di promuovere l’effettività e
l’efficienza del sistema affinché l’autodisciplina possa essere rapida,
flessibile, attuale, non onerosa ed esercitata senza burocratismi di sorta;
quello di garantire, attraverso la predisposizione standards di correttezza
raccomandati per operare secondo best practices, l’uguaglianza di
trattamento per tutti i casi di denuncia e un unico spirito nei criteri di
(10) Così l’EASA Statement of Common Principles and Operating Standards of
Best Practice, cit., che all’art. 2 afferma: «the European Advertising Standards Alliance
(EASA) is the single voice of the advertising industry in Europe on advertising selfregulation. It acts as the European coordination point for advertising self-regulatory
bodies and systems across Europe. All of these systems contain two essential elements: a
set of rules (codes) and a procedure to handle complaints submitted about specific
advertisements».
15
controllo del sistema di autodisciplina, pur nel rispetto delle differenze
culturali nelle pratiche commerciali dei vari Paesi. Per raggiungere questi
scopi l’Alleanza si impegna, fra l’altro, a: a. promuovere la migliore
attuazione dell’Autodisciplina; b. cercare di raggiungere una
convergenza dei princìpi che governano i sistemi di autodisciplina
attualmente operanti in Europa; c. sviluppare un dialogo con governi
nazionali, gruppi di consumatori, associazioni di categoria e istituzioni
europee; d. dimostrare che i meccanismi nazionali di autodisciplina
sono da preferire a un’estensione della legislazione a livello europeo; e.
promuovere il sistema per il quale le denunce di pubblicità diffuse da
mezzi
provenienti
dall’estero
possano
essere
rapidamente
ed
efficacemente trattate con rinvio delle denunce all’organismo competente
nel Paese di origine della pubblicità; f. stimolare miglioramenti nei
sistemi di autodisciplina e incoraggiare la creazione di organismi di
autodisciplina dove questi ancora non esistano; g. scambiare
informazioni sul funzionamento dei codici degli organismi nazionali di
autodisciplina; h. scambiare informazioni e fornire consulenza sulla
legislazione o altre iniziative inerenti il controllo della pubblicità e su
altri sistemi di comunicazione di marketing.
Tra le iniziative più encomiabili intraprese dalla Alliance
Européenne pour l’Ethique en Publicité deve menzionarsi quella che ha
condotto alla creazione del sistema di coordinamento dei Cross-border
Complaint, in materia pubblicità transfrontaliera. Il nuovo sistema è
finalizzato a garantire un’effettiva e concreta tutela dei consumatori,
indipendentemente dal carattere transnazionale della pubblicità diffusa, di
modo ché al consumatore del Paese richiedente vengano riconosciuti gli
stessi diritti del consumatore del Paese da cui il messaggio viene diffuso.
Principio cardine dell’intero sistema è quello del mutuo riconoscimento
16
delle giurisdizioni tra i diversi Paesi (11).
( 11 ) L’art. 27 dell’EASA Statement of Common Principles and Operating
Standards of Best Practice, cit. è significativamente rubricato “Effective cross-border
consumer protection and co-ordination”. Si riporta di seguito il testo integrale della
norma, al fine di rendere quanto più intellegibile l’operatività delle procedure dei crossborder complaints system.
27.1 “The EASA Secretariat is responsible for the co-ordination of the crossborder complaints system and liaison with appropriate bodies at an EU level to ensure
the swift resolution of complaints. Regular reports on the handling of complaints are
published in its newsletter and on its website.
27.2 SROs should ad here to the procedures of EASA’s cross-border complaints
system when handling complaints about advertising carried in the media of another
member country.
27.3 SROs should apply the country of origin principle, as established in the
EASA cross-border complaints procedure (that is, the country of origin of the media
carrying the advertisement – where applicable and the country of origin of the
advertiser forcases such as direct marketing, Internet/new media, etc.), to identify the
competent SRO.
27.4 SROs should transfer cases promptly and co-operate in their resolution
27.5 SROs should notify eachother and the EASA Secretariat of the receipt,
progress and outcome of across bordercase.
27.6 SROs should keep cases confidential within the EASA network and not
reveal them to third parties, except to the extent necessary to resolve them, until they are
ready to be published or transferred to the appropriate authorities”.
17
SEZIONE II
L’AUTODISCIPLINA PUBBLICITARIA NEL REGNO UNITO
SOMMARIO: 1. L’Advertising Standards Authority. — 2. L’UK Code of Nonbroadcast Advertising, Sales Promotion and Direct Marketing. — 3. L’UK Code of
Broadcast Advertising. — 4. Cenni sul sistema sanzionatorio.
1.
L’alta reputazione ed il prestigio che contraddistinsero le
fastose origini dell’autodisciplina nel Regno Unito in epoca assai
risalente, quando le associazioni pubblicitarie dettero vita ad un primo
comitato
di
investigazione,
continuano
ad
aleggiare
attorno
all’Advertising Standards Authority, capofila di un sistema di
autodisciplina poi ampiamente sviluppatosi. L’ASA opera in condizione
di assoluta indipendenza dal mondo pubblicitario e da organizzazioni
statali.
Il sistema autoregolamentare inglese si atteggia come una
proteiforme commistione di autoregolamentazione pura e spuria, più
precisamente, di «self-regulation for non-broadcast advertising» e di «coregulation for broadcast advertising» (12).
Similmente a quanto avviene nel sistema autodisciplinare italiano,
gli operatori pubblicitari hanno proficuamente contribuito al processo di
autonormazione soggiacendo spontaneamente all’impianto normativo da
essi posto.
L’armonizzazione e la cooperazione tra tutte le parti del settore
(12) La pubblicità televisiva e radiofonica è regolata da un accordo tra l’ASA e la
Ofcom. L’Office of Communications è l'Autorità per le società di comunicazione nel
Regno Unito. Nel 2002 veniva emanato l'Office of Communications Act. L’anno
successivo l’Office of Communications intraprendeva la sua opera regolatrice
assumendo le competenze che fino ad allora erano state ripartite tra cinque diversi
organi: la Broadcasting Standards Commission, l’Independent Television Commission,
l’Office of Telecommunications, la Radio Authority e la Radiocommunications Agency.
18
pubblicitario è assai preziosa per il sistema inglese, che vanta un
efficientismo ed una sollecitudine nella risoluzione delle controversie
assai rari. L’impegno assunto da inserzionisti, agenzie e media, affinché
la pubblicità possa rispondere ai canoni di legalità, decenza, onestà e
lealtà, è generalmente percepito come forma di veicolazione di grande
rinomanza e sicuro prestigio. Invero nel sistema inglese l’adesione al
sistema autoregolamentare è assai sentita dagli operatori pubblicitari,
come vera e propria appartenenza. Beninteso, la condotta posta in essere
dagli operatori pubblicitari rimane sempre una condotta sanzionabile sotto
il profilo autodisciplinare e, pertanto, suscettibile di coercizione.
I codici autodisciplinari inglesi sono redatti da appositi comitati di
settore: il Committee of Advertising Practice e il Broadcast Committee of
Advertising Practice. Più precisamente l’UK Code of Non-broadcast
Advertising, Sales Promotion and Direct Marketing, (CAP code), è
redatto e regolarmente aggiornato dal Committee of Advertising Practice,
mentre l’UK Code of Broadcast Advertising (BCAP code) è redatto dal
Broadcast Committee of Advertising Practice.
L’attività dell’ASA non è limitata alla rilevazione degli illeciti
pubblicitari e all’irrorazione delle rispettive sanzioni, svolgendo l’ASA
anche una diffusa e capillare attività di consultazione preventiva. Si
ricordano, a titolo meramente esemplificativo, le complesse procedure di
assistenza, orientamento e formazione, aventi natura eminentemente
precautelare.
Per quanto concerne la pubblicità televisiva e radiofonica,
l’ordinamento autodisciplinare inglese ha messo a punto un sistema di
controllo preventivo contraddistinto dalla tempestività e snellezza delle
procedure, oltreché da risultati encomiabili e assai pregevoli sul piano
effettuale. All’uopo sono state istituite la Clearcast for television
19
commercials e la Radio Advertising Clearance Centre for radio ads, cui
si rivolgono le emittenti televisive e radiofoniche al fine di ottenere un
parere di conformità delle pubblicità al BCAP.
Per quanto attiene alla pubblicità su stampa e più in genere, la Nonbroadcast Advertising, Sales Promotion and Direct Marketing, gli
inserzionisti possono valersi di un sistema costantemente aggiornato
presso la sezione Advice and Training» del CAP code. Non è invece stato
istituito alcun apposito organismo per il controllo preventivo, giacché,
stante la massiccia quantità degli annunci, sarebbe oggettivamente
impossibile verificarne la conformità al Codice di ciascuno di essi.
Secondo le stime dell’ASA il numero degli annunci si aggirerebbe intorno
a cifre sconvolgenti, dell’ordine dei trenta milioni di pezzi al giorno per le
pubblicità su stampa e ben cento milioni per il Direct Marketing.
L’apparato sanzionatorio previsto dal CAP code e dal BCAP code è
assai efficace. In seguito all’intervento cognitorio ed eventualmente
sanzionatorio dell’ASA, le pubblicità condannate vengono sospese o
modificate secondo i criteri indicati in decisione. Particolare interesse
desta, a parere di chi scrive, la singolare circostanza che nella stragrande
maggioranza dei casi gli inserzionisti si adegui spontaneamente ai
parametri valutativi enunciati dall’ASA procedendo sollecitamente alla
sospensione o modificazione della pubblicità incriminata prima
dell’intervento di un formale provvedimento inibitorio o modificatorio.
2.
Come lo stesso CAP code enuncia nella parte introduttiva,
sono soggetti alla sua sfera di applicazione:
a) advertisements in newspapers, magazines, brochures, leaflets,
circulars, mailings, e-mails, text transmissions (including SMS and
MMS), fax transmissions, catalogues, follow-up literature and other
20
electronic or printed material;
b) posters and other promotional media in public places, including
moving images;
c) cinema, video, DVD and Blu-ray advertisements;
d) advertisements in non-broadcast electronic media, including but
not limited to: online advertisements in paid-for space (including banner
or pop-up advertisements and online video advertisements); paid-for
search listings; preferential listings on price comparison sites; viral
advertisements (see III l); in-game advertisements; commercial classified
advertisements; advergames that feature in display advertisements;
advertisements transmitted by Bluetooth; advertisements distributed
through web widgets and online sales promotions and prize promotions;
e)
marketing
databases
containing
consumers’
personal
information;
f) sales promotions in non-broadcast media; g) advertorials (see III k);
h) Advertisements and other marketing communications by or from
companies, organisations or sole traders on their own websites, or in
other non-paid-for space online under their control, that are directly
connected with the supply or transfer of goods, services, opportunities
and gifts, or which consist of direct solicitations of donations as part of
their own fund-raising activities (13).
(13) Esulano invece dal campo di applicazione del presente Codice:
a) broadcast advertisements (The BCAP Code sets out the rules that govern
broadcast advertisements on any television channel or radio station licensed by Ofcom);
b) the contents of premium-rate services, which are the responsibility of
PhonepayPlus; marketing communications that promote those services are subject to
PhonepayPlus regulation and to the CAP Code;
c) marketing communications in foreign media. Direct marketing
communications that originate outside the United Kingdom and sales promotions and
marketing communications on non-UK websites, if targeted at UK consumers, are
21
Il CAP code è un esempio paradigmatico di autoregolamentazione
nella sua forma più pura.
Il sistema autoregolamentare facente capo al CAP code trae la
propria linfa vivificatrice dal senso di responsabilità sociale delle imprese
operanti nel settore della pubblicità. L’interesse degli inserzionisti a
subject to the jurisdiction of the relevant authority in the country from which they
originate if that authority operates a suitable cross-border complaint system. If it does
not, the Advertising Standards Authority (ASA) will take what action it can. Most
members of the European Union, and many non-European countries, have a selfregulatory organisation that is a member of the European Advertising Standards Alliance
(EASA). EASA co-ordinates the cross-border complaints system for its members (which
include the ASA);
d) claims, in marketing communications in media addressed only to medical,
dental, veterinary or allied practitioners, that relate to those practitioners’ expertise;
e) classified private advertisements, including those appearing online;
f) statutory, public, police and other official notices or information, but not
marketing communications, produced by public authorities and the like;
g) works of art exhibited in public or private;
h) private correspondence, including correspondence between organisations and
their customers about existing relationships or past purchases;
i) live oral communications, including telephone calls and announcements or
direct approaches from street marketers ;
j) press releases and other public relations material not covered by part I above;
k) editorial content; for example, of the media or of books and regular
competitions such as crosswords;
l) flyposting (most of which is illegal);
m) packages, wrappers, labels, tickets, timetables and price lists unless they
advertise another product or a sales promotion or are visible in a marketing
communication;
n) point-of-sale displays, except those covered by the sales promotion rules or the
rolling paper and filter rules;
o) political advertisements as defined in Section 7;
p) website content not covered by I d and I h, including (but not limited to)
editorial content, news or public relations material, corporate reports and natural listings
on a search engine or a price comparison site;
q) sponsorship; marketing communications that refer to sponsorship are covered
by the Code;
r) customer charters and codes of practice;
s) investor relations (see III m);
t)‘heritage advertising’ by or from companies, organisations or sole traders on
their own websites, or in other non-paid for space online under their control, where that
advertising.
22
salvaguardare e garantire il corretto esplicarsi dell’attività pubblicitaria
complessivamente considerata è essenzialmente riconducibile a ragioni di
ordine etico-morale oltreché, naturalmente, di ordine economicofinanziario. Per quanto concerne il primo profilo occorre riflettere sulla
ontologica ed irrinunciabile necessità di fiducia da parte dei consumatori
nei confronti delle imprese pubblicitarie. Invero, la natura eminentemente
mercantile del fenomeno pubblicitario, postula esistenza di un rapporto
fiduciario tra gli effettivi o potenziali destinatari dell’advertising e gli
inserzionisti. Pertanto la condotta professionale di questi ultimi deve
ispirarsi alla massima irreprensibilità e rettitudine morale, di talché la
pubblicità tout court non venga screditata da comportamenti che suscitino
la riprovevolezza e il biasimo dei consumatori.
Quanto al secondo profilo, quello più squisitamente pecuniario,
deve osservarsi come per gli inserzionisti sia di gran lunga più
conveniente assoggettarsi responsabilmente al sistema autodisciplinare,
piuttosto che sostenere gli ingenti esborsi imposti dalle vie legali, senza
tenere in considerazione le vicissitudini e farraginosità che queste
comportano.
Uno dei principi cardine di tutta l’autodisciplina anglosassone è la
salvaguardia della concorrenza, tutte le imprese pubblicitarie devono
«partecipare al gioco» in posizione di perfetta parità formale e
sostanziale, a tal fine disponendo del medesimo strumentario normativo.
Il CAP code ha essenzialmente una funzione preziosamente coadiutrice
per gli inserzionisti, ancor prima che sanzionatoria, costituendo per essi
una vera e propria «bussola» per orientarsi nelle mille insidie poste dal
mercato.
Un altro punto di forza del CAP code è senz’altro la sua sostanza
duttile e malleabile, profondamente sensibile alle esigenze di un mercato
23
pubblicitario in continuo e rapido divenire.
Le norme contenute nel CAP code non brillano soltanto di luce
propria, molte costituendo estrinsecazione di principi imposti a livello
legislativo. Al riguardo l’ASA afferma: «The advertising industry has
chosen to exercise this self-restraint not only to make further legislation
unnecessary, but also as a public demonstration of its commitment to high
standards in advertising. Because the system works successfully, the UK
Government has not needed to regulate directly. However, that doesn’t
mean that the views of politicians – or civil society and the wider industry
- on advertising regulation are unimportant, so we actively seek out their
views on our work. Across the European Union (EU) there is a unified
piece of consumer protection legislation to prevent the use of misleading
or unfair trading practices. This law, called the Unfair Commercial
Practices Directive, has been translated into UK law to make sure that
we have the same rules as all the other countries in the EU. The ASA
works within this legal framework to make sure that UK advertising is not
misleading or unfair. The ASA is able to refer advertisers who
persistently break the Advertising Codes and don’t work with us to other
bodies for the further action, such as Trading Standards or Ofcom. The
ASA is considered the ‘established means’ for gaining compliance with
both these pieces of legislation. This means that the law itself is not
usually enforced formally through the courts; instead the ASA is first
allowed to tackle any problems under the Advertising Codes. This
approach works well in the overwhelming majority of cases. The ASA is
able to take action quickly and this avoids clogging up our court
system.Referral is rarely necessary, as most advertisers prefer to work
with the self-regulatory system».
Pertanto, attraverso il ricorso all’autodisciplina pubblicitaria si attua
24
non soltanto un’importante deflazione del contenzioso giurisdizionale ma
altresì la coercibilità di parametri comportamentali assai elevati e
sensibilmente più rigorosi di quelli richiesti dalla legge. Da ciò discente
un fondamentale corollario: il carattere assolutamente residuale e financo
marginale dell’intervento del formante legislativo nella regolamentazione
del settore pubblicitario.
3.
Il BCAP code si applica «to all advertisements (including
teleshopping, content on self-promotional television channels, television
text
and
interactive
television
advertisements)
and
programme
sponsorship credits on radio and television services licensed by Ofcom. It
is designed to inform advertisers and broadcasters of the standards
expected in the content and scheduling of broadcast advertisements and
to protect consumers».
La redazione del BCAP code è affidata ad un apposito comitato, il
Broadcast Committee of Advertising Practice (BCAP).
Nel novembre 2004, l’ASA ha assunto la responsabilità per il
mantenimento di precisi standards per la pubblicità trasmessa a mezzo di
emittenti televisive e radiofoniche nel Regno Unito. Il nuovo protocollo
regolamentare ha determinato un significativo cambiamento in termini di
semplificazione e razionalizzazione del sistema. L’opera che fino ad
allora era stata svolta in modo frazionato e destrutturato da una
molteplicità di differenti organismi è adesso coagulata in capo all’Ofcom.
Da ciò discende che, per la prima volta, le campagne pubblicitarie
televisive e radiofoniche siano assoggettabili al giudizio di una medesima
Autorità.
L’Ofcom deve rispettare il dovere assunto statutariamente di
vigilare affinché la pubblicità trasmessa dalle emittenti sia conforme agli
25
standard stabiliti.
Cionondimeno, il Communications Act del 2003, contenente
principi per una migliore autoregolamentazione, impone alla Ofcom di
perseguire forme di regolamentazione alternative al fine di implementare
e ottimizzare il sistema normativo vigente. Nasce così, nel 2004, una
fruttuosa quanto proficua collaborazione con l'ASA, collaborazione
esplicantesi in una solidale e costante opera di coordinamento normativo
e, in ultima analisi, di vera e propria co-regolamentazione.
Volendo tratteggiare succintamente l’atteggiarsi dei rapporti tra
l’ASA, la Ofcom e il BCAP: l’ASA è tenuta a vigilare affinché le
pubblicità trasmesse a mezzo di televisione o radio siano conformi al
BCAP code e, ove riscontri qualsivoglia violazione del codice, ad
intervenire tempestivamente. Inoltre, ove lo ritenga strettamente
necessario per la gravità e serietà della violazione, l’ASA può rivolgersi
all’Ofcom affinché vengano promosse ulteriori azioni e adottati ulteriori e
più efficaci provvedimenti sanzionatori. Infine, il Broadcast Committee
of Advertising Practice (BCAP) è responsabile della scrittura e del
costante aggiornamento del BCAP code, conservando l’Ofcom l’ultima
parola su quelle modifiche al Codice che per il loro carattere strutturale ed
eminentemente invasivo, importino modifiche emendamentali di non
scarsa importanza all’impianto codicistico (14).
(14) L’appendice al BCAP code descrive dettagliatamente le incombenze della
Ofcom, enunciando: «1 The Communications Act 2003 requires Ofcom to set, and
from time to time review and revise, codes containing such standards for the content of
television and radio services licensed under the Broadcasting Acts 1990 and 1996 as
seem to Ofcom to be best calculated to secure the standards objectives. Sections 319(1),
319(3).
2 Ofcom has contracted-out its advertising standards codes function to the
Broadcast Committee of Advertising Practice Limited (BCAP) under the Contracting
Out (Functions Relating to Broadcast Advertising) and Specification of Relevant
Functions Order 2004. That function is to be exercised in consultation with, and with the
agreement of, Ofcom.
26
3 These provisions imposed on Ofcom by the Communications Act are
therefore relevant to BCAP:
3.1 The standards objectives, insofar as they relate to advertising, include:
(a) that persons under the age of 18 are protected;
(b) that material likely to encourage or incite the commission of crime or lead
to disorder is not included in television and radio services;
(e) that the proper degree of responsibility is exercised with respect to the
content of programmes which are religious programmes;
(f) that generally accepted standards are applied to the contents of television
and radio services so as to provide adequate protection for members of the public from
inclusion in such services of offensive and harmful material;
(h) that the inclusion of advertising which may be misleading, harmful or
offensive in television and radio services is prevented;
(i) that the international obligations of the United Kingdom with respect to
advertising included in television and radio services are complied with [in particular in
respect of television those obligations set out in Articles 3b, 3e,10, 14, 15, 19, 20 and 22
of Directive 89/552/EEC (the Audi Visual Media Services Directive)];
(l) that there is no use of techniques which exploit the possibility of conveying
a message to viewers or listeners, or of otherwise influencing their minds, without their
being aware, or fully aware, of what has occurred” Section 319(2). 3.2 In setting or
revising any such standards, Ofcom must have regard, in particular and to such extent as
appears to them to be relevant to the securing of the standards objectives, to each of
these matters:
“(a) the degree of harm or offence likely to be caused by the inclusion of any
particular sort of material in programmes generally, or in programmes of a particular
description;
(b) the likely size and composition of a potential audience for programmes
included in television and radio services generally, or in television and radio services of
a particular description;
(c) the likely expectation of the audience as to the nature of a programme’s
content and the extent to which the nature of the programme’s content can be brought to
the attention of potential members of the audience;
(d) the likelihood of persons who are unaware of the nature of the programme’s
content being unintentionally exposed, by their own actions, to that content;
(e) the desirability of securing that the content of services identifies when there
is a change affecting the nature of a service that is being watched or listened to and, in
particular, a change that is relevant to the application of the standards set under this
section...”. Section 319(4).
3.3 Ofcom must ensure that the standards from time to time in force under this
section include:
“(a) minimum standards applicable to all programmes included in television
and radio services; and
(b) such other standards applicable to particular descriptions of programmes, or
of television and radio services, as appeared to them appropriate for securing the
standards objectives.” Section 319(5).
3.4 Standards set to secure the standards objectives [specified in para 3(e)
27
above] shall in particular contain provision designed to secure that religious programmes
do not involve:
“(a) any improper exploitation of any susceptibilities of the audience for such a
programme; or
(b) any abusive treatment of the religious views and beliefs of those belonging
to a particular religion or religious denomination.” Section 319(6).
3.5 Standards set by Ofcom to secure the objectives [mentioned in 3(a), (h) and
(i) above]:
“(a) must include general provision governing standards and practice in
advertising and in the sponsoring of programmes; and
(b) may include provision prohibiting advertisements and forms of methods of
advertising or sponsorship (whether generally or in particular circumstances).” Section
321(1). [NB: “Programme” includes an advertisement Section 405(1)]
4 In addition the Broadcasting Act 1996 section 24(2) contains provisions
permitting advertising on analogue ancillary services on channels 3, 4 and 5 only if
directly related to advertising on the main service and digital ancillary services may
carry no advertising of any kind.
5 BCAP works closely with the Committee of Advertising Practice to provide,
insofar as is practicable and desirable, a co-ordinated and consistent approach to
standards setting across broadcast and non-broadcast media.
6 The procedures for revision of the BCAP Codes, including consultation, are,
to the extent applicable to BCAP’s exercise of statutory functions, set out at section 324
of the Communications Act 2003.
7 Ofcom retains standards-setting functions for:
(a) political advertising, the inclusion of which in television or radio services is
prohibited by section 321(2) Communication Act, including decisions on whether an
advertisement is “political advertising”. But the rules on that remain in the BCAP Codes;
(b) unsuitable programme sponsorship;
(c) discrimination between advertisers who seek to have advertisements
included in television and radio services. NB: Subject to that broadcasters, like
publishers and other media, are entitled to refuse advertisements they do not want to
carry;
(d) the amount and scheduling of advertising, save for the scheduling of
individual spot advertisements. Investigation and complaints
8 The Communications Act requires Ofcom to establish procedures for the
handling and resolution of complaints about the observance of standards (as set out in
the BCAP Advertising Code) and to include conditions in licences for programme
services requiring licence holders to comply with Ofcom’s directions in relation to
advertising standards. Sections 325(2), (4) and (5).
9 The Medicines (Monitoring of Advertising) Regulations 1994 require Ofcom
to consider complaints that an advertisement included, or proposed to be included, in a
licensed service or S4C is an impermissible advertisement for a medicinal product,
unless the complaint seems to Ofcom to be frivolous or vexatious.
10 Ofcom has contracted-out its powers of handling and resolving complaints
about breaches of the BCAP Codes and the relevant provisions of The Medicines
(Monitoring of Advertising) Regulations to the Advertising Standards Authority
28
(Broadcast) Limited (ASA(B)) under The Contracting Out (Functions Relating to
Broadcast Advertising) and Specification of Relevant Functions Order 2004.
11 ASA(B) will work closely with and under the umbrella of the Advertising
Standards Authority to provide, insofar as is practicable and desriable, a co-ordinated
and consistent approach to advertising standards regulation across broadcast and
nonbroadcast media.
12 Ofcom retains complaint investigation functions in respect of:
(a) political advertising;
(b) unsuitable sponsorship;
(c) discrimination between advertisers and
(d) scheduling of advertisements.
Statutory sanctions for breaches of advertising standards
13 Ofcom has similarly contracted-out its enforcement powers under the
Communications Act, such that ASA(B) has these powers (including in relation to the
Welsh Authority) for the purpose of securing compliance with the BCAP Codes, and
with any additional requirements in licences for programme services in relation to
advertising:
(a) to require a licence holder to exclude from its programme service an
advertisement or to exclude it in certain circumstances (Section 325(5)(a));
(b) to require a licence holder to exclude from its service certain descriptions of
advertisements and methods of advertising (whether generally or in certain
circumstances) (Section 325(5)(b)). In respect of the additional licence requirements,
such power may be exercised by ASAB only for impermissible medical
advertisements; NB: Detailed reasons must be given for any of those actions in relation
to a medicinal product advertisement and reference must be made to any remedy
available in court and any time limit that must be met. (MMAR 1994 Regulation 9);
(c) to require, from any person who to ASA(B) seems to be responsible for an
advertisement, provision of evidence relating to the factual accuracy of any claim and to
deem a factual claim inaccurate if such evidence is not so provided (Broadcasting Act
1990 s.4(1)(c) and 87(1)(d) and Broadcasting Act 1996 s.4(1)(c) and 43(1)(d)).
15 Ofcom retains these powers conferred by the Broadcasting Acts 1990 and
1996 and the Communications Act 2003:
(a) to direct the broadcast of a correction or statement of findings
(b) to impose a financial penalty or shorten a licence period and
(c) to revoke a licence.
Overseas advertising
16 Licensees should seek BCAP’s advice if they want to have any rules in the
Code disapplied because the advertising is on a programme service addressed
exclusively to audiences outside the UK.
17 An advertisement that is aimed specifically and with some frequency at
audiences in the territory of a single party to the 1989 Council of Europe Convention on
Transfrontier Television must, with some exceptions, comply with the television
advertising rules of that party. This does not apply:
(a) if the party is a Member State of the European Community or
(b) if its television advertising rules discriminate between advertising broadcast
on television services within its jurisdiction and that on services outside its jurisdiction
29
4.
L’effettività del sistema sanzionatorio è senza alcun dubbio
uno dei principali punti di forza del sistema di autodisciplina pubblicitaria
britannico. Affinché sia garantita la concretezza e la tempestività della
risposta sanzionatoria, il sistema autodisciplinare d’oltremanica ha
architettato un modulo organizzativo fondato sull’efficientismo e la
trasparenza, attuando un preciso riparto delle competenze tra gli
organismi coinvolti.
Per quanto riguarda le pubblicità trasmesse dalle emittenti televisive
o radiofoniche, ricade sulle stesse emittenti la responsabilità di intervenire
attivamente affinché le sanzioni irrorate siano ossequiosamente rispettate,
interrompendo, modificando o provvedendo alla riprogrammazione della
pubblicità condannata. L’obbligo per le emittenti di far rispettare le
sentenze dell’ASA deriva direttamente dai contratti di licenza per la
trasmissione di pubblicità televisive o radiofoniche sottoscritti dalle
emittenti televisive o radiofoniche con gli inserzionisti. Ove le pubblicità
incriminate non siano sollecitamente modificate o cessate, l’ASA potrà
segnalare all’Ofcom le emittenti inadempienti, affinché questa proceda
all’irrorazione di sanzioni pecuniarie o, nei casi più gravi, a sospensione o
ritiro della licenza.
Quando una pubblicità è colpita da sanzione inibitoria il danno che
ne consegue per l’inserzionista è immenso, sia sotto il profilo del danno
emergente, ossia dell’investimento pecuniario sostenuto per realizzare la
campagna, che del lucro cessante, ovvero delle prospettive di guadagno
correlate alla trasmissione della pubblicità censurata.
La stragrande maggioranza delle sanzioni previste per le pubblicità
or
(c) if the UK Government has concluded a relevant bilateral or multilateral
agreement with the party concerned».
30
non broadcast sono coordinate tramite il CAP, i cui membri sono le
associazioni di categoria che rappresentano gli inserzionisti, agenzie e
media. Lo strumentario sanzionatorio predisposto dal CAP è assai
variegato, al fine di consentire all’ASA la scelta della misura più
rispondente alle esigenze del caso, secondo precisi criteri di adeguatezza,
proporzionalità ed opportunità della risposta sanzionatoria. Il CAP, dal
suo canto può dispensare consigli e suggerire linee giuda ai suoi membri,
vigilando oculatamente sull’accesso agli spazi pubblicitari nonché sulle
concrete modalità di gestione degli stessi.
Una delle più consuete sanzioni previste dal CAP code è la revoca
perpetua o temporanea dei c.d. «trading privileges», ovvero il ritiro o la
mera sospensione dei privilegi commerciali.
Nei casi di recidiva, o, in ogni caso, in quelli più gravi, può essere
intimato all’inserzionista di sottoporre la propria attività pubblicitaria a
periodici controlli preventivi per la durata massima di due anni.
Ove l’inserzionista si sia rifiutato di ottemperare agli obblighi
imposti dall’ASA in materia di pubblicità ingannevole o sleale, questi
verrà segnalato all’Office of Fair Trading affinché venga istruito apposito
procedimento giudiziario, in ossequio a quanto previsto dal Consumer
Protection from Unfair Trading Regulations 2008 e dal Business
Protection from Misleading Marketing Regulations 2008.
Preme osservare che si tratta di ipotesi meramente scolastiche,
verificatesi assai di raro nella prassi giurisprudenziale, giacché gli
inserzionisti preferiscono di gran lunga risolvere il contenzioso in ambito
autodisciplinare, paventando un dirottamento in sede giurisdizionale.
Infine, verrà senz’altro irrorata la consueta sanzione inibitoria nei
confronti di inserzionisti e agenzie la cui condotta si sia estrinsecata in
modo irriverente ed irrispettoso nei confronti del Codice, con la
31
conseguente violazione delle norme in esso contenute.
Quanto alla pubblicità online, il CAP prevede ulteriori e specifiche
sanzioni.
Il CAP può chiedere ai siti web di rimuovere un annuncio che
reindirizzi ad ulteriori pagine web ospitanti le pubblicità non conformi al
Codice. Ove l’inserzionista online non si adoperi spontaneamente per
rimediare agli effetti pregiudizievoli dispiegati frattanto dalla pubblicità
incriminata, sospendendola o modificandola, l’ASA disporrà l’ulteriore
sanzione della pubblicazione della emanata decisione nell’apposita
sezione del sito ufficiale ASA e, se necessario, anche su altri siti internet.
Quanto, infine ai video-on-demand, il mancato rispetto delle norme
in Appendice VOD può comportare che la questione sia sottoposta alla
cognizione della Ofcom, al fine di verificare se il fornitore di servizi ha
violato le relative disposizioni di legge in materia.
32
SEZIONE III
L’AUTODISCIPLINA PUBBLICITARIA IN ITALIA
SOMMARIO: 1. Premessa. — 2. Le finalità dell’Autodisciplina pubblicitaria: dal
Codice di Lealtà Pubblicitaria al nuovo Codice di Autodisciplina della Comunicazione
Commerciale. — 3. Modalità di adesione all’Autodisciplina pubblicitaria: l’adesione per
via associativa e l’adesione per sottoscrizione della clausola di accettazione. — 4.
Qualificazione giuridica della clausola di accettazione: lo schema del contratto a favore
di terzo. — 4.1 Il contratto pubblicitario stipulato per condizioni generali. — 4.2 La
clausola di accettazione come clausola d’uso o uso normativo. — 5. Ipotesi
interpretative sulla natura giuridica dell’Autodisciplina pubblicitaria.
1.
«Some consumerists and international lawyers have been
critical of Italian self regulation in that they do not think that consumers’
interests are adeguately represented on the committee, nor that the
voluntary control has enought strenght in its penalties ( 15 )». “ne
représente pas de manière équitable et adéguate les intérêts du
consommateur. […] L’imperfection de ce système s’explique en grande
partie par la relation qui existe entre la Confédération générale italienne
de la publicitè et les milieux industriels (16)»; «it is very easy to endeed to
point aut the existing ties between the Italian General Confederation for
Advertising and the economic and editorial power (17)». Si tratta soltanto
di un esempio delle poco lusinghiere asserzioni che indorano il prestigio
delle Istituzioni autodisciplinari italiane. Come rettamente osserva
un’autorevole dottrina «sembra intollerabile che sul piano internazionale
(15) BURLETON, Self Regulation of Advertising in Europe, in Atti del Convegno
Forum Internazionale sell’Autodisciplina Pubblicitaria, Venezia, 23-24 ottobre 1981.
(16) REICH, MICKLITZ, Le Droit de la Consommation dans les Pays Membres de
la CEE, Bath 1981. Le espressioni sopra riportate sono quantomeno sconvenienti e
suggestionanti, dal momento che affermano, in modo assolutamente pretestuoso,
l’esistenza di una patologica collusione tra gli organi autoregolamentari italiani e i
grandi mezzi di diffusione, di talché sarebbe inibito a quegli stessi organi di esplicare le
proprie funzioni istituzionali in piena autonomia ed indipendenza.
(17) GHIDINI, Consumer Legislation in Italy, Southampton, 1980.
33
venga ad accreditarsi un’immagine dell’autodisciplina italiana che è falsa,
tendenziosa, e assolutamente non rispondente alla realtà; che negli studi
comparativi la nostra formula autodisciplinare debba portarsi dietro un
ingiusto marchio di inefficienza e disonestà che la penalizza gravemente
nel confronto con altri (certamente non più validi) sistemi di self
regulation; e che delle mere insinuazioni, tanto più riprovevoli in quanto
prive di qualsiasi base concreta e formulate solo o per disinformazione o,
peggio ancora, per il gusto tutto italiano di demolire anche le istituzioni
più degne, possano non solo trovar credito ma divenire d’obbligo ogni
volta che si parli dell’autodisciplina nel nostro paese» ( 18 ). Ed invero
l’autodisciplina italiana si è sempre contraddistinta per un invidiabile
efficientismo organizzativo, per la tempestività delle decisioni, nonché
per l’autorevolezza delle proprie istituzioni, dando un mirabile esempio di
serietà ed autorevolezza.
2.
Il processo codificatorio di norme autodisciplinari in
materia pubblicitaria si atteggia quale fenomeno di natura squisitamente
privatistica. Il suddetto fenomeno principiò a delinearsi in Italia in epoca
relativamente risalente, conducendo, nel 1966, alla emanazione Codice
della Lealtà Pubblicitaria ad opera dell’Istituto di Autodisciplina
Pubblicitaria al fine di supplire alla mancanza di una disciplina statuale
del fenomeno pubblicitario (19).
(18) FUSI, TESTA, L’Autodisciplina pubblicitaria in Italia, Milano, 1983.
(19) FUSI, TESTA, Diritto e pubblicità, Milano, 1996; MELI, La repressione della
pubblicità ingannevole, Torino, 1994; FUSI, TESTA, COTTAFAVI, La pubblicità
ingannevole, Milano, 1993. È opinione ormai consolidata presso dottrina e
giurisprudenza maggioritarie, quella secondo cui l’Istituto di Autodisciplina
Pubblicitaria abbia natura di ente morale, privo di scopo di lucro, e pertanto sussumibile
nel novero delle associazioni non riconosciute, regolate dall’art. 12 c.c. Lo IAP si
propone di agire «affinché la pubblicità sia onesta, veritiera e corretta e venga realizzata
come servizio per l’informazione dei consumatori», il che tradisce l’impronta
34
Le finalità perseguite dall’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria
sono riconducibili, primariamente, alla salvaguardia dell’interesse del
fruitore del messaggio pubblicitario a non subire forme di sviamento nelle
proprie scelte di consumo o di pregiudizio nella proprie convinzioni
morali
o
ideali;
secondariamente,
alla
tutela
dell’interesse
dell’imprenditore, di natura squisitamente concorrenziale, a non essere
oltraggiato dalla slealtà e scorrettezza delle pratiche pubblicitarie altrui.
Con riferimento alla summentovata protezione del consumatore vengono
in rilievo, con particolare riferimento al tema che ci occupa, gli artt. 8, 9 e
10 del Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale.
L’art. 8 dispone che «la comunicazione commerciale deve evitare ogni
forma di sfruttamento della superstizione, della credulità e, salvo ragioni
giustificate, della paura». Gli artt. 9 e 10 recitano rispettivamente: «la
comunicazione commerciale non deve contenere affermazioni o
eminentemente deontologica che ha caratterizzato i primi anni di vita dell’Istituto, sia del
Codice di Autodisciplina. Ne fanno parte organismi rappresentativi delle differenti
categorie di operatori pubblicitari tra cui si annoverano le più importanti e qualificate
Associazioni del mondo pubblicitario ovvero, le imprese e gli enti che investono in
pubblicità, le organizzazioni professionali e i professionisti, i mezzi di diffusione della
pubblicità e le loro concessionarie. Va immediatamente chiarito come «lo IAP sia il
punto di arrivo, e non di partenza, dell’esperienza corporativa nel settore della
pubblicità. Si ricordano l’Associazione dei Mezzi e delle Agenzie e l’Associazione dei
Tecnici e degli Artisti Pubblicitari (ATAP), costituite tra il settembre e l’ottobre del
1945; l’anno successivo nasce l’Unione Italiana Pubblicità, destinata a mutarsi in FIP
(Federazione Italiana della Pubblicità). Dall’opera di un gruppo di utenti prende vita,
nello stesso periodo, un organismo parallelo, capace, nelle intenzioni dei promotori, di
sostenere in ogni sede e a ogni livello gli interessi, non soltanto tecnici e operativi, ma
soprattutto economici, dell’utenza pubblicitaria. Si tratta della nascitura UPA, Utenti
Pubblicità e Associati, più tardi coinvolta nell’esperienza dell’Istituto di Autodisciplina.
Sia l’UPA che la FIP si muniscono di propri Codici di Autodisciplina, rispettivamente
nel 1951 e 1952; si tratta però di esperienze dal contenuto essenzialmente deontologico,
etico e quindi paragiuridico, prive di un apparto sanzionatorio, e tese più che altro a
racchiudere in sé le pratiche e gli usi più diffusi nel settore». Così CORASANTIVASSELLI, Diritto della comunicazione Pubblicitaria, in Diritto Europeo dei Media,
Torino, 1999, pag. 116.
35
rappresentazioni di violenza fisica o morale o tali che, secondo il gusto e
la sensibilità dei consumatori, debbano ritenersi indecenti, volgari o
ripugnanti» e «la comunicazione commerciale non deve offendere le
convinzioni morali, civili e religiose. Essa deve rispettare la dignità della
persona in tutte le sue forme ed espressioni e deve evitare ogni forma di
discriminazione». Da quanto esposto emerge con evidenza lapalissiana la
finalità protettiva dell’autodisciplina rispetto al fisiologico estrinsecarsi
degli atteggiamenti di consumo, oltreché al genuino formarsi di quel
libero convincimento che tali atteggiamenti precede. Ciò vale tanto più
ove si consideri che il consumatore, sino all’intervento del d.lgs. 25
gennaio 1992 n. 74, non disponeva di alcuno strumento processuale
azionabile contro il messaggio pubblicitario scorretto ( 20 ), essendo la
disciplina dettata dall’art. 2598 ss c.c. soggettivamente delimitata ai casi
di sussistenza di un rapporto concorrenziale tra imprenditori ( 21 ). Una
(20) Il danno da pubblicità subito dal consumatore rimaneva del tutto irrilevante
non esistendo alcuno strumento processuale utilmente esperibile, non l’azione di
annullamento o quella di esatto adempimento, non quella risarcitoria dei danni
contrattuali o extracontrattuali, e ciò essenzialmente per due fondamentali ragioni: in
primo luogo perché stante la diversità tra venditore del prodotto pubblicizzato e autore
del messaggio pubblicitario non si riteneva invocabile una tutela contro il primo per atti
posti in essere dal secondo e, inoltre, perché l’attività pubblicitaria tutta era
unanimamente considerata come un insieme di mere invitationes ad offerendum prive di
rilevanza giuridica. Con le parole di Ghidini: «si deve ritenere inammissibile che un
legislatore di benché minime preoccupazioni etiche possa accordare protezione ad
interessi economici direttamente con l’avallare il sacrificio programmatico della buona
fede del pubblico», GHIDINI, La réclame menzognera come atto di concorrenza sleale, in
Riv. dir. civ., 1967, I, pag. 406 ss.
( 21 ) BUONOCUORE, Contrattazione d’impresa e nuove categorie contrattuali,
Milano, 2000, pag. 101, il quale precisa che il d.lgs. 74/92 considera il consumatore
quale «destinatario diretto di una tutela contro gli abusi di cui egli può essere oggetto
anche al di fuori della fase della contrattazione e in funzione propedeutica rispetto a
questa ovvero anche dopo la conclusione del contratto per essere indennizzato a causa
dei danni subiti a causa di questo». Nello stesso senso anche SACCO, DE NOVA, Il
contratto, in Tratt. dir. civ, diretto da Sacco, Torino, 1993, pag. 430, che afferma
l’idoneità del mendacio pubblicitario di cui al d.lgs. 74/92 a pregiudicare interessi
giuridicamente tutelati del consumatore, assurgendo a dignità di regola generale: «la
36
siffatta situazione era il frutto di un retaggio culturale assai radicato. In
molteplici occasioni la giurisprudenza e la dottrina, affrontando l’annoso
problema del danno pubblicitario arrecato al concorrente così come al
consumatore, hanno affermato «che il messaggio pubblicitario, in difetto
di lesione della reputazione del concorrente (oggetto sin da epoca
anteriore all’emanazione dell’attuale codice civile di una assai intensa
tutela), […] non può essere veicolo di lesioni rilevanti ai diritti altrui, in
quanto mera vanteria commerciale, o iperbole per sua natura non in grado
di influenzare alcuno, proveniente da soggetti, come i commercianti,
notoriamente inclini all’inganno, delle affermazioni dei quali, di
conseguenza, chiunque giustamente diffida. […] Una simile ricostruzione
era già anacronistica al momento stesso della sua massima fortuna: in
realtà, essa esprimeva, dissimulandola in vario modo, la scelta di
imputare i costi della pubblicità ingannevole alle sue vittime» (22). Queste
posizioni, così chiaramente insufficienti ad assicurare una soddisfacente
protezione dei consumatori dal danno da pubblicità, vennero superate
grazie al progressivo affermarsi di un filone giurisprudenziale incline a
riconoscere che «la decezione pubblicitaria può essere fonte di danno di
per sé, in quanto causa effettiva di illegittimo sviamento della clientela, a
prescindere da qualsiasi lesione della reputazione di uno o più
concorrenti» (23).
pubblicità mendace è l’esempio paradigmatico del mendacio. Dalla pubblicità mendace
si risale al mendacio in genere, per constatare che il mendacio è raggiro»; FLORIDA, Il
controllo della pubblicità comparativa in Italia, in Il Diritto Industriale, 1998, 2, pag.
165 ss; GAMBINO, La tutela del consumatore nel diritto della concorrenza: evoluzioni ed
involuzioni legislative, anche alla luce del d.lgs. 25 gennaio del 1992 in materia di
pubblicità ingannevole, in Contr. e impr., 1992, I, pag. 411 ss; ROSSI, La pubblicità
dannosa, Milano, 2000, pag. 156 ss;
(22) ROSSI, La pubblicità dannosa, cit., pag. 12 ss.
(23) ROSSI, La pubblicità dannosa, cit., pag. 14. Secondo l’Autore l’evoluzione
giurisprudenziale di cui sopra reca con sé i segni della parzialità, e ciò perché l’ormai
obsoleta categoria concettuale del dolus bonus continua ad essere invocata da certa
37
Superato il vischioso immobilismo dell’ordinamento nazionale
grazie all’intervento esogeno del formante comunitario, la legislazione
statuale, pervasa da nuova linfa, offre oggi al consumatore un’immediata
ed effettiva tutela
verso tutti
quei
messaggi
pubblicitari che
contravvengono ai canoni di onestà, veridicità e correttezza, attraverso il
riconoscimento e la promozione del ruolo dell’autodisciplina e la
repressione del mendacio pubblicitario.
Sin dai suoi primi anni di vita l’Istituto di Autodisciplina
Pubblicitaria ha dedicato particolare attenzione alla necessità di costante
aggiornamento del Codice di Autodisciplina, curandone la riedizione con
interventi contrassegnati da rigorosa periodicità. Con quest’incessante
opera di modernizzazione l’Istituto di Autodisciplina ha voluto
scongiurare il pericolo che il concreto operare dell’autoregolamentazione
potesse ingabbiarsi in un irreversibile immobilismo autoreferenziale. Tra
le opere di riedizione più significative si annovera quella del 21 gennaio
2008, data in cui è entrato in vigore il nuovo Codice di Autodisciplina
della Comunicazione Commerciale che sostituisce il Codice di
Autodisciplina Pubblicitaria, la cui prima pubblicazione risaliva al 12
maggio 1966.
Il nuovo Codice, approvato dal Consiglio Direttivo dell’Istituto di
Autodisciplina Pubblicitaria, amplia sensibilmente il campo di azione del
sistema autodisciplinare recependo gli interventi del legislatore
comunitario in materia di pratiche commerciali sleali e della stessa
giurisprudenza del Giurì, al fine di fornire un’adeguata tutela giuridica
riguardo alla marketing communication in senso ampio, talché non solo la
giurisprudenza in presenza di pubblicità contrassegnate da mere magnificazioni e
superlazioni del prodotto, nell’erroneo presupposto che persista una presunzione legale
di inidoneità di siffatti messaggi ad ingannare, come fossero ontologicamente protetti da
un velo di «non ingannevolezza».
38
pubblicità in senso stretto, ma anche le altre forme di comunicazione
commerciale possano essere sottoposte alla giurisdizione del Giurì.
Un posto di indiscusso rilievo occupa, nello screziato panorama
della legislazione comunitaria in materia di pratiche commerciali sleali, la
Direttiva 2005/29/CE, cui il nostro ordinamento ha dato attuazione con il
d.lgs. n. 146/2007. Tra le novità di maggior richiamo introdotte dalla
direttiva de qua merita di essere rammentata quella relativa all’adozione
di codici di condotta da parte delle associazioni ed organizzazioni
imprenditoriali e professionali, in relazione ad una o più pratiche
commerciali e ad uno o più settori imprenditoriali (24).
Le modifiche apportate nella riformulazione del Codice di
Autodisciplina
sono
indicative
Autodisciplina
Pubblicitaria
ad
della
tendenza
ampliare
dell’Istituto
notevolmente
la
di
sfera
d’influenza dell’autoregolamentazione. Il più vistoso suggello di tale
tendenza è senz’altro costituito dalla sostituzione della dizione «Codice di
Autodisciplina Pubblicitaria» con quella di «Codice di Autodisciplina
della
Comunicazione
Commerciale».
Tale
riformulazione,
lungi
dall’atteggiarsi quale orpello di carattere meramente terminologico,
raccoglie in sé i risultati più preziosi delle interpretazioni sostanziali della
(24) Dispone a proposito l’art. 10 della Dir. 2005/29/CE, relativa alle pratiche
commerciali sleali tra imprese e consumatori nel mercato interno e che modifica la
direttiva 84/450/CEE e le direttive 97/7/CE, 98/27/CE e 2002/65/CE, e il regolamento n.
2006/2004, «La presente direttiva non esclude il controllo, che gli Stati membri possono
incoraggiare, delle pratiche commerciali sleali esercitato dai responsabili dei codici né
esclude che le persone o le organizzazioni di cui all’articolo 11 possano ricorrere a tali
organismi qualora sia previsto un procedimento dinanzi ad essi, oltre a quelli giudiziari o
amministrativi di cui al medesimo articolo. Il ricorso a tali organismi di controllo non è
mai considerato equivalente alla rinuncia agli strumenti di ricorso giudiziario o
amministrativo di cui all’articolo 11». Una simile previsione era già contenuta nell’art. 5
della Direttiva 84/450/CEE relativa al ravvicinamento delle disposizioni legislative,
regolamentari ed amministrative degli Stati Membri in materia di pubblicità
ingannevole. Per una più accurata lettura si rinvia al testo integrale della direttiva in
parola, nonché dei dd.lgs. n. l45/2007 e n. 146/2007.
39
giurisprudenza del Giurì, che ha sempre inteso privilegiare un’esegesi non
formalistica e pragmaticamente orientata del termine «pubblicità»
imposta da esigenze di tutela effettiva. Molteplici ed interessanti sono le
implicazioni di questo pregevole «rifacimento» a seguito della quale non
potrà più essere pretestuosamente disconosciuta la legittimità
di
intervento del Giurì in materia di promozioni commerciali, di direct
marketing, di comunicazioni commerciali diffuse attraverso i new media,
oltreché negli eventi e nelle relazioni pubbliche in cui si promuova a
qualunque titolo la vendita di beni o servizi (25).
(25) Le modificazioni apportate al Codice di Autodisciplina dal recepimento della
legislazione comunitaria sono copiose. Sopra tutte, desta particolare interesse la nuova
ricognizione definitoria della locuzione «comunicazione commerciale», (Norme
Preliminari e Generali, lettera d), intesa come comprensiva di «pubblicità e ogni altra
forma di comunicazione, anche istituzionale, diretta a promuovere la vendita di beni o
servizi quali che siano le modalità utilizzate, nonché [del]le forme di comunicazione
disciplinate dal titolo VI». Dall’anzidetto novero rimangono escluse, per espressa
disposizione, le politiche commerciali e le tecniche di marketing. Di notevole portata
innovativa è, altresì, l’espressa specificazione secondo cui la natura del prodotto o del
servizio, in sé considerata, non forma oggetto del codice. La novità di maggior rilievo è
certamente costituita dalla rimodulazione del canone dell’avvedutezza del consumatore,
così come descritto nell’art. 2 del Codice di Autodisciplina: l’ormai obsoleto parametro
del «consumatore più sprovveduto», che per svariati lustri aveva costituito l’indiscusso
criterio di misura dell’ingannevolezza», è stato rimpiazzato da quello del «consumatore
medio appartenente ad un determinato gruppo di riferimento». Non può certo dubitarsi
del fatto che, a seconda del tipo di prodotto o servizio, le tipologie soggettive di
consumatori mutino sensibilmente, mutando con esse le capacità di discernimento e
avvedutezza. Si pensi, a titolo meramente esemplificativo, ai consumatori di prodotti
altamente tecnologici, costoro dispongono indubbiamente di una più mitigata capacità di
suggestione rispetto ad altre utenze, per l’evidente considerazione che appartengono ad
un gruppo culturalmente preparato e sofisticato, attrezzato per cogliere le diverse
sfumature del messaggio pubblicitario. Specularmente, pare ragionevole che il
consumatore medio, nella misura in cui non disponga di quel complesso strumentario
conoscitivo che renda più agevole e immediata l’individuazione delle peculiari
caratteristiche del prodotto che si accinge ad acquistare, abbisogni di una più penetrante
protezione.
Da quanto brevemente esposto si coglie il carattere epocale della svolta che ha
interessato l’Autodisciplina con particolare riguardo alla tutela del consumatore, i cui
interessi sono ora protetti indipendentemente dalle peculiari modalità di estrinsecazione
della comunicazione commerciale.
40
Parimenti rilevante è la previsione contenuta all’art. 27 bis del
Codice del Consumo, così come modificato dal d.lgs. n. 146/2007,
secondo cui i consumatori ed i concorrenti, anche per il tramite delle loro
associazioni o organizzazioni, prima di avviare la procedura davanti
all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, possono convenire
con il professionista di adire preventivamente un organismo di
autodisciplina affinché venga vietata o inibita la prosecuzione della
pratica commerciale scorretta.
3.
L’affermazione
secondo
la
quale
il
Codice
di
Autodisciplina della Comunicazione Commerciale abbia un’efficacia
soggettiva limitata, seppure ineccepibile da un punto di vista formale e
definitorio, pare oggi obsoleta oltreché gravemente irrispettosa della
realtà pubblicitaria (26). Si procederà di seguito all’illustrazione delle più
diffuse forme di adesione al Codice di Autodisciplina, al fine di dar conto
dell’insinuarsi dell’autodisciplina nelle pieghe più nascoste del mondo
pubblicitario. Una prima categoria sotto la quale possono essere sussunte
le modalità adesive al Codice di Autodisciplina è fortemente
contrassegnata dal fenomeno associativo (
27
). L’adesione per via
( 26 ) Illuminanti in tal senso sono le disposizioni contenute nelle Norme
Preliminari e Generali al Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale,
alle lettere b) e d), le quali stabiliscono rispettivamente che «il Codice […] è vincolante
per utenti, agenzie, consulenti di pubblicità e di marketing, gestori di veicoli pubblicitari
di ogni tipo e per tutti coloro che lo abbiano accettato direttamente o tramite la propria
associazione, ovvero mediante la sottoscrizione di un contratto di cui al punto d),
finalizzato all'effettuazione di una comunicazione commerciale» e che «per meglio
assicurare l'osservanza delle decisioni dell'organo giudicante, gli organismi aderenti si
impegnano a far sì che ciascun soggetto ad essi associato inserisca nei propri contratti
una speciale clausola di accettazione del Codice, dei Regolamenti autodisciplinari e delle
decisioni assunte dal Giurì, anche in ordine alla loro pubblicazione, nonché delle
ingiunzioni del Comitato di Controllo divenute definitive».
(27) PEDRIALI, Profili soggettivi dell’Autodisciplina Pubblicitaria, in Riv. dir. ind.,
1992, I, pag. 6 ss; DI CATALDO, Natura giuridica dell’Autodisciplina Pubblicitaria e
41
associativa riguarda, primariamente, tutti quegli organismi costituenti
l’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria o ad esso associati: per essi la
soggezione al sistema autodisciplinare deriva dall’obbligo di osservare le
delibere associative e lo statuto che espressamente adotti il Codice di
Autodisciplina per la regolamentazione dell’attività pubblicitaria (28). Nei
casi in oggetto l’adesione al Codice di Autodisciplina è pressoché
immediata, atteggiandosi come naturale corollario del fisiologico
svolgersi dei meccanismi associativi. Vi sono altri organismi per i quali
l’adesione al Codice di Autodisciplina dipende dall’appartenenza ad una
delle associazioni di categoria costituenti l’Istituto di Autodisciplina
Pubblicitaria, secondo lo schema delle associazioni secondarie o
complesse (29). Per costoro il processo adesivo può avvenire o mediante
una previsione statutaria che imponga espressamente l’osservanza del
Codice di Autodisciplina, o, assai più comunemente, attraverso la
previsione statutaria che prescriva l’obbligatorietà di tutte le delibere e
convenzioni adottate dall’associazione nel perseguimento dei propri fini
istituzionali, o, ancora, grazie a singole delibere assembleari che, nella
misura in cui non siano inficiate da invalidità, vincolino tutti gli associati.
Particolare interesse desta il problema della presunta vessatorietà
della clausola statutaria recante il rinvio al Codice di Autodisciplina. Ove
si assuma che la stessa presenti profili di vessatorietà, in quanto
qualificabile come clausola compromissoria, ci si potrà legittimamente
interrogare se sia sufficiente la mera approvazione dello statuto
delimitazione dell’ambito soggettivo di applicazione del Codice di Autodisciplina, in
Contr. e impr., 1991, pag. 11 ss; DA MOLO, I contratti di pubblicità, in Nuova giur. civ.
comm., 1990, II, pag. 291 ss.
( 28 ) GRAZZINI, Le modalità di Adesione, in Commentario al Codice
dell’Autodisciplina Pubblicitaria, a cura di Ruffolo, Milano, 2003, pag. 8 ss.
(29) PETTITI, Associazioni primarie, secondarie e parallele, in Studi in onore di
Greco, Padova, 1965, pag. 821 ss.
42
associativo nel suo complesso o occorra, piuttosto, la specifica
sottoscrizione della clausola secondo le regole generali dettate in materia
dagli artt. 1341, comma 2, c.c. ( 30 ). Occorre all’uopo dare atto di un
orientamento pressoché costante della giurisprudenza di legittimità a
tenore del quale le clausole vessatorie che abbisognano di espressa
approvazione per iscritto siano soltanto quelle contenute in contratti
seriali o di massa e non parrebbe pertanto necessaria l’adozione delle
formalità prescritte dall’art. 1341, comma 2, c.c. per la sottoscrizione dei
contratti associativi (31).
Al di fuori di questa complessa rete di relazioni associative, la
soggezione al codice di Autodisciplina si esplica mediante la c.d.
«clausola di accettazione» che i soggetti aderenti sono obbligati ad
(30) In particolare, occorre la sottoscrizione di ogni singola clausola vessatoria
oppure un’apposita dichiarazione che le richiami, riportando di ciascuna il numero
d’ordine e il contenuto. La mancata approvazione per iscritto di tali clausole comporta la
nullità delle stesse.
(31) Ex multis cfr. Cass., 14 agosto 1997, n. 7626, in Giust. Civ. mass., 1997, pag.
1430, secondo cui «possono qualificarsi come contratti per adesionem (riguardo ai quali
sussiste l’esigenza della specifica approvazione scritta delle cosiddette clausole
vessatorie, pena la invalidità degli stessi) soltanto quelle strutture negoziali destinate a
regolare una serie indefinita di rapporti, mentre non possono ritenersi tali, i contratti
predisposti da uno dei due contraenti con riferimento ad una singola, specifica vicenda
negoziale, ed a cui l’altro contraente possa, del tutto legittimamente, richiedere ed
approvare le necessarie modifiche dopo averne liberamente apprezzato il contenuto».
Nello stesso senso anche Cass., 6 dicembre 1999, n. 13605, ivi, 1999, pag. 2451; Cass., 9
ottobre 1996, n. 8824, ivi, 1996, pag. 1395. Cfr. altresì Cass., 16 gennaio 1986, n. 230, in
Giust. Civ. mass., 1986, fasc. 1, secondo cui «i contratti cosiddetti per adesione, con
riguardo ai quali l’art. 1341 comma 2 impone la specifica approvazione per iscritto, sono
quelli destinati a regolare una serie indefinita di rapporti, sia da un punto di vista
sostanziale, ove predisposti da un contraente esplicante attività negoziale verso vari
soggetti, sia anche da un punto di vista meramente formale, ove preordinati a mezzo di
moduli o formulari utilizzabili in serie. Non vale, pertanto, a configurare l’ipotesi sub
art. 1341 il fatto che il contenuto del contratto sia stato formulato da una sola delle parti
negoziali in modo che l’altra debba accettarlo o ricusarlo il blocco senza concorrere alla
sua formazione, quando lo schema o le condizioni predisposte non siano destinate a
servire una serie indefinita di rapporti».
43
inserire nei propri contratti di pubblicità (32). Tale obbligo è formalizzato
alla lettera d) delle Norme Preliminari e Generali, secondo cui «per
meglio assicurare l’osservanza delle decisioni dell’organo giudicante, gli
organismi aderenti si impegnano a far sì che ciascun soggetto ad essi
associato inserisca nei propri contratti una speciale clausola di
accettazione del Codice, dei Regolamenti autodisciplinari
e delle
decisioni assunte dal Giurì, anche in ordine alla loro pubblicazione,
nonché delle ingiunzioni del Comitato di Controllo». Il vincolo realizzato
attraverso la clausola di accettazione ha carattere effimero e occasionale,
esaurendo la propria efficacia nella singola vicenda contrattuale (33). A tal
proposito giova rammentare una storica pronuncia in cui il Giurì ebbe a
precisare che «l’utente che non abbia aderito al Codice di Autodisciplina
ma che si sia vincolato [allo stesso] in forza della clausola di accettazione
inserita nelle condizioni generali di contratto che regolano i contratti dei
mezzi con gli inserzionisti, è soggetta al Codice di Autodisciplina e al
potere decisorio del Giurì solo in relazione alla pubblicità diffusa
attraverso i mezzi che aderiscano al sistema autodisciplinare, non lo è,
invece, in relazione a pubblicità diffusa direttamente o attraverso i mezzi
non aderenti al sistema autodisciplinare» (34). La circostanza che, almeno
in tempi più risalenti, le agenzie aderenti abbiano adottato forme
( 32 ) V. Trib. Milano, 22 gennaio 1976, in Riv. dir. ind., 1977, II, pag. 91 ss.
secondo cui «la c.d. clausola di accettazione è lo strumento negoziale escogitato per
assoggettare al Codice di Lealtà gli utenti della pubblicità non associati all’Utenti
Pubblicità e Associati ai quali gli operatori pubblicitari ed in particolare i mezzi di
diffusione del messaggio richiedono di sottoscrivere la menzionata clausola nell’ambito
del contratto per la fornitura del servizio pubblicitario. Il senso profondo di tale
meccanismo contrattuale è stato giustamente illustrato mediante un parallelo con le
tecniche particolari con le quali le giurisdizioni corporative medievali e rinascimentali
estendevano la loro competenza ai terzi che contrattassero con i membri delle stesse
corporazioni».
(33) GRAZZINI, Le modalità di Adesione, cit., pag. 10 ss.
(34) Ex multis v. dec. n. 165/1997, 23 maggio 1997, Kimberly Clark Europe, Scott
s.p.a. c. Soffass s.p.a.
44
contrattuali inidonee a realizzare la soggezione dei committenti
all’Autodisciplina, così sottraendosi all’obbligo pattiziamente assunto di
subordinare la prestazione del servizio pubblicitario a beneficio delle parti
non aderenti alla sottoscrizione della clausola di accettazione, ha prodotto
una
sensibile
contrazione
della
potestas
decidendi
dell’organo
autodisciplinare, il quale, nei casi in esame, ha proceduto all’adozione di
decisioni nei soli confronti delle agenzie aderenti ( 35 ). Tali pronunce,
ancorché propriamente dirette soltanto ai «mezzi» aderenti, dispiegano
taluni effetti anche nei confronti dei soggetti non aderenti, i quali, nella
malaugurata ipotesi in cui intendessero aggirare le norme autodisciplinari,
dovranno preventivamente accertarsi che le agenzie predisponenti non
siano istituzionalmente o pattiziamente vincolate al Codice di
Autodisciplina (36).
Il carattere eminentemente pervasivo della clausola di accettazione,
insieme al fenomeno dell’associazionismo multilivello, ha condotto
l’Autodisciplina nelle maglie più recondite della comunicazione
commerciale, facendone un modello di autoregolamentazione la cui
(35) Tra le altre dec. n. 17/1981, Hanorah Italian s.p.a c. Christian Jacques di
Gaetano Trapani & C. s.a.s., New Advertising, Rizzoli Editore s.p.a., Arnoldo
Mondatori Editore s.p.a., Rusconi Editore, RAI-Radiotelevisione Italiana; 4/87, Soc. E.
Vsmara di A. Biffi & C.c. Regione Autonoma della Sardegna, Uni Advertising s.a.s.,
Promodis Italia Editrice.
(36) L’efficacia limitata delle decisioni del Giurì nei casi in cui vi siano «mezzi»
aderenti che non abbiano provveduto ad inserire la clausola di accettazione nelle
condizioni generali di contratto che disciplinano i contratti con gli inserzionisti è un
naturale corollario del principio della intangibilità della sfera giuridica individuale. In
esplicazione del principio della relatività degli effetti del contratto, la sfera giuridica
individuale non può essere scalfita dall’attività negoziale posta in essere da altri soggetti
e ciò indipendentemente dall’apprezzamento positivo o negativo degli effetti da questa
scaturenti. Purtuttavia, apparendo affetta da irragionevolezza la posizione che esclude
acriticamente qualsivoglia effetto contrattuale nei confronti del terzo, quandanche
profittevole, sono fatti salvi gli effetti favorevoli che il terzo possa acquisire alla propria
sfera giuridico-patrimoniale dall’attività negoziale altrui, ove non intenda rifiutarvi. Sul
punto cfr. BIANCA, Diritto civile. Il contratto, Milano, 1987, pag. 534 ss; MOSCARINI, I
negozi a favore di terzo, Milano, 1970, pag. 5 ss.
45
autorevolezza è ormai accettata e riconosciuta dalla stragrande
maggioranza dei soggetti che, a vario titolo, operano nel mondo
pubblicitario (37).
4.
Il problema della qualificazione giuridica della clausola di
accettazione è senza dubbio uno dei più annosi di tutta l’Autodisciplina
pubblicitaria. La questione fu per la prima volta affrontata da una
memorabile pronuncia del Tribunale di Milano del 22 gennaio 197638. In
quell’occasione il giudice di merito ebbe modo di tratteggiare la
complessa fenomenologia giuridica dell’atteggiarsi dei rapporti tra
Autodisciplina pubblicitaria e ordinamento statuale, accogliendo la tesi
della riconduzione della clausola di accettazione entro lo schema
negoziale del contratto a favore di terzo, ex art. 1411 c.c. Ed invero già
allora la giurisprudenza ambrosiana osservava come gli effetti della
suddetta clausola «eccedono la prestazione contro corrispettivo del
servizio pubblicitario ad opera del mezzo ed è fonte di diritti e obblighi
nei rapporti diretti tra l’utente da una parte ed i terzi dall’altra. In
relazione a tali effetti, la clausola di accettazione opera quindi secondo lo
schema del contratto a favore di terzo ai sensi dell’art. 1411 c.c.: schema
la cui applicazione nel caso di specie non trova dal punto di vista
strutturale alcun serio ostacolo […] Essendo il mezzo lo stipulante e
l’utente il promittente, l’interesse del primo alla stipulazione è facilmente
( 37 ) Ulteriori meccanismi di adesione al Codice di Autodisciplina da parte di
soggetti non altrimenti vincolati sono ravvisabili in quegli atteggiamenti non codificati
che si estrinsecano in un’accettazione tacita, o per facta concludentia, dell’autorità del
Giurì, ovvero in una successiva accettazione del contraddittorio nel processo
autodisciplinare. Si tratta di modalità di adesione anomale la cui ricognizione è dovuta
principalmente alla giurisprudenza del Giurì. V., ad esempio, la dec. n. 41/1981, Naska
Loris Lux s.r.l. c. Luxo Italiana s.r.l., Continental Luxo s.r.l., Editrice Segesta, Arnoldo
Mondatori Editore.
(38) Trib. Milano, 22 gennaio 1976, cit.
46
ravvisabile solo che si consideri che l’inserimento della cd. clausola di
accettazione del contratto di pubblicità è oggetto di un dovere che lo
stipulante si è assunto rispetto alla sua associazione di appartenenza e
quest’ultima si è impegnata a far rispettare nei confronti della
Confederazione e partecipa, altresì, dell’interesse che, in quanto socio,
egli ha in ordine al perseguimento degli scopi sociali rispetto ai quali il
Codice della Lealtà Pubblicitaria svolge una funzione dichiaratamente
strumentale» (39). L’antecedente logico, ancor prima che giuridico, di un
tale argomentare risiede nel riconoscimento dell’autonomia privata da
parte
dell’ordinamento
positivo.
Può
affermarsi
che
l’autoregolamentazione pubblicitaria, in quanto fenomeno di natura
squisitamente privatistica, trae la propria dignità ordinamentale dalla
garanzia pubblicistica dell’autonomia privata (40). Viene in questo modo
decretato il definitivo superamento di orientamento dottrinale, invero
risalente, che vedeva nel fenomeno autodisciplinare «qualcosa di
indefinibile, ma sicuramente di importanza marginale, perché incapace
comunque di creare obblighi coercibili e muniti di sanzione» (41). Simili
( 39 ) Trib. Milano, 22 gennaio 1976, cit. Secondo una simile ricostruzione la
clausola d’accettazione costituirebbe un contratto a favore di terzo, ex art. 1411, in cui
stipulante è il mezzo pubblicitario (impresa editoriale, agenzia o concessionaria) e
promittente è l’utente, mentre il terzo beneficiario si rinviene in una pluralità di soggetti
identificati o non aprioristicamente identificabili. La rispondenza di interessi postulata
dalla norma per l’esistenza di un simile contratto è soddisfatta dalla compresenza
dell’interesse dello stipulante, di natura squisitamente patrimoniale, alla stipulazione del
contratto, cui specularmente corrisponde quello del terzo, di natura anche non
patrimoniale, a veder rispettato il codice. Cfr. CORASANTI-VASSELLI, Diritto della
comunicazione Pubblicitaria, cit., pag 19.
( 40 ) Trib. Milano, 22 gennaio 1976, cit. afferma che l’ordinamento
autodisciplinare «trae la sua origine e la sua ragione della sua effettività dalla stessa
autonomia privata riconosciuta e garantita dallo Stato. Ciò avviene tutte le volte che un
organismo sociale instaura nel suo interno una disciplina che contiene un ordinamento
autonomo di autorità, poteri, di norme e sanzioni, un regolamento interno di carattere
disciplinare».
(41) FLORIDA, Autodisciplina e funzione arbitrale, in Riv. dir. ind., 1991, I, pag. 7.
47
considerazioni appaiono oggi obsolete e prive di ogni consistenza, poiché
marginalizzano l’autodisciplina pubblicitaria ai confini del paragiuridico,
disconoscendone il carattere essenzialmente cogente (42).
Tutto ciò premesso, appare opportuno svolgere un’ulteriore
considerazione circa il carattere di spiccata atipicità della clausola di
accettazione dal quale discende la necessità che la clausola de qua,
affinché possa essere consentita dall’ordinamento, debba presentare i
caratteri della liceità e della meritevolezza della tutela. In ordine al primo
requisito sembra indubitabile che la «tipizzazione convenzionale degli
illeciti disciplinari» operata nel seno dell’Autodisciplina pubblicitaria
abbia funzione di specificazione e financo implementazione del dettato
normativo in materia di correttezza professionale, non potendosi per ciò
stesso porre in contrasto con esso (43). Per quanto concerne il ricorrere del
secondo requisito, quello della meritevolezza della tutela, sarà di
giovamento tenere a mente la funzione propriamente ancillare
dell’autoregolamentazione
rispetto
all’esigenza
di
chiarezza
ed
(42) Secondo Trib. Milano, 22 gennaio 1976, cit. il carattere cogente del Codice di
Lealtà esplicherebbe «non soltanto nei confronti di coloro che, appartenendo ad una
delle associazioni da cui il Codice […] promana, lo hanno accettato indirettamente per
effetto della rappresentanza esercitata dalla stessa associazione di appartenenza, ma
anche nei confronti di coloro che non appartengono a nessuna di quelle associazioni che
si avvalgono della pubblicità come mezzo promozionale nello svolgimento della loro
attività d’impresa».
(43) V. Cass., 15 febbraio 1999, n. 1239, Rcs Editoria s.p.a. c. Il Giornale di
Sicilia, secondo cui «quand’anche si ritenesse che il Codice di Autodisciplina contenga
mere regole deontologiche, non se ne potrebbero comunque escludere l’incidenza
nell’interpretazione ed applicazione dell’art. 2598 n. 3 c.c.: se per un verso, infatti, la
stessa norma, facendo riferimento ai principi di correttezza professionale, opera
sostanzialmente un rinvio anche a parametri extralegislativi, per altro verso le regole del
C.A.P. esprimono, per loro stessa natura e formazione, quel “dover essere” dei
comportamenti che forma oggetto — come si è visto — della tutela stabilita dal numero
3 dell’art. 2598 c.c.. Non solo, ma esse consentono di adeguare il principio di correttezza
professionale all’evoluzione delle esigenze dell’attività imprenditoriale ed alle sue forme
di manifestazione: in definitiva, al costume eticamente inteso».
48
intellegibilità della legislazione statuale, connaturata da intrinseca
vaghezza ed indefinitezza semantica. I Giudici milanesi all’uopo
precisano: «dall’atipicità della clausola di accettazione deriva che per
essere valida essa deve risultare lecita quanto a causa ed oggetto, e deve
tendere alla protezione di interessi meritevoli di tutela. La causa della
clausola di accettazione non contrasta con norme imperative, dal
momento che la tipizzazione convenzionale degli illeciti pubblicitari non
si sovrappone alla disciplina statuale, ma si inscrive in essa al fine di
riempire di contenuto e di specificare il generale dettato normativo dei
principi della correttezza professionale (art. 2598 n. 3 c.c.) imposti
all’osservanza degli imprenditori nel compimento di ogni atto di
concorrenza, quivi compreso quello pubblicitario. Il contenuto della
clausola di accettazione è per parte sua determinato per relationem al
contenuto del codice di lealtà pubblicitaria. La sua liceità dipende
pertanto dalla conformità di ogni singola disposizione del codice alle
norme imperative, all’ordine pubblico ed al buon costume. Che la
tipizzazione convenzionale degli illeciti pubblicitari sia strumentale ad un
interesse meritevole di tutela è poi reso evidente dal fatto solo di
individuare questo interesse nella esigenza di sottrarre gli operatori
pubblicitari alla incertezza cui dà luogo ogni legislazione per principi
circa l’esatta portata dei divieti riconducibili interpretativamente nella
clausola generale» ( 44 ). Alla ricostruzione dogmatica eseguita dalla
giurisprudenza summentovata, si affiancano oggi nuove soluzioni
interpretative più sensibili al problema dell’effettività e della concretezza
della tutela autodisciplinare, rispetto al quale quello della corretta
qualificazione della clausola di accettazione si mostra dotato di una
strutturale valenza risolutiva.
(44) Trib. Milano, 22 gennaio 1976, cit.
49
4.1
La
giurisprudenza
autodisciplinare
si
è
espressa
favorevolmente rispetto all’applicazione dell’art. 1341, comma 1, c.c. nei
contratti pubblicitari stipulati secondo moduli o formulari, subordinando
l’efficacia della clausola di accettazione alla specifica sottoscrizione della
stessa o, in mancanza, alla circostanza che l’inserzionista l’abbia
conosciuta o avrebbe dovuto conoscerla utilizzando un minimo di
diligenza (45). Il Giurì ha all’uopo precisato che «perché il Giurì abbia il
potere di decidere su una pubblicità litigiosa, qualora l’inserzionista non
aderisca direttamente all’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria, è
sufficiente che allo stesso aderiscano i mezzi attraverso i quali tale
pubblicità viene diffusa: mediante la stipulazione del contratto di
pubblicità, l’inserzionista accetta, infatti, anche la clausola che lo
assoggetta al sistema dell’autodisciplina ex art. 1341, comma 1, c.c.». Il
Giurì si è inoltre pronunciato in merito alla dibattuta questione
concernente la plausibilità dell’eccezione di carenza di legittimazione
passiva sollevata dall’inserzionista, affermando che essa è priva di ogni
fondatezza allorquando questi, non avendo sottoscritto la clausola di
accettazione o non avendola accettata per facta concludentia, l’abbia in
ogni caso colpevolmente ignorata omettendo di usare anche una minima
attenzione che gli avrebbe certamente consentito di percepirla (46). La più
(45) GRAZZINI, Il contratto pubblicitario stipulato per condizioni generali. L’art.
1341 comma 1 c.c., cit., pag. 21 ss.
(46) In questo senso v. decc. nn. 2/1998, 23 gennaio 1998, Quaker Beverages
Italia s.p.a., Armando Testa s.p.a. c. Scaringi s.p.a., Magazine s.r.l., Publitalia ’80
s.p.a., Mediaset s.p.a.; 199/1995, 26 gennaio 1996, Comitato di controllo c. Sirc s.p.a.,
Rcs Pubblicità s.p.a.; 39/1994, 29 marzo 1994, Comitato di Controllo c. Teodoro
Mobili, Sapi, Agiap Agenzia Generale Italiana Affissioni e Pubblicità s.r.l.; dec.
124/1987, 2 dicembre 1987, Giorgio Armani s.p.a., Basile s.p.a., Biagiotti Export s.p.a.,
Byblos s.p.a., Erreuno Scm s.p.a., Fendi Paola e Sorelle s.a.s., Gianfranco Ferré s.r.l.,
Genny Moda s.p.a., Krizia s.p.a., Missoni s.p.a., Moschino (Moonshadow s.r.l.),
Trussardi s.p.a., Gianni Versace s.r.l., Camera Nazionale della Moda Italiana, Claudio
50
vistosa conseguenza ravvisabile in un simile argomentare è probabilmente
l’estrema esiguità dei soggetti contrattualmente non vincolati al sistema
autodisciplinare.
preoccupazioni
Qualche
Autore
antioligopolistiche
ha
e
manifestato
financo
al
riguardo
antimonopolistiche,
ritenendo di poter assimilare la clausola di accettazione ai limiti
convenzionali della concorrenza ( 47 ). A fugare ogni dubbio basti un
richiamo all’ormai consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione
che ha escluso con fermezza l’applicabilità dell’art. 2596 c.c. alle regole
convenzionali finalizzate ad intensificare ed implementare l’effettività
della legislazione in materia di correttezza concorrenziale, nel
presupposto che tale strumentario pattizio lungi dal limitare la
Laviola s.p.a. c. Umberto Ginocchietti, Maglificio di Perugia, Editoriale la Repubblica
s.p.a., Società Europea di Edizioni s.p.a. in Riv. dir. ind., 1998, II, pag. 119 ss., con note
CALISSE, Cenni sulla giurisdizione del Giurì di autodisciplina pubblicitaria, e di
CELONA, Pubblicità denigratoria o diritto alla critica: un limite alla competenza del
Giurì.
(47) Cfr. PEDRIALI, Profili soggettivi dell’Autodisciplina Pubblicitaria, pag. 148.
In proposito non è mancato chi abbia ricondotto la clausola di accettazione al patto
limitativo della concorrenza con conseguente applicazione delle prescrizioni di cui
all’art. 2596 c.c. Con la già richiamata sentenza del 22 Gennaio 1976 il Tribunale di
Milano, sostenendo la tesi della riconducibilità dell’Autodisciplina al fenomeno
associativo, ha escluso la configurabilità della clausola di accettazione quale limite
pattizio alla concorrenza e ciò per l’irriducibile disomogeneità causale intercorrente tra
la prima e il secondo. Mentre il contratto di cui all’art. 2596 c.c. è senz’altro un contratto
sinallagmatico o a prestazioni corrispettive, la clausola di accettazione introduce un
contratto assimilabile a quelli plurilaterali con comunione di scopo. Pur a voler
considerare la clausola di accettazione come patto limitativo della concorrenza, osta ai
fini dell’applicabilità della normativa dettata dall’art. 2596 c.c. in ordine al duplice
profilo della forma scritta ad probationem e della limitatezza di operatività spaziale e
temporale, la fondamentale circostanza che la limitazione convenzionale in parola sia
inserita in un contratto avente causa diversa. Invero i patti cui si riferisce la norma in
questione, sono quelli che hanno come unico fine quello di limitare o escludere l’attività
concorrenziale, e non anche quelli che, pur esplicando un qualche condizionamento alla
libertà economica dei soggetti vincolati, perseguano finalità differenti. In questo senso
CAMPOBASSO, Diritto Commerciale, Diritto all’impresa, Torino, 1999, pag. 231.
51
concorrenza, costituirebbe piuttosto un prezioso strumento per garantirne
la legittima esplicazione (48).
4.2
La tesi secondo cui la clausola di accettazione possa ormai
qualificarsi come uso contrattuale ha carattere pervasivo nella
giurisprudenza del Giurì, secondo cui «dopo oltre cent’anni di vita degli
istituti dell’Autodisciplina pubblicitaria e con la larga eco che questi
hanno avuto […] e dopo che per oltre vent’anni, praticamente in tutti i
servizi pubblicitari vengono inserite clausole sostanzialmente uniformi di
accettazione del sistema di Autodisciplina, ben può dirsi che tale
accettazione
abbia
assunto
carattere
di
norma
contrattuale
consuetudinaria, e che perciò ogni contratto pubblicitario oggi stipulato,
ancorché in ipotesi non la contenga espressamente, comporti tale
accettazione» (
49
). Un indiscusso accoglimento di questa ipotesi
ricostruttiva porrebbe fine ad ogni vacillare del sistema autodisciplinare e
ciò è ancora più palese ove si consideri che graverebbe sul convenuto che
intenda sollevare l’eccezione di difetto di legittimazione passiva, e non
più sull’attore, l’onere probatorio di dimostrare la volontà di escludere la
competenza del giudice autodisciplinare (50). Ed inoltre la qualificazione
della clausola di accettazione come uso contrattuale intensificherebbe
ulteriormente
il
processo
di
propagazione
multidirezionale
(48) Cass., 10 dicembre 1988, n. 6715, in Riv. dir. ind., 1989, II, pag. 233.
(49) Tra le altre v. dec., n. 124/1987, cit..
(50) Cass., 5 agosto 1985, in Mass. Foro it., 1985, pag. 4388. Una sparuta dottrina
ha sostenuto che limite all’efficacia della clausola d’uso sia, oltreché la manifestazione
di volontà contraria, anche l’ignoranza o la sua non conoscibilità. Questa ipotesi
interpretativa, che restringerebbe in modo significativo il raggio di azione
dell’autodisciplina pubblicitaria, è stata strenuamente avversata da una parte della
dottrina secondo cui la mera ignoranza non vale ad escludere il fisiologico operare di
qualsivoglia uso contrattuale. In questo senso S ACCO, De NOVA, Il contratto, in Trattato
di diritto civile, diretto da SACCO, Torino, 1993, pag. 411.
52
dell’autoregolamentazione oltre gli ambiti già consentiti dall’art. 1341,
comma 1, c.c. Riprova ne sia il fatto che, diversamente che nel modello di
contratto per condizioni generali, l’estraneità di entrambi i soggetti al
Codice di Autodosciplina non costituirebbe più una circostanza
impeditiva di carattere sostanziale all’applicazione della normativa
autodisciplinare (51).
Quantunque la giurisprudenza autodisciplinare che qualifica la
clausola di
accettazione come uso
contrattuale sia nettamente
maggioritaria, pare opportuno segnalare una linea di tendenza
recentemente sviluppatasi in seno al Giurì che considera tale clausola
come uso normativo ( 52 ). Da una simile ricostruzione discenderebbe
l’efficacia erga omnes della clausola di accettazione, con la conseguente
irrilevanza, ai fini della vincolatività delle norme autodisciplinari, sia
della volontà contraria, sia dell’effettiva conoscenza delle stesse da parte
dei soggetti agenti (53). L’ipotesi interpretativa della qualificazione della
clausola di accettazione come uso normativo si presta ad una
fondamentale obiezione. È stato da più parti osservato come il requisito
soggettivo per cui gli usi normativi si differenzierebbero da quelli
negoziali consista nella convinzione dei soggetti che vi si uniformano di
obbedire ad un comando avente carattere propriamente imperativo e non
ad una qualsiasi regola di convenienza comportamentale. Negli usi
normativi sarebbe cioè presente, con carattere di immanenza ed
( 51 ) Nei contratti caratterizzati dallo schema del negozio seriale, condizione
minima affinché la clausola di accettazione in essi inserita possa esplicare gli effetti suoi
propri è l’appartenenza dell’inserzionista all’ordinamento autodisciplinare, non
potendosi altrimenti determinare un vincolo né in capo al soggetto predisponente, né a
fortiori, in capo al contraente esterno.
(52) Dec. n. 83/1989, 12 giugno 1989, De’ Longhi s.p.a. c. Ricagni Condizionatori
s.p.a., Arnoldo Mondadori Editore s.p.a., Brb.
( 53 ) RODOTÀ, Le fonti di integrazione del contratto, Milano, 1965; ZICCARDI,
L’integrazione del contratto, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1969, pag. 108.
53
intrinsecità, un requisito di doverosità e necessarietà dell’azione posta in
essere dal soggetto nell’osservanza di una diuturna prassi generale.
Venendo infine alla soggezione alla clausola di accettazione, non vi è
dubbio che essa si manifesti in modo ormai diffuso e costante, ma non
può con altrettanta risolutezza affermarsi che essa venga percepita dalla
collettività degli operatori pubblicitari come regola avente i tratti
dell’obbligatorietà e della coercitività (54).
5.
Assai dibattuta in dottrina e giurisprudenza è stata la
questione relativa all’individuazione della natura giuridica dell’Istituto di
Autodisciplina Pubblicitaria e dell’attività da questi esplicata. Tre sono le
ipotesi interpretative che nel tempo si sono succedute e sovrapposte,
l’ipotesi arbitrale, quella associativa e, infine, quella che riconduce
l’autodisciplina ad un contratto normativo (55).
( 54 ) Ulteriore conseguenza della qualificazione della clausola di accettazione
come uso normativo sarebbe la necessità di un esplicito richiamo legislativo. L’art. 8 del
d.lgs. 74/92 in materia di pubblicità ingannevole non opera un simile rinvio, limitandosi
a disciplinare gli effetti del pactum de non petendo nel modo che segue: «le parti
interessate possono richiedere che sia inibita la continuazione degli atti di pubblicità
ingannevole o di pubblicità comparativa ritenuta illecita, ricorrendo ad organismi
volontari ed autonomi di autodisciplina. Iniziata la procedura davanti ad un organismo di
autodisciplina, le parti possono convenire di astenersi dall’adire l’Autorità Garante sino
alla pronuncia definitiva. Nel caso in cui il ricorso all’Autorità sia già stato proposto o
venga proposto successivamente da altro soggetto legittimato, ogni interessato può
chiedere all’Autorità la sospensione del procedimento in attesa della pronuncia
dell’organismo di autodisciplina. L’Autorità, valutate tutte le circostanze, può disporre la
sospensione del procedimento per un periodo non superiore a trenta giorni».
( 55 ) Per un’esaustiva disamina dell’ipotesi arbitrale v. SENA, Il sistema
dell’Autodisciplina Pubblicitaria, in Riv. dir. ind., 1988, I, pag. 197 ss.; UBERTAZZI, La
Giurisprudenza del Giurì di Autodisciplina Pubblicitaria: alcune osservazioni, cit., pag.
2947 ss. In senso contrario FUSI, TESTA, L'autodisciplina pubblicitaria in Italia, Milano,
1983, pag. 4; DI CATALDO, Natura giuridica dell’Autodisciplina Pubblicitaria e
delimitazione dell’ambito soggettivo di applicazione del Codice di Autodisciplina, cit.,
pag. 9 ss.
54
L’idea secondo cui il procedimento autodisciplinare sarebbe
assimilabile al fenomeno arbitrale è genitrice di un ulteriore dilemma
interpretativo, quello, cioè, della scelta tra ritualità o irritualità
dell’arbitrato. Una più spiccata verosimiglianza mostra la tesi secondo cui
il procedimento dinanzi al Giurì presenterebbe i caratteri distintivi
dell’arbitrato rituale, in considerazione del carattere eminentemente
giurisdizionale
delle
modalità
decisorie
adottate
dal
giudice
autodisciplinare (56). Purtuttavia l’accoglimento della tesi arbitrale, fosse
anche nella forma rituale, condurrebbe ad inaccettabili conseguenze,
prima tra tutte quella della necessità della forma scritta della clausola
compromissoria a norma dell’art 807 c.p.c. e della doppia sottoscrizione
della stessa a norma dell’art. 1341, comma 2, c.c, ove contenuta in
condizioni generali di contratto (57). La summentovata stigmatizzazione
formale priverebbe l’Autodisciplina di quell’impalpabile fluidità che ne
ha consentito la crescita prodigiosa nell’impervio universo della
comunicazione commerciale.
(56) Tra i molteplici elementi discretivi che differenzierebbero l’arbitrato rituale
da quello irrituale, giova rammentare la natura squisitamente transattiva del secondo.
Nella quasi totalità dei casi gli arbitri irrituali compongono le controversie affidategli
decidendo secondo equità e non secondo diritto. Per una panoramica v. CARNELUTTI,
Arbitrato improprio, in Riv. dir. proc., 1962, pag. 197 e SCHIZZEROTTO, Arbitrato
improprio e arbitraggio, Milano, 1967.
(57) GRAZZINI, Il problema della natura del Giurì di Autodisciplina Pubblicitaria
e della “giustizia” autodisciplinare. L’ipotesi arbitrale, cit., p. 29 ss. Il Giurì di
Autodisciplina ha più volte sottolineato la propria avversione verso l’ormai obsoleta tesi
arbitrale, ribadendo che la clausola di accettazione non possa in alcun modo considerarsi
una clausola derogativa della competenza e della giurisdizione, non comportando la
stessa alcun deferimento della cognizione ad un organo diverso da quello previsto
dall’ordinamento statuale. La clausola di accettazione comporterebbe piuttosto
l’operatività di norme dalla natura squisitamente privatistica regolanti la materia
pubblicitaria sia da un punto di vista sostanziale, che processuale. Pertanto la clausola di
accettazione non abbisogna della doppia sottoscrizione prescritta dall’art. 1341, comma
2, c.c. Questa linea di pensiero è lucidamente esposta nelle decc. nn. 27/1994 e n.
52/1990.
55
Dalla qualificazione della clausola di accettazione come clausola
compromissoria conseguirebbe altresì una significativa rimodulazione dei
limiti del sindacato del giudice ordinario sulle pronunce autodisciplinari
(58). Nel qual caso una simile ricostruzione venisse accolta la definitività
delle pronunce del Giurì principierebbe a barcollare, compromettendo la
stabilità e la celerità cui il sistema autodisciplinare tutto è improntato (59).
La giurisprudenza autodisciplinare, avallata da autorevole e
maggioritaria dottrina, ha costantemente disconosciuto la presunta natura
arbitrale del procedimento dinanzi al Giurì sostenendo che «l’argomento
in ordine al quale la clausola di accettazione non può avere l’effetto
vincolante di cui al primo comma dell’art. 1341 c.c., perché essendo
qualificabile come clausola vessatoria, essa rientrerebbe nel secondo
comma della stessa norma e, pertanto, non potrebbe avere effetto se non
specificamente approvata per iscritto, non merita seguito. La clausola di
accettazione non è né una clausola compromissoria né una clausola che
(58) Gli artt. 827 ss. c.p.c. disciplinano i limiti d’esperibilità delle impugnazioni
del lodo arbitrale in modo assai restrittivo. Ai sensi dell’art. 827 c.p.c. «Il lodo è
soggetto soltanto all'impugnazione per nullità, per revocazione o per opposizione di
terzo. I mezzi di impugnazione possono essere proposti indipendentemente dal deposito
del lodo. Il lodo che decide parzialmente il merito della controversia è immediatamente
impugnabile, ma il lodo che risolve alcune delle questioni insorte senza definire il
giudizio arbitrale è impugnabile solo unitamente al lodo definitivo».
(59) L’inquadramento dell’Autodisciplina nell’alveo dell’arbitrato determinerebbe
un vero e proprio capovolgimento delle istanze valoriali cui il mondo
dell’Autodisciplina si è ispirato sin dalle sue origini. Tempestività, sollecitudine e
snellezza del procedimento sono canoni irrinunciabili per tutto il mondo della
comunicazione commerciale, essi andrebbero irrimediabilmente perduti ove si
concedesse all’autorità giudiziaria statuale di estendere il proprio sindacato su qualsiasi
vizio inficiante le pronunce autodisciplinari, essendo a tutti ormai nota l’incresciosa
lunghezza e farraginosità della giustizia ordinaria. A ciò si aggiunga che la definitività e
l’inappellabilità da cui sarebbero contrassegnate le pronunce del Giurì a norma
dell’ultimo comma dell’art. 38 C.A.P. andrebbero ridisegnate secondo la disciplina
dell’art. 829 c.p.c. La disposizione in parola varrebbe ad escludere l’impugnabilità delle
pronunce del Giurì per motivi di diritto nei soli casi in cui le parti si fossero
preventivamente accordate in tal senso, eccezion fatta per i motivi di ordine pubblico.
56
produce deroghe alla competenza dell’Autorità giudiziaria ordinaria. Con
essa, infatti, l’inserzionista si obbliga ad osservare i precetti del Codice di
Autodisciplina Pubblicitaria secondo l’interpretazione e l’applicazione
che
ne
fa
il
Giurì,
unico
organo
abilitato
nell’ordinamento
autodisciplinare a garantirne l’osservanza. L’inserzionista, per contro non
assume, con la clausola di accettazione, alcun obbligo che abbia effetto
sull’applicazione delle norme dello Stato e sulla giurisdizione o
competenza degli organi statuali ai quali sia affidato il compito di
garantire l’osservanza di tali norme. Ciò vale in generale e ancor più in
particolare per le norme dell’ordinamento dello Stato che riguardano la
disciplina della pubblicità: tant’è vero che – come è a tutti noto – vale nei
rapporti tra ordinamento statuale e ordinamento autodisciplinare in
materia di pubblicità, il principio che, con terminologia propria del diritto
antitrust, potremmo chiamare della doppia barriera, secondo il quale
l’inserzionista è soggetto all’osservanza sia delle norme autodisciplinari,
che di quelle statuali ed al controllo sia del Giurì che dell’Autorità
Garante della concorrenza e del mercato. Consegue da ciò che la clausola
di accettazione non è subordinata alla doppia sottoscrizione norma
dell’art. 1341, comma 2 c.c.» (
60
). Con lucido argomentare, la
giurisprudenza sopra citata afferma la separatezza dell’ordinamento
autodisciplinare rispetto a quello statuale, ricusando in blocco la tesi
arbitrale.
Accanto all’ipotesi arbitrale si pone quella associativa. Si legge
nella sentenza del Tribunale di Milano del 22 gennaio 1976: «[il Codice
di Autodisciplina] ha assunto dignità statutaria ed, anzi, integra
stabilmente le disposizioni statutarie non soltanto per quanto attiene alle
( 60 ) Dec. n. 54/1996, 5 marzo 1996, Telecom Italia Mobile s.p.a. c. Omnitel
Pronto Italia s.p.a.
57
norme di comportamento che i componenti della confederazione sono
obbligati ad osservare e a far osservare […], ma anche per quanto attiene
al Giurì, che è previsto e disciplinato nel Codice di Autodisciplina per
l’attuazione dei suoi principi informatori e per l’applicazione delle sue
norme. In altre parole, se il Codice di Autodisciplina integra lo statuto
della Confederazione, il Giurì, a sua volta, è uno degli organi confederali»
(61). La sentenza in parola, partendo dal presupposto per cui il fenomeno
autodisciplinare abbia un’intrinseca vocazione associativa, riconduce i
poteri
normativi
e
sanzionatori
dell’Istituto
di
Autodisciplina
Pubblicitaria a quelli propri delle associazioni non riconosciute. Pertanto
il problema dei limiti del sindacato del Giudice ordinario sulle pronunce
dell’organo di giustizia privata autodisciplinare andrà risolto alla stregua
di quello del sindacato del giudice ordinario sulle deliberazioni
endoassociative. Un orientamento ormai dominante nel formante
giurisprudenziale
afferma
l’identità
tipologico-contrattuale
delle
associazioni riconosciute e non riconosciute, da cui fa discendere
l’identità della disciplina applicabile ( 62 ). Di tal guisa le decisioni del
(61) Trib. Milano, 22 gennaio 1976, cit., la sentenza in parola si riferiva al Codice
di Lealtà Pubblicitaria entrato in vigore nel 1966 per iniziativa della Federazione Italiana
Pubblicità, degli Utenti Pubblicità Associati, della Federazione Italiana Editori Giornali
e della Rai.
(62) GALGANO, Delle associazioni non riconosciute e dei comitati, in Comm. Cod.
civ., a cura di SCIALOJA BRANCA, Bologna-Roma, 1976, pag. 182; ID., Delle persone
giuridiche, in Comm. Cod. civ., a cura di SCIALOJA BRANCA, Bologna-Roma, 1969, pag.
187. Secondo quest’impostazione andrebbero applicate alle associazioni riconosciute,
oltreché le nome inderogabili dettate per quelle riconosciute, anche tutte quelle norme
che non regolamentino aspetti attinenti al riconoscimento della personalità giuridica. E
pertanto eventuali vizi delle delibere assembleari assunte da associazioni non
riconosciute dovranno essere perseguiti attraverso l’esperimento dei consueti rimedi
processuali apprestati dalla legge per le associazioni riconosciute. In ispecie dovrà
ritenersi pienamente operante la disciplina contenuta all’art. 23 c.c. il quale riconosce la
legittimazione attiva all’esperimento dell’azione di annullamento avverso deliberazioni
assembleari contrarie alla legge, all’atto costitutivo o allo statuto, agli organi dell’ente, a
qualunque associato nonché al pubblico ministero.
Negano invece l’applicazione alle
58
Giurì sarebbero assoggettabili al sindacato del giudice statuale, affinché
questi possa apprezzarne la conformità e la rispondenza alle regole
autodisciplinari.
Si segnala infine un’ulteriore e diversa ipotesi interpretativa
secondo cui «l’autodisciplina costituirebbe negozio atipico plurilaterale
assimilabile al contratto normativo, quale veicolo di emersione della
regola privata impiegata come strumento di regolamentazione di
determinati settori» (63).
associazioni riconosciute delle norme dettate per gli enti personificati, BASILE, Gli enti
di fatto, in Trattato di diritto privato, diretto da RESCIGNO, 1982, 2, I, pag. 273 ss e
AMATI, Associazioni e tutela dei singoli, Napoli, 1984, pag. 164 ss.
(63) GRAZZINI, L’ipotesi del Giurì come organo collegiale di associazione non
riconosciuta. La diversa ipotesi secondo la quale l’autodisciplina pubblicitaria
originerebbe da un contratto normativo plurilaterale, cit., pag. 32 ss; MESSINEO,
Contratto normativo e contratto tipo, Enc. dir., X, Milano, 1961, pag. 116 ss; SENA, Il
sistema dell’Autodisciplina Pubblicitaria, cit., pag. 191 ss.
59
CAPITOLO II
GLI ATTEGGIAMENTI EROTICI NELLA PUBBLICITÀ
SOMMARIO: 1. Premessa. — 2. La Ratio dell’art. 9 CAP. — 2.1. Considerazioni
sulla sindacabilità della pubblicità che ricorra a suggestioni erotiche. — 3. La Ratio
dell’art. 10 CAP. — 4. Erotismo magnificente e patinato nell’iconografia pubblicitaria.
— 4.1. L’aberrante celebrazione della zoofilia erotica o zooerastia.
— 4.2.
Reminiscenze sadomasochiste. — 5. L’utilizzazione pubblicitaria dell’erotismo per la
reclamizzazione di bevande alcoliche, l’art. 22, quinto alinea, CAP.
1.
In una celebre sentenza il Giurì ebbe ad affermare che
«Non tutto ciò che è lecito in sede di manifestazione del pensiero lo è in
pubblicità. Qui, proprio perché la funzione della comunicazione non è
speculativa o politica o ideologica, ma commerciale, è giusto esigere che i
messaggi non investano direttamente di cariche negative le convinzioni
profonde che alimentano e identificano la personalità stessa del cittadino;
ed è giusto vietare che si prendano a bersaglio i sentimenti più
gelosamente custoditi per fare breccia nell’animo di coloro che non li
condividono o li avversano, e attraverso questa breccia fa penetrare una
suggestione di consumo preferenziale» (64). Quantunque la pubblicità non
possa, e non debba, essere aprioristicamente considerata come
intrinsecamente idonea a veicolare soltanto taluni contenuti e non talaltri,
stigmatizzando gli eventuali valori etici e morali evocati con un «marchio
di infamia», non può purtuttavia disconoscersi l’opportunità che essa sia
sottoposta a limiti assai rigorosi ogniqualvolta venga in contrasto con
superiori valori che godano del suggello costituzionale. Invero la massima
più sopra mentovata riecheggia un atteggiamento ermeneutico ormai
(64) Dec. n. 1/1980, 22 gennaio 1980, Comitato di Accertamento c. di Nichy Chini
Co., M. & Ad., Editoriale del Corriere della Sera sas.
60
obsoleto, dacché la giurisprudenza costituzionale e la dottrina prevalenti
riconducono il fenomeno pubblicitario all’art. 41 Cost. e non più all’art.
21 Cost. ( 65). Anche una più recente giurisprudenza autodisciplinare si
orienta in tal senso. Illuminante è, al riguardo, la dec. n. 2/1995, in cui il
Giurì sostiene che «La finalità mercantile […] da cui promana il
messaggio destituisce di gratuità culturale la critica e la carica di
ipocrisia,
delegittimandola
come
manifestazione
del
pensiero
e
svelandone la fisionomia di tecnica di persuasione all’acquisto» ( 66 ).
Pertanto,
se,
da
una
parte,
incompatibile
con
l’ordinamento
autodisciplinare potrà essere considerata soltanto la comunicazione
pubblicitaria che realizzi una «mercificazione dei sentimenti», dall’altra,
ragioni più profonde impongono una maggiore severità in ragione della
«selvaggia intrusività, invadenza […] ed inelusibilità» di questo tipo di
(65) Corte Cost., 12 luglio 1985, n. 68, in Giur. Cost. 1965, pag. 838. La migliore
dottrina osserva come la pubblicità economica, diversamente dalla mera propaganda,
tenda a risolversi in un’esposizione, sia pure di dati e notizie, effettuata in modo da, ed al
fine di, provocare in altri soggetti «non la riflessione ma l’azione», ed in particolare un
azione economica, e che perciò essa, in quanto non solo adatta ad influire sulla volontà
altrui ma invece appositamente effettuata per influire sulla volontà altrui,
condizionandone le scelte economiche, sia da considerare come «espressione
d’intendimento pratico, e non di pensiero». Così, ESPOSITO, La libertà di manifestazione
del pensiero, Milano, 1958, pag. 37 ss. Un’altra dottrina non manca di osservare come il
fenomeno pubblicitario, sebbene vada correttamente inquadrato nell’ambito delle
iniziative connesse allo svolgimento dell’attività economica, presenti indubbiamente
anche dei profili attinenti alla libera manifestazione del pensiero. Da ciò discenderebbe
l’opportunità di un coordinamento ermeneutico tra l’art. 21 Cost. e l’art. 41 Cost.,
affinché non sia frustrata l’esigenza che i limiti che gravino sulla pubblicità, siano dei
limiti ragionevoli, ovvero dei limiti che trovino una giustificazione in quanto posti a
tutela di un bene o di un interesse costituzionalmente rilevane e preminente. In questo
senso, CUCCINO, Thanatos e advertising, in Il diritto industriale, n. 11/1997, pag. 985,
nota n. 16.
(66) Dec. 2/1995, 7 marzo 1995, Comitato di controllo c. Benetton Group s.p.a.,
Editrice La Stampa s.p.a., Publikompass s.p.a., Colors Magazine s.r.l., Colors
Communications s.r.l.
61
comunicazione (67). L’ontologica capacità del messaggio pubblicitario di
colpire masse indifferenziate di pubblico unitamente alla carica di
coercizione psicologica che esso reca con sé, impone l’opportunità di
adoperare parametri di valutazione differenziati per questo tipo di
comunicazione (68).
( 67 ) BANORRI, Le modalità di Adesione, in Commentario al Codice
dell’Autodisciplina Pubblicitaria, a cura di Ruffolo, Milano, 2003, pag. 204.
(68) Ex multis cfr. dec. n. 12/1986, 11 febbraio 1986, Comitato di Controllo c.
Fassi s.p.a., Consorzio Canale 5., Italia 1, Retequattro, Business, in cui il Giurì
pronunziandosi sul divieto autodisciplinare della volgarità e dell’indecenza, osservò
come la misurazione della liceità del ricorso pubblicitario alla suggestione erotica
dovesse compiersi adottando come metro non già il livello di indecenza e di volgarità
degli spettacoli televisivi più spinti, ma non per questo meno seguiti, oppure,
alternativamente, un livello di decenza assai più rigoroso e intransigente che tenesse
unicamente conto dell’involontarietà ed inelusibilità dello spettacolo pubblicitario, bensì
un livello di decenza apprezzato alla stregua dell’effettiva idoneità del messaggio
pubblicitario a «compromettere» o «deteriorare» il generale indice di gradimento della
pubblicità stessa. Ed invero, ad avviso di chi scrive, il criterio qualitativo è l’unico in
grado di ricondurre la censura alla sua funzione propriamente pubblicitaria, mediante la
valutazione intelligentemente ponderata dei profili fenomenologici della fattispecie e
della loro concreta attitudine a ledere la sensibilità dei consumatori. Sul punto v. anche
dec. n. 117/2001, 29 maggio 2001, Galter srl c. Editoriale Edisport s.p.a., COMEDI
s.p.a., in cui il Giurì nell’apprezzare la conformità all’art. 9 CAP di un’immagine
raffigurante un giovane che, mostrando un evidente rigonfiamento nei pantaloni
all’altezza del pube, visualizza la reazione del ragazzo alla vista delle valige per
motociclisti, ovvero il suo stato di eccitazione sessuale, ebbe ad osservare: «Con
l’antichissima pronuncia n. 11/75 il Giurì, trovandosi a decidere sulla conformità all’art.
9 del Codice di una pubblicità che raffigurava un uomo con indosso la sola camicia la
quale presentava una piega in un punto della figura maschile tale da far chiaramente
presumere uno stato di eccitazione sessuale, ha stabilito trattarsi di un’espressione
figurativa non giustificabile perché volgare ed estranea alle finalità ed alle esigenze
inerenti alla pubblicità del prodotto. Ritenne allora il Giurì che l’immagine fosse tale
che, secondo il gusto e la sensibilità dei consumatori, dovesse essere considerata volgare
come del resto era dimostrato dai severi commenti rivolti a quel messaggio anche da
parte di mezzi che si occupavano specificamente di pubblicità. A distanza di più di 35
anni da quella pronuncia la questione si pone negli stessi termini perché in tutti questi
anni quello che nell’ordinamento dello Stato viene individuato come il comune senso del
pudore è cambiato moltissimo e sotto molti profili ma non è cambiato con riguardo alla
raffigurazione dell’eccitazione sessuale maschile. Ancora oggi dunque può dirsi con
assoluta certezza che tale raffigurazione appartiene al campo della pornografia e non a
quello dell’erotismo e del riferimento indiretto alla sessualità. Proprio il fatto che il
messaggio oggetto della presente vertenza abbia provocato commenti contrapposti è la
migliore dimostrazione che esso crea scandalo e che non viene accettato con il senso
della normalità. Anche chi difende questo messaggio lo interpreta come il segno di
un’ulteriore liberazione ma, proprio per questo, come il superamento di un limite che a
tutt’oggi è sentito come doveroso».
62
2.
Il giudice autodisciplinare si è in più occasioni trovato ad
apprezzare la compatibilità della raffigurazione o del riferimento nella
pubblicità a tematiche sessuali con il disposto di cui all’art. 9 CAP, volto
a censurare i messaggi contenenti affermazioni o rappresentazioni di
violenza fisica o morale tali da doversi ritenere indecenti, volgari o
ripugnanti secondo il gusto e la sensibilità dei consumatori. Il fine di tale
norma autodisciplinare va ricercato essenzialmente nell’esigenza di
tutelare la pubblicità dalla reazione ostile che sarebbe senz’altro
provocata da messaggi contenenti una tale carica offensiva da vilipendere
la sensibilità dei consumatori e del pubblico in genere, reazione ostile
che, suscitando giudizi negativi e manifestazioni di diffusa insofferenza,
sarebbe gravemente pregiudizievole per il prestigio ed il decoro di cui
l’intero universo pubblicitario dovrebbe godere. Questa succinta premessa
consente di individuare un fondamentale criterio ermeneutico da applicare
nelle fattispecie che presentino le caratteristiche summentovate, quello,
cioè, secondo cui l’art. 9 CAP vada interpretato alla luce dell’art. 1, ed in
particolare, del secondo comma «[la comunicazione pubblicitaria] deve
evitare tutto ciò che possa screditarla». Lo ratio dalla norma in commento
trova ulteriore e prezioso fondamento nella stessa premessa al Codice «[il
Codice di Autodisciplina] ha lo scopo di assicurare che la comunicazione
commerciale, nello svolgimento del suo ruolo particolarmente utile nel
processo economico, venga realizzata come servizio per il pubblico, con
speciale riguardo alla sua influenza sul consumatore». Non può
purtuttavia sottacersi l’apprezzabile valore ermeneutico promanante da
tutte quelle sentenze in cui il Giurì ebbe a precisare come la funzione
propria dell’autodisciplina fosse, non già quella di salvaguardare valori
morali o etici, non potendo agire il Giurì quale arbitro o censore del buon
gusto, quanto piuttosto quella di verificare la compatibilità della
63
comunicazione commerciale con le norme autodisciplinari, nel rispetto
della sensibilità dei consumatori e della creatività degli operatori
pubblicitari (69). Alla luce delle osservazioni svolte deve concludersi che
«il divieto autodisciplinare della volgarità e dell’indecenza non è fine a se
stesso e non è neppure strumentale alla salvaguardia di valori sociali
considerati in quanto tali. È invece un divieto che ha la sua essenziale
ragione d’essere nell’esigenza di tutelare la pubblicità dalla reazione
ostile che sarebbe provocata da messaggi capaci di offendere la sensibilità
dei consumatori e del pubblico in genere. In questa prospettiva […] la
violazione del divieto di utilizzare suggestioni erotiche a fini
promozionali in tanto si realizza in quanto sia attendibile l’ipotesi che il
messaggio provochi il discredito della stessa pubblicità: la suggestione
erotica dunque, per essere vietata, deve essere tale da creare reazioni
diffuse di ostilità contro la pubblicità, sul presupposto che il messaggio,
per il suo contenuto di rottura, abbia l’effetto di “compromettere” o
comunque di “deteriorare” quello che potrebbe essere definito il generale
indice di gradimento della pubblicità stessa» (70).
2.1.
La tematica sessuale, le suggestioni erotiche, come anche
la rappresentazione del nudo o di singoli particolari anatomici in
pubblicità, stante la carenza di un’ontologica contrarietà ai principi
autodisciplinari codificati, non può essere imbrigliata da un moralismo
lezioso ed autoreferenziale, ma «incanalata» verso corrette modalità di
estrinsecazione. La determinazione della contrarietà dei singoli messaggi
(69) Dec. n. 186/1992, 16 marzo 1993, Comitato di Controllo c. Unil-It s.p.a.
Divisione Atkinsons, Telepiù Pubblicità, Publitalia ‘80 s.p.a., Rai Radiotelevisione
Italiana s.p.a.
(70) Dec. n. 100/1985, 11 febbraio 1986, Comitato di Controllo c. Fassi s.p.a.,
Consorzio Canale 5, Italia 1, Retequattro, Business.
64
pubblicitari all’art. 9 CAP è operazione ermeneutica assai ardua, a causa
dell’impossibilità di assegnare un’univoca valenza definitoria ai concetti
di «volgarità» e «indecenza». Occorrerà allora procedere alla ricognizione
dei più diffusi criteri interpretativi elaborati dalla giurisprudenza sul tema,
tenendo in debita considerazione l’irriducibile ricchezza euristica
scaturente da un’analisi della fattispecie attenta e doviziosa, al fine di
individuare quegli elementi che si pongano in rapporto di sintomaticità
con la condotta violativa.
In più occasioni il Giurì ha posto in evidenza come non competa
all’autodisciplina pubblicitaria operare una patinata censura dei beni o
servizi reclamizzati, rientrando nella competenza del Giurì soltanto la
puntuale verifica della corretta esplicazione del messaggio pubblicitario
che di quei beni o servizi sia volto a rappresentare le caratteristiche
merceologiche. Il Giurì, infatti, ha come compito esclusivo quello della
valutazione di conformità della pubblicità dei prodotti alle norme
dell’autodisciplina, e non quella di una valutazione dei prodotti in sé
considerati (71).
(71) Per una panoramica sull’argomento v. dec. n. 11/1998, 29 febbraio 1988,
Comitato di Controllo c. Edizioni Walk Over, in cui il Giurì enunciava con straordinaria
chiarezza, il fondamentale discrimen tra prodotto reclamizzato e messaggio
pubblicitario, all’uopo individuando i limiti entro cui potesse legittimamente
estrinsecarsi il proprio potere cognitorio. Con le parole del Giurì, «non può negarsi che
quando si tratti di pubblicità di prodotti che in sé appaiano in contrasto con i princìpi che
presiedono agli artt. 8, 9 e 10 CAP, le cui intrinseche caratteristiche, cioè, siano
specificamente destinate a soddisfare bisogni determinati da superstizione, credulità, a
rispondere a una domanda di violenza, volgarità, indecenza, può essere forte la
tentazione di usare lo strumento dell’autodisciplina pubblicitaria per colpire la diffusione
di tali prodotti, colpendone e impedendone una pubblicità che per illustrarne le
caratteristiche non può a sua volta, in qualche misura, non presentare caratteri di
superstizione, violenza, volgarità e così via, o almeno richiamarli. Ma il Giurì ritiene
fermamente che il rispetto della sua sfera di competenza gli imponga di interpretare le
norme prima menzionate in un modo che non trasformi l’autodisciplina pubblicitaria in
uno strumento di censura capace di incidere non sulle espressioni pubblicitarie, bensì sui
prodotti reclamizzati. Il che significa che se un prodotto è volgare, indecente, attiene alla
65
Oggetto di censura è stato, al contrario, il riferimento a motivi di
carattere erotico e sessuale manifestamente estranei alla natura o alla
funzione del prodotto reclamizzato, utilizzati arbitrariamente al solo
scopo di suscitare la maggiore curiosità e sorpresa nel pubblico. Un
siffatto impiego della suggestione erotica, distrae la pubblicità dalla
funzione che la stessa è chiamata a svolgere in quanto servizio
socialmente utile, piegandola a finalità meramente commerciali (72).
Il Giurì ha più volte espresso il proprio biasimo al riguardo,
deprecando la diffusa prassi invalsa nel mondo della pubblicità di
sfruttare immagini erotiche al fine di raggiungere un accrescimento del
lucro commerciale, mediante la sofistica ingenerazione di pulsioni
consumistiche fini a sé stesse. Non può pertanto dubitarsi della manifesta
contrarietà all’art. 9 CAP del messaggio pubblicitario contenente
riferimenti erotici al solo scopo di intensificare, con elementi epidermici,
effimeri ed occasionali, l’impatto di richiamo che la pubblicità può ben
sviluppare per altre e diverse vie (73).
superstizione o si richiama alla violenza, e proprio per tali sue caratteristiche trova un
mercato, non competendo al Giurì di impedirne la circolazione, dovrà essere consentito a
chi ne faccia commercio anche di reclamizzarlo, evidenziandone le caratteristiche
medesime, purché nei limiti di obiettive esigenze informative: senza di che sarebbe la
circolazione del prodotto a essere impedita. […] Sia consentito aggiungere che già gli
artt. 8, 9 e 10 CAP impongono al Giurì gravosissime valutazioni della pubblicità di
ordine ideologico, morale e religioso, vale a dire un compito e una responsabilità che
esorbitano quelli di un normale giudice di fatti e di norme giuridiche. E che appare
gravemente ingiusto e inaccettabile qualsiasi tentativo, comunque motivato, di ampliare i
poteri del Giurì pretendendo da esso valutazioni di questo tipo che non riguardino i
messaggi pubblicitari considerati in sé e nelle funzioni informative che devono
adempiere, ma riguardino invece i prodotti; e in particolare riguardino prodotti come
pubblicazioni a stampa la cui valutazione da parte del Giurì si tradurrebbe con ogni
evidenza in quella censura ideologica, morale o religiosa appunto, che è la prima e più
tipica negazione della libertà».
(72) Dec. 35/1973, 9 luglio 1973, Comitato
di Accertamento c. Quarry Jeans
s.p.a., G. & C., Editoriale L’Espresso s.p.a., Publietas s.p.a.
(73) In questo senso v. dec. n. 36/1973, 5 luglio 1973, Comitato
di Accertamento
c. Maglificio e Calzificio Torinese s.p.a.
66
In particolare, implicazioni erotiche e rappresentazione del nudo
sono stati ritenuti espressamente estranei alla pubblicizzazione dei capi di
abbigliamento. Sul punto la giurisprudenza autodisciplinare è assai
copiosa (74). All’uopo non può non menzionarsi la dec. n. 1999/2003 con
riguardo alla campagna pubblicitaria Sisley, rilevata su molteplici riviste
e quotidiani ( 75 ). La campagna consta di sette messaggi. Il primo,
raffigura una giovane donna, presumibilmente all’interno di un’arena,
seduta per terra a gambe inverosimilmente divaricate di fronte ad un toro
di cui si scorgono solo le corna. La modella, vestita soltanto un paio di
calze autoreggenti color carminio, un’impalpabile vestaglia slacciata ed
un paio di mutandine nere, protende la lingua verso l’animale con
espressione inebriata di lussuria. Le modalità comunicazionali mancano
di
ogni
eleganza
e
moderazione,
recando
un’invereconda
rappresentazione della donna, che obnubilata dalla dissolutezza più
scellerata, offre le sue grazie allo scellerato animale. A suggellare la già
intensa repulsione suscitata dall’immagine, vi è il vistosissimo
«riferimento delle corna in primo piano».
( 74 ) A titolo meramente esemplificativo v. dec. n. 196/2000, 27 giugno 2000,
Comitato di Controllo c. Benetton Group s.p.a., Edif s.r.l., Rcs Editori s.p.a. Settore
Pubblicità; dec. n. 99/2001, 30 marzo 2001, Comitato di controllo c. Benetton Group
s.p.a., Energy Project s.r.l., Gruppo Editoriale L’Espresso s.p.a. – divisione la
Repubblica, A. Manzoni & c. s.p.a., A. Mondadori Editore s.p.a., Mondadori Pubblicità
s.p.a. relativa a due messaggi pubblicitari Sisley, pubblicati su D (inserto di la
Repubblica) n. 238 del 13 febbraio 2001, Grazia n. 7 del 20 febbraio 2001, Panorama n.
8 del 22 febbraio 2001; dec. n. 133/2002, 21 maggio 2002, Comitato di Controllo c.
Benetton Group s.p.a., Energy Project s.r.l., Rcs Periodici s.p.a., Rcs Pubblicità s.p.a.,
La Repubblica s.p.a., A. Manzoni & C. s.p.a., A. Mondadori Editore s.p.a., Mondadori
Pubblicità s.p.a., apparsa in numerosi periodici, tra i quali: “Io Donna” n. 11, data
copertina 16 marzo 2002; “Amica” n. 10, data copertina 6 marzo 2002 e n. 12, data
copertina 20 marzo 2002; “Panorama”, data copertina 7 marzo 2002.
(75) Dec. n. 199/2003, Comitato di Controllo c. Benetton Group s.p.a., Edizioni
Condé Nast s.p.a., Rcs Periodici s.p.a., Rcs Quotidiani s.p.a., Rcs Pubblicità s.p.a.,
Gruppo Editoriale L’Espresso s.p.a. – Divisione la Repubblica, A. Manzoni & C. s.p.a.
67
Il secondo messaggio mostra una giovane modella che, fissando con
intensità il pubblico di lettori, «allusivamente infila il dito medio tra le
labbra socchiuse» ad evocare una «trasparente fellatio».
Il terzo dei messaggi raffigura un uomo, verosimilmente un torero
all’esito di un sanguinoso combattimento, con la camicia maculata di
macchie vermiglie.
Un’altra immagine, la quarta, ritrae una giovane donna in bikini
che, reggendo con le esili dita la lama di una spada, ne adagia la punta
aguzza sulla lingua «in posizione di evidente profferta». La medesima
donna è protagonista del quinto messaggio, dove giace su di un letto,
sfoggiando con magnificenza le sue grazie flessuose.
L’ultimo dei messaggi esibisce una donna assai compiaciuta,
mentre l’uomo che la porta in spalle le infila una mano tra le cosce, gli
sguardi dei due sono «allo stesso tempo provocanti e canzonatori».
Le rappresentazioni summentovate, a detta del Comitato di
Controllo, si pongono in contrasto con l’art. 9 CAP, il quale vieta
l’utilizzo in pubblicità di «rappresentazioni (...) che, secondo il gusto e la
sensibilità dei consumatori, debbano ritenersi indecenti, volgari e
ripugnanti». La postura e la gestualità delle protagoniste femminili
rappresentano «situazioni di ostentato erotismo», mentre gli annunci che
ritraggono la donna con la lama acuminata della spada sulla lingua e
l’uomo
brutalmente
macchiato
di
sangue
si
atteggiano
quali
«rappresentazioni di violenza fisica e morale». Gli annunci di questa
campagna, soggiunge il Comitato, ledono profondamente la dignità della
donna, ponendosi in contrasto con l’art. 10 CAP, il quale a sua volta
impone il rispetto della «dignità umana in tutte le sue forme ed
espressioni». Ritiene inoltre il Comitato che simili rappresentazioni
possano «ferire la sensibilità di un pubblico di minori», incitando al
68
compimento di possibili atti emulativi, in contrasto con l’art. 11 CAP.
Ancora «il turbamento e la repulsione provocati dalle immagini descritte
risultano acuiti dalla loro totale gratuità, poiché nulla sembra giustificare
la scelta di esse se non l’intento di raggiungere il maggior impatto
possibile».
Il Giurì ritiene i messaggi componenti la campagna pubblicitaria in
questione, eccettuati il terzo ed il settimo, contrastino con gli artt. 9, 10,
11 e 1 del Codice di Autodisciplina Pubblicitaria, e ne dispone la
cessazione.
Miglior sorte hanno avuto quei prodotti che, per le proprie
intrinseche caratteristiche merceologiche o per le finalità seduttive
perseguite, quali profumi o lingerie, non possono prescindere dal ricorso
a suggestioni sessuali, seppur entro i limiti del buon gusto. Euristicamente
gravida ai fini della presente indagine è la dec. n. 67/1992, in cui il Giurì
affermava l’imprescindibilità di una distinzione «fra l’uso della
suggestione sessuale per pubblicizzare prodotti non direttamente correlati
alla funzione diretta o indiretta del sesso, e l’uso della suggestione
sessuale nella pubblicità di prodotti il cui impiego è invece correlato con
la funzione sessuale», precisando, altresì, che «nel primo caso è ovvio che
il limite è più rigoroso perché la suggestione sessuale è rappresentata del
tutto al di fuori della funzione descrittiva del prodotto. Nel secondo caso
invece il ricorso alla suggestione sessuale è più libero, quanto meno di
quel tanto in più che è reso necessario a fini descrittivi. […] Sennonché,
pur con la maggiore libertà che è data dallo scopo descrittivo, la
suggestione sessuale non può essere rappresentata in qualsiasi modo: un
limite essendo comunque deducibile precisamente da quella sensibilità
dei consumatori alla quale il Giurì deve riferirsi per garantirne la
69
salvaguardia contro le offese peggiori» (76).
Particolare importanza è stata attribuita anche alle modalità
espressive impiegate per la realizzazione del messaggio pubblicitario. Il
Giurì ha sovente mandato assolte pubblicità che, pur contenendo esplicite
allusioni erotiche, fossero state realizzate con tale eleganza e raffinatezza
formale da escludere ogni reazione ostile del pubblico. Trattamento
altrettanto benevolente hanno ricevuto quelle pubblicità che facessero uso
morigerato e sobrio della suggestione erotica, ricorrendo ad un linguaggio
simbolico la cui seducente ricercatezza ed eccellenza allegorica fossero
tali da escludere aprioristicamente qualsiasi censura. Al riguardo il Giurì
ha avuto occasione di sottolineare lo iato gnoseologico che separa il
linguaggio che utilizzi elementi di tipo cognitivo-razionale e quello che,
al contrario, faccia uso di strutture simboliche e archetipali, che agiscono
ad un livello più sotterraneo e misterico, interrogandosi sulla legittimità di
un intervento sanzionatorio anche nei confronti di queste ultime. In
precedenti decisioni il Giurì ha optato per la non perseguibilità del
linguaggio puramente simbolico, al fine di evitare palesi situazioni di
impasse e di paralisi del lavoro creativo, precisando al contempo che
sarebbe stato in ogni caso vietato l’uso del simbolo quando questo fosse
apparso immediatamente trasparente e quando il contrasto avesse favorito
in modo inequivocabile la diretta decodifica del referente, cui il simbolo
allude (77). Diversamente ha opinato il Giurì con riguardo al linguaggio
simbolico la cui elaborazione metaforica lasci trasudare un certo
intellettualismo estetizzante, di talché l’interpretazione del referente
rimanga ammantata dall’organza onirica e surreale del sogno (78).
(76) Dec. n. 67/1992, 22 maggio 1992, Comitato di Controllo c. Blufin s.p.a.,
Modenese & Modenese s.r.l., Rcs Pubblicità s.p.a.
(77) Dec. n. 67/1992, cit.
(78) Dec. n. 168/1989, 19 dicembre 1989, Comitato di Controllo c. di Make Up
70
Maggiore tolleranza, il Giurì ha dimostrato nei confronti di
pubblicità che, pur contenendo suggestioni erotiche, facessero leva
sull’umorismo e la satira del costume, suscitando nel pubblico ilarità e
non, invece, ostilità (79).
Dell’ulteriore e fondamentale parametro di giudizio, quello
dell’influenza che la pubblicità è effettivamente e concretamente in grado
di esercitare sul consumatore, si dirà diffusamente più oltre, stante
l’opportunità di una separata trattazione.
3.
CAP,
Avendo riguardo all’ambito di applicabilità dell’art. 10
deve
osservarsi
preliminarmente
che
la
giurisprudenza
autodisciplinare si è espressa in modo contrastante. Una prima corrente di
pensiero, di matrice squisitamente etica, ritiene che le convinzioni del
pubblico, qualora rientranti tra i «valori tendenzialmente assoluti e di
rango superiore», debbano godere della protezione autodisciplinare,
anche ove, per ipotesi, da una loro lesione non discenda alcuna
apprezzabile conseguenza pregiudizievole sul piano effettuale (
80
).
Studio Diego Dalla Palma, Borg M.P., Arnoldo Mondadori Editore s.p.a., Editoriale la
Repubblica s.p.a., Rcs Pubblicità s.p.a., A. Manzoni & C. s.p.a.
( 79 ) BANORRI, Gli atteggiamenti erotici nella pubblicità: arbitrarietà del
riferimento a motivi di carattere erotico e sessuale ed estraneità con la natura dei
prodotti reclamizzati, in Commentario al Codice dell’Autodisciplina Pubblicitaria, a
cura di Ruffolo, Milano, 2003, pag. 217 ss.
(80) Dec. n. 73/1988, 29 giugno 1989, Comitato di Controllo, Carpigiani Bruto
Macchine Automatiche s.p.a. c. Sanson Industria Dolciaria s.p.a., Rai Radiotelevisione
Italiana s.p.a., Bjkee. La giurisprudenza autodisciplinare è solita annoverare tra i «valori
tendenzialmente assoluti e di rango superiore» le convinzioni religiose, che il Codice di
Autodisciplina protegge «non già come un bene della collettività italiana o della sua
maggioranza, bensì, in armonia con la Costituzione e sulla scia della concezione liberale
della tutela del sentimento religioso come un bene individuale, che viene riconosciuto, in
modo assolutamente paritario, a tutti i cittadini, senza distinzioni di sorta fra le possibili
opzioni religiose
[…]. Nella concezione liberale della tutela delle convinzioni
religiose, accolta dal Codice di Autodisciplina, vi è un solo limite intrinseco alla tutela:
la volgarizzazione innocua del dato religioso». Sull’argomento v. dec. n. 73/1988, cit.
71
L’antecedente logico di un tale argomentare risiede nella stessa ratio
dell’art. 10 CAP, la quale impone la tutela dei consumatori in quanto
titolari di un vero e proprio «diritto a non essere urtati nelle più profonde
convinzioni e nella propria dignità umana da campagne commerciali»
(81). Accanto a questo filone, sostanzialmente fondato sull’idea che l’art.
10, come anche l’art. 9 CAP, vada ricondotto ad una matrice di tutela dei
più generali interessi dei cittadini, esiste un’altra corrente di pensiero,
«alquanto differente nel fondamento ma spesso non dissimile nei
risultati», secondo cui la ratio di queste norme non è meramente
strumentale alla salvaguardia di valori sociali considerati in quanto tali
ma «consiste nell’esigenza di tutelare la pubblicità dalla reazione ostile
che sarebbe provocata da messaggi capaci di offendere la sensibilità dei
consumatori e del pubblico in genere» ( 82 ). Questa seconda posizione
rivela una maggiore coerenza con lo spirito normativo sottostante
all’intero Codice di autodisciplina. Ed invero, «l’assunto ex art. 1 CAP,
secondo il quale la pubblicità deve evitare tutto ciò che possa screditarla,
Nella dec. n. 27/1995, 2 maggio 1995, Comitato di controllo c. Casa Damiani s.p.a.,
Publitalia ‘80 s.p.a. il Giurì si sofferma sull’accezione semantica della locuzione
“Tutti”, affermando che tale locuzione è da riferirsi non solo a chi nutre sentimenti
religiosi o semplice rispetto per i sentimenti altrui ma anche a chi è indifferente o
irrispettoso della sensibilità religiosa altrui […], a tutti costoro va assicurata la tutela di
questo bene considerato tra quelli prioritari, ai quali cioè è stata attribuita una
precedenza ideale per motivi di maggiore validità, importanza o urgenza. Un importante
corollario a questo principio è stato posto dalla successiva dec. n. 219/1995, 7 novembre
1995, Comitato di controllo c. Swish Jeans Rome s.r.l., Saatchi & Saatchi Advertising
s.p.a., in cui si legge «All’Autodisciplina pubblicitaria non si può dare il carico di
salvaguardare la patologia o l’ottica individuale nel sentire la religione, dovendo limitare
il proprio intervento, se richiesto, alla miglior difesa dei valori religiosi storici
generalmente condivisi […]. Tuttavia, quello della sensibilità individuale, ma anche dei
limiti del buon gusto, o del fastidio personale e dell’indignazione circoscritta, è un
territorio che il Giurì deve ritenere al di fuori del proprio ambito di dovuta tutela e
nell’ambito del quale il giudizio finale non può che essere espresso dalla risolutiva
risposta d’acquisto, positiva o negativa, del consumatore».
(81) Dec. n. 73/1988, cit.
(82) Per un approfondimento cfr. CUCCINO, cit., pag. 988.
72
ha un valore ermeneutico prioritario, che gli deriva da precise realtà
storiche e ideologiche, rispetto a qualsiasi altra norma, […]. In altre
parole, l’art. 1 delinea l’ambito teleologico […], alla luce del quale
devono essere percorsi gli spazi interpretativi connessi all’applicazione
delle rimanenti norme del Codice. Riconoscere nell’autotutela del sistema
il bene da perseguire prioritariamente, non significa sminuire o svuotare
del tutto l’importanza degli altri valori ugualmente tutelati. Significa solo
fissare un parametro di riferimento, un criterio più circoscritto, se si vuole
perfino solo di natura pragmatica, idoneo cioè a fornire all’interprete delle
chiavi di valutazione dei messaggi, da un lato, di più agevole
applicazione; da un altro, più coerenti e consone alla matrice privata del
sistema autodisciplinare» ( 83 ). Dietro il velleitarismo concettuale dei
tentativi di astrazione assolutizzante di taluni valori dai quali emergono
profili apprezzabili in chiave eminentemente ideologica e morale, si cela,
implacabile, il pericolo di una pletorica autoreferenzialità della tutela
autodisciplinare, pericolo, questo, estrinsecantesi nell’assurda pretesa che
la pubblicità sia «migliore della società da cui scaturisce!» (84) (85).
4.
Non può certo negarsi che la comunicazione pubblicitaria
abbia sempre mostrato una qualche affezione per l’iconografia erotica,
purtuttavia, in tempi più recenti, tale affezione si è tramutata in una sorta
di rovello ossessivo e morboso. La stragrande maggioranza degli
inserzionisti ricorre alla rappresentazione dell’erotismo per reclamizzare
servizi e prodotti di ogni sorta, ostentando una autoreferenzialità
(83) Op. et loc. supra cit.
(84 ) Op. et loc. supra cit.
(85 ) Per quanto attiene ai profili di sindacabilità delle pubblicità coinvolgenti le
convinzioni etiche e morali dei cittadini, valgano le medesime considerazioni svolte con
riguardo all’art. 9 CAP. Sul tema v. infra § 2.1.
73
selvaggia e trascendendo i limiti della decenza e del cattivo gusto imposti
dalle norme autoregolamentari. I casi esaminati nella trattazione che
segue varranno ad affinare il fuoco euristico circa le tendenze
ermeneutiche svelatesi nel seno della giurisprudenza autodisciplinare
italiana sul tema in argomento.
Più volte il Giurì si è trovato ad apprezzare la conformità
all’ordinamento autodisciplinare delle immagini pubblicitarie utilizzate da
Benetton per le sue campagne. Tra le pronunce di maggior caratura si
annoverano le decisioni nn. 196/2000, 99/2001 e 133/2002 (86). La prima
delle decisioni summentovate concerne un inserto pubblicitario
raffigurante il corpo di una donna colta nell’atto di carezzare con la mano
cinta di preziosi gioielli la zona pubica. La modella, vestita di una sola
maglietta di tulle e un paio di mutandine, è seduta a gambe divaricate sul
bordo di una piscina. Accanto alla figura è pubblicata la ricetta della
Bob’s Cheesecake (87). Ad avviso del Comitato di Controllo l’immagine
risulta marcatamente volgare e supera i limiti del buon gusto e della
decenza poiché nell’effigiare in modo lezioso nient’altro che una pratica
onanistica, lascia trapelare l’assoluta incongruenza fra questa e il prodotto
reclamizzato, donde la violazione degli artt. 9 e 1 CAP. Le modalità
espressive impiegate, soggiunge l’organo di controllo, sono invero
parecchio ridondanti, siccome ispirate all’iperbolica sublimazione della
lascivia e della più triviale scostumatezza, mostrando un’intrinseca
idoneità a gettare discredito sulla pubblicità come istituzione. L’inusuale
accostamento degli elementi figurativi celebra una passione logorante: la
donna è ritratta senza volto, le gambe sono innaturalmente divaricate e
sollevate verso l’alto, la mano è schiacciata sul pube dal peso di pacchiani
(86) Rispettivamente, dec. n. 196/2000, cit; dec. n. 99/2001, cit; dec. 133/2002,
cit.
(87) Dec. n. 196/2000, cit.
74
monili. Ogni cosa evoca una gestualità erotizzante e stucchevole,
esasperata dalle cromie sfavillanti del rosso carminio.
Nell’opinione della resistente la tesi del Comitato è quantomeno
velleitaria ed ambiziosa, dal momento che non tiene in minima
considerazione la fondamentale circostanza che l’ambientazione prescelta
dall’inserzionista fosse quella di una piscina, e che, pertanto, la
rappresentazione di una donna in abiti succinti dovesse essere considerata
assolutamente pertinente e non sovrabbondante. In subordine la resistente
contestava la circostanza, di raro interesse comparatistico, che il
medesimo inserto pubblicitario, sottoposto al vaglio dell’organo di
autodisciplina pubblicitaria inglese, l’Asa Advertising Standard Authority,
fosse uscita immune da censure di sorta. Cionondimeno, adducendo
argomentazioni alquanto tendenziose e formalistiche, la stessa resistente
auspicava, contestualmente prospettandone l’irrinunciabile convenienza,
una decisione conforme al precedente inglese da parte del giudice
autodisciplinare italiano, al fine di scongiurare l’insorgere di un conflitto
giurisprudenziale all’interno della European Advertising Standard
Alliance, cui aderiscono sia l’Istituto di Autodisciplina pubblicitaria, sia
l’Advertising Standard Authority. Esaurita la discussione tra le parti, il
Giurì, dopo aver precisato che «la circostanza che la pubblicità non sia
stata censurata dall’istituto inglese di autodisciplina è del tutto irrilevante,
diverse essendo cultura e sensibilità dei vari Paesi, anche in relazione
all’abitudine del pubblico alla diffusione di immagini di un certo tipo»,
dichiara l’annuncio in contestazione in contrasto con l’art. 9 CAP,
«poiché rappresenta e suggerisce atteggiamenti volgari», e con l’art. 1,
«poiché l’immagine - essendo priva di ogni funzionalità in relazione
all’esigenza di illustrare natura e pregi del marchio Sisley - tende a
imprimerne nella mente il ricordo, strumentalizzando sensibilità, pruderie
75
o debolezze del pubblico, gettando discredito sulla comunicazione
pubblicitaria» (88).
Il secondo caso che ci si accinge ad esaminare, stabilito con dec. n.
133/2002 e concernente alcuni messaggi pubblicitari facenti parte di
un’unica campagna Sisley, si connota per la preponderante presenza di
riferimenti a pratiche onanistiche assai spinte, presentando molteplici
profili di stridente dissonanza con le norme autodisciplinari. I cinque
messaggi pubblicitari sono pervasi da una marcata omogeneità tematica,
un leit motiv estrinsecantesi in una martellante riproposizione motivica
enfatizzata da ardenti contrasti cromatici (89).
Nel primo messaggio viene rappresentata una scena di marcato
autoerotismo: una donna in posizione supina introduce la mano sinistra
tra le gambe in prossimità della zona pubica. La postura e la gestualità
( 88 ) Per completezza espositiva, sembra opportuno precisare che nel caso di
specie il Comitato di Controllo chiedeva la condanna della Rcs e della Edif, proprietarie
dei mezzi di comunicazione sui quali è stata pubblicata la pagina pubblicitaria in
contestazione, oltreché per la violazione degli artt. 9, 1, anche per l’asserita violazione
dell’art. 11 CAP. La disposizione da ultimo richiamata tutela i bambini e gli adolescenti
stabilendo che «una cura particolare deve essere posta nei messaggi che si rivolgono ai
bambini e agli adolescenti o che possono essere da loro ricevuti. Questi messaggi non
devono contenere nulla che possa danneggiarli psichicamente, moralmente o fisicamente
e non devono inoltre abusare della loro naturale credulità o mancanza di esperienza, o
del loro senso di lealtà. In particolare questa comunicazione commerciale non deve
indurre a: violare norme di comportamento sociale generalmente accettate;
compiere
azioni o esporsi a situazioni pericolose;
ritenere che il mancato possesso del prodotto
oggetto della comunicazione significhi inferiorità, oppure mancato assolvimento dei loro
compiti da parte dei genitori;
sminuire il ruolo dei genitori e di altri educatori nel
fornire valide indicazioni dietetiche;
adottare l’abitudine a comportamenti alimentari
non equilibrati, o trascurare l’esigenza di seguire uno stile di vita sano;
sollecitare altre
persone all’acquisto del prodotto oggetto della comunicazione. L’impiego di bambini e
adolescenti nella comunicazione deve evitare ogni abuso dei naturali sentimenti degli
adulti per i più giovani». Tuttavia il Giurì ritiene che nel caso sottoposto alla sua
cognizione non ricorrano gli estremi per l’applicazione della disposizione in commento,
poiché la circostanza di fatto che i prodotti Sisley fossero indirizzati agli adolescenti non
è stata tempestivamente contestata con il ricorso introduttivo, né su di essa si è raggiunta
la prova nel corso del giudizio.
(89) Dec. 133/2002, cit.
76
della donna sono tutte improntate alla più evidente lascivia. Il volto è
acceso in un’espressione bramosa di lussuria, le labbra aperte invocano
trepidanti i piaceri carnali, mentre gli occhi dissuggellano un’intimità
solitaria e melanconica (90).
Il secondo messaggio rappresenta un giovane con l’indice e il
medio della mano sinistra uniti davanti alla bocca e la lingua infilata tra le
dita, protesa verso il lettore, dando così luogo a una raffigurazione
chiaramente allusiva, talmente volgare da non poter essere tollerata e
accettata in
ambito
pubblicitario.
L’immagine, già di
per sé
raccapricciante, è inserita in uno scenario cupo, lugubre e financo funereo
che evidenzia oltremisura il nichilismo psicologico riflesso negli occhi
del giovane.
Il terzo messaggio rappresenta il medesimo modello seduto a gambe
divaricate, che indossa solo un paio di slip neri, e ha una mano appoggiata
sul pube. Da un lato degli slip fuoriesce una banana, chiara suggestione
fallica. Privo di quella giocosità burlesca e dilettevole che avrebbe potuto
attenuarne la carica erotica, anche questo messaggio, ad avviso
dell’organo inquirente, ostenta le più intime costumanze erotiche,
squarciando il velo della segretezza e del pudore nel più deprecabile dei
(90) Il Comitato di Controllo ritiene che il contrasto del messaggio in parola con le
norme autodisciplinari sia insanabile, arguendo che «anche se in pubblicità non esistono
normalmente tabù, i gesti inerenti la sessualità devono continuare ad appartenere alla
sfera personale e alla riservatezza delle persone: quando tali gesti vengono enfatizzati
come nel messaggio pubblicitario in oggetto, finiscono per suscitare reazioni
innegabilmente negative». Il Comitato ritiene, altresì, che l’atteggiamento della ragazza
ritratta nel messaggio pubblicitario leda profondamente la dignità della donna, ponendosi
così in contrasto con l’art. 10 CAP. Infine, soggiunge, l’allusione a situazioni così intime
in ambito pubblicitario, non può che provocare forte disorientamento nel pubblico,
specialmente ove trattasi di un pubblico di adolescenti, che non hanno ancora avuto
modo di sviluppare quelle barriere di protezione e di elaborazione critica verso simili
immagini, di cui dispongono gli adulti.
77
modi (91).
Il quarto messaggio della campagna pubblicitaria rappresenta, in
due distinte fotografie, una adolescente sullo sfondo di un muro dai colori
cupi.
Nella prima immagine, la ragazzina indossa un completo intimo
trasparente dalle tinte molto tenui, e lascia scoperto un seno, mentre
rivolge lo sguardo intenso verso il lettore, con le labbra lucide e dischiuse.
Nella seconda foto, la modella è ripresa di schiena, con la stessa
biancheria intima, le braccia e le gambe aperte appoggiate sopra il muro,
come imprigionata, e la testa reclinata indietro ( 92 ). In entrambe le
rappresentazioni fotografiche la modella, imbrigliata in una cornice di
sopruso e coercizione, pare volersi concedere al suo carnefice per
assecondarne la fame famelica, in un caso, offrendo la nudità del suo seno
opulento, nell’altro, assumendo una posa che soltanto l’esistenza di salde
catene a torcerne le membra, avrebbe potuto consentire. Da non
trascurare, nella seconda immagine, la postura del capo, reclino
all’indietro, in segno di arrendevolezza e acquiescenza.
L’ultima rappresentazione pubblicitaria rappresenta – su due pagine
– i piedi di una donna calzati da eleganti sandali dai tacchi a spillo sulla
schiena di un ragazzo, e sprofondati nella pelle. L’immagine presenta una
trasgressività estrema e ributtante, risultando pregna di una simbologia
(91) Con riguardo a questo particolare aspetto, il Comitato di Controllo precisa
che «anche se il tema della sessualità non è di per sé estraneo al mondo della pubblicità,
cionondimeno, le raffigurazioni proposte dalla Sisley hanno un vero contenuto
pornografico, oltre a essere discreditanti e pretestuose». E ancora, «non vi è dubbio che
la pubblicità in oggetto superi i confini di liceità tracciati dal Codice e dalla
giurisprudenza autodisciplinare a tutela del pubblico».
( 92 ) Illuminanti al riguardo sono le parole del Comitato di Controllo, il quale
ritiene «evidente il richiamo a suggestioni erotiche appartenenti alla sfera della violenza
e del sadomasochismo». Il Comitato opina che le due immagini, anche «viste in rapporto
con le altre della campagna Sisley, presentino profili di ambiguità non accettabili, per le
modalità con le quali viene usato il corpo di una adolescente, in pose ammiccanti, idonee
a evocare suggestioni inadeguate sia per un pubblico di adulti, sia, a maggior ragione,
per un pubblico di adolescenti […]».
78
inneggiante alla violenza ed alle pratiche sadomasochistiche. I tacchi
delle scarpe indossate dalla donna trapassano la pelle del giovane,
giungendo alla carne e procurandogli non poca sofferenza fisica,
cionondimeno la sua espressione pare di godimento quasi gaudente, a
significare che questi, lungi dal voler sottrarsi al lancinante dolore, ne
tragga piuttosto beatitudine e appagamento.
Il Giurì, esaminati gli atti e sentite le parti,
dichiara i messaggi
litigiosi non conformi agli artt. 9, 10, 11, e 1 CAP, ordinandone
l’immediata cessazione (93).
Molteplici sono le assonanze tra questa pronuncia e la dec. n.
99/2001 di poco precedente, ambedue inserendosi nel quadro di un
orientamento giurisprudenziale ormai consolidato ( 94 ). La decisione in
oggetto riguarda due messaggi pubblicitari apparsi su alcuni noti
periodici. Il primo messaggio raffigura una giovane donna che tiene nella
mano destra un fiore, caratterizzato da un lungo pistillo arancione, mentre
infila la mano sinistra nello spacco della gonna, in atteggiamento di
spiccato autoerotismo. Il Comitato di Controllo ritiene che i messaggi in
discorso si pongano in contrasto con gli artt. 9, 10 e 1 CAP. Secondo la
tesi prospettata dalla parte inquirente, le modalità visive con le quali è
rappresentato il tema sessuale sono oltremodo «enfatizzate e proposte con
connotati degradanti, al solo scopo di richiamare l’attenzione sulla
(93) Di seguito le argomentazioni, invero di agevole intuizione, poste dal Giurì a
base della sua decisione: l’intera campagna pubblicitaria violerebbe l’art. 10 del Codice
di Autodisciplina che tutela la dignità della persona perché raffigura la donna in modo
offensivo e indecoroso senza giustificazione alcuna, l’art. 9 perché volgare e indecente,
l’art. 11 perché il prodotto reclamizzato, e cioè la linea di abbigliamento Sisley, destinata
a un pubblico di giovani e giovanissimi, può avere effetti negativi su soggetti ancora
immaturi e facilmente influenzabili dalla crudezza e gratuità dell’immagine e, infine,
l’art. 1 perché il messaggio, che ha il solo effetto di provocare turbamento e repulsione, è
idoneo a screditare l’intero sistema pubblicitario.
(94) Dec. n. 99/2001, cit.
79
comunicazione pubblicitaria». Poiché nessun collegamento è dato
scorgere tra la scelta comunicazionale adottata e i prodotti pubblicizzati,
quest’ultima si connota per una autoreferenzialità sovrabbondante che
non può in alcun modo essere tollerata dall’ordinamento pubblicitario,
ponendosi con esso in plateale contrasto. Ciò, in quanto il lungo pistillo,
lungi dal rappresentare un mero elemento ornamentale, costituirebbe
un’effige fallica difficilmente equivocabile, mentre la gestualità sensuale
della mano sinistra della donna, immessa nella gonna all’altezza del pube,
evocherebbe l’idea del luogo a cui lo stesso è destinato.
Il secondo messaggio è composto da due immagini, che occupano
due pagine consecutive del giornale: la prima rappresenta un ragazzo in
piedi, con maglietta e pantaloni bianchi, che impugna con entrambe le
mani, all’altezza del pube, un fiore di colore rosa intenso, con un pistillo
color oro. Nella seconda, appare soltanto il fiore rosa in primo piano,
sempre impugnato dalle mani del ragazzo, sullo sfondo bianco dei
pantaloni. Il Comitato ritiene che questo secondo messaggio abbia
carattere «allusivo ed esibizionistico, simboleggiando nel fiore l’organo
genitale maschile, anche qui al solo scopo di richiamare l’attenzione del
pubblico».
Inoltre, non vi sarebbe «alcuna connessione fra le immagini
ed il marchio dell’inserzionista, sicché i richiami sessuali appaiono del
tutto gratuiti e volgarmente incentrati sugli organi genitali». Il Comitato
persevera nelle sue argomentazioni, ponendo l’accento sulla circostanza,
certo
non
trascurabile,
che
l’attenzione
del
consumatore
sia
capziosamente catturata dalla presenza di due elementi iconografici: il
vigoroso contrasto cromatico tra il bianco quasi argenteo dei pantaloni e il
rosa esuberante del fiore, da una parte, e l’espressione animalesca, quasi
ferina, che abbrutisce il volto del giovane, dall’altra. Il giudice
pubblicitario dichiara i due annunci in contrasto con l’art. 9 CAP, «perché
80
volgari e indecenti, nonché con l’art. 1 del medesimo codice, perché
l’utilizzazione superflua, negli annunci pubblicitari, di immagini e
concetti scabrosi, al solo scopo di rafforzarne l’impatto emotivo sul
pubblico, getta discredito sulla pubblicità». Non vi ravvisa invece
violazione dell’art. 10 CAP, «poiché l’evocazione di temi scabrosi non è
realizzata con modalità tali da mettere in questione la dignità della
persona, violandone l’intimità, la riservatezza o il decoro».
La dec. n. 92/2001 ha ad oggetto un inserto pubblicitario ritraente
«una ragazza dalla vita all’inguine, vestita con un blue jeans slacciato,
con una mano ingioiellata con le dita infilate in uno slip nero» ( 95). E la
pubblicità reca all’altezza del pube la headline “trasgredisci con Emporio
Recarlo”. Il Comitato di Controllo, osservato preliminarmente che il tema
della sessualità non sia aprioristicamente ed acriticamente precluso alla
comunicazione pubblicitaria, chiarisce che nel caso in esame l’immagine
«trascende il limite del semplice cattivo gusto e della decenza», e
«raffigura un gesto di autoerotismo volgare ed indecente», senza che vi
sia collegamento alcuno tra la rappresentazione in parola e il prodotto
reclamizzato, di qui il contrasto con l’9 CAP. L’ulteriore violazione
dell’art. 11 CAP deriverebbe, a detta del Comitato, dall’ostentazione
esibizionistica e magnificante di atteggiamenti improntati al più volgare
autoerotismo, con potenziale turbamento delle convinzioni etiche e morali
della collettività e grave nocumento per la maturazione sessuale e
psichica dei minori. Il messaggio litigioso non si limiterebbe, infatti, a
rappresentare staticamente un’immagine chiaramente suggestionante e
allusiva, ma si spingerebbe ben oltre, incitando i giovani adolescenti ad
emulare gli atteggiamenti oggetto di raffigurazione, ne sarebbe limpida
(95) Dec. 92/2001, 20 marzo 2001, Comitato di controllo c. Recarlo s.r.l., Rcs
Editori s.p.a. – Settore Periodici, Rcs Editori s.p.a. – Settore Pubblicità.
81
dimostrazione la scritta “Trasgredisci con Emporio”. Opina il Comitato
che le modalità comunicative utilizzate dall’inserzionista siano prive di
qualsivoglia pregevolezza, rivelandosi financo grossolane, idonee per ciò
stesso a gettare discredito sulla pubblicità, in violazione dell’art. 1 CAP.
Il Giurì di Autodisciplina non condivide integralmente la decodifica
operata dall’organo inquirente, considerando il messaggio litigioso
contrario all’art. 9 del CAP, ma soltanto limitatamente alla scritta
summentovata, e non anche con riguardo alla parte iconografica.
All’uopo il Giurì mette a fuoco la fondamentale circostanza che «la
pubblicità litigiosa non contenga una raffigurazione di autoerotismo:
perché la mano della ragazza è diretta verso il basso, ma a partire
dall’altezza dell’ombelico, ed ha infilate nello slip soltanto l’ultima
falange di due dita, onde per entrambe le ragioni il gesto certamente non è
direttamente espressivo di un atto di autoerotismo». È bensì vero però,
che l’headline riqualifica il messaggio in senso metaforico e traslato. Il
collegio conclude, come più sopra anticipato, affermando: «la pubblicità
litigiosa non è interamente confliggente con l’art. 9 CAP; lo è
principalmente per la parola “trasgredisci”, associata con l’immagine; e
non costituirebbe un illecito autodisciplinare ove la pubblicità eliminasse
le parole “trasgredisci con”».
Rientra a pieno titolo in questo gruppo di sentenze, aventi ad
oggetto tematico la rappresentazione dell’erotismo in pubblicità, anche la
dec. n. 316/2000, concernente due inserti pubblicitari, Honeysuckle e
Virgin, apparsi su taluni noti periodici (96). Il primo di essi ritrae in primo
(96) Dec. 316/2000, 7 novembre 2000, Comitato di Controllo c. Benetton Group
s.p.a., Gruppo Editoriale L’Espresso s.p.a. Divisione la Repubblica, A. Manzoni & C.
s.p.a., Rcs Editori s.p.a. Settore Periodici, Cairo Pubblicità s.p.a. relativa ai messaggi
pubblicitari Honeysuckle e Virgin, pubblicati rispettivamente su “D”, supplemento de “la
Repubblica delle Donne” n. 215, data copertina 29 agosto 2000 e di “Io donna” n. 39,
data di copertina 23 settembre 2000.
82
piano una fanciulla vestita soltanto di una «canottiera rosso fuoco, che ne
mette in risalto il seno procace, e la mano di un uomo che le cinge da
dietro un seno, premendolo». Il Comitato ritiene, anzitutto, la scelta
comunicazionale, «oltre che palesemente in contrasto con l’art. 9 del
Codice di Autodisciplina, anche in violazione dell’art. 1 dello stesso
Codice in quanto getta discredito sulla pubblicità in generale. Data la
spersonalizzazione del messaggio […], l’annuncio può […] essere
decodificato nel senso di un gesto di sopraffazione e di molestia subìto
dalla donna in spregio […] a quanto previsto all’art. 10». La scelta
iconografica pare invero assai deplorevole, poiché estrinsecantesi
nell’arbitraria estrapolazione di una scena erotica dal naturale contesto
intimo, e nella sua collocazione in gigantometrie affissionali esposte al
grande pubblico dei consumatori. Di qui la spregevole volgarità di cui il
Comitato si duole, ulteriormente aggravata dalla pleonastica superfluità
della rappresentazione, idonea, per le modalità scandalistiche utilizzate, a
screditare l’intero mondo pubblicitario. Il secondo messaggio oggetto di
contestazione mostra «i glutei e le gambe di una donna prona adagiata su
un letto di ottone, che indossa solo una maglia leopardata e un collant di
rete nera sotto al quale sono visibili gli slip bianchi e, infine, un paio di
stivali neri di pelle con tacco alto, sottolineati dalle gambe piegate
all’indietro leggermente aperte. L’assenza dell’indumento inferiore,
privando di funzione gli stivali di pelle nera, ne esalta, a detta del
Comitato, la valenza di richiamo erotico. Tra l’altro l’immagine è
accompagnata da un’headline smaccatamente allusiva, che si rifà
all’ambiguo nome di un cocktail Virgin». L’ostentazione del lusso,
l’ambientazione sfarzosa, l’oro dell’arredamento rendono la scena
alquanto preziosa, esaltandone il carattere già di per sé erotizzante e
83
feticista oltre ogni tollerabilità. Quello che viene effigiato è un vero e
proprio culto della lussuria più sfrenata, che irride al pudore virgineo con
acre sarcasmo. Pertanto il messaggio in esame si pone in contrasto con gli
art. 9, 10 e 1 CAP. Il Giurì, respinte le doglianze avanzate dalla resistente,
la quale lamentava la manifesta tendenziosità ed l’infondatezza delle
motivazioni prospettate dal Comitato, dichiara il contrasto della
pubblicità litigiosa con gli articoli di cui sopra e ne dispone la cessazione.
Desta particolare interesse anche la dec. n. 98/2001 avente ad
oggetto un messaggio pubblicitario della nota casa di moda Emanuel
Ungaro, apparso su riviste di straordinaria diffusione (97). Tale annunzio
ritrae una fanciulla inginocchiata a gambe divaricate con una mano
infilata all’altezza del pube sotto un vestito evanescente. L’espressione
che si coglie sul volto della giovane donna è di estatico rapimento. La
postura di servile proscinesi della modella «effigia una situazione di
ostentato autoerotismo risultando nel complesso marcatamente indecente
e ben la di là del limite del cattivo gusto», ponendosi in aperto contrasto
con l’art. 9 CAP. Opina il Comitato che l’atteggiamento erotico ritratto
nell’immagine pubblicitaria in discorso appartenga alla sfera più segreta
dell’intimità femminile, di talché una simile raffigurazione integrerebbe
senz’altro una grave offesa alla dignità della donna, contravvenendo
all’art. 10 CAP. L’assoluta irrelazione al prodotto pubblicizzato
dell’immagine rappresentata, soggiunge l’organo di controllo, aggrava ed
acuisce il turbamento ed il fastidio provocati da quest’ultima, scalfendo
l’alta estimazione di cui la comunicazione pubblicitaria tutta dovrebbe
( 97 ) Dec. 98/2001, 29 marzo 2001, Comitato di controllo c. Emanuel Ungaro
s.p.a., Gruppo Editoriale L’Espresso s.p.a., divisione La Repubblica, A. Manzoni & C.
s.p.a., Rcs Editori s.p.a., Settore Periodici, Rcs Editori s.p.a., Settore Pubblicità. I
periodici in questione sono “Anna” n. 9 del 2/3/2001 e “D” di Repubblica n. 236 del 30
gennaio 2001.
84
godere, in contrasto con l’art. 1 CAP. Il Giurì accoglie le istanze del
Comitato di Controllo e dispone l’immediata cessazione del messaggio
pubblicitario e la contestuale pubblicazione per estratto della decisione
sui mezzi in cui il messaggio è stato pubblicato (98). Con questa sentenza
il Giudice pubblicitario richiama l’attenzione dell’inserzionista sulla
natura eminentemente pattizia dell’istituzione autodisciplinare, affinché
non sia gettata nell’oblio l’intima consapevolezza che proprio da quella
discenderebbe l’abbassamento della soglia di tolleranza nei confronti
degli atteggiamenti posti in essere dai soggetti operanti nell’universo
pubblicitario, essendosi questi liberamente e spontaneamente vincolati ad
un’etica comportamentale codificata: «Non vi è nulla di eroico, né di
coraggioso nel proporre una simile trovata pubblicitaria, posto che la
tolleranza verso la pornografia va ben oltre questi livelli, sicché nessuna
sanzione è prevista al riguardo dal nostro ordinamento statuale.
Piuttosto la tematica odierna riporta alle radici dell’istituzione
autodisciplinare, ossia di una libera pattuizione tra soggetti operanti nel
campo pubblicitario che si dotano volontariamente di un codice di lealtà
pubblicitaria, per evitare appunto condotte opportunistiche che di primo
acchito premiano colui che ottiene l’effetto di attrarre l’attenzione del
pubblico sulla propria inserzione, ma che nel medio lungo periodo
conducono a screditare l’intero comparto».
(98) In motivazione osserva il giurì come ai fini della pubblicazione di cui all’art.
40 CAP «non rilevi solo il carattere plateale della violazione degli articoli citati, ma
rilevi anche la reiterazione di forme di comunicazione pubblicitaria, troppo palesemente
in contrasto con le regole dell’Autodisciplina per lasciare dubbi sull’intenzionalità
dolosa di sottrarsi ad esse. Il che in un sistema come quello autodisciplinare equivale al
programma di lasciare ad altri l’incombenza di preservare l’alto livello del settore
tenendo per sé i vantaggi della spregiudicatezza». È a tutti noto che la Emanuel Ungaro,
quantunque sia diverse volte incorsa nella riprovazione del Giudice pubblicitario, non
abbia mai dato segno di resipiscenza alcuna, continuando ad adottare per le sue
campagne pubblicitarie una linea comunicazionale tutta improntata alla più tracotante
magnificazione dell’erotismo.
85
Soltanto di qualche anno più tardi è la dec. n. 215/2003 in cui il
Giurì ebbe ad condannare un annuncio pubblicitario che esibiva un nudo
femminile che giace in posizione orizzontale avviluppato nell’oscurità. La
modella regge nella mano sinistra il profumo reclamizzato la cui lussuosa
confezione splende di una brillantezza preziosa che ne imperla la pelle
lattescente (99). Secondo la lettura data dal Comitato il messaggio si pone
in stridente contrasto l’art. 9 CAP, poiché la simbologia adoperata
conduce fatalmente il lettore ad una decodifica in chiave erotica, e più
specificamente, onanistica, dello stesso. Le fattezze dell’ampolla dorata
evocano senza dubbio quelle falliche, quanto poi alla sua collocazione,
avvinta nel grembo della donna e tra le due dita, non può dubitarsi che
preluda ad una volgare pratica onanistica, la cui intrinseca grossolanità è
acuita dalla scintillante luminescenza irradiata dall’ampolla, che porta in
ulteriore evidenziazione l’atto rappresentato. L’immagine si pone altresì
in contrasto con l’art. 10 CAP «poiché la raffigurazione della donna come
mera sezione corporea, deprivata della sua identità individuale,
risulterebbe offensiva della dignità della persona umana». Da ultimo,
rileva il Comitato la totale pretestuosità e gratuità della rappresentazione,
«donde anche la violazione dell’art. 1 CAP, potendo l’immagine suscitare
nel pubblico reazioni di rifiuto tali da comportare discredito per la
pubblicità».
La controparte si duole della manifesta infondatezza delle censure
mosse dall’organo inquirente avendo cura di rilevare che, quantunque la
simbologia del messaggio in contestazione possa essere interpretata
(99) Dec. n. 215/2003, 11 febbraio 2004, Comitato di Controllo c. Gianfranco
Ferré s.p.a., Les Gitanes s.r.l., Rcs Periodici s.p.a., Rcs Pubblicità s.p.a., Publitalia ’80
s.p.a. con riguardo al messaggio pubblicitario “Essence d’eau Gianfranco Ferré”,
rilevato sul mensile Amica, n. 11, novembre 2003.
86
secondo una lettura sessuologica di matrice freudiana, cionondimeno vi
sarebbero due ulteriori chiavi di lettura cui condurrebbe l’analisi
semiotica dei messaggi: «un’interpretazione psicologica, che delinea la
[...] capacità del prodotto di apportare alla donna che lo usa emozioni
sorprendenti e quasi magiche, che si irradiano nel corpo [...], come il
riverbero luminoso
della boccetta.
Un’interpretazione simbolico-
antropologica, che sottolinea la capacità, insita nel prodotto, di apportare
“energia vitale” alla donna che ne fa uso».
Il Giurì, esaminati gli atti e sentite le parti, dichiara il contrasto
della pubblicità litigiosa con l’art. 9 CAP e respinge ogni altra istanza.
4.1.
Non di rado il linguaggio pubblicitario ricorre alla
rappresentazione delle pratiche zoosessuali più raccapriccianti, il cui
carattere intrinsecamente perverso è tanto più evidente ove si consideri
che la stragrande maggioranza dei casi, molti dei quali saranno esaminati
nella presente trattazione, si caratterizza per la carenza di qualsivoglia
legame, anche transeunte od occasionale, tra l’iconografia impiegata e il
prodotto reclamizzato.
L’antesignana delle pubblicità contenenti reminiscenze di questo
tipo, è la pubblicità “Beat stories from big sur”, la cui assiomatica
autorevolezza quale precedente è indubitabile (
100
). L’iconografia
rappresenta una giovane donna vestita interamente di nero che stringe tra
le braccia un agnellino. Tra le gambe divaricate della modella si intravede
lo slip macchiato di sangue. Anche l’animale reca vistose tracce vermiglie
intorno alla bocca, lievemente socchiusa. A parere del Comitato di
(100) Dec. n. 377/1999, 23 novembre 1999, Comitato di Controllo c. Benetton
Group s.p.a., Energy Project s.p.a., A. Mondadori Editore s.p.a., Mondadori
Pubblicità S.p.a., con riguardo al messaggio Sisley “Beat stories from big sur”. diffuso
su “Panorama” n. 41, data di copertina 14 ottobre 1999.
87
Controllo, quali che siano gli intenti comunicazionali posti alla base del
messaggio litigioso, le possibili soluzioni interpretative suggerite dalla
crudezza espressionista dello stile sono essenzialmente due: o la ragazza
esibisce una perdita di sangue mestruale oppure lascia intendere di essere
stata brutalmente deflorata. Accostamento assai ardito è poi quello tra
l’inequivoca volgarità posturale della figura femminile, evocatrice di
suggestioni che appartengono alla sfera della violenza sadomasochista più
truculenta, le chiazze rubiconde che costellano l’immagine, e l’agnellino,
icastico paradigma di purezza e candore. Il realismo cromatico ed
immaginifico della rappresentazione enfatizza oltremodo la già stridente
cesura concettuale tra lussuria e castità, celebrando l’aberranza sessuale in
un’iconografia di rara violenza morale e psicologica. Una simile
ricognizione ermeneutica non può che condurre, a detta del Comitato, a
ritenere il messaggio in contestazione in stridente contrasto con gli artt. 1,
9, 10 e 11 CAP. Il Giurì, dichiarata la contrarietà del messaggio litigioso
con le norme autodisciplinari di cui sopra, ingiunge alle convenute di
desistere dall’ulteriore pubblicazione del messaggio litigioso (101).
La giurisprudenza sul tema è copiosa. Gioverà pertanto proseguire
con l’analisi di due pronunce particolarmente rappresentative, la dec. n.
(101) In motivazione il Giurì si sofferma sulla platealità della condotta violativa
posta in essere dall’inserzionista, asseverando che «il messaggio risulta offensivo non
solo per l’estrema gratuità che lo contraddistingue [dal momento che] non è ravvisabile
nesso alcuno tra la rappresentazione e la linea di prodotti cui fa riferimento, ma per
l’enfasi che, visivamente, viene attribuita all’immagine, con il particolare dello slip
portato in primo piano e quindi imposto come “centrale” al consumatore. Alla posizione
di centralità visiva corrisponde una posizione di “centralità” interpretativa nel senso che
neppure la persona più distratta e assente può sfuggire all’impatto - disturbante - con
l’immagine. Il fatto di parlare del ciclo mestruale femminile o di analizzare le
conseguenze, a livello genitale, di una deflorazione acquista un valore diverso a seconda
che se ne parli a livello scientifico, a un pubblico preparato a valutare criticamente i fatti
o invece in un contesto pubblicitario, a un pubblico non selezionato e usando, per
veicolare il messaggio, una rappresentazione della femminilità totalmente avulsa dalla
finalità comunicativa relativa al prodotto».
88
238/2001 e la dec. n. 119/2001 (102). La decisione di cui sopra riguarda
quattro messaggi Sisley facenti parte della campagna pubblicitaria Hungry
for love diffusa, oltreché sul sito internet dell’inserzionista, su numerosi
supplementi a quotidiani e periodici. L’ambientazione prescelta è di raro
vigore evocativo, trattandosi, per l’appunto, di un fienile.
Il primo messaggio, che occupa due intere pagine della rivista,
ritrae da una parte le sole gambe di una donna brutalmente sbattuta sul
fieno e dall’altra un particolare della precedente immagine con in
primissimo piano i piedi della donna calzati da eleganti scarpe. Il tessuto
scuro delle calze è solcato da rivoli lattei e opalescenti. Secondo
l’interpretazione offerta dal Comitato di Controllo anche il lettore più
sprovveduto comprenderebbe che le macchie perlacee in questione altro
non sono se non una facinorosa raffigurazione di liquido seminale. A ciò
si aggiunga l’ulteriore e non trascurabile considerazione secondo cui il
fienile è, almeno in un certo immaginario, luogo emblematico di
consumazione della passione erotica. Secondo questa lettura la peculiare
ambientazione del messaggio pubblicitario acuisce oltremodo quei
caratteri di ripugnanza ed inopinabile sconvenienza che già sono presenti
nell’iconografia principale. La giovane pare assumere una condotta
psichica disumanizzata e spersonalizzate, le fattezze di ancella e schiava
ne enfatizzano la sostanza puramente oggettuale.
Il
secondo
annunzio
propone,
nella
medesimezza
dell’ambientazione, una giovane donna vestita di un solo maglione bianco
che cinge con le braccia un maiale, mostrandone con sguardo sgomento la
(102) Rispettivamente, dec. n. 238/2001, 13 novembre 2001, Comitato di controllo
c. Benetton Group s.p.a., Energy Project s.r.l., R.C.S. Periodici s.p.a, R.C.S. Pubblicità
s.p.a., Gruppo Edit. L’Espresso s.p.a., div. la Repubblica, A. Manzoni & C. s.p.a. e dec.
119/2001, 11 maggio 2001, Comitato di controllo c. Benetton Group s.p.a., Energy
Project s.r.l. Alessi s.p.a., SMA s.p.a., Jolly Pubblicità s.p.a.
89
testa ed il muso. Anche in questo caso la donna è effigiata come una
vittima sacrificale offerta sull’altare dalla più abietta delle devianze
zoosessuali. Una lussuria lacerante vena ogni singolo particolare
dell’immagine lasciando intendere che tra la giovane donna e l’animale
cui è avvinghiata vi sia un’intima intesa erotica. Benché gli occhi vitrei
della donna si rivolgano direttamente al lettore, da essi trapela un
inquietante
immobilismo
emotivo
cui
si
contrappone,
superba,
l’ostentazione della conquista compiuta. L’accostamento tra la bella
fanciulla e il maiale produce uno sconvolgente effetto visivo, proponendo
in modo neppure tanto larvato una inaccettabile equivalenza semantica.
Il terzo messaggio ritrae una giovane donna intenta a cavalcare su
una sella poggiata sulla schiena di un uomo nudo, mentre con la mano gli
stringe una ciocca di capelli come fosse una criniera. Accanto alla
consueta celebrazione di una sessualità degradata, si affacciano impudenti
i temi del sadomasochismo e del feticismo. La donna è il carnefice,
l’uomo la vittima. La metafora non lascia spazio a interpretazioni
alternative, ritraendo con realismo verista una scena che, a detta del
Comitato, assume «un connotato fortemente disturbante e idoneo a
turbare la sensibilità del pubblico».
I quattro messaggi pubblicitari costituiscono un unicum e vanno
pertanto valutati congiuntamente quali estrinsecazione della medesima
strategia comunicazionale (103). Ad opinione del Comitato di Controllo
( 103 ) Il quarto dei messaggi facenti parte della campagna pubblicitaria in
commento non contiene riferimenti di tipo zoosessuale, cionondimeno ragioni di ordine
sistematico impongono di accennarvi anche fugacemente. Il messaggio de quo mostra il
volto e il busto di una giovane donna con un golfino scollato, che si rivolge al pubblico
con atteggiamenti seducenti e fortemente allusivi, esibendo tra le labbra socchiuse una
vistosa croce legata ad una collana. Secondo l’opinione del Comitato di Controllo
l’immagine in parola «risulta offensiva dei sentimenti e le convinzioni religiose dei
credenti perché unisce due temi, la religiosità e la provocazione sessuale che non hanno
alcuna correlazione oggettiva se non quella di creare una provocatoria distonia idonea a
90
tutta la campagna Sisley si porrebbe in contrasto con gli artt. 9, 10 e 1
CAP. Con l’art. 9 CAP, per l’ossessiva riproposizione di immagini tanto
volgari da trascendere i limiti del cattivo gusto e, nel contempo, da
superare in modo indecoroso e sovrabbondante i confini della decenza;
con l’art. 10 CAP, perché propugna un modello comportamentale
irrispettoso della dignità umana, platealmente mercificata e ridotta a mero
inventario di «reperti anatomici» e «pezzi di carne»; con l’art. 1 CAP,
infine, perché intensamente discredita il mondo pubblicitario dal suo
stesso ventre, attraverso l’impiego di tecniche aggressive e altamente
suggestionanti di memorizzazione del marchio.
Il Giurì, accogliendo integralmente la prospettazione offerta dal
Comitato di Controllo, ordina la cessazione della campagna pubblicitaria
in contestazione per violazione degli artt. 9, 10 e 1 CAP (104).
suscitare offesa ai valori». In quest’ultimo esempio l’assoluta arbitrarietà
dell’accostamento proposto porge il fianco a contestazioni difficilmente superabili,
mostrando tutta la sconsideratezza e l’insensatezza del capriccio.
(104) Non può essere sottaciuta l’ormai annosa questione concernente la posizione
processuale della Benetton Group s.p.a. nel giudizio autodisciplinare. Quello appena
trattato è l’ennesimo caso in cui la Benetton, disconoscendo la competenza del Giurì ad
emettere decisioni nei suoi confronti, eccepisce la sua non assoggettabilità alle norme del
Codice di Autodisciplina. In particolare, nelle questioni preliminari di rito, la Benetton
contestava la propria carenza di legittimazione passiva, all’uopo rilevando e la carenza
del criterio di collegamento diretto per avvenuto recesso della stessa società convenuta
dall’Unione Pubblicità Associati, con efficacia dall’1 gennaio 1993, e la mancanza del
criterio di collegamento indiretto per aver la stessa doviziosamente e cautelarmente
pattuito una deroga espressa alla clausola di accettazione del Codice di Autodisciplina.
Giusta la costante e monolitica giurisprudenza del Giurì sul punto, deve senz’altro
ritenersi che la mancata o cessata associazione all’Unione Pubblicità Associati non sia,
di per sé stessa, condizione sufficiente a giustificare un esonero dell’utente dei servizi
pubblicitari dall’osservanza del Codice di Autodisciplina. Diversamente deve opinarsi
ove l’utente abbia tempestivamente dato prova di aver stipulato con il medium un
apposito patto contrario all’applicazione di quella condizione generale del contratto di
inserzione che prevede la cogenza dell’obbligo di osservanza del Codice di
Autodisciplina e delle pronunce del Giurì. Nel caso di specie il collegio giudicante,
considerando pienamente assolto il suddetto onere probatorio e, per lo stesso motivo,
ritenendo fondata l’eccezione opposta dalla resistente, ha riconosciuto il difetto di
legittimazione passiva della Benetton e contestualmente affermato la legittimazione
91
La seconda decisione in commento riguarda nuovamente una
pubblicità Sisley, rilevata, questa volta, su affissioni cartellonistiche nelle
città di Genova e Milano. La pubblicità in contestazione ritrae, in primo
piano su fondo nero, la parte inferiore del volto di una ragazza fotografata
di profilo nell’atto di protendere in avanti la lingua a sfiorare la testa di un
serpente, ghermendolo con la mano destra ( 105 ). Nell’opinione del
Comitato di Controllo, tutti gli elementi figurativi che caratterizzano
l’immagine sono deprecabilmente piegati all’apologica sublimazione di
un
erotismo
imbarbarito
e
costellato
d’infinite
crudezze.
La
stigmatizzazione dell’espressione estatica della ragazza, la lingua turgida
e sfavillante protesa verso il serpente, la stretta efferata della mano, sono
tutti elementi iconici riecheggianti una simbologia chiaramente fallica,
essendo a tutti noto come il serpente costituisca un’effigiazione pararealistica dell’organo genitale maschile, resa ancor meno misterica, nel
caso di specie, dall’enormità delle dimensioni e dall’intenso contrasto
cromatico. Diversamente argomentando, la convenuta ripudiava la tesi
accusatoria definendola capricciosa, capziosa, oltreché spudoratamente
fantasiosa. Opina la resistente che la pubblicità contestata, gravida com’è
passiva dei proprietari dei mezzi, affermando la propria giurisdizione soltanto
limitatamente a questi ultimi. Indubitabile forza dirimente al riguardo, ha avuto la
circostanza che tutti i contratti pubblicitari sottoscritti da Benetton, con le società Rcs
Editori s.p.a. per “Io donna” e “Corriere della Sera” e con Manzoni & C. s.p.a. per “D –
la Repubblica delle Donne”, siano stati stipulati mediante trasmissione alle stesse di
ordini contenenti una espressa clausola derogatoria, a tenor della quale «vengono
espressamente escluse l’accettazione del Codice di Autodisciplina Pubblicitaria nonché
la competenza degli organi dal medesimo […] previsti […]». La reiterazione
programmatica di illeciti autodisciplinari da parte della Benetton, congiuntamente alla
circostanza che la stessa abbia volontariamente receduto dall’Unione Pubblicità
Associati, rende assai più deprecabile ed indecorosa la condotta dell’inserzionista,
ponendola in un circuito elusivo della cui preordinazione pare arduo potersi dubitare. Ai
fini di una più approfondita indagine euristica si vedano anche le decisioni nn. 119/
2001, 99/2001, 316/2000, 196/2000, 277/1999, 27/1994 e 2/1995 e 213/1999.
(105) Dec. n. 119/2001, cit.
92
di affascinanti suggestioni iperboliche, vada intesa come parodia
sarcastica e dissacrante, il cui unico scopo comunicazionale è quello di
rappresentare, attraverso un’allegoria giocosa e dilettevole, il tema della
supremazia della virtù sul peccato. La tecnica impiegata, prosegue la
resistente, è quella dell’ossimoro allegorico, di tal guisa che la donna
simboleggerebbe l’onesta, la probità e la rettitudine morale ed il serpente
il pervertimento, il traviamento e la depravazione del vizio. Non per nulla
la figura aggraziata ed avvenente della protagonista femminile vuole
ricordare il personaggio biblico di Eva nel giardino dell’Eden, come lo
stesso claim in calce all’immagine testimonia. Il Giurì, disattendendo le
richieste della Sisley, ritiene di dover condividere integralmente la tesi
accusatoria. Pertanto, dichiara il contrasto del messaggio litigioso con
l’art. 9 CAP, perché manifestamente volgare ed indecente, con l’art. 10,
perché platealmente offensivo della dignità della donna; con l’art. 11, in
quanto i messaggi affissionali in commento «possono essere ricevuti dai
bambini e dagli adolescenti, e soprattutto dai ragazzi nel periodo difficile
della preadolescenza»; con l’art. 1, infine, per l’evidente pretestuosità e
l’acclarata univocità del contenuto pornografico, giusta l’ontologica
correlazione sistematica tra le norme autoregolamentari.
In un’altra occasione il Giurì mandava assolta una pubblicità
televisiva contenente allusioni zoofile, ritenendola immune da censure per
via della rara ricercatezza e dei preziosismi che ne caratterizzavano la
forma ( 106 ).
La parte iconografica della pubblicità di cui trattasi
rappresentava «un serpente che, fuoriuscendo dal corpo di una donna
ingabbiato in un involucro di sabbia, sgretolava la spessa incrostazione
(106) Dec. n. 288/2002, 17 gennaio 2003, Comitato di controllo c. ITF s.p.a. e Les
Gitanes s.r.l., Publitalia ’80 s.p.a., in relazione al telecomunicato «Roberto Cavalli
profumo», rilevato sulle reti Mediaset nel dicembre 2002.
93
che lo rinchiudeva, facendo lentamente comparire le sembianze della
bellezza femminile prima intrappolata. Man mano che il corpo si liberava,
la musica si intensificava ed il serpente continuava a muoversi
sinuosamente sul corpo della protagonista, che mostrava una sorta di
piacere per quello che le stava accadendo». A detta dal Comitato di
Controllo «il contesto narrativo suggeriva una lettura in chiave fallica del
serpente», avendo l’inserzionista scelto di raffigurare il corpo di una
donna quasi dormiente, avviluppata in un torpore vellutato, la quale alla
«visitazione del rettile» principia a ridestarsi ridente. Dalla donna sgorga
ora una sconosciuta linfa vivificante. L’espressività eminentemente
metaforica dell’iconografia simboleggia un rito iniziatorio volto a
fecondare il corpo femminile, altrimenti privo di ogni avvenenza e beltà.
Ad avviso dell’organo di controllo, il telecomunicato oggetto di
contestazione, oltreché idoneo a suscitare un sentimento di ripugnanza per
l’arbitraria e gratuita oggettualizzazione del corpo della donna, appare
improntato all’impudicizia e spudoratezza più biasimevoli, ponendosi in
contrasto con artt. 9 e 10 del Codice di Autodisciplina. Il telecomunicato,
inoltre, ostenta un’immagine assai spaventosa e terrifica ed appare
gravido di plurimi «risvolti suggestivi» di ardua decodificazione per un
pubblico di minori, ponendosi pertanto in contrasto anche con gli artt. 8 e
11 CAP.
Non ritenendo di dover condividere le argomentazioni del
Comitato, il Giurì afferma che «la contestazione formulata dall’organo di
controllo appare incentrata su una lettura impropria del messaggio perché
non tiene conto del concept sotteso sin dalle prime immagini, fra lo
sgretolarsi di una strana statua di sabbia e la presenza del serpente, inteso
nel suo significato di fautore e fattore di cambiamento, che contribuisce a
far emergere una figura femminile di dolce e composta bellezza, che
94
accompagna lo scivolamento del rettile con movenze, di forte carica
erotica, prive peraltro di qualsiasi carica volgare e di richiami
direttamente sessuali. Le immagini che qualche istante dopo concludono
la sequenza, il serpente che avvolge la bottiglia del profumo
pubblicizzato, stemperano ulteriormente il significato sessuale del
messaggio attraverso la centralità attribuita al ruolo del serpente che
avvolge la bottiglia e ne disegna il tappo. Il tutto attraverso mezzi
espressivi di innegabile eleganza stilistica». Purtuttavia, prosegue il Giurì,
poiché la parte centrale del telecomunicato rappresenta «una immagine di
impudicizia», quantunque l’erotismo sia sobriamente mantenuto ad un
«livello di lucida eleganza», non è opportuno che venga immessa in un
«circuito comunicazionale generalista». Esaurita la disamina dei profili
fenomenologici della fattispecie, il Giurì dichiara che il telecomunicato
litigioso non contrasta con gli artt. 8, 9, 10 e 11 del Codice di
Autodisciplina Pubblicitaria «limitatamente ad una programmazione che
escluda la fascia oraria 10.30 – 20.30».
Adombrati da infiorettature mielate e stucchevoli, simili
riecheggiamenti
zoofili
si
riscontrano
anche
nella
strategia
comunicazionale di un’altra celebre maison, la Emanuel Ungaro.
Particolarmente indicativa al riguardo è la pronuncia n. 94/2000 (107). Le
immagini diffuse nella campagna pubblicitaria in contestazione mostrano
una donna e un cane in atteggiamenti ambigui, ai limiti della pornografia.
La prima immagine raffigura la donna che stringe a sé un cane,
(107) Dec. n. 94/2000, 7 aprile 2000, Comitato di Controllo c. Emanuel Ungaro
s.p.a., Zenith Media s.p.a., A. Mondadori Editore s.p.a., Mondadori Pubblicità S.p.a.,
Rcs Editori s.p.a. Settore Periodici, Rcs Editori s.p.a. Settore Pubblicità, Cairo
Pubblicità s.p.a. La campagna pubblicitaria in questione è apparsa sui periodici “Grazia”
n. 7, data di copertina 22 febbraio 2000 e n. 9, data di copertina 7 marzo 2000, nonché
“Io donna” numeri 9 e 11/2000, “Anna” n. 8, data di copertina 21 febbraio 2000 e
“Marie Claire” del marzo 2000.
95
carezzandone il muso a ravvicinata distanza dalla propria bocca.
L’espressione della modella è di estatico rapimento, mentre il suo volto,
esageratamente proteso verso il muso dell’animale, brama, febbricitante,
effusioni amorose (108). La seconda immagine ritrae la medesima modella
che guarda a bocca socchiusa il cane intento a leccarle la caviglia. Dal
viso della donna traspare un sentimento di profondo compiacimento e
approvazione. Le labbra rosso vermiglio sono appena dischiuse in una
posa di fascinosa sensualità. Secondo l’organo di controllo «l’immagine
[…] è fortemente caratterizzata da quella volgarità, ripugnanza e
insensibilità per la dignità della donna che gli articoli 9 e 10 Codice di
Autodisciplina intendono sanzionare. Non è tanto l’animale colto nell’atto
di leccare, con la lingua fortemente portata in evidenza, i piedi della
donna, quanto gli occhi socchiusi e la bocca semiaperta di questa ad
accentuare gli aspetti erotici dell’intesa. In altri termini, è l’atteggiamento
della donna, che sembra simulare una partecipazione vicina all’orgasmo,
che segna fortemente il messaggio e che rappresenta il plus inaccettabile
che impone l’intervento inibitorio» (109). Ancora, nel terzo messaggio, la
donna si lascia leccare il collo dall’animale cingendolo con le gambe
inverosimilmente divaricate. I due corpi, gracile e delicato quello della
modella, corpulento e maestoso quello del cane, sono avviluppati in una
stretta traboccante di passione in cui le rispettive fisicità si mescolano
( 108 ) Con le parole del Comitato: «l’accento è posto sull’accostamento fra la
bocca aperta dell’animale, con la lingua avvicinata al viso della donna dalle labbra
semiaperte che segnano l’immagine, così rappresentando una situazione che è qualche
cosa di più della simulazione di un bacio non superficiale fra donna e cane. Gli occhi
socchiusi e l’atteggiamento intenso della donna completano il quadro del quale è quindi
difficile negare la portata volgare e indecente, alla quale l’immagine sul numero 8 di
“Anna” aggiunge una nota di ripugnanza nel momento che fa apparire la lingua del cane
fra le dita della donna, assieme a una traccia rossastra che segna il dorso della mano,
lasciando nell’indistinto l’origine di tale traccia».
(109) Dec. 84/2000, 7 aprile 2000, cit.
96
l’una nell’altra. La quarta immagine mostra il cane, la cui testa è cinta da
un collare irto di chiodi, che giace sulla schiena della donna calpestandole
un seno con la zampa. Il richiamo alle pratiche sadomasochistiche è
inequivocabile. Così anche nell’ultimo messaggio pubblicitario in cui la
modella abbraccia con i piedi il collo dell’animale interamente coperto da
un’inquietante maschera chiodata. Nell’opinione del Comitato «la
mascheratura dell’animale sembra accentuare i risvolti sadomasochisti e a
nulla rileva che la donna sia correttamente vestita con pantaloni e giacca,
giacché l’accento è tutto concentrato sul viso sognante, che sembra far
trasparire un ambiguo compiacimento per il contatto dell’animale alle sue
spalle, in posizione dominante e a zampe divaricate, come divaricate sono
le gambe della donna, in atteggiamento di offerta» (110). In questo caso
come nel precedente, l’impiego di oggetti appartenenti all’oscuro
universo del sadomaso rende ancor più conturbante l’iconografia
adoperata, già di per sé ambigua (111).
(110) Dec. 84/2000, 7 aprile 2000, cit.
(111 ) La resistente articola le proprie difese su tre ordini di ragioni.
In primo
luogo osserva che l’accostamento tra l’icona di una donna avvenente, vestita con
sobrietà ed eleganza, e un cane di razza è frutto di una precisa scelta iconografica
finalizzata a trasmettere un ideale di seducente ricercatezza. L’abbinamento in questione
è tutt’altro che anomalo e artificiale, essendo piuttosto ispirato alla tendenza della donna
di oggi a prediligere il cane di grossa taglia, di aspetto membruto e poderoso, anziché il
cane di piccola taglia che la accompagnava in passato. In secondo luogo si duole la
resistente delle manchevolezze disseminate nella tesi accusatoria, giacché in essa
neppure è menzionata la circostanza che gli atteggiamenti effigiati nella pubblicità
litigiosa, rifuggendo ogni ostentazione ed eccesso, si limitano a riprodurre servilmente
quel sentimento di affetto, pur caratterizzato da una qualche fisicità, che da sempre
caratterizza il rapporto fra l’uomo e il cane (non per nulla quest’ultimo è definito per
antonomasia «il miglior amico dell’uomo»). Infine, la controparte deplora l’arbitraria
scelta del Comitato di considerare le cinque immagini pubblicitarie come estrinsecazione
di un identico «nucleo subliminale», preterendo di apprezzare il significato di ciascuna,
isolatamente considerata.
In particolare, osserva la difesa, l’immagine del cane che
lecca i piedi alla donna riproduce una situazione piuttosto comune, carente di
implicazioni anche solo vagamente erotiche. Anche l’annuncio nel quale il muso del
cane e le labbra della ragazza appaiono ravvicinati risponde a quella consueta fisicità che
tende, del tutto fisiologicamente, a umanizzare il rapporto fra uomo e animale. Ancora,
97
Secondo il Giudice pubblicitario la campagna pubblicitaria in
contestazione, valendosi della proposizione sistematica di un modello di
sessualità evidentemente imbarbarita e tralignata, ostenta crudezze tali da
ledere profondamente la dignità dell’essere umano e della donna in
particolare. La perversa morbosità dell’iconografia unitamente alla
smaccata stucchevolezza dello stile scade nella più turpe ripugnanza,
contravvenendo alle più profonde convinzioni morali e civili dei cittadini
e screditando la pubblicità come istituzione. Il Giurì, esaurita la fase
cognitoria, dichiara la pubblicità litigiosa in contrasto con gli artt. 9, 10 e
11 CAP e applica la sanzione inibitoria (112).
Più recentemente, il Giurì condannava una pubblicità raffigurante
una giovane donna in posa assai provocante con un cane lupo intento ad
annusarle la zona pubica, con il muso proteso verso l’alto (113). Ritenendo
il messaggio manifestamente contrario all’art. 9 CAP, l’organo di
controllo emette ingiunzione di desistenza contro l’inserzionista affinché
questi desista dall’ultronea pubblicazione del messaggio litigioso.
l’immagine del cane che appoggia le zampe sulle spalle della ragazza completamente
vestita riproduce l’idilliaca affettuosità che lega l’animale al padrone, scevra da viziosità
e pervertimenti. Quest’ultima osservazione deve a fortiori reiterarsi, soggiunge la
resistente, in difesa dell’ultima delle immagini, quella del cane con copricapo armato che
giace accovacciato ai piedi della donna, di cui si scorgono soltanto le gambe
elegantemente calzate. L’immagine si ispira liberamente ai cruenti combattimenti tra
cani, in cui gli animali sono protetti da apposite maschere, al fine di evitare lesioni
traumatiche che potrebbero rivelarsi letali.
(112) L’ordine di cessazione ha interessato tutti e cinque i messaggi pubblicitari
poiché è stato ritenuto dal Giurì che gli stessi presentassero un collegamento sequenziale
e funzionale, stante il contesto temporale delle pubblicazioni concentrato in poche
settimane, l’unicità della platea di lettori, nonché la medesimezza delle modalità
comunicazionali prescelte, caratterizzate da intensa capacità suggestiva ed evocativa
oltreché da un «forte stimolo subliminale di spinta erotizzazione».
(113) Dec. n. 58/2010, 5 luglio 2010, Comitato di Controllo c. Texunion s.p.a.; la
Repubblica s.p.a., A. Manzoni & C. s.p.a., Rcs Periodici s.p.a., Rcs Pubblicità s.p.a.,
relativa ad un messaggio rilevato su “Io Donna” e “D” de “La Repubblica”, entrambe
con data di copertina 17 aprile 2010.
98
L’organo di controllo fornisce una lettura eminentemente sensoriale e, più
precisamente, olfattiva dell’immagine, giungendo ad affermare che
l’espediente iconico impiegato, quantunque di indiscussa raffinatezza, è
gravido di un erotismo parecchio inquietante, giacché evoca perversioni
arcane e recondite. Non emergerebbero invece, a detta del Comitato,
elementi «idonei a riscattare la volgarità dell’immagine». L’inequivoca
posa di profferta sessuale della modella, l’espressione bramosa di
concupiscenza, ma, soprattutto, la postura dell’animale con il muso
proteso verso il ventre della donna, sono tutti elementi che conducono ad
una decodifica volgare del messaggio, resa ancor più intellegibile
dall’headline che recita «Naughty Dog». Il Presidente del Comitato di
Controllo,
considerando
insoddisfacenti
le
motivazioni
addotte
dall’opponente, si rivolge al Giurì affinché si pronunci sul caso.
Il Giurì, posta l’accento sull’essenzialità di un’analisi complessiva
del messaggio, procede ad esaminare i profili fenomenologici della
fattispecie mettendo a fuoco la stretta correlazione semasiologica tra parte
iconica e verbale. All’uopo afferma il Giurì: «l’immagine è quella di una
ragazza a gambe divaricate che con le mani trattiene verso l’alto delle
cosce un vestito mini, in un atteggiamento innaturalmente provocante,
accentuato dalla flessione delle ginocchia. Gli occhi della ragazza
guardano verso il vuoto e non certo verso il cane nei cui confronti essa
non ha nessuna mimica soggiogatrice, mentre i capelli sono agitati da un
vento evidentemente falso come tutto l’ambiente di interno in cui sembra
svolgersi la scena. Tutto appare dunque costruito allo scopo di
evidenziare la corrispondenza fra il muso appuntito del cane e in
particolare il suo naso proteso e le parti intime della ragazza, facendo così
di esse il vero centro focale dell’annuncio […]. Il testo, dal canto suo,
gioca sulla parola inglese “naughty” che, se originariamente aveva il
99
senso dispregiativo di “cosa o persona da nulla” […], nel tempo è andata
sviluppando il suo campo semantico, sempre in ambito negativo, fino a
coprire un ventaglio molto ampio da “disobbediente, monello ecc.”, in
genere riferito a bambini, a “indecente, cattivo, immorale ecc.”, che è
oggi il significato prevalente […]. Se già l’immagine da sola orienta
volutamente la decodifica verso il significato volgare, il suo accostamento
alla parola “naughty” non fa che rafforzare […] questa lettura, così da
trascendere di molto il limite del cattivo gusto per entrare decisamente nel
campo della volgarità e dell’indecenza, aggravate dal fatto che non vi è
nessuna logica comunicazionale che le possa giustificare e che non vi è
nessun elemento che ne stemperi la portata». Il Giurì condanna la
pubblicità litigiosa perché manifestamente in contrasto con l’art. 9 CAP e
irrora la sanzione inibitoria.
4.2.
L’impiego di suggestioni sadomasochistiche in pubblicità è
caratterizzato da un’iconografia ricca di crudezze raccapriccianti
magistralmente celate da imbellettature barocche, manierismi affettati e
infiorettature di ogni sorta. Al fine di mettere a fuoco alcune tra le
questioni più spinose del tema che ci occupa, si prenderà in
considerazione un gruppo di sentenze particolarmente rappresentative,
precisamente, le decisioni nn. 398/98, 31/2001, 40/2001, 217/1995,
119/2005 (114). La prima pronuncia si occupa della conformità alle norme
( 114 ) Rispettivamente, dec. n. 398/1998, 15 dicembre 1998, Comitato di
Controllo c. Rocam s.r.l., Alessi s.p.a.; dec. n. 31/2001, 6 febbraio 2001, Comitato di
Controllo c. Weissenfels, Agenzia Casiraghi Greco & s.r.l., R.C.S. Editori s.p.a. –
Settore Quotidiani, R.C.S. Editori s.p.a. – Settore Pubblicità; dec. n. 40/2001, 23
febbraio 2001, Comitato di Controllo c. BIBIGI’ s.r.l., Gruppo editoriale L’Espresso
s.p.a. – Divisione la Repubblica, A. Manzoni & C. s.p.a., A. Mondadori Editore s.p.a.,
Mondadori Pubblicita’ s.p.a. con riguardo all’annuncio pubblicitario della Bibigì
Gioielli “Dono morbido ” – diffuso su D. n. 223 del 24 ottobre 2000, il Venerdì n. 660
del 10 novembre 2000 e Grazia n. 49/50 del 19 dicembre 2000; Dec. n. 217/1995, 20
100
autodisciplinari di una pubblicità che ritrae quattro persone, fotografate di
profilo dalla vita in giù, nude e incatenate tra di loro per le caviglie: tre
uomini di colore e una donna bianca (115). La donna bianca è marchiata su
di un gluteo con il logo “Sharra Pagano”. L’headline a fianco
dell’immagine recita: “Marchiamo solo le pelli migliori”.
Il Comitato di
Controllo ritiene la pubblicità litigiosa in stridente contrasto con gli artt.
10 e 1 CAP e chiede pertanto che ne sia ordinata cessazione unitamente
alla pubblicazione dell’emananda decisione su un mezzo di ampia
diffusione, ex art. 40 CAP. Ad avviso dell’organo inquirente la pubblicità
in parola violerebbe le norme autoregolamentari sotto molteplici profili.
In primo luogo «la contrapposizione tra la superiorità della razza bianca,
la cui pelle sarebbe migliore, e quella nera configura pubblicità
discriminatoria»; in secondo luogo «la marchiatura del corpo della donna,
così assimilata a un animale, e la costrizione delle catene che la collegano
alla razza inferiore, evocano le atrocità dei campi di concentramento»,
attraverso una indecorosa oggettualizzazione spersonalizzante; in ultimo
«per la sua strutturazione e per l’evidenza del mezzo che la ospita» […],
la pubblicità è idonea a originare nel pubblico sentimenti di disprezzo
verso l’intero universo pubblicitario, e ciò in contrasto con l’art. 1. La
parte resistente chiede il rigetto delle domande attoree argomentando che
la pubblicità oggetto di contestazione abbia carattere umoristico e satirico.
D’altro canto, si osserva, il termine razzismo ha ormai perduto qualsiasi
valenza originaria e pertanto, essendo la pubblicità riferita a un’azienda
che si occupa di pellame, appare superfluo osservare che anche la più
ottobre 1995, Comitato di controllo c. Fiorucci s.r.l., Affitalia s.r.l.; dec. n. 119/2005, 8
novembre 2005, Comitato di Controllo c. Yokohama Italia s.p.a, Agenzia Idue s.n.c., Rcs
Pubblicità s.p.a., Rcs Quotidiani s.p.a., con riguardo ad un messaggio pubblicitario
rilevato sul Corriere della Sera del 16 giugno 2005.
(115) Dec. n. 398/1998, cit.
101
sprovveduta delle consumatrici interpreti il messaggio come informativo
sull’utilizzo di ottima materia prima e non, invece, come foriero di un
intollerabile atteggiamento razzista. Il Giurì non ritiene plausibile la tesi
della difesa poiché «la satira proprio per la sua essenziale componente
artistica, deve essere condotta con moduli fittizi e irrazionali e deve essere
scandita su sequenze di elementi finti o esagerati al dichiarato scopo di
irridere del personaggio o della vicenda. Per essere tale, la satira deve
sfociare nell’inverosimile». Nel caso in esame, prosegue il Giurì, «non
pare proprio che il contrasto bianco/nero e le pelli umane marchiate
possano essere considerati elementi “finti o esagerati” […], atteso che, nel
mondo moderno, nonostante le petizioni di principio, il tema
dell’integrazione razziale è ancora attuale; così come è ancora attuale il
problema della schiavitù che, seppure mascherata da nuove e sofisticate
forme, è, oggi, di significativa attualità». Per i suesposti motivi il Giurì
ordina la cessazione della pubblicità denunciata per contrasto con gli artt.
1 e 10 CAP e dispone la pubblicazione della decisione per estratto su “La
Sicilia” e sul “Giornale di Sicilia”.
La seconda pronuncia riguarda un messaggio pubblicitario che
mostra «l’immagine di una donna di colore che, ripresa di schiena
totalmente nuda, porta addosso soltanto delle catene da neve agganciate ai
fianchi, che le scendono sopra i glutei» (116). Ad avviso del Comitato di
Controllo l’immagine in parola è in contrasto con gli artt. 10 e 1 CAP. Gli
addebiti mossi dall’organo inquirente si concentrano sul carattere
eminentemente evocativo e suggestivo del messaggio litigioso, il quale,
richiamando alla memoria il tema della schiavitù, ingenera nel
consumatore un sentimento di accorata mestizia, unitamente a quello di
viscerale disistima dell’intero universo pubblicitario. La verosimiglianza
(116) Dec. n. 31/2001, cit.
102
della tesi accusatoria è suffragata da plurimi argomenti. Il Comitato rileva
che «la donna raffigurata in catene non solo è nuda ma è altresì nera,
particolare questo che concorre a rafforzare nel lettore l’idea di una donna
prigioniera e schiava ma nel contempo attraente e gradevole a vedersi
annullando, proprio con il patinato sex-appeal dell’immagine, il normale
senso critico e con esso la possibilità di percepire il disvalore della
condizione umana degradata. L’immagine della donna nuda, già di per sé
gratuita in quanto priva di qualsivoglia collegamento con il prodotto […],
è nel caso di specie certamente censurabile in quanto la bellezza del corpo
femminile è strategicamente utilizzata per evocare suggestioni sessuali e
riportare alla mente del pubblico l’asservimento caratteristico della
schiavitù, con evidente spregio per la dignità – prima ancora che della
donna – degli esseri umani in genere». Imprudente e financo temerario
sarebbe, soggiunge il Comitato, misconoscere che la simbologia
impiegata dall’inserzionista, sovraccarica di inequivocabili richiami
sadomasochistici e segregazionistici, scolpisca un’immagine della donna
estremamente avvilente ( 117 ). Il Giudice autodisciplinare, esaurito il
(117) La difesa ritiene manifestamente infondata la tesi accusatoria, deplorandone
gli intenti di strumentalizzazione moralizzatrice ed ideologica. Una siffatta operazione
ermeneutica si porrebbe in contrasto con la più autorevole giurisprudenza comunitaria,
secondo cui «oltre alle limitazioni poste dalle norme statali all’applicazione del diritto
comunitario, devono essere eliminate pure le norme poste da associazioni o organismi di
diritto pubblico nell’esercizio della loro autonomia giuridica che contrastino, appunto,
con il diritto comunitario». Il riferimento è, chiaramente, alle istituzioni
autoregolamentari e alle norme da essi emanate. Pertanto la difesa chiede che «la tutela
del consumatore venga contemperata in sede interpretativa con i diritti di libertà di
iniziativa economica, di tutela della concorrenza, di libera prestazione dei servizi e
soprattutto di libertà d’espressione che derivano all’odierna convenuta avanti al Giurì
direttamente dall’ordinamento comunitario; senza contare che molti di tali diritti sono
pure protetti in sede statuale addirittura da normativa di rango costituzionale». V. sent.
Walrave, Corte Giustizia Comunità Europee, 36/72, in Foro It., 1975, IV, 81.
Il Giurì non trascura di rilevare la pletorica sovrabbondanza delle obiezioni
dedotte dalla parte resistente, precisando che quello della non contrarietà delle norme
autodisciplinari all’ordinamento comunitario è principio di ius receptum, atteggiandosi
103
contraddittorio tra le parti in contesa, dichiara la pubblicità litigiosa in
contrasto con l’art. 10 del Codice, ordinandone contestualmente la
cessazione (118).
Un posto di indiscusso rilievo, per il prezioso valore euristico e per
la lucida intellegibilità delle argomentazioni in essa sviluppate, occupa la
dec. n. 217/1995.
La sentenza in parola riguarda un messaggio
pubblicitario della nota maison Fiorucci, il quale mostra la parte
posteriore di una donna nuda, con le mani legate da un paio di manette in
pelouche rosa dietro la schiena e tese verso l’esterno come a volersi
liberare dalla costrizione (119). L’accusa ritiene l’immagine in commento
in palese contrasto con l’art. 10 CAP e chiede pertanto che il Giurì ne
disponga la cessazione unitamente alla pubblicazione dell’emananda
decisione. L’effigie «comunica una sgradevole sensazione di violenza e di
degradazione, in quanto il simbolismo della donna nuda e delle manette
produce inevitabilmente, non essendo veicolato da nessun contesto, facili
suggestioni e associazioni - nudità e manette come emblema di possibile
perversione sessuale, sadismo, masochismo - che una vasta subcultura ha
reso familiari e che rappresentano uno svilimento della dignità della
persona umana». Così come il profluente simbolismo erotizzante, osserva
come estrinsecazione del più generale principio di prevalenza della legislazione
comunitaria su qualsiasi disposizione statale con essa incompatibile, abbia la stessa
valore di legge, regolamento e, financo di disposizione costituzionale. Invero, prosegue
il Giurì, la difesa è caduta in una contraddizione in termini poiché nel messaggio oggetto
di contestazione «non è in causa la libertà di pensiero ex art. 21 della Costituzione, ma
semmai la libertà dell’azione pubblicitaria che per lunga giurisprudenza statuale rientra
nell’art. 41 relativo alla libertà d’impresa». Per una panoramica sull’argomento v. infra §
1.
(118) In motivazione il Giurì ha osservato che, nel caso di specie, la violazione
delle convinzioni morali, civili e religiose protette dall’art. 10 si atteggerebbe quale
specificazione di quanto previsto in via generale l’art. 1 CAP, pertanto una ulteriore
sottolineatura in riferimento alla norma citata sarebbe voluttuaria e ridondante.
(119) Dec. n. 217/1995, cit.
104
il Comitato, anche la medesimezza del colore delle manette e del marchio,
entrambe di un seducente rosa pallido, riecheggia l’idea di mercificazione
e «asservimento al prodotto», rendendo ancora più gravosa e dolente la
sensazione
di
coercizione,
schiavitù
e
soggiogazione
evocata
dall’ammanettamento. Alle accuse mosse dall’organo inquirente, la
resistente replica svelando l’unica ipotesi esplicativa della «tanto palese
quanto insanabile contraddizione tra manette, violenza, degradazione,
sadismo, masochismo […] da una parte, e pelouche rosa dall’altra».
Ricorda la resistente che è proprio la suddetta contraddizione a spogliare
l’immagine dal suo «tradizionale significato di violenza, costrizione e
[…] sadomasochismo», dacché le manette raffigurate, sia per la
carezzevole delicatezza del peluche, sia per la soavità del rosa,
richiamano alla mente una sensazione avvolgente e vellutata, quasi
melliflua. Quanto all’erotismo che aleggia sulla figura, prosegue la difesa,
si tratta di un erotismo elegante e raffinato, denso di amenità e piacevole
lepidezza. Pertanto la figura in questione, «nel quadro della maturazione e
della spregiudicatezza della nostra attuale società, non è né idonea a
offendere convinzioni morali o civili, quelle religiose appaiono del tutto
estranee, né irrispettosa della dignità della persona umana». A ulteriore
riprova della fondatezza della tesi difensiva, la resistente non tralascia di
mentovare una nota sentenza della Corte di Cassazione del 30 settembre
1986, in cui il Supremo Consesso recepiva il principio secondo cui: «Il
nudo è parte ineliminabile della nostra cultura: si esprime pacificamente
sulle spiagge e nella pubblicità, negli spettacoli e nei libri, nella casa e
nella palestra, dove si è rivalutata l’antica cura del corpo. Parallelamente,
viene vissuto senza particolari pregiudizi lo specifico uso di esso nelle
forme dell’erotismo, distinguendosi con sufficiente chiarezza collettiva le
sue espressioni naturali dalle violenze e dalle sopraffazioni».
105
Il Giurì, rifuggendo intenti moraleggianti o fustigatori, assolve la
pubblicità litigiosa perché in essa non ricorre alcun contrasto con le
prescrizioni autoregolamentari, né per quanto concerne l’asserita idoneità
della stessa a recare offesa alle convinzioni morali e civili dei cittadini, né
tantomeno per quanto riguarda l’offesa alla dignità della persona umana,
la quale «non viene lesa ma semmai arricchita quando, senza volgarità né
costrizione, l’ironia trova posto nella sessualità e nella pubblicità».
Proprio l’assenza di ironia o di qualche elemento giocoso e vitale,
ha condotto per contro il Giurì a condannare un messaggio pubblicitario
della Bibigì Gioielli raffigurante una adolescente «semisdraiata su di un
divano di pelle nera, nuda dalla vita in su, che – con espressione
rassegnata e visibilmente infelice – ostenta sulla pelle bianchissima un
collare in pelle nera intorno al collo, in cui sono incastonati vistosi aculei,
ed un anello al dito della mano, posta in primo piano a coprire un seno,
mentre in corrispondenza dell’altra mano, appoggiata sul pube, si legge la
scritta “Dono morbido”» ( 120). Secondo l’organo inquirente dall’attenta
analisi dell’immagine in parola emerge con evidenza lapalissiana il
contrasto della stessa con l’art. 10 CAP. Una tale decodifica è confermata
dall’ambientazione figurativa ed espressiva dominata dalla centralità
icastica del collare irto di preziosi aculei, il quale evoca senza ombra di
dubbio «suggestioni erotiche, nella sfera della violenza e del
sadomasochismo». La donna è ritratta in condizione di silente sudditanza,
defraudata della propria sostanza pensante e cristallizzata in pura res. Si
aggiunga altresì che la scritta dell’headline enfatizza oltremodo lo
stridore tra la docile arrendevolezza della giovane fanciulla, la cui
gestualità ai limiti della incorporeità celestiale simula turbamento, e gli
(120) Dec. n. 40/2001, cit.
106
acuminati aculei d’oro. Un raffinato gioco di contrasti affiora
nell’immagine diffondendosi nei minimi particolari iconici, tanto che
persino il capezzolo lasciato scoperto dalla donna, pare ergersi duro e
appuntito come gli aculei del gioiello reclamizzato.
Il Giurì, nell’esaminare i profili fenomenologici della fattispecie,
ripercorre
sostanzialmente
le
argomentazioni
svolte
dall’accusa,
affermando in primo luogo che «nell’ambito della sua varia produzione
l’inserzionista ha scelto, oltre ad un anello, un collier in forma di collare
[…]. L’oggetto è di per sé idoneo ad evocare significati e simboli
ambigui, se indossato – come nel caso – da una ragazza adolescente, a
torso completamente nudo, per di più magro e diafano, ai limiti
dell’anoressia, con espressione […] che certamente non è allegra […]. Sul
tutto campeggia la scritta “Dono morbido”, ove di morbido ci sono solo la
ragazza (quasi bambina) ed il divano, in contrasto con la durezza delle
punte del collare e delle pietre. Pare innegabile il suggerimento dell’idea
della donna come oggetto e non soggetto di dono, e l’evocazione di
orientamenti ambigui, se si considera l’aspetto immaturo e adolescenziale
della ragazza ed il contrasto fra la sua delicatezza-morbidezza e
l’immagine degli aculei intorno al collo […].
Nulla modera od
alleggerisce tali sensazioni, introducendo nella raffigurazione una nota
ironica, od un qualunque elemento gioioso e vitale, che appaia in linea
con l’idea del dono. Pur essendo l’annuncio fondato sui contrasti […], tali
contrasti affiorano solo nei colori e nell’immagine esterna; non nei suoi
significati, i quali sembrano invece univoci nella loro ambiguità, e non
compatibili con il rispetto per la donna […] e con le esigenze di difesa
della sua dignità».
Il Giurì, accogliendo integralmente gli argomenti sviluppati dalle
tesi accusatorie, dichiara il contrasto della pubblicità litigiosa con l’art. 10
107
CAP e ne dispone l’immediata cessazione.
L’ultima delle sentenze prende in esame un messaggio pubblicitario
volto a reclamizzare pneumatici di ultima generazione. L’immagine
ritrae, in primissimo piano, i piedi di una donna calzati da eleganti stivali
di pelle nera, con in evidenza i tacchi a spillo che sprofondano nelle
natiche carnose di un’altra donna ( 121 ). Ad avviso del Comitato di
Controllo l’immagine in parola è pervasa di allusioni ad una «sessualità
trasgressiva e deviata», i richiami sadomasochistici sono riproposti con
esuberante ridondanza, risultando profondamente disturbanti in ispecie
per un pubblico di minori. Rileva inoltre il Comitato che l’immagine de
qua è profondamente offensiva della dignità della donna, la quale,
deprivata della propria dimensione emotiva e psicologica, è ritratta come
prodiga dispensatrice di lussuriose prestazioni sadomasochistiche.
Il Giudice autodisciplinare condanna la pubblicità litigiosa per
contrasto con gli artt. 9, 10 e 11 CAP, emanando contestuale sanzione
inibitoria (122).
(121) Dec. n. 119/2005, cit.
( 122 ) In motivazione il Giurì si sofferma diffusamente su quegli aspetti della
fattispecie da cui trasuda con tutta chiarezza la contrarietà alle norme autoregolamentari
della pubblicità incriminata: «Il messaggio è quello che appare e non richiede raffinate
chiavi di decodifica per scoprirne sensi occulti o significati simbolici anche perché le
immagini, prive di un rapporto di funzionalità in relazione all’esigenza di illustrare pregi
e caratteristiche del prodotto pubblicizzato, esonerano da ulteriori approfondimenti.
Pertanto […] lo spot viola l’art. 9 del CAP. Quanto all’art. 10 il messaggio, volto a
pubblicizzare una nuova generazione di pneumatici, mostra in primo piano l’immagine
di un paio di stivali con tacchi a spillo che trivellano le natiche di un corpo femminile in
posizione prona. Difficile non cogliere in questa rappresentazione un’evidente
strumentalizzazione della sessualità che vista la lontananza di quanto rappresentato dal
prodotto reclamizzato, ha il solo scopo di catturare attraverso un messaggio intrigante,
l’attenzione del pubblico. Palese è la violazione dell’art. 10 del CAP che tutela la dignità
della persona in tutte le sue forme ed espressioni in un’immagine che ricorre all’utilizzo
improprio di una parte - le natiche - di un corpo femminile, rappresentato in posizione
supina, con il tacco a spillo di uno stivale che entra in una natica, indicativa di un
rapporto di violenza e di sopraffazione. Né è stato indicato dalla resistente il percorso
attraverso il quale si dovrebbe dedurre che la natica in questione appartenga ad un
108
5.
Sovente gli inserzionisti ricorrono ad un’iconografia
smaccatamente erotica per reclamizzare le bevande alcoliche. Questo
fenomeno può essere correttamente definito come una peculiare
declinazione del più ampio filone pubblicitario sessuofilo. In particolare
occorre volgere l’attenzione al quinto alinea dell’art. 22 CAP, il quale è
diretto ad evitare l’impatto negativo della pubblicità sul pubblico,
vietando il ricorso ad elementi, cui la collettività è particolarmente
sensibile, idonei a far credere che il consumo della bevanda alcolica possa
determinare un miglioramento della capacità umane, segnatamente,
«lucidità mentale», «efficienza fisica» e «sessuale» e che il suo mancato
consumo determini una condizione di inferiorità psicologica o sociale. La
norma in commento vuole evitare «la suggestione che in pubblicità può
essere anche più efficace (negativamente efficace) del messaggio
dichiarato in termini razionalmente espliciti». L’antesignana di questo
genere è la pubblicità “Pernod”, dec. n. 37/1979, 11 dicembre 1979,
Comitato di Accertamento c. di Publi-Market s.r.l., Rizzoli Editore s.p.a.,
in cui il Giurì ebbe ad affermare che «l’uso dell’alcol non deve essere
configurato come strumentale al soddisfacimento di bisogni irrazionali
insuscettibili di autocontrollo da parte del consumatore; e che l’uso
pubblicitario della suggestione emotiva, in quanto tende a sottrarre la
individuo - maschio o femmina che sia - che si è autonomamente determinato a porsi in
tale mortificante posizione [...]. A fronte di siffatti messaggi nei quali parti varie del
corpo femminile, tutte direttamente o indirettamente ammiccanti alla sfera sessuale, sono
usate per reclamizzare merci varie, viene da pensare che il fatto che le donne possiedano
un corpo, al di là della sua utilizzazione pubblicitaria, sia un fatto puramente casuale e
d’importanza secondaria. Il corpo femminile non è più un oggetto, nel senso tradizionale
del termine, si è trasformato in puro linguaggio di mercato. Ed è in questo che consiste la
violazione del rispetto dovuto alla persona in tutte le sue forme ed espressioni. Per
quanto concerne l’art. 11, il Giurì ritiene giustificato il pensiero del Comitato di
Controllo a giudizio del quale il messaggio sarebbe altamente diseducativo per i minori e
i giovani perché può rappresentare per essi un modello fortemente attraente per
l’intrinseca carica di trasgressione delle regole sociali e dei valori condivisi che esso
contiene».
109
congruità dell’uso del prodotto a ogni possibilità di verifica razionale, non
può essere consentito nel settore delle bevande alcoliche perché espone il
destinatario al rischio di soggiacere alla sollecitazione oltre il limite della
nocività», rimarcando altresì che la pubblicità del “Pernod” sfugge a
questo tipo di censure poiché «si vale di un tipo di linguaggio alieno, per i
meccanismi culturali che ne condizionano la comprensione e ricezione, da
immediate incidenze emotive suscettibili di liberare e amplificare istanze
irrazionali smodate, scorrette o irresponsabili». Così anche la dec. n.
5/1980, in cui il Giurì, rigettando le censure mosse dal Comitato di
Controllo, mandò assolto il messaggio contestato, così argomentando:
«[giacché] le qualità […] illustrate [per reclamizzare il prodotto, Stock 84]
appartengono all’ambito delle sensazioni gustative, che sono molto
soggettive e difficilmente descrivibili in termini oggettivi e razionali, il
ricorso a similitudini e metafore sia di tipo linguistico che figurativo
appare una soluzione abbastanza consueta in questo tipo di pubblicità»
( 123 ). Similmente nella dec. n. 41/1984, in cui il Giurì ritenne di
condividere la tesi difensiva secondo cui il messaggio litigioso inneggia
ad un «moderato edonismo» utilizzando dei raffinati simbolismi che «non
possono però declinarsi nel senso dell’abbandono, dell’ebbrezza, di
momenti magici: infatti, le immagini riguardano attività che richiamano
per loro natura il controllo razionale, l’equilibrio, la padronanza di sé»
(124). Pertanto il Giurì escluse nel caso di specie, considerata anche la nota
politica comunicazionale della Martini & Rossi, che «l’indubbia carica
suggestiva delle situazioni raffigurate agisca nel senso di evocare
pericolosi
incoraggiamenti
dell’euforia
o
ebbrezza
prodotte
(123) Dec. n. 5/1980, 6 marzo 1980, Comitato di Accertamento c. Stock s.p.a.,
Associati s.p.a., Arnoldo Mondadori Editore,
(124) Dec. n. 41/1984, 10 luglio 1984, Comitato di Accertamento c. Martini &
Rossi Ivlas s.p.a., Arnoldo Mondadori Editore, Rusconi Editore s.p.a.
110
dall’assunzione di alcolici». Infine nella la dec. n. 36/2003, il Giurì
ritenne che l’annuncio andasse esente da censure perché scevro di
qualsivoglia riferimento che incitasse all’«eccesso di spensieratezza» o
che dissimulasse «un richiamo subdolamente suggestivo all’euforia» (125).
L’espediente espressivo dei due nudi rappresentati sulla bottiglia, lungi
dal simboleggiare in modo grossolano e triviale un amplesso, istituendo
per questa via il paventato nesso funzionale tra il consumo di alcol e
l’efficienza sessuale, è esempio di raffinata eleganza ed encomiabile
morigeratezza. In motivazione si legge: «l’annuncio non presenta nessuna
scena di consumo dello spumante, i personaggi non sono scomposti e non
danno segni di ebbrezza [...]. Non è vietato qualsiasi nesso fra l’atto
d’amore e l’alcol, ma soltanto il nesso dell’invito al consumo in funzione
dell’efficienza sessuale. Qualunque incontro amoroso, e anche la prima
notte di nozze, può cominciare con lo spumante, la cui rappresentazione
non è pertanto proibita, a meno che vi sia l’induzione al consumo
smodato e al collegamento con l’efficienza sessuale, che qui mancano».
Più recenti sono le pronunce nn. 105/2004 e 118/2005 ( 126 ). La
prima, in relazione ad un telecomunicato trasmesso sulle reti Rai nel mese
di gennaio 2004, «si apre con l’immagine della bottiglia di Talea
lievemente inclinata, dalla quale sgorga la bevanda cremosa, che scorre
lentamente lungo il corpo nudo di una donna distesa, coprendone via via i
fianchi, il seno ed i glutei come un indumento morbido e lucente. Al
termine della scena la voce fuori campo conclude “Talea cream liqueur –
A velvet sensation”». A detta del Comitato di Controllo il filmato
( 125 ) Dec. n. 36/2003, 7 febbraio 2003, Comitato di Controllo s.p.a. c. Stock
s.p.a., Hachette Rusconi s.p.a. e Hachette Rusconi Pubblicità s.p.a.,
(126) Rispettivamente dec. n. 105/2004, 23 aprile 2004, Comitato di Controllo c.
Illva Saronno s.p.a. e Agenzia A. Testa s.p.a., RAI-Radiotelevisione Italiana s.p.a. e dec.
n. 118/2005, 19 luglio 2005, Comitato di Controllo c. Stock s.p.a., Ag. Euro RSCG
Milano s.r.l., Radio Deejay, A. Manzoni e C. s.p.a.,
111
inneggia al suggestivo intreccio «improprio, fisico e sensoriale» tra il
nudo della donna e il liquore reclamizzato. Ed in effetti, prosegue il
Comitato, la bevanda cosparge come il velluto la pelle della donna,
facendone la preziosa vetrina della più seducente magnificazione
dell’ebrezza euforica. Per questi motivi il telecomunicato in oggetto si
porrebbe in palese contrasto e con l’art. 10 e con l’art. 22 CAP, il quale
«impone alla pubblicità delle bevande alcoliche obblighi particolari, come
quello di non contrastare l’affermazione di modelli di consumo ispirati a
misura, correttezza e responsabilità».
La memoria difensiva della controparte intende persuadere il Giurì
della manifesta pretestuosità delle censure mosse dall’organo inquirente,
ricorrendo all’uopo alle preziose chiarificazioni del prof. Sassoon, il quale
nella sua relazione afferma che «il plus “vellutato” viene rappresentato di
necessità esternamente, con una metafora di livello artistico ed elegante
sia nel “girato”, sia nella musica». Questa è ciò che viene definita «una
catacresi, cioè la figura retorica che usa una parola o una cosa in un senso
diverso dal consueto: la sensazione vellutata del prodotto è rappresentata
dallo scorrere del liquore sulla pelle nuda, la suggestione onirica accentua
la descrittività della prestazione del prodotto, morbido e vellutato: e la
donna non è un oggetto, come vorrebbe il Comitato, ma un soggetto che
apre gli occhi dopo l’assaggio». Ad ulteriore riprova della plausibilità di
questa tesi, la controparte cita numerosi casi di precedenti in cui il Giurì
ebbe ad assolvere l’inserzionista, disattendendo le richiesta avanzate dal
Comitato di Controllo, a titolo meramente esemplificativo si ricordano le
decc. nn. 37/1979, 5/1980, 41/1984 e 36/2003.
Il Giudice autodisciplinare, respingendo la tesi accusatoria, assolve
la pubblicità litigiosa.
La dec. n. 118/2005, riguarda taluni radiocomunicati, facenti parte
112
della medesima campagna pubblicitaria, per Vodka Keglevich. Sostiene il
Comitato che i messaggi contestati si pongano in plateale contrasto con
gli artt. 9, 10, comma 2, 11, 22 e 1 CAP. Con riguardo all’art. 9 CAP,
rileva il Comitato che i messaggi litigiosi trascendono «i limiti del cattivo
gusto e i confini della decenza», giacché ritraggono con indecorosa
grossolanità atteggiamenti amorosi di una donna in preda a «continue ed
irrefrenabili pulsioni erotiche». Quanto all’art. 10, comma 2, ritiene
l’organo di controllo che l’espediente espressivo estrinsecantesi
nell’esibizionistica teatralizzazione del piacere libidinoso della donna,
debba considerarsi altamente sgradevole e financo odioso per il
radioascoltatore, posto che le suddette manifestazioni erotiche secondo il
comune sentire debbano essere contenute nell’ambito «della riservatezza
e dell’intimità». Venendo poi alla violazione dell’art. 11 CAP, afferma il
Comitato che la ricezione dei comunicati, per la loro intensa capacità
suggestiva,
possa,
mediante
la
sgargiante
magnificazione
di
comportamenti deplorevoli, procurare nocumento alla sensibilità di un
pubblico di bambini e adolescenti che non dispone di quei meccanismi
cognitivi di elaborazione critica e razionale «di input particolarmente
erotici e aggressivi come quelli in oggetto né barriere di protezione nei
confronti di stimoli che non prestandosi ad una decodifica ragionata,
sviluppano al massimo i loro effetti negativi». Ancora, per quanto
concerne l’art. 22 CAP, a detta dell’accusa, i radiocomunicati in esame
istituirebbero una proibita correlazione funzionale tra il consumo della
bevanda alcolica reclamizzata e l’eccellenza della prestazione erotica,
scemando grandemente l’obbligo imposto dalla norma summentovata di
non intralciare l’affermazione di modelli di consumo ispirati a
morigeratezza, irreprensibilità e responsabilità. Infine, per quanto
riguarda l’art. 1, il Comitato sostiene che il turbamento e il fastidio
113
provocati dai messaggi siano tali da gettare discredito sulla pubblicità
come istituzione. La controparte respinge le asseverate censure
dell’organo inquirente, mediante un approccio ermeneutico che valorizza
l’arguzia cameratesca e paradossale dei comunicati, al fine dimostrarne
l’innocuità comunicazionale. All’uopo la resistente rammenta un noto
caso in cui il Giurì ebbe ad assolvere il telecomunicato del Mirto Zedda
Piras, in cui veniva rappresentato con struggente eleganza verista un
amplesso appassionato, perché privo di qualsivoglia simbolismo iconico
che potesse suggerire modelli comportamentali improntati a dissolutezza
o licenziosità, stante e l’assenza di un nesso strumentale tra la scena
erotica e il consumo di alcol e la sporadicità della rappresentazione della
bottiglia, che appariva soltanto in pochissimi fotogrammi (127).
Il Giurì, dopo avere prudentemente esaminato le argomentazioni
esposte dalle parti, pur deprecando il tono di cattivo gusto che aleggia nei
messaggi contestati, ritiene che nel caso in esame «quel tanto di
espressioni volgari siano riscattate da un trattamento spiritoso, che risolve
il messaggio con fantasia ed estro», rendendo arduo anche al più serioso e
moralista degli spettatori di scorgervi una offesa alla dignità della donna
ex art. 10 CAP. Similmente il Giurì esclude un contrasto dei
radiocomunicati sottoposti alla sua cognizione con l’art. 22 CAP dacché
difetterebbe sia una significativa connessione teleologica tra il prodotto
reclamizzato e l’efficienza sessuale, sia un’esortazione, ancorché tacita
all’ebrezza euforica. Per gli stessi motivi ritiene il Giurì che non ricorrano
nel caso di specie quelle modalità espressive denigratorie ed oltraggiose
della pubblicità come istituzione ex art. 1 CAP. Purtuttavia riscontra una
potenziale violazione dell’art. 11 CAP, per la tendenziale lesività dei
(127) Dec. n. 254/2002, 10 dicembre 2002, Comitato di controllo c. Zedda Piras
s.p.a., Publitalia ’80 s.p.a., RAI – Radiotelevisione Italiana s.p.a.
114
radiocomunicati nei confronti di bambini e adolescenti, «la cui
incompleta maturazione del giudizio critico e la spontanea curiosità verso
l’erotismo» possono indurre ad una decodifica distorta, antieducativa e
psichicamente deleteria degli stessi, e ne dichiara pertanto il contrasto con
la disposizione summentovata, disponendone la contestuale la cessazione
limitatamente alla fascia oraria radiofonica fra le ore 14 e le ore 20.
115
CAPITOLO III
NUDO DI DONNA
SOMMARIO: 1. Il mercimonio della dignità umana. La reificazione del corpo della
donna in pubblicità. — 2. Le prime sentenze sul tema. — 3. Una preziosa ricognizione
ermeneutica: i canoni della disumanizzazione della persona ed ostentazione di meri
reperti anatomici. — 4. Il tema della morte in pubblicità. Necrofilia e nudo di donna.
1.
È senz’altro evidente che «il nudo femminile, ancor più di
quello maschile, è ormai protagonista indiscusso delle forme espressive
della nostra società – soprattutto se l’immagine è realizzata con gusto e
stile – e, come tale, non poteva non far ingresso in pubblicità, sempre più
espressione simbolica ed evocativa, associata all’immagine di un
prodotto. Il nudo è entrato a tal punto nella normalità, da spogliarsi di
qualsiasi connotazione negativa: la rappresentazione del corpo femminile
nudo non è di per sé immorale, né priva di dignità, non significando
necessariamente trasgressione, offesa, provocazione, salvo quando
l’immagine sia pretestuosa o gratuita rispetto al prodotto pubblicizzato»
(128).
Se, dunque, sarebbe quantomeno anacronistico e obsolescente
censurare tout court il nudo in pubblicità, dovendo la stessa adeguare le
sue forme espressive e i suoi contenuti all’evoluzione storica e culturale
dei costumi della società da cui sgorga, non può, d’altro canto, ammettersi
l’uso di immagini che trasmodino nella volgarità e nel cattivo gusto,
nonché nella strumentalizzazione e nell’asservimento della persona al
( 128 ) BANORRI, Le modalità di Adesione, in Commentario al Codice
dell’Autodisciplina Pubblicitaria, a cura di Ruffolo, Milano, 2003, pag. 229.
116
prodotto reclamizzato (
129
). Il nudo in sé considerato «non ha
necessariamente carattere sessuale od offensivo: in questi annunci,
mancando in essi la strumentalizzazione della donna, la provocazione e
l’arbitrarietà, la rappresentazione del corpo nudo non è di per sé lesiva
della dignità della donna» (130).
Sulla base di questo assunto il Giurì ha mandato assolto un
messaggio pubblicizzante una coppetta di mousse al cioccolato ricoperta
di panna montata, che mostra a tutta pagina su tonalità assai scure il corpo
nudo di una donna di colore, ripresa di profilo, con una striscia di panna
montata che scende da una spalla. L’immagine è accompagnata dalla
scritta “Pensiero stupendo” (131). Ad avviso del Comitato la pubblicità in
oggetto realizza, in un contesto espressivo assai opulento e raffinato, una
deprecabile mercificazione dell’immagine della donna, metamorfosata
subdolamente in preziosa mercanzia. La strategia comunicazionale
(129) L’importanza dell’opera svolta dagli organismi di autoregolamentazione in
materia di pubblicità sessista, vieppiù essenziale in considerazione della pigrizia silente
del formante legislativo avviluppato da omai diversi lustri in una manta di accidiosa
riluttanza, ha ricevuto suprema consacrazione nella Convenzione del Consiglio d’Europa
sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza
domestica, n. 210, 11 maggio 2011, il cui art. 17, rubricato «Partecipazione del settore
privato e dei mass media», enuncia:
«Le Parti incoraggiano il settore privato, il settore delle tecnologie
dell'informazione e della comunicazione e i mass media, nel rispetto della loro
indipendenza e libertà di espressione, a partecipare all’elaborazione e all'attuazione di
politiche e alla definizione di linee guida e di norme di autoregolazione per prevenire la
violenza contro le donne e rafforzare il rispetto della loro dignità.
Le Parti sviluppano e promuovono, in collaborazione con i soggetti del settore
privato, la capacità dei bambini, dei genitori e degli insegnanti di affrontare un contesto
dell'informazione e della comunicazione che permette l’accesso a contenuti degradanti
potenzialmente nocivi a carattere sessuale o violento».
(130) Dec. n. 256/1996, 5 novembre 1996, Comitato di Controllo c. Allied Domecq
Italia s.p.a., Rusconi Editore s.p.a., Rusconi Pubblicità s.p.a.
( 131 ) Dec. n. 304/2001, 14 dicembre 2001, Comitato di controllo c. Parmalat
s.p.a., Agenzia Saatchi & Saatchi s.p.a., A. Mondadori Editore s.p.a., Mondadori
Pubblicità s.p.a., in relazione al messaggio pubblicitario Parmalat “Pensiero stupendo.
Coppa Malù cacao”, rilevato su “Donna Moderna” del 7 novembre 2001.
117
impiegata dall’inserzionista, soggiunge il Comitato, prende vita non già
da una metafora, quanto piuttosto da un’affascinante sinestesia, di talché
il piacere che dovrebbe riversarsi sulla mousse reclamizzata si trasferisce,
tramutato in famelica concupiscenza, sulla donna. In questa cornice
iconografica l’espressione “Pensiero stupendo” «potenzia l’offesa che
deriva dall’improprio accostamento donna-prodotto, poiché sembra
attribuirvi un connotato positivo […]. La dignità della persona è lesa non
soltanto dalla reificazione della modella, ma anche dal conseguente
livello di lettura dell’immagine, che richiama ad un’idea di possesso e di
appropriazione
ulteriormente
fisica,
aggravata
legittimata
dalla
dall’acquisto
superfluità
e
del
prodotto»,
sovrabbondanza
del
riferimento razziale. Della verosimiglianza di una tale lettura non può
dubitarsi sol che si tenga a mente che, nel caso di specie, la donna è
raffigurata in posa assai ammaliante e seducente, con in evidenza le
labbra turgide e i seni fiorenti.
Il
Giurì,
discostandosi
sensibilmente
dalle
argomentazioni
dell’accusa, ritiene che la pubblicità litigiosa non presenti profili di
contrarietà all’art. 10 CAP. Ispirandosi al pensiero di Lévi-Strauss,
antropologo francese di chiara fama, il Giurì afferma che «è abituale […]
una certa, frequentissima correlazione donna-prodotto, che è molto
radicata nella tradizione occidentale, non soltanto perché nei messaggi
pubblicitari, fin dai tempi del manifesto di fine Ottocento, bellezza e
bontà tendono a identificarsi, oppure perché, come hanno sostenuto per
molti decenni diverse scuole di applicazione della psicologia, la presenza
di una bella modella trasferirebbe l’impulso erotico sul prodotto.
Probabilmente, la ragione è più profonda e radicata nell’antropologia. Se
le donne […] sono state il primo strumento di scambio fra i gruppi, la
prima “moneta” della quale per gli uomini era evidente il valore, esse
118
sono state anche il primo segno che ha permesso la comunicazione. Da
questa funzione primaria di segno, l’antropologa Ida Magli ha dedotto che
l’immagine della donna conserva ancora la capacità di dare forza a
qualsiasi messaggio pubblicitario, non tanto per il suo richiamo sessuale,
ma perché è fondazione concreta e simbolica di ciò che la pubblicità
persegue, il comunicare. Però, perché nella società di oggi ciò costituisca
mercificazione offensiva per la dignità femminile, occorre il concorso di
elementi che disturbino e offendano, per esempio […]. Elementi di questo
genere mancano totalmente nella campagna in esame, che anzi si vale di
una fotografia notevole con aspetti formali elevati e con particolari
sicuramente non offensivi» (132).
Che un certo grado di mercificazione sia ontologicamente
connaturato a ogni pubblicità, qualunque sia il settore merceologico
oggetto di pubblicizzazione, è concetto ben chiaro al Giurì che all’uopo
ammonisce: «la mercificazione va intesa cum grano salis: una certa
reificazione c’è sempre, nel senso del rapporto fra messaggio e prodotto»
(133). Vi è, purtuttavia, un limite invalicabile, di là del quale il mercimonio
della dignità della persona umana è irreversibile. Esistono, infatti,
modalità espressive ed iconografiche che veicolano una tale carica
degradante da vilipendere la dignità umana e ciò secondo un duplice
registro:
– la disumanizzazione della persona, che consiste nel privare la
persona o le persone pubblicitariamente coinvolte nei messaggi di quello
spirito (anima), che distingue l’uomo da qualsiasi altro essere vivente;
– la scomposizione del corpo umano in “parti di carne”
provocatoriamente esibite nella esplicita dimenticanza che la persona
(132) Per una lettura approfondita cfr. LÉVI-STRAUSS, Le strutture elementari della
parentela, Milano, 1969.
(133) Dec. n. 304/2001, cit.
119
riveste una valenza ben superiore a quella derivante dalla combinazione
della diverse parti anatomiche, dal che nasce appunto la sua particolare
dignità (134).
(134) Dec. n. 100/2001, 10 aprile 2001, Comitato di controllo c. Gianni Versace
s.p.a., R.C.S. Editori s.p.a. – Settore Periodici, R.C.S. Editori s.p.a. – Settore Pubblicità,
Cairo Pubblicità s.p.a., A. Mondadori Editore s.p.a., Mondadori Pubblicità s.p.a., La
Repubblica s.p.a., A. Manzoni & C. s.p.a., EDIF s.r.l., relativa alla campagna
pubblicitaria Versace apparsa su Io Donna nn. 8 e 9; Grazia nn. 7 e 9; “D” de “La
Repubblica”, data di copertina 20 febbraio 2001 e “Elle”, data di copertina marzo 2001.
Accanto ai canoni su cui sopra, il Giurì ha sovente richiamato quello del contesto
lessicologico in cui la pubblicità è ambientata. Emblematica al riguardo è la dec. n.
38/2006 avente ad oggetto il telecomunicato “Patatina Amica Chips”, ritenuto dal
Comitato di Controllo manifestamente contrario agli artt. 9, 10 e 1 CAP. Il messaggio
pubblicitario è ambientato nel lussureggiante giardino di una villa, in cui appare il noto
attore di film pornografici Rocco Siffredi ai bordi della piscina, circondato da avvenenti
donne pressoché disabbigliate. Il protagonista, con fare alquanto ammiccante, afferma:
“Io di patatine ne ho prese tante... non riesco a stare senza... le ho provate tutte,
americane, tedesche, olandesi... con la sorpresa[…]; le mangiavo così senza
complimenti, anche tre alla volta, ma nessuna è come questa”. Ad un certo punto
l’inquadratura si sofferma su di una donna piacevolmente seduta sull’altalena che prende
una patatina dalla mano del pornoattore, il quale si volta con sguardo ammiccante verso
lo spettatore. La rappresentazione si conclude con le frasi: “Fidati di chi le ha provate
tutte. Amica Chips è la migliore” ed il pay-off “A chi piace la patatina”. Sostiene il
Comitato che tutti gli elementi iconici e verbali convergano inequivocabilmente verso
una scelta creativa assai deprecabile, perché finalizzata alla stigmatizzazione coattiva del
marchio, stigmatizzazione realizzata mediante «una doppia figura retorica: da un lato la
metafora, che associa la patatina all’organo genitale femminile; dall’altro la sineddoche,
che designa con la parte (l’organo sessuale femminile, chiamato metaforicamente
“patatina”) il tutto (la donna)». Ad avviso del Comitato l’allusione summentovata –
dissimilmente dal linguaggio erotico o scatologico popolaresco, in cui potrebbe
assumere valenze diverse, alcune delle quali non implicanti necessariamente una
svalutazione della dignità della persona – si pone in un contesto lessicologico ben
preciso, quello, cioè, delle citazioni della cinematografia erotica, di talché la grossolanità
e la trivialità del messaggio non ne è attutita, ma enfatizzata grandemente.
Secondo l’opponente la pubblicità contestata si connoterebbe per la virtuosa
«castigatezza della dimensione visiva», nonché per la leggiadra spensieratezza pastorale
dell’ambientazione, pertanto le affermazioni del Comitato sarebbero apodittiche e prive
di qualsivoglia fondamento. All’uopo viene sottolineata l’oggettiva impossibilità di
scorgere alcuna esplicita suggestione sessuale e per l’atteggiamento «decorosissimo»
delle fanciulle, le quali si dilettano beate in un incantevole prato verdeggiante, e per il
discreto riserbo delle inquadrature. Pertanto ritiene l’opponente che il Comitato voglia
trascinare il Giurì ad ergersi a giudice della morale contravvenendo alla ormai costante
giurisprudenza autodisciplinare formatasi sul tema in argomento, secondo cui «il Giurì
non può farsi arbitro o censore del buon gusto, dovendo invece limitarsi a verificare la
120
2.
Le
prime
pronunzie
del
Giurì
sul
tema
si
contraddistinguono per la sostanza fluttuante e assai mutevole della parte
argomentativa, non di rado estremamente concisa e poco articolata. Ciò è
essenzialmente dovuto all’assenza di una corrente di pensiero solida e
euristicamente gravida di preziosi criteri interpretativi. Perché si formi un
orientamento giurisprudenziale costante, bisogna attendere fino alla
storica pronuncia n. 100/2001, in cui il Giurì ebbe ad individuare quei
canoni ermeneutici cui si sarebbe ispirata tutta la giurisprudenza
successiva.
Tra le prime sentenze, particolarmente significativa per le tematiche
che implicitamente affronta, è la dec. n. 91/1996, relativa ad un manifesto
pubblicitario di un’associazione animalista che, per far campagna contro
compatibilità della comunicazione pubblicitaria alle norme del codice, nel rispetto sia
della sensibilità dei consumatori, sia della creatività degli operatori pubblicitari» (dec. n.
186/1992, 16 marzo 1993, Comitato di Controllo nei confronti di Unil-It s.p.a. Divisione
Atkinsons, Telepiù Pubblicità, Publitalia ‘80 s.p.a., Rai Radiotelevisione Italiana s.p.a.).
Il Giurì ritiene che la pubblicità litigiosa sia intrisa di un sessismo denigratorio e
deplorevole che, quantunque percepibile soltanto sul piano lessicologico,
rimarchevolmente stigmatizzerebbe una inaccettabile discriminazione tra i sessi,
sovraccaricata dalla riconduzione della scenografia al contesto pornografico. Ambiente
in cui, notoriamente, la donna è marginalizzata nel ruolo di schiava e meretrice e
deprivata della propria capacità di autodeterminarsi. Per i suesposti motivi, il Giurì,
ritenuta la pubblicità litigiosa contraria alle prescrizioni di cui agli artt. 9 e 10 CAP, ne
dispone l’immediata cessazione. Dec. n. 38/2006, 13 marzo 2006, Comitato di Controllo
c. Amica Chips s.p.a., Publitalia ’80 s.p.a., RTL 102.5, Open Space Pubblicità. Con
eloquenza particolarmente faconda si è espresso il Giurì anche nelle dec. nn. 190/1997,
20 giugno 1997, Comitato di Controllo c. Volteco World Technology s.p.a., Forlati
Zera, Rcs Pubblicità s.p.a.; 298/1996, 11 febbraio 1997, Comitato di Controllo c.
Tecnoblock Italia s.r.l., Visualia s.r.l.,
Editoriale Domus s.p.a.; 31/1985, 2 luglio 1985,
Comitato di Controllo nei confronti di Salfa s.r.l., Arnoldo Mondadori, Editoriale
L’Espresso, Rscg, Sma, Igap, Gig; 144/1999, 26 marzo 1999, Comitato di Controllo c.
Febal Cucine s.p.a., Rcs Editori s.p.a. Settore Quotidiani, Rai Radiotelevisione Italiana
s.p.a.; 14/1986, 25 febbraio 1986, Comitato di Controllo nei confronti di Sidalm s.p.a.,
Consorzio Canale 5, Italia 1, Rete 4, Pirella Göttsche; 8/1980, 22 gennaio 1980,
Comitato di Accertamento nei confronti di Nichy Chini Co., M. & Ad., Editoriale del
Corriere della Sera s.a.s.; 239/1999, 22 luglio 1999, Comitato di Controllo c. Campari
s.p.a., D’Adda Lorenzini Vigorelli, Publitalia ’80 s.p.a.
121
le pellicce, effigia una nota attrice nuda, esibendo e ingrandendo il nudo
genitale e sottolineandolo con la frase assai ambigua “L’unica pelliccia
che non mi vergogno d’indossare” ( 135 ). Ad avviso dell’organo di
controllo «il manifesto si pone come il primo caso di ostentazione in
pubblicità di un nudo genitale e ha suscitato la preoccupazione di molti
cittadini che si sono rivolti al Comitato. Per quest’ultimo, il poster è
indecente e volgare, e quindi in contrasto con l’art. 9: l’indecenza consiste
nell’ostentazione degli organi sessuali e la volgarità è da riferirsi alla
frase pubblicitaria, dove il riferimento genitale diventa doppio senso. Il
poster contrasta anche, ad avviso del Comitato, con l’art. 11 perché può
suscitare reazioni di turbamento negli adolescenti. Infine, per la finalità
scandalistica e trasgressiva dell’operazione pubblicitaria, il poster appare
screditante per la pubblicità e quindi è in contrasto anche con l’art. 1».
La qualificazione negativa è determinata dall’insieme di più elementi e, in
questo caso, dal fatto che la postura della donna raffigurata nel manifesto
è fatta per mettere in primo piano il pube. La posizione della nota attrice,
(135) Dec. n. 91/1996, 30 aprile 1996, Comitato di Controllo c. Ifaw International
Fund for Animal Welfare, Saatchi & Saatchi Advertising s.p.a., Publiflor s.p.a., A&P
s.r.l. Il caso in esame impone talune preliminari considerazioni circa la riconducibilità
della c.d. «pubblicità sociale» alle norme autodisciplinari. L’accresciuta importanza
della comunicazione non strettamente asservita a scopi commerciali, ma volta a creare
adesione ad iniziative o a diffondere bisogni, modelli di comportamento, ha portato, nel
1995, all’introduzione dell’art. 46 CAP, il quale afferma la sottoposizione alle norme del
CAP di «qualunque messaggio volto a sensibilizzare il pubblico su temi di interesse
sociale, anche specifici, o che sollecita, direttamente o indirettamente, il volontario
apporto di contribuzioni di qualsiasi natura, finalizzate al raggiungimento di obiettivi di
carattere sociale […]». Ai margini della c.d. «pubblicità sociale», si collocano i
messaggi di pura opinione, vera e propria manifestazione del pensiero sfuggente, volti a
stimolare l’adesione ad un credo religioso, come così a propagandare un’idea in senso
lato politica od a stimolare un comportamento sociale senza alcun riflesso consumistico.
Questi ultimi non hanno natura pubblicitaria e pertanto, giusta una costante
giurisprudenza autodisciplinare, non sono assoggettabili al sindacato del Giurì. In
BANORRI, cit., pag. 204.
122
«sbattendo il sesso in faccia, attiva tutta una serie di effetti sessuali, non
necessariamente correlati all’intenzione del manifesto».
Il Comitato chiede che il Giurì dichiari il contrasto con gli art. 9, 11
e 1 CAP.
Il Giurì osserva anzitutto che il manifesto denunciato non persegue i
consueti fini commerciali, bensì fini d’interesse generale, difendendo una
causa, quella animalista, della cui nobiltà non è dato dubitare.
Cionondimeno, prosegue il Giurì, nel caso di specie non può escludersi la
violazione delle norme autodisciplinari e ciò in quanto «la postura della
donna e il ricorso all’ingrandimento artificiale di un particolare corporeo
non lasciano dubbi sulla volgarità del messaggio visivo […]. Gli elementi
visivi sopra indicati, uniti alla battutaccia da trivio che costituisce il testo
del manifesto, mettono in causa il rispetto alla dignità della donna che
non dev’essere offesa neppure per fini non commerciali e a scopi
condivisi da buona parte dell’opinione pubblica. Il ricorso a questi
deplorevoli mezzi espressivi fa sì che il manifesto possa gettare discredito
sulle attività e sulle tecniche di comunicazione pubblicitaria». Pertanto il
Giurì, disattendendo le contestazioni della resistente, incentrate perlopiù
sul carattere squisitamente etico e morale della pubblicità litigiosa volta a
«tutelare tutti gli animali, [quali] esseri viventi e senzienti», dichiara il
contrasto con gli artt. 9 e 1 CAP e dispone la cessazione della stessa.
Parimenti rilevante è la dec. n. 167/1996, concernente la conformità
all’art. 10 CAP di talune pubblicità su cartelloni murali raffiguranti i seni
di una giovane donna e un metro che ne misura le dimensioni,
accompagnato dallo slogan “le misure giuste per il tuo arredamento” (136).
Il
Comitato
di
Controllo
osservando
preliminarmente
che
la
(136) Dec. n. 167/1996, 18 ottobre 1996, Comitato di Controllo c. Lolli Industria
per l’arredamento,
Variety Sport & Immagine s.r.l.
123
rappresentazione di un nudo femminile non costituisce di per sé stessa
un’offesa alla dignità della persona umana, integrando sempre e
comunque una violazione dell’art. 10, prosegue considerando come la
pubblicità contestata focalizzi l’attenzione del passante su di un
particolare anatomico del corpo femminile in modo assolutamente
gratuito, non essendo ravvisabile alcun collegamento fra il seno di una
donna e le cucine pubblicizzate, e senza che vi sia alcuna apprezzabile
ragione per raffigurare il primo al fine di reclamizzare le seconde. D’altro
canto, anche l’accostamento fra il seno rappresentato e un metro che ne
misura le dimensioni appare non necessario per reclamizzare il prodotto e
per ciò stesso gratuitamente volgare. Il giudice pubblicitario rileva come
nel caso di specie la violazione dell’art. 10 CAP sia ulteriormente
aggravata dalla circostanza che la pubblicità in contestazione «sia
costituita da grandi cartelloni […] affissi sulle strade di Roma, e dunque
visibili a tutti, e anche ai meno disposti a tollerare rappresentazioni di
questo genere» e, congiuntamente, dalla circostanza «che la pubblicità sia
stata svolta […] nella capitale della cattolicità, notoriamente abitata da un
numero non piccolo di religiosi, le cui convinzioni morali, civili e
religiose sulla dignità della persona potrebbero essere a fortiori offese
dalla pubblicità litigiosa».
Il Giurì dichiara pertanto il contrasto della pubblicità contestata con
l’art. 10 CAP e ne ordina la cessazione.
Soltanto qualche anno più tardi è la decisione n. 210/1998 relativa
ad un filmato pubblicitario di orologi dal titolo “Puoi scavare la pelle; non
puoi raggiungere l’anima”, esibisce un corpo di donna sfigurato da una
profonda cicatrice chirurgica che ne solca la carne bianca dallo sterno
all’ombelico (137). Secondo il Comitato di Controllo il messaggio si pone
(137) Dec. n. 210/1998, 3 luglio 1998, Comitato di Controllo c. di Lorenz s.p.a.,
124
in contrasto con l’art. 9 CAP, dovendosi ravvisare nell’immagine
propugnata l’idoneità a «turbare la normale sensibilità del pubblico dei
consumatori», attesa la sconvolgente enfatizzazione delle sensazioni di
«dolore fisico, di ferita, di violenza», la cui ostentazione appare
disturbante e financo ripugnante. Sotto un ulteriore profilo, il Comitato
denuncia il contrasto del messaggio con l’art. 1 CAP posto che «il
contenuto e la gratuità della rappresentazione, tesa a catturare l’attenzione
dei consumatori colpendone negativamente la sensibilità, sono esempio di
una forma comunicazionale che danneggia il credito dell’istituzione
pubblicitaria». Il Giurì, accoglie integralmente le denunce mosse
dall’organo inquirente e ordina l’immediata cessazione della pubblicità
litigiosa per violazione degli artt. 9 e 1 CAP.
3.
Assai sovente il Giurì ha ravvisato il perseguimento
pervicace ed ardimentoso di quell’opera di disumanizzazione e, pertanto,
di degrado della persona umana, di cui al primo dei registri più sopra
mentovati, nella comunicazione pubblicitaria delle case di moda più in
vista. Paradigmatico è il caso della campagna pubblicitaria Versace, in cui
le diverse immagini, ambientate in identiche camere da letto, tipicamente
d’albergo, mostrano due modelle pressoché bulimiche, abbandonate su
preziosi drappi di seta (138). L’una, di cui si scorge appena il volto dal
pallore latteo, «appare semivestita e riversa in modo innaturale», con le
gambe divaricate, lo sguardo intorpidito da una leggiadra mestizia.
Dell’altra, «ripresa da dietro senza volto con indosso solo reggicalze e
scarpe nere, è offerta un’immagine che, per la postura volutamente
Rcs Editori s.p.a. Settore Quotidiani, Rcs Editori s.p.a. Settore Pubblicità, A. Mondadori
Editore s.p.a., Mondadori Pubblicità s.p.a.
(138) Dec. n.100/2001, cit.
125
volgare e la prospettiva scelta, ha indubbiamente natura pornografica».
Nell’opinione del Comitato tali immagini si porrebbero in stridente
contrasto con gli artt. 9, 10 e 1 CAP. L’intera campagna si atteggia quale
celebrazione di «un erotismo inquietante e perverso», le raffigurazioni
provocano una «disturbante sensazione di profferta di corpi», attraverso la
più degradante e svilente reificazione della persona umana. In entrambe le
scene aleggia un melanconico oblio dell’anima, sopita in un torpore
disumanizzante. La donna è mercificata, il suo corpo provocatoriamente
sezionato in «parti di carne». Una siffatta magnificazione della
«suggestione sessuale» è altresì idonea a screditare la comunicazione
pubblicitaria, in palese contrasto con l’art. 1 CAP. La parte resistente, pur
non sconfessando il carattere eminentemente erotico e trasgressivo delle
immagini contestate, insiste cionondimeno sulla palese inettitudine delle
stesse, per la seducente ricercatezza artistica che le contraddistingue, a
suscitare ripugnanza e turbamento.
Con riferimento a tali immagini, il Giurì, ripercorrendo le
argomentazioni del Comitato di Controllo, ha condannato le «modalità
subdole che attentano alla dignità più volte richiamata, avvalendosi del
corpo umano come strumento di mercificazione fine a se stesso,
privandolo appunto della dignità in questione», rimarcando come in tale
comportamento illecito sia incorsa la pubblicità Versace «che –
superando il dettato dell’art. 9 – ha infranto l’art. 10 seconda parte del
CAP». Il Giurì non ha invece ritenuto che la pubblicità in parola
giungesse ad infrangere l’art. 1 CAP, recando discredito all’attività
pubblicitaria in generale.
Lo stesso principio ha, per contro, condotto all’assoluzione di un
messaggio diffuso su un noto periodico e su taluni cartelloni affissionali,
in cui viene data bella mostra di un prosperoso seno femminile
126
agghindato da uno stringato reggiseno blu (139). L’headline recita “Pensa
al suo ego. Regalale Blu ego, il suo numero di telefono”. Immediatamente
sotto sono riportate le cifre del numero telefonico 120-60-90 che
rimandano rispettivamente, alle auspicate misure anatomiche del seno, del
girovita e dei fianchi della donna. La didascalia sottostante recita: “Stai
cercando un regalo su misura per lei? Blu ego è l’unico numero che
inventi tu, decidi tu, scegli tutto tu. Solo con Blu puoi scegliere il numero
che vuoi tra gli oltre 20 milioni disponibili. Ma decidi in fretta, perché
qualcun altro potrebbe avere la tua stessa idea e una fidanzata con le
stesse misure della tua. Se vuoi saperne di più chiama il numero verde...”.
Secondo il Comitato di Controllo il messaggio litigioso opera un’indebita
strumentalizzazione del corpo della modella, pur in assenza di un
apprezzabile collegamento funzionale con il servizio reclamizzato, donde
la violazione dell’art. 10 CAP.
Nella memoria difensiva la resistente rileva l’insidiosa tendenziosità
e parzialità della lettura data dall’organo inquirente, poiché questi avrebbe
arbitrariamente estrapolato il messaggio in questione dal più ampio
contesto di cui lo stesso faceva parte, contravvenendo al «principio
interpretativo secondo il quale i messaggi debbono essere decodificati
quanto meno anche in funzione della loro reciproca interazione». La
resistente si sofferma diffusamente sulla circostanza che l’intera
campagna promozionale si svolga su uno sfondo di giocosa ironia –
emblematica sarebbe la raffigurazione di un «emulo di James Bond, del
tutto improponibile per movenze e prestanza fisica» sulla cui valigetta
sono impressi i numeri telefonici comprensivi dello 007 – non mancando
inoltre di rammentare, invero assai opportunamente, il fondamentale
( 139 ) Dec. n. 39/2001, 23 febbraio 2001, Comitato di Controllo c. Blu s.p.a.,
Agenzia Leo Burnett Co. s.r.l., Editrice La Stampa S.p.A., PK-Publikompass s.p.a.
127
assunto recepito dalla giurisprudenza autodisciplinare già nella dec. n.
239/1999, secondo cui «non ogni caduta di gusto e non ogni rugosità di
linguaggio o di situazione, né ogni forma di insensibilità nell’interpretare
valori e doveri sociali riconducibili alle convinzioni morali, civili e
religiose ed alla dignità della persona ricadono sotto la sanzione dell’art.
10 del Codice di Autodisciplina» (140). Pertanto, conclude la resistente,
nel caso di specie non può assumersi lesa la dignità della persona umana,
giacché una qualche forma di mercificazione è necessariamente tollerata
in pubblicità, almeno fintantoché le immagini non «propongano modelli
di degradazione, di depravazione umana, di gratuito sfruttamento della
fisicità a servizio necessitato del messaggio», tali da rendere quantomeno
imperatorio l’intervento del Giurì.
Il Giurì, ritenuta infondata nel merito la domanda del Comitato di
Controllo, assolve la pubblicità litigiosa, dichiarandola conforme all’art.
10 CAP.
Similmente, è stata scagionata la pubblicità televisiva “Lemonsoda,
Oransoda, Pelmosoda”, il cui esordio è dominato dal primissimo piano di
un seno femminile, alquanto procace, che ondeggia ritmicamente.
L’inquadratura si allarga progressivamente e mostra la donna seduta su un
gommone condotto da un giovane la cui espressione languida e vogliosa è
completamente obnubilata dal movimento ondulatorio del seno,
fintantoché, finalmente persuaso a distoglierne lo sguardo, il giovane
beve dalla bottiglia un sorso della bibita reclamizzata. Interviene la voce
fuori campo che afferma: «Bevi Oransoda, Lemonsoda, Pelmosoda e
scopri sulle etichette come vincere un gommone con motore Suzuki»
(140) Dec. n. 239/1999, 22 luglio 1999, Comitato di Controllo c. Campari s.p.a.,
D’Adda Lorenzini Vigorelli, Publitalia ’80 s.p.a.
128
(141). Ritiene il Comitato che il filmato pubblicitario in oggetto costituisca
una deprecabile strumentalizzazione del corpo femminile, recando grave
nocumento alla «dignità della persona e ponendosi in contrasto con l’art.
10, 2° comma, CAP». Inoltre il continuo ondulare del seno della donna
evocherebbe un’allusione sessuale di grande suggestione visiva,
manifestamente esorbitante i limiti imposti dall’art. 9 CAP. Per tutta
risposta la società resistente replica che le argomentazioni sulle quali si
fonda l’accusa sono oscurate da un incresciosa precomprensione
valutativa, non potendo non tenersi nella benché minima considerazione
che il tono goliardico e financo cameratesco del filmato, così com’è
avviluppato in una manta di amabile ironia, sia di per sé stesso sufficiente
a scagionare la pubblicità litigiosa.
Destano vivissimo interesse le argomentazioni poste dall’organo
giudicante alla base della pronuncia in parola e per la raffinatezza dello
sforzo esegetico e per la lucidità ed intellegibilità del pensiero. Sostiene il
Giurì «che la pubblicità in esame – benché innegabilmente ispirata dalla
ricerca di un impatto forte presso il pubblico, grazie ad un certo grado di
spregiudicatezza concentrata nella scena iniziale –, non si spinga oltre i
limiti imposti dall’ordinamento autodisciplinare […]. Per apprezzare gli
eventuali profili di contrasto con le norme autodisciplinari, il filmato va
considerato e valutato nel suo complessivo sviluppo. Indubbiamente lo
spot fa leva su un elemento di attrazione del pubblico di natura edonistica
e sensuale: tale è la rappresentazione in primissimo piano di un seno in
costume, procace e sobbalzante, oltretutto esposto all’esordio della
(141) Dec. n. 147/2003, 22 luglio 2003, Comitato di Controllo c. Campari s.p.a.,
Publitalia ’80 s.p.a., con riguardo ad un telecomunicato reclamizzante le bibite
“Lemonsoda, Oransoda, Pelmosoda”, diffuso da Campari Italia s.p.a. e trasmesso sulle
Reti Mediaset nel mese di giugno 2003.
129
narrazione, in modo “criptico” ed aperto a qualche interpretazione
maliziosa. Peraltro la successiva sequenza, che svela piuttosto
rapidamente la situazione, interrompe l’inquadratura, scioglie la curiosità
ed
indirizza
inequivocabilmente
il
filmato
sui
binari
di
una
comunicazione ironica e scherzosa: questa si basa sul meccanismo dello
svelamento improvviso del contesto, e sull’immagine dello sguardo
inebetito del ragazzo, elementi dall’effetto comico che suscitano per
reazione un naturale, immediato sorriso in una ideale platea media di
pubblico. L’utilizzazione nella comunicazione pubblicitaria di elementi di
richiamo
sessuale,
come
l’ostentazione
di
parti
anatomiche
tradizionalmente espressione della bellezza femminile, non può ritenersi
di per sé motivo di indecenza, volgarità o ripugnanza della
rappresentazione. Tale utilizzazione è, ormai, largamente diffusa nei
settori della comunicazione, non solo in pubblicità, ed è tendenzialmente
accettata dalla sensibilità del pubblico medio. Naturalmente ciò che ha
rilievo, ai fini della valutazione demandata al Giurì, sono il modo e la
forma della rappresentazione. Ciò chiarito, il Giurì reputa che lo spot in
esame, in virtù del suo complessivo registro scherzoso, per così dire
goliardico, contiene in sé l’antidoto ad un eccessivo indulgere in allusioni
sessuali lascive o morbose. Anche altri elementi, ad avviso del Giurì,
contribuiscono a far prevalere nel messaggio un carattere solare, di
ammiccamento genuino e diretto: il contesto vacanziero e balneare della
narrazione, un certo taglio giovanilistico del filmato, uno stile a cui non è
forse estranea la citazione in chiave ironica di modelli cinematografici
cosiddetti trash. Sotto un ulteriore profilo, si deve escludere che il filmato
presenti situazioni tali da implicare o alludere ad aspetti di violenza fisica
o morale, di sopraffazione del protagonista maschile sulla donna, di
sudditanza o di sofferenza di quest’ultima. Per quanto concerne, in
130
particolare,
la
censura
riferita
ad
una
strumentalizzazione
o
mercificazione del corpo femminile, essa appare eccessiva in relazione
alla pubblicità in esame, tenuto conto delle considerazioni sopra esposte
circa il carattere giocoso del filmato, e considerato che, nell’attuale
evoluzione del gusto e della sensibilità, lo stesso pubblico femminile in
ampia misura (anche se non generalizzata) accetta, e spesso apprezza,
nella comunicazione, l’esaltazione edonistica della bellezza del corpo
femminile, se scevra da elementi di offesa e di volgarità. Anche l’accusa
di gratuità del contenuto del messaggio, che aggraverebbe il lamentato
carattere volgare ed offensivo, per quanto non appare convincente, posto
che, da un lato, la narrazione è in effetti collegata ad un aspetto
dell’oggetto pubblicizzato […] e, dall’altro lato, l’utilizzo di contenuti
narrativi o comunque di idee creative volutamente svincolate dal
prodotto, o collegate ad esso solo da un riferimento labile, costituisce uno
stile pubblicitario che trova illustri precedenti (si pensi alle scenette di
Carosello nella TV degli anni ’60 e ’70). I rilievi formulati prescindono,
ovviamente, da qualsiasi valutazione estetica o presa di posizione circa il
grado di buon gusto o meno del filmato, che si compiace di sfiorare (o, se
si vuole, di “citare”) la cifra del grossolano e che certo potrà per questo
suscitare in una parte del pubblico reazioni di scarso gradimento». Ciò
che il Giurì ritiene di escludere, in base alle motivazioni espresse, è che la
pubblicità in esame violi i canoni prescritti dagli artt. 1, 9 e 10 CAP (142).
(142) Similmente nella già citata pronuncia n. 239/1999, Comitato di Controllo c.
Campari s.p.a., D’Adda Lorenzini Vigorelli, Publitalia ’80 s.p.a., anch’essa riguardante
un filmato pubblicitario Campari per le bibite “Oransoda”, “Lemonsoda” e
“Pelmosoda”, rilevata sulle reti Mediaset nel mese di giugno 1999, il Giurì si sofferma
sulla questione della ricognizione, talvolta assai ardua, dei limiti applicativi dell’art. 10
CAP. E ciò al fine di scongiurare che ogni «rugosità» di linguaggio, quantunque idonea
a suscitare qualche disagio o reiezione della comunicazione pubblicitaria, possano essere
indiscriminatamente e aprioristicamente sanzionate ex art. 10 CAP. All’uopo afferma il
Giurì che «Per accertare la violazione dell’art. 10 occorre che dal complesso della
131
Simili considerazioni hanno condotto il Giurì a scagionare due
manifesti pubblicitari, entrambi ritraenti su di un elegante sfondo
purpureo dei corpi di donna completamente nudi (143). Drappi di capelli
scendono sulle spalle delle modelle come pesante velluto, le nudità sono
per lo più adombrate dalle mani assai sottili, mentre lo sguardo si rivolge
ammiccante verso il lettore. «Sul corpo longilineo viene proiettata una
luce più chiara che disegna i contorni geometrici delle caldaie
pubblicizzate, in modo da incorniciare perfettamente le forme femminili,
dal petto fino a sopra le ginocchia. L’immagine della ragazza è riquadrata
in alto a sinistra da una stilizzazione della caldaia, in alto a destra dalla
scritta “nessuna la vede”, che continua in basso a sinistra con la scritta
“tutti la vogliono”, che a sua volta termina con la medesima stilizzazione
della caldaia che compare in alto a sinistra. L’annuncio termina con la
banda finale nera che reca a sinistra la scritta spaziozero s’incassa e
scompare». L’immagine, a detta del Comitato, violerebbe l’art. 10,
comunicazione, dal concept trasferito al pubblico si staglino situazioni, immagini e
linguaggio idonei a suscitare un turbamento emozionale legato direttamente alla lesione
degli interessi primari ai quali si è fatto riferimento. Oltre questa linea di confine, la
grossolanità della situazione, l’insensibilità nell’interpretare valori e doveri sociali,
sfuggono alla competenza del Giurì e la sanzione è legata al mercato e alla non
“produttività” della comunicazione, in termini di promozione del prodotto e del servizio.
Vi è un’ulteriore sottolineatura, che non può essere ignorata quando si fa riferimento alla
comunicazione pubblicitaria commerciale e non istituzionale o sociale.
Il messaggio
pubblicitario commerciale è caratterizzato, per sua natura, da una qualche dissonanza
idonea a richiamare l’attenzione e a mantenerla attiva per il tempo necessario ad attivare
la comunicazione. Se usa codici rappresentativi di tipo realistico non può fare a meno di
esprimere differenze rispetto all’ovvio e al banale, ai fini di intrigare il destinatario sul
contenuto del messaggio. Con la necessaria conseguenza che ammettere la possibilità di
utilizzare situazioni e linguaggi del reale, possibilità che nessuno ha mai messo in
discussione, significa accettare l’ingresso di dissonanze, discrasie e ambiguità per evitare
che il messaggio promozionale si trasformi in qualche cosa di diverso o si riduca a una
mera registrazione dei mercuriali di una certa area commerciale».
(143) Dec. n. 144/2001, 27 maggio 2002, Comitato di Controllo c. Hermann s.r.l.,
IGP Decaux s.p.a.
132
comma 2, CAP poiché realizza una svilente strumentalizzazione ed una
mercificazione dell’immagine della donna, ulteriormente aggravata dalla
intensa allusività delle scritte che ne sovrastano il nudo. Il Giurì, di
contro, ritiene che nelle immagini in parola non ricorra alcun profilo di
non conformità tale da giustificare qualsivoglia intervento sanzionatorio o
inibitorio. Ciò perché, quantunque l’inserzionista abbia impiegato un
nudo di donna per reclamizzare un prodotto non strettamente correlato ai
bisogni ed alle esigenze del pubblico femminile, deve purtuttavia
riconoscersi, prosegue il Giurì, che la raffigurazione del nudo femminile
si connoti per l’inusuale eleganza e sobrietà della figura. Attraverso
l’impiego di tecniche assai raffinate, quali il body painting e il bodylighting, la figura femminile, dalle rotondità scultoree quasi granitiche, è
imperlata da una luce sapientemente chiaroscurata ed impreziosita dal
contrasto cromatico tra il candore pallido della pelle e il rosso purpureo
dello sfondo. L’espressività che promana dall’immagine è casta, per nulla
sconveniente o ripugnante.
Più recentemente il Giurì ha scagionato la pubblicità Zicaffè
ritenendo sufficiente ad escludere la meritevolezza della risposta
sanzionatoria l’eleganza e la raffinatezza della forma espressiva
impiegata. La pubblicità de qua esibisce la schiena, fino ai glutei, di una
avvenente donna di colore, schiena sulla quale sono adagiati, seguendo la
linea dorsale, dei grossi chicchi di caffè; le immagini sono corredate dal
claim “Piacere nero” ( 144 ). L’immagine in parola viola l’art. 10 CAP,
poiché, opina il Comitato, attraverso una sineddoche corporale di
straordinaria bellezza, riduce «la figura femminile a mero oggetto del
(144) Dec. n. 80/2010, 14 settembre 2010, Comitato di Controllo c. Zicaffè s.p.a.,
con riguardo ad una pubblicità affissionale rilevata nel mese di giugno 2010 nella città di
Palermo.
133
desiderio provocando la mercificazione della persona ed il degrado della
sua dignità». La parcellizzazione del corpo della donna unitamente alla
correlazione iconografica e cromatica di un mero particolare anatomico
con il prodotto reclamizzato, finisce con il realizzare una deprecabile
abnegazione dell’integrità materiale e financo spirituale della persona.
Nell’opinione del Giudice pubblicitario la cartellonistica contestata non è
censurabile alla stregua delle norme autodisciplinari. All’uopo il Giurì
non trascura di rilevare, pur con un certo biasimo, il carattere
eminentemente pretestuoso ed apodittico all’argomento difensivo della
stone therapy, dal momento che tale pratica gode di modestissima
notorietà e che il posizionamento dei chicchi di caffè accompagna lo
sguardo del lettore conducendolo attraverso tutta la sinuosità scultorea
della schiena della donna. Purtuttavia, il Giurì, non ritiene la pubblicità
litigiosa meritevole della consueta sanzione inibitoria, rimarcando che:
«deve […] darsi onestamente e realisticamente atto che la pubblicità, se
non meramente informativa, ha per finalità istituzionale quella di
persuadere all’acquisto del bene o del servizio o esaltandone i pregi
prestazionali (per lo più ricorrendo ad un linguaggio iperbolico – la
pubblicità comparativa, se legittima, implica, per converso, una dose
rilevante di informazione) o instaurando nel consumatore una traslazione
di desiderio da un oggetto o da una situazione gradita ai più, in una data
cultura, all’oggetto o al servizio che l’autore della comunicazione intende
promuovere. Che questa traslazione del desiderio attinga spesso agli
appetiti sensoriali e, tra questi, alla libido è notorio». Ed ancora «Lo
scrutinio non può che vertere sulle modalità di trattamento iconografico e
verbale degli appetiti: e come nessuno si sognerebbe di considerare
riprovevole l’immagine di una guantiera in argento di saumon fumé per
trasferire l’appetito su una dozzinale crema spalmabile al salmone,
134
nessuno potrebbe rifiutare che l’immagine di un bel corpo, maschile o
femminile, in sé suscettibile di ammirazione e di desiderio umani e quindi
rispettabili come qualsiasi altra umana, fisiologica inclinazione, inneschi
l’ammirazione e il desiderio per dei capi d’abbigliamento o per dei
prodotti cosmetici.
La sensualità del caffè, bevanda più dell’ordine del
piacere che di quello dell’alimentazione, ben può essere legittimamente
evocata dalla perfezione plastica di una schiena femminile – come lo era
già stata dalla venustà di un volto femminile “in un mare” di chicchi di
caffè – declinando e mescolando più desideri: quello naturalissimo
suscitato da un bel corpo e quello del caffè […]. E come la traslazione del
desiderio dal corpo umano al prodotto è uno stilema tanto diffuso quanto
indifferente per la dignità della persona; così è solo se il desiderio per il
prodotto scaturisce da una condotta, da una postura, da un contesto
degradanti della persona (antonomasticamente perché la postura, la
condotta o il contesto fanno della persona – da intendersi come sintesi di
coscienza e volontà e da non confondersi con il corpo – un mezzo e non
un fine) che la traslazione merita la riprovazione dell’ordine
autodisciplinare» (145).
(145) In termini sostanzialmente analoghi si è espresso il Giurì con riguardo ad
alcune immagini pubblicitarie raffiguranti soggetti a mezzo busto di differente età e
sesso, con i volti celati, quasi fosse un passamontagna, da uno slip, escludendo che le
suddette immagini, ancorché di forte impatto visivo, importassero una avvilente
disumanizzazione della persona. Il tema del messaggio in questione, ovvero quello del
volto mascherato, viene esplicitato sotto il titolo della trasmissione pubblicizzata
“Comizi d’Amore”, nel payoff, che recita: “Dove il sesso non è bandito”. Secondo il
Comitato di Controllo il messaggio in parola viola gli art. 9 e 10 CAP. Ed invero,
argomenta l’organo di controllo, «l’uso di soggetti con il viso coperto da slip, oltre a
suscitare immediatamente sensazioni disturbanti nei destinatari, lede la dignità della
persona» poiché «la diretta applicazione sul volto di un indumento intimo normalmente
utilizzato per coprire i genitali, crea […] un inevitabile accostamento tra il viso della
persona ed i genitali stessi». Questo «cortocircuito visivo e concettuale» visceralmente
degrada la dignità umana, anche perché veicola una visione della sessualità/genitalità
come principale canale attraverso cui guardare al mondo. La parte iconica del messaggio
evoca una «fortissima e olfattiva fisicità» che procura financo disgusto, prestandosi ad
135
Orbene, il Giurì, nelle molte occasioni in cui è stato investito della
verifica di conformità alle prescrizioni degli artt. 9 e 10 CAP di messaggi
pubblicitari raffiguranti nudi di donna, ha chiarito importanti aspetti
applicativi delle norme autodisciplinari in commento, indicandone
l’esatto ambito di applicabilità alla luce dei due criteri ermeneutici più
volte richiamati ( 146 ). Si pongono in questo solco le decisioni nn.
365/2000, 129/2001, 165/2001, 232/2001, 289/2001 e 153/2004 (147).
una decodifica dal significato univoco. La suddetta decodifica, prosegue il Comitato,
non verrebbe esclusa neppure ove si tenesse in debita considerazione la facezia
scatologica o le presunte finalità didascaliche della parte testuale del messaggio.
Il Giurì ritiene di essenziale importanza, per la risoluzione del quesito
sottopostogli, quello cioè della riconduzione della pubblicità litigiosa all’umorismo
scatologico o all’erotismo deviato e feticista, ricorrere ad una interpretazione
complessiva della stessa, all’uopo rammentando che «è bensì vero che la comunicazione
pubblicitaria, come qualsiasi altra comunicazione di pensiero, è soggetta alle regole
dell’interpretazione e fra queste a quella che impone di ricostruire il contenuto del
messaggio tenendo conto dell’interazione reciproca dei singoli elementi espressivi che
vengono recepiti dal consumatore in un contesto unitario; ma è anche vero che la
suddetta regola soprattutto manifesta la sua importanza quando la valutazione
complessiva conduce a ricostruire il significato del messaggio diversamente da quello
che risulterebbe da una valutazione frazionata» (dec. n. 43/1982, 13 dicembre 1982,
Argenterie Christofle s.p.a. contro Cesa s.p.a., Arnoldo Mondadori Editore s.p.a.,
Editoriale del Corriere della Sera s.a.s.). Questo avvertimento, nell’opinione del
Giudice autodisciplinare, sembra particolarmente prezioso nel caso in esame, «laddove
la estrapolazione del solo visual potrebbe far pensare a un gioco infantile di dubbio
gusto, ma la lettura del messaggio nel suo complesso, visual e testo, fa interpretare lo
slip come allusione al passamontagna dei banditi, la parola bandito esplicita il proprio
doppio senso e tutto l’insieme chiarisce l’intenzionale riferimento alle prevenzioni
esistenti nei confronti del parlare liberamente di sesso». Per questi motivi, il Giurì, a
maggioranza del collegio, dichiara la pubblicità contestata conforme al Codice di
Autodisciplina Pubblicitaria. Dec. n. 10/2007, 6 marzo 2007, Comitato di Controllo c.
Discovery Italia s.r.l., Agenzia D’Adda Lorenzini Vigorelli BBDO, Soc. Quadro Adv.
s.r.l., Hachette Rusconi Editore s.p.a., Hachette Pubblicità s.p.a., RCS Periodici s.p.a.,
RCS Pubblicità s.p.a., A. Mondadori Editore s.p.a., Mondadori Pubblicità s.p.a. in
relazione ai messaggi diffusi a mezzo stampa su: “Gente” n. 46, data copertina 16
novembre 2006; “Io Donna”, data copertina 25 novembre 2006; “Chi” n. 47, data
copertina 29 novembre 2006 e su diffusa cartellonistica.
(146) V. infra § 1.
(147) Rispettivamente dec. n. 365/2000, 19 dicembre 2000, Comitato di Controllo
c. Radio Kiss Kiss s.r.l., Damir s.r.l.; dec. n. 129/2001, 29 maggio, Comitato di controllo
c. Barel s.n.c., RCS Editori s.p.a. – Sett. Periodici, RCS Editori s.p.a. – Sett. Pubblicità;
136
La
prima
decisione
riguarda
alcuni
manifesti
affissionali
raffiguranti in primissimo piano «l’immagine di una donna, sdraiata e con
la testa sollevata, con le gambe nude divaricate, rivolte verso
l’osservatore e salenti verso l’alto (148). La donna presenta un apparecchio
radiofonico appoggiato sulla zona pubica». L’headline reca la scritta
“Kiss Kiss me baby”. Il Comitato di Controllo ritenendo i messaggi
pubblicitari in contrasto con gli artt. 9, 10 e 1 CAP, chiedeva che ne fosse
disposta la cessazione unitamente alla pubblicazione per estratto
dell’emananda decisione ex art. 40. Ad avviso del Comitato di Controllo
anche il solo atteggiamento lascivo e ammiccante della modella, ritratta in
posizione ginecologica, sarebbe di per sé sufficiente a far intendere in
modo univoco il significato scandalistico e ripugnante del messaggio
litigioso. Invero anche gli altri elementi figurativi convergono verso
codesta ipotesi interpretativa, l’accostamento tra lo sguardo concupiscente
e supplichevole della donna e la scritta “Kiss Kiss me baby”, istituisce un
collegamento immediato tra il pube della donna e il prodotto
reclamizzato, trasfigurando il primo in lucente vestibolo di mercimonio.
Secondo la parte resistente la ricostruzione operata dall’organo di
dec. n. 165/2001, 24 luglio 2001, Comitato di controllo c. Onceas s.p.a., Agenzia Milano
AD s.r.l., Marketing Finanza Italia, Media Group Int. s.r.l., Gruppo Editoriale
L’espresso – divisione la Repubblica, A. Manzoni e C s.p.a. relativa ad un inserto
pubblicato su “Pubblicità Italia” n. 21 dell’11 giugno 2001 e su “la Repubblica” del 30
giugno 2001; dec. n. 232/2001, 9 ottobre 2001, Comitato di controllo c. Diamond s.r.l.,
Agenzia Opinion Leader s.r.l., R.C.S. Editori s.p.a. – Settore Periodici, R.C.S. Editori
s.p.a. – Settore Pubblicità; dec. n. 289/2001, 4 dicembre 2001, Comitato di controllo c.
Du Pont de Nemours International, La Repubblica s.p.a., A. Manzoni & C. s.p.a., R.C.S.
Editori s.p.a. – Settore Periodici, R.C.S. Editori s.p.a. – Settore Pubblicità, A.
Mondadori Editore; s.p.a., Mondadori Pubblicità s.p.a., relativa ad un messaggio
pubblicitario rilevato su “D” di “la Repubblica”, data di copertina 16 ottobre 2001; “Io
Donna” n. 34 e n. 41 e “Grazia” n. 44, data di copertina 6 novembre 2001 e dec. n.
153/2004, Comitato di Controllo c. Teobras s.r.l., IGP Decaux, IPAS, relativa ad una
campagna pubblicitaria rilevata su cartelloni pubblicitari a Milano nel mese di giugno
2004.
(148) Dec. n. 365/2000, cit.
137
controllo è assai poco pregevole, dal momento che non coglie la brillante
comicità del messaggio in contestazione. La postura delle gambe della
modella, lungi dal voler lasciare intendere un atteggiamento di profferta
sessuale, si limita a imitare, in forma goliardica, «la struttura delle due
antenne dell’apparecchio radio accostato al […] grembo [della donna]».
La resistente, all’uopo richiamando alcuni precedenti del giudice
ordinario, rimarca altresì come l’interpretazione del Comitato si atteggi in
modo piuttosto eccentrico rispetto alla «ratio sottesa nella legge n. 66 del
1996, che attribuisce rilievo come bene protetto non più alla moralità
pubblica, ma alla persona umana e al suo diritto di gestire con libera
scelta la propria sessualità».
Il Giurì, esaminate attentamente le tesi contrapposte, dichiara la
contrarietà dell’advertising agli artt. 9, 10 e 1 CAP. Non ritiene invece il
Giurì di dover procedere all’irrorazione dell’ulteriore sanzione della
pubblicazione per estratto dell’emanata sentenza, ex art. 40 CAP. Ciò in
quanto è dato rinvenire un ravvedimento operoso nell’atteggiamento
psicologico e materiale dell’inserzionista, il quale, in coincidenza con la
discussione della vertenza, ha sollecitamente provveduto alla sospensione
unilaterale della campagna pubblicitaria fondata sulla cartellonistica al
fine di riparare agli effetti pregiudizievoli che la stessa aveva frattanto
procurato ai consumatori, dando segno di resipiscenza ed encomiabile
contegno processuale.
In senso conforme si è pronunciato il giudice autodisciplinare nella
dec. n. 129/2001, relativa al messaggio pubblicitario Barel “L’arte del
ferro battuto. Unico, irripetibile”, raffigurante «una donna senza volto,
completamente nuda, ripresa dal seno a metà polpaccio, distesa a
cavalcioni della testata in ferro battuto di un letto» (149). La postura della
(149) Dec. n. 129/2001, cit.
138
modella è assolutamente inequivoca, evocando «un atto di esibizione
autoerotica», «aggravata dall’effetto penetrativo dell’ansa tubolare della
testata, che affonda tra le gambe e la zona pubica, realizzando anche un
effetto di violenza fisica». Non vi è alcun collegamento tra la scena
ritratta e il prodotto reclamizzato, di talché deve inferirsi l’ampollosa
superfluità della raffigurazione in discorso. Le modalità espressive
utilizzate trascendono i limiti imposti dal decoro e dalla decenza mediante
la rievocazione di una libido atavica e primordiale, suscitando sensazioni
assai conturbanti. Per questi motivi il Comitato di Controllo ritiene che il
messaggio litigioso si ponga in contrasto con gli artt. 9 e 10, comma 2,
CAP.
Il collegio giudicante, considerando meritevoli di accoglimento le
censure mosse dall’accusa, opina che, sebbene la calligrafia estetizzante
della fotografia non consenta di ravvisare nella pubblicità litigiosa gli
estremi della volgarità e dell’indecenza, di cui all’art. 9 CAP, nondimeno
deve ritenersi integrata la violazione dell’art. 10, comma 2, CAP. Con le
parole del Giurì: «La figura di una donna nuda, distesa a cavalcioni sulla
stanga in ferro della testata di un letto, appare del tutto innaturale ed ha
palesemente lo scopo di evocare suggestioni di tipo sessuale, per
richiamare l’attenzione sul prodotto ed imprimerne nella mente il ricordo.
Il corpo raffigurato è inequivocabilmente femminile, evidenziando
l’immagine del seno nudo, con il capezzolo proteso verso la testata del
letto. La posizione della donna è del tutto innaturale ed irrealistica, ed
appare palesemente utilizzata al solo scopo di indurre ad associare il
prodotto pubblicizzato al corpo ed ai genitali femminili. Il messaggio
veicola indubbiamente […] una palese strumentalizzazione del corpo
femminile, che appare in contrasto con l’art. 10, 2° comma, CAP».
Il
139
Giurì, pertanto, dichiara il suddetto contrasto e dispone l’immediata
cessazione della pubblicità contestata.
In un’altra occasione il Giurì ha censurato un messaggio
pubblicitario basato sull’evidenziazione in primissimo piano di due glutei
femminili racchiusi in un cerchio, alla cui sinistra compare un rullino
“Fujifilm” e sovrapposto al centro il marchio “Gimme five” con
l’impronta di una mano destra stilizzata ( 150). Questo grande cerchio è
sormontato in alto a sinistra da una body copy che testualmente recita: “è
partita “Gimme five”, la grande promozione estiva Fujifilm che ti fa
vincere suggestivi viaggi per due persone”. Segue lo slogan “ecco cosa ti
serve per vincere la Giordania”; la pubblicità reca ulteriormente un
cerchio con un’immagine dei templi di Petra in Giordania e chiude con il
pay off “Fujifilm, Sviluppa la passione”. Ad avviso del Comitato di
Controllo il messaggio in questione si fonda sulla ridondante
enfatizzazione di un particolare anatomico, la cui rappresentazione è
«completamente svincolata dalla necessità di reclamizzare il concorso ed
imposta con prepotenza allo sguardo dell’osservatore, ciò che determina
una gratuita ed inaccettabile mercificazione e reificazione del corpo
femminile», secondo una filosofia iconografica che dovrebbe ormai
essere antiquata e finanche antidiluviana. La degradante trivialità del
messaggio litigioso è ulteriormente aggravata, soggiunge il Comitato, dal
parallelismo creato tra i glutei della giovane donna e la fortuna necessaria
per vincere il viaggio sponsorizzato. Per i suesposti motivi il Comitato
ritiene che la pubblicità in parola violi gli artt. 9 e 10 CAP. Il Giurì –
dopo aver espresso il proprio apprezzamento per l’eleganza stilistica della
pubblicità litigiosa, caratterizzata dall’assoluta perfezione delle tecniche
fotografiche, dalla seducente ricercatezza delle reminiscenze cromatiche
(150) Dec. n. 165/2001, cit.
140
tra visual e scritto, nonché dalla pregevolezza dell’architettura formale,
sapientemente e simmetricamente strutturata – non manca di rilevare
come questi apprezzamenti personali positivi non possano tuttavia
esimere il Giurì «dal verificare serenamente se il messaggio litigioso sia o
non conforme al codice di autodisciplina pubblicitario. E questa verifica
conduce a dare una risposta negativa». Secondo una consolidata
giurisprudenza autodisciplinare, prosegue il Giurì, le norme di cui agli
artt. 9 e 10 CAP si atteggiano quale estrinsecazione modale del più
generale principio affermato dall’art. 1, secondo cui la pubblicità «deve
evitare tutto ciò che possa screditarla». Da qui la possibilità di dedurre
che «la ratio dell’art. 1 suggerisce subito che questa regola e le sue
specificazioni puntuali degli artt. 9 e 10 vogliono evitare anche il
discredito della pubblicità che possa derivare da una sua valutazione
negativa ad opera non solo della collettività generale tutt’intera ma anche
di gruppi più circoscritti, che tuttavia non siano espressivi di minoranze
patologiche». Nel caso di specie, continua il Giurì, non può dubitarsi della
meritevolezza dell’intervento sanzionatorio, giacché non occorre alcuna
«ontologica necessità» di pubblicizzare il prodotto reclamizzato con tale
esuberanza ed euforia espressiva al solo fine di attirare l’attenzione del
pubblico. Il Giurì, esaminati gli atti e sentite le parti, dichiara la pubblicità
litigiosa in contrasto con gli artt. 9 e 10 CAP e ne ordina la cessazione.
Identica sorte ha avuto un messaggio pubblicitario ritraente una
giovane donna centroamericana in un succinto bikini, con le gambe
innaturalmente divaricate, tra le quali è posta una bottiglia della birra
pubblicizzata ( 151 ). Accanto all’immagine l’headline recita: “Fatti la
cubana”. Il Comitato di Controllo considerate congiuntamente la postura
della modella, inneggiante alla più lubrica salacia, e l’headline dal
(151) Dec. n. 232/2001, cit.
141
significato inequivoco, ritiene che non occorra alcun dubbio sulla
decodifica in senso marcatamente volgare e scurrile del messaggio
litigioso e chiede pertanto che ne sia ordinata la cessazione per contrasto
con gli artt. 9 e 10 del CAP. Nell’opinione del Comitato l’immagine della
donna procacemente disabbigliata va interpretata alla stregua della scritta
“Fatti la cubana”, ponendosi con essa in rapporto d’inestricabile
correlazione semantica. Il Giurì, accolta la domanda dell’organo
inquirente, pone l’accento sulla circostanza «che l’annuncio, pur
contravvenendo tanto all’art. 9 […] quanto al 10 […], è riprovevole
soprattutto perché, operando l’identificazione della modella con la birra,
per di più attraverso un doppio senso volgare, realizza un caso di
mercificazione della donna, purtroppo analogo ai molti che negli ultimi
anni sono già stati sanzionati dal Giurì» e dispone pertanto la cessazione
della pubblicità in contestazione (152).
La dec. n. 289/2001, ha ad oggetto un messaggio pubblicitario che
ritrae la schiena nuda di una giovane donna genuflessa, con fianchi e
glutei in elevazione, sulla quale vi è la scritta Tactel “Cover me with
something that understands my body language” ( 153 ). Ad avviso del
Comitato, la modella, della quale non si scorge il volto, sarebbe colta in
un gesto di umiliante proscinesi nell’atto di concedere i suoi fianchi
(152) Un autorevole precedente in tal senso è costituito dalla dec. n. 7/1975, 17
settembre 1975, Comitato
di Accertamento nei confronti di Diffusion Post s.r.l., Gm
s.r.l., A. Mondadori Editore s.p.a., relativa ad un messaggio pubblicitario apparso su di
un noto periodico, che ritraeva una ragazza completamente nuda a cavalcioni si di una
sedia, in gesto di chiara profferta sessuale. L’immagine era accompagnata dell’headline
“Fattela anche tu... la sedia del regista”. Il Giurì in quell’occasione ebbe ad affermare
che l’annuncio litigioso fosse da considerarsi contrastante con l’art. 9 CAP in quanto
allusivamente volgare. Il gioco di parole contenuto nell’headline non lasciava alcun
dubbio al riguardo, «soprattutto se posto in relazione alla fotografia della ragazza
svestita, la quale di per sé può anche non essere censurabile, giacché il nudo non
necessariamente integra gli estremi della volgarità, ma che - nel generale contesto del
messaggio - contribuisce ad accentuare il tono ambiguamente scurrile».
(153) Dec. n. 289/2001, cit.
142
lussureggianti quale «mero supporto di uno scritto». La postura della
donna è di totale subordinazione, evocando un serpeggiante servilismo
erotico, la cui decodifica è tanto più intellegibile, ove si consideri il
significato, invero assai degradante e avvilente, dello scritto. Il Giurì,
osserva preliminarmente che, quantunque nel caso di specie non possa
disconoscersi la preziosità della forma, esplicantesi tanto nella sublime
eleganza e raffinatezza della fotografia, quanto nella linearità minimalista
del disegno in cui si fondono fotografia e scritto, deve cionondimeno
ritenersi integrata la violazione lamentata dell’art. 10 comma 2, proprio in
considerazione della cristallina limpidezza anzidetta che enfatizza
oltremodo il messaggio di sudditanza della donna veicolato dalla
pubblicità litigiosa. Per questi motivi il Giurì, dichiarato il contrasto della
pubblicità de qua con l’art. 10, comma 2, CAP, ne dispone la cessazione
(154).
(154) Le preziose riflessioni del Giurì forniscono un’analisi fenomenologica della
fattispecie assai attenta: «È proprio questa riuscita simbiosi che fa emergere in modo
trasparente la rappresentazione degradante ed umiliante della donna con il capo nascosto
e ridotto a terra, fra le mani incrociate dietro la nuca, con solo fianchi e glutei in
elevazione, e nella quale la schiena è utilizzata come mero supporto per uno scritto,
oltretutto di significato pesantemente ambiguo. È ben vero che lo scritto, ed in
particolare il termine “cover me” […] potrebbe essere letto in chiave diversa, anche in
ragione di una lingua non usuale per il pubblico italiano, così indotto a raccordare il
termine con le parole successive che ne dissolvono il riferimento al significato di
“accoppiamento animale”, ma tale spiegazione nulla toglie al significato umiliante e
degradante dell’immagine in sé considerata. Pesante simbologia della “donna oggetto” il
cui corpo può essere offerto come supporto per scritte pubblicitarie ed il cui capo e viso
possono essere nascosti sino a scomparire per dare rilievo, anche nella postura, solo a
fianchi e glutei, portati in primo piano. Il fatto che tutto sia rappresentato con un certo
grado di eleganza, in una atmosfera azzurro scuro, sfumata sino ad un blu profondo,
facendone smarrire alcuni contorni […], non fa venir meno la sindacabilità sotto il
profilo denunciato. Se è vero infatti che la raffinatezza espressiva può essere idonea a
collocare l’immagine su un piano diverso da quello suscettibile di offendere il buon
gusto […] non è men vero che nella specie l’elemento caratterizzante, quello destinato a
colpire l’osservatore, esaltato dalla limpidezza del mezzo espressivo, è quello al quale ha
fatto riferimento il Comitato. La donna, vista in un atto di asservimento e sottomissione,
senza viso e cervello, in cui la sola evidenza è quella offerta da glutei e fianchi: le parti
143
Analogamente, il giudice pubblicitario ha ritenuto non conforme
all’impianto autodisciplinare la campagna pubblicitaria Miss Bikini che
«mostra, fisicamente e metaforicamente, un corpo di donna ridotto a
richiamo dell’ossessivo desiderio maschile espresso come una palpazione
di gruppo consentita dalla donna che resta estranea alla relazione» ( 155). Il
Presidente
del
Comitato
di
Controllo,
ritenendo
l’immagine
manifestamente contraria agli artt. 10, 11 e 1 CAP, ingiungeva
all’inserzionista, ex art. 39 CAP, di desistere dalla ultronea diffusione di
detta pubblicità su ogni mezzo.
Nell’immagine cartellonistica il corpo della donna è oggetto di una
«gestualità fortemente invasiva», l’impulso erotico è rappresentato come
assolutamente incontenibile e irrefrenabile, veicolando un modello
comportamentale «degradante, squalificante e pericoloso».
La totale
estraneità emozionale della donna rispetto alla vicenda raffigurata –
percepibile dallo sguardo dormiente e ozioso e dal sorriso marmoreo della
stessa – acuisce il paventato rischio di decodifica del messaggio nel senso
di una legittimazione normalizzante del più turpe degli abusi, quello
estrinsecantesi in una capricciosa fruizione del corpo femminile quale
mera realtà inorganica, deprivata di ogni capacità volitiva e psicologica.
L’offesa e il pericolo, seguita il Comitato, «sono infine aggravati dalle
caratteristiche del mezzo utilizzato, che per le sue enormi dimensioni, si
impone brutalmente alla visione dei passanti, specie se minori». In
sostanza, ad avviso dell’accusa, le fotografie in esame presentano un
rischio concreto di una decodifica analogica delle immagini che può
messe in evidenza nella fotografia. Il linguaggio del corpo, che sembra collegarsi allo
scritto, quest’ultimo con la dose di ambiguità sopra rimarcata, è quindi solo quello
stagliato dalle immagini poste in primo piano».
(155) Dec. n. 153/2004, cit.
144
indurre in un pubblico ancora immaturo un senso di compiacimento se
non di emulazione verso comportamenti gravemente trasgressivi e
irrispettosi nei confronti della donna.
Il Giurì, con seducente argomentare, afferma che «per uscire dalle
secche del semplicistico criterio ermeneutico della libera interpretazione,
occorre fare riferimento ai principi della percezione visiva e della sua
organizzazione, da tempo elaborati dalla psicologia della forma […] per
la corretta lettura di un’immagine. Alla luce di questi criteri, un’immagine
è qualcosa di più e di diverso rispetto alla semplice somma delle parti da
cui è costituita. I processi mentali della conoscenza, e in particolare
dell’esperienza percettiva, si organizzano in configurazioni unitarie la cui
totalità è qualitativamente differente dalla somma dei singoli elementi che
la compongono e prescinde da mediazioni, scomposizioni, ricostruzioni e
così via. Come una melodia non è la somma delle note che la
compongono e non può venir suddivisa in esse senza perdere la sua
caratteristica di fondo, così l’immagine ‘significa’ per il senso globale che
comunica la forma nel suo complesso. Quello che conta è dunque la
struttura, la natura intrinseca del complesso globale stesso. L’analisi
strutturale dell’esperienza parte quindi dall’insieme e non dalle parti ed è
il tutto che dà significato alle parti e non viceversa […]». In particolare,
per quanto attiene alla contestata violazione dell’art. 11 CAP, il Giurì
ricorda, ancora una volta, la fondamentale e non trascurabile circostanza
«che il consumo di materiale pubblicitario da parte di adulti e minori si
differenzia in modo significativo. L’adulto possiede un sistema cognitivo
ed emozionale pienamente sviluppato che gli consente di ‘gestire’ una
gran mole di stimoli complessi e gli offre la possibilità di analizzare il
messaggio in modo critico e di limitarne il condizionamento. I bambini e
gli adolescenti (anche se per ragioni in parte diverse) hanno invece serie
145
difficoltà alla decodifica del messaggio che li può lasciare confusi e
indifesi perché crea una sorta di realtà parallela che, essendo vivida e di
facile interpretazione, può prevalere, con conseguenze facilmente
intuibili, sull’effettivo dato di realtà. A questo proposito non è irrilevante
il mezzo attraverso il quale è veicolato il messaggio perché la modalità
prescelta può determinarne le modalità di fruizione. Nel caso in esame, la
scelta è caduta sul manifesto di enormi dimensioni, una forma che […] si
impone con prepotenza alla visione da parte dei passanti, colpendoli
emotivamente con le immagini rappresentate, senza alcuna possibilità di
sottrarlo alla vista dei bambini o adolescenti. L’univocità di decifrazione
è aggravata da una specifica caratteristica del messaggio Teobras […] e
cioè l’assenza di ogni comunicazione scritta di commento o di
suggerimento interpretativo. La concentrazione sul canale visivo, il più
immediato, riduce lo spettatore al mero rango di vedente, togliendogli
ogni possibilità di interpretazione simbolica. A differenza del messaggio
‘parlato’ o audiovisivo, la comunicazione che si affida alla sola visualità è
priva della possibilità di esprimere analogie, contrasti, legami causali o
altri
tipi
di
rapporti».
Ancora,
«questa
modalità
riduttiva
di
comunicazione che […] contrasta con l’art. 10 del Codice di
Autodisciplina Pubblicitaria per gli elementi di svalutazione della figura
femminile che propone, se fruito da un pubblico recettivo, acritico e
sensibile come quello dei minori può diventare, anche a ragione della
indiscriminata visibilità del manifesto, veicolo di turbamento psichico e di
errati convincimenti sul modello di comportamento maschile e
sull’immagine e il ruolo della figura femminile».
Il Giurì pertanto dichiara la pubblicità contestata in contrasto con
gli artt. 10 e 11 CAP, ordinandone contestualmente la cessazione.
Un’analisi a parte merita la dec. n. 226/2002 per l’imponenza della
146
condotta violativa posta in essere dall’inserzionista, estrinsecantesi
nell’utilizzazione in una comunicazione pubblicitaria dell’immagine di
una donna sul cui corpo è ricalcata la suddivisione della carne bovina nei
vari tagli con cui tale carne viene commercializzata. Secondo il Comitato
il messaggio pubblicitario in commento è «caratterizzato da un collage di
disegni e fotografie disparate e non pertinenti le une con le altre sì che
ogni elemento della composizione acquista un significato a se stante. In
tale situazione iconografica in cui il singolo elemento, essendo
decontestualizzato rispetto agli altri con i quali non presenta alcun nesso
concettuale, assume rilievo individuale l’immagine di un corpo nudo di
donna vistosamente suddiviso in vari tagli di carne, con richiamo al
cosiddetto taglio di bue». Tale icona realizza, a detta del Comitato, «un
inaccettabile svilimento del corpo umano poiché nell’identificare parti
anatomiche del corpo femminile con il caratteristico nome inglese dato a
vivande da tavola evoca una situazione di mercificazione che lede
moralmente ed offende la dignità del soggetto rappresentato, ossia della
donna considerata alla stregua di un animale da allevamento» (156). Una
siffatta scelta iconografica sfoggia un’irriverenza così intensamente
dissacrante, da assurgere a caso emblematico di violazione degli artt. 9 e
10 CAP. In motivazione la parte resistente oppone che le immagini del
collage
si
pongono
in
rapporto
di
reciproca
interrelazione
contestualizzante, dacché evocano le medesime suggestioni, che lungi
dall’essere biasimevoli o truculente, appartengono agli ideali di
«tolleranza, amore, rispetto, fratellanza tra culture, persone e popoli». Nel
(156) Dec. n. 226/2002, 10 dicembre 2002, Comitato di Controllo c. A&A s.p.a. –
Aspesi, R.C.S. Periodici s.p.a., R.C.S. Quotidiani s.p.a., R.C.S. Pubblicità spa relativo ad
un messaggio pubblicitario apparso su “Il Corriere della Sera” nei giorni 7 e 10 ottobre
2002, nonché su “Io Donna” n. 37 del 14 settembre 2002.
147
merito enuncia il Giurì «che è naturalmente vero che quello realizzato per
scopi pubblicitari è un patchwork e che in tale tipo di composizione
artistica, come è nella sua natura, le diverse immagini e disegni non
presentano tra loro sinapsi logiche, ma si tratta di accostamenti suggeriti
anche da effetti cromatici ed emotivi. Non per questo tuttavia si deve
negare che si tratti di un insieme che va colto come tale; […] Si deve
tuttavia considerare che nell’inserire nel patchwork l’immagine della
donna tatuata come una mucca da macello se ne è attuata una duplice
decontestualizzazione. La prima e più ovvia consiste nella destinazione a
scopi pubblicitari della composizione stessa. Collocata in tale contesto
comunicativo ogni messaggio acquista una valenza specifica, e, sotto il
profilo istituzionale, si impongono, a tutela e protezione del consumatore
medio, cautele che in genere non sono necessarie nel puro campo della
produzione artistica. Le seconda, più sottile, nasce dal fatto che il
richiamo ai simboli dei movimenti culturali nati in America negli anni
sessanta, assai evidente nella composizione in esame, sembra trascurare
che tali movimenti ebbero diverse valenze. L’opponente sottolinea, in fin
dei conti giustamente, che il senso complessivo del patchwork è
l’atmosfera rilassata, amichevole e tollerante della cultura dei “figli dei
fiori”. Sicuramente questo è il messaggio che si voleva veicolare e che in
larga misura la composizione veicola effettivamente. Tuttavia in quei
movimenti era anche presente una vena di critica radicale alla ipocrisia
caratterizzante i residui della morale di origine vittoriana che ancora
dominavano il perbenismo della middle class. A questo filone critico
probabilmente appartiene l’archetipo dell’immagine in questione, ma che
si tratti di un significato del tutto perduto nel frattempo, lo dimostra la
difficoltà della parte opponente a rintracciarlo. Men che meno si può
pretendere che il lettore di un settimanale colga da solo simili
148
intendimenti critici, tanto più che la maggior parte dei simboli utilizzati,
che sono meglio coglibili anche dal lettore non dotato di grande
provvedutezza storico culturale, sono uniformemente orientati in altro
senso, ossia richiamano gli ideali di fratellanza e tolleranza nati dal
movimento dei diritti civili e poi trasformatisi in uno stile di vita.
Da ciò discende che, estraniata da ogni intendimento critico,
l’immagine del corpo nudo di una donna su cui sono sovraimpressi i tagli
di carne bovina diviene solo una inaccettabile offesa alla dignità della
donna e si pone quindi in radicale contrasto con l’art. 10 CAP a norma del
quale la pubblicità deve rispettare la dignità della persona umana in tutte
le sue forme ed espressioni; nonché con il connesso principio di cui
all’art. 9 che vieta rappresentazioni di violenza fisica o morale che
secondo il gusto e la sensibilità dei consumatori debbano ritenersi volgari
o ripugnanti».
Il Giurì, pertanto, dichiara la non conformità della pubblicità
litigiosa agli artt. 9 e 10 CAP e ne dispone la cessazione.
4.
L’utilizzazione pubblicitaria del tema della morte è
piuttosto diffusa, tanto da consentire l’individuazione di supposto filone
necrofilo, caratterizzato e dalla esibizione di modelle nude in contesti
funerei o mortuari e dalla commistione tra elementi tanatologici ed
erotici. Prescindendo dalle questioni che attengono alla valenza
commercial-comunicazionale di questo presunto trend, ovvero se
rappresentare la morte in pubblicità sia in grado di produrre un ritorno
apprezzabile in termini commerciali, rimane tuttavia, in un’ottica di
valutazione giuridico-autodisciplinare, da verificare la liceità di tali
149
operazioni, i criteri idonei per poterli valutare (157). Al fine di svolgere
una ricognizione ermeneutica dei principi giurisprudenziali elaborati sul
tema, occorrerà valutare quei casi in concomitanza dei quali il
mercimonio del corpo della donna è stato realizzato attraverso il ricorso
pubblicitario a riferimenti tanatologici.
Paradigmatica in tal senso è la dec. n. 165/1999, in cui il messaggio
litigioso raffigura il corpo ormai esanime di una giovane donna scalza con
la testa adagiata all’interno del forno di una cucina a gas. All’immagine è
sovrapposta la scritta “Fashion is dead” ( 158 ). Le modalità espressive
impiegate rivelano una sconcertante crudeltà, esaltando con rara enfasi
l’antitesi tra la condizione di caducità dell’essere umano e la perpetuità
delle scarpe reclamizzate, suggerendo una scala di valori intollerabile per
la coscienza morale e religiosa della stragrande maggioranza dei fruitori.
Tale contrasto è ulteriormente aggravato dal violento realismo cromatico
con cui è trattato il tema della morte, la cui rappresentazione appare tanto
veristica da procurare turbamento e angoscia. Ad avviso del Comitato
l’annuncio si porrebbe in contrasto con gli artt. 10 e 1 CAP perché
«utilizza a meri fini commerciali un tema socialmente difficile e delicato
come il suicidio, che nelle convinzioni morali, civili e religiose dei
cittadini è considerato un atto innaturale e sconvolgente, da circoscrivere
nell’ambito del privato e della riservatezza. […] La scelta di rappresentare
un suicidio non è determinata da alcuna necessità di illustrazione del
prodotto reclamizzato, dal momento che nessuna funzione strumentale è
(157) Così CUCCINO, Thanatos e advertising, in Il diritto industriale, n. 11/1997,
pag. 983.
(158) Dec. n. 165/1999, 11 giugno 1999, Comitato di Controllo c. DD s.r.l, Rcs
Editori s.p.a. Settore Periodici, Cairo Pubblicità s.p.a., Rcs Editori s.p.a. Settore
Quotidiani, Rcs Editori s.p.a. Settore Pubblicità. La pubblicità era apparsa su l’inserto
“Io donna” del “Corriere della Sera” del 27 febbraio 1999 e sull’inserto “Sette” de “Il
Corriere della Sera” del 19 marzo 1999.
150
dato scorgere tra il primo e il secondo: […] La contrapposizione
dell’headline “Fashion is dead” alle scarpe da ginnastica si risolve in
un’inammissibile forma di banalizzazione della morte, determinando una
repulsione nel pubblico che si ripercuote nell’immagine della pubblicità
come istituzione». D’altro canto, osserva il Comitato, la pubblicità può
«generare sgomento o alterazioni emotive ancor più incisive nel pubblico
non maturo, in primis quello infantile», e contrasta dunque con l’art. 11
CAP.
Esaminate attentamente le tesi contrapposte, enuncia il Giurì che
«la posizione e l’espressione esanime del braccio abbandonato della
ragazza raffigurata al centro del messaggio suggeriscono chiaramente a
chiunque che la ragazza è morta, e si è anzi suicidata. Il messaggio
litigioso vuole inoltre accreditare l’idea che una persona può anche
morire, anche se giovane, e anche con un suicidio, ma che al contrario le
scarpe reclamizzate non possono morire e non muoiono. Ora il tema della
morte e a maggiore ragione quello del suicidio sono temi certamente
molto delicati. L’inserzionista non aveva alcuna necessità di avvalersi del
tema della morte per reclamizzare le caratteristiche, i pregi e il marchio
dei propri prodotti. In questa situazione già l’utilizzazione dei temi della
morte e del suicidio confligge con gli artt. 10 e 1 CAP. E questo conflitto
è, se possibile, ulteriormente aggravato dall’enfasi con cui l’annuncio
propone una scala di valori (tra la morte e le scarpe reclamizzate) che
appare subito inaccettabile alla coscienza civile e a quella religiosa della
maggior parte del Paese». Pertanto il Giurì, condanna la pubblicità
litigiosa per contrasto con gli artt. 10 e 1 CAP (159).
( 159 ) Per quanto attiene invece alla lamentata violazione dell’art. 11, il Giurì
ritiene che essa non possa configurarsi nel caso sottoposto alla sua cognizione perché
«l’annuncio [è] veicolato attraverso un mezzo che non è fisiologicamente frequentato dai
minori».
151
Evocano il tema del suicidio due messaggi pubblicitari oggetto della
dec. n. 304/2000 ( 160 ). In commento al primo messaggio il Comitato
rileva che l’immagine del volto terrorizzato di una donna immersa nella
vasca da bagno, con bolle d’aria che escono dalla bocca sottolineata
dall’headline “Stress?”, in caratteri molto marcati, vorrebbe effigiare il
carattere insopportabile dello stress, che spinge la donna al suicidio. Il
secondo messaggio rappresenta una giovane donna con il tubo flessibile
della doccia avvolto intorno al collo, sempre con la scritta “Stress?” in
forte rilievo, a suggerire anche qui l’idea del suicidio, provocato dal
sovraffaticamento fisico e psicologico della vita moderna. Parimenti i
testi che accompagnano le immagini, e in particolare il pay-off dell’intera
campagna “Tutta un’altra vita”, suggeriscono anch’essi il concetto della
morte e della rinascita. Ambedue i messaggi si pongono, a detta del
Comitato, in contrasto con gli artt. 10 e 1 CAP. L’assenza di qualsivoglia
spiegazione idonea a giustificare l’accostamento tra il tema del suicidio e
il prodotto reclamizzato, non ravvisandosi alcuna funzione esplicativa o
illustrativa del primo rispetto al secondo, determina un profondo e
irrecuperabile
svilimento
della
dignità
umana,
mortificando
le
convinzioni morali e religiose dei fruitori delle pubblicità in parola.
Di diverso avviso è la resistente, la quale sostiene che le immagini
asseritamente in contrasto con le norme autodisciplinari, stante il loro
carattere irrealisticamente fiabesco, sarebbero evidentemente iperboliche
e ironiche, di talché devono considerarsi assolutamente inidonee a
suscitare i sentimenti di profondo turbamento lamentati dall’accusa. Le
( 160 ) Dec. n. 304/2000, 20 ottobre 2000, Comitato di Controllo c. Glass
Idromassaggio s.p.a., Bianchi & Kerrigan, Rcs Editori s.p.a. Settore Periodici, Rcs
Editori s.p.a. Settore Pubblicità, A. Mondadori Editore s.p.a., Mondadori Pubblicità
s.p.a., relativa a due messaggi pubblicitari appardi sui periodici “Anna” n. 31 del 31
luglio 2000 e “Panorama” n. 31 del 3 agosto 2000.
152
modalità figurative adottate, prosegua la resistente, sono di grande pregio
artistico dacché enfatizzano con calligrafia estetizzante il contrasto tra la
doccia/vasca tradizionale, ormai obsoleta e antiquata, e quella
pubblicizzata, assai più confortevole.
Ad avviso del Giurì vi è un’irriducibile differenza tra i due inserti. Il
primo messaggio, quantunque l’immagine in esso raffigurata sia
irrealistica e fantasiosa, dal momento che «la donna non potrebbe mai
affogarsi, sommergendosi da sola», pare simboleggiare una morte
imminente ed autoprovocata. Un simile effetto è ottenuto attraverso
l’evidenziazione dell’espressione sgomenta che sorge sul volto della
donna e di ulteriori elementi evocativi che accrescono l’atmosfera funerea
della scena. Pertanto, in ossequio al principio secondo cui «la
comunicazione pubblicitaria va interpretata alla stregua delle emozioni,
dei significati e dei simboli che evoca, non solo in base ai suoi contenuti
razionali», nel caso di specie deve senz’altro concludersi per l’irriducibile
prevalenza della sensazione emotiva dell’affogamento sulla «percezione
razionale del carattere irrealistico di quanto è raffigurato», non residuando
spazi per cogliere il carattere iperbolico dell’immagine.
Nel secondo messaggio, al contrario, la postura e l’atteggiamento
della donna, con il braccio destro alzato sopra la testa, a reggere la doccia
da cui scorre l’acqua, e l’altra mano che sostiene un lembo della tenda
«escludono ogni possibile riferimento alla morte o a intenzioni suicide»,
occorrendo molta fantasia per rinvenire nel flessibile della doccia avvolto
intorno al collo un elemento che possa suggerire l’idea della morte
autoindotta per strangolamento. Il Giurì dichiara il primo messaggio in
contrasto con l’art. 10 CAP e ne dispone la cessazione, non ravvisando
invece estremi meritevoli di censura nel secondo.
Soltanto un anno più tardi il Giurì condannava la pubblicità
153
“Aspesi” con motivazioni del tutto analoghe. La campagna pubblicitaria
de qua è composta da due annunci ( 161 ). Nel primo, ambientato in
un’elegante stanza da letto, l’iconografia è dominata dalle tonalità
turchesi
dell’acqua
che
incontenibile
sommerge
gran
parte
dell’arredamento versandosi dalle finestre e dal soffitto e giungendo a
coprire il bordo del letto, mentre una giovane donna giace sul talamo
nunziale con gli occhi innaturalmente sbarrati e i «capelli scomposti,
sparsi sul viso», lasciandosi subissare dall’acqua che invade la stanza. Ad
avviso del Comitato, l’immagine evoca «l’idea del suicidio, della
passività autodistruttiva, della persona ridotta emotivamente ai margini
dei valori umani». Nel secondo messaggio pubblicitario la protagonista,
in piedi accanto al letto con lo sguardo abbacinato dal fuoco, «stringe
nella mano destra una scatola di fiammiferi e nell’altra un fiammifero
acceso, mentre un incendio divampa all’interno della stanza».
L’immagine è predominata dalle tonalità del carminio, il cui folgorante
splendore si scioglie in una costellazione di fiamme ardenti,
riecheggiando l’idea dell’incendio causato da persona gravemente
disturbata. Secondo il Comitato entrambi gli annunci si porrebbero in
stridente contrasto con gli artt. 11 e 12 CAP ( 162 ). Il Giurì osserva
(161) Dec. n. 316/2001, 14 dicembre 2001, Comitato di controllo c. A & A s.r.l. –
Aspesi, Rcs periodici s.p.a., Rcs pubblicità, relativa a due messaggi della campagna
pubblicitaria della “Aspesi”, pubblicati su “Amica” n. 43 del 24 ottobre 2001 e su “Io
Donna” n. 42 del 20 ottobre 2001.
( 162 ) Il testo dell’art. 12, rubricato “Salute, sicurezza e ambiente”, recita: «La
comunicazione commerciale relativa a prodotti suscettibili di presentare pericoli, in
particolare per la salute, la sicurezza e l’ambiente, specie quando detti pericoli non sono
facilmente riconoscibili, deve indicarli con chiarezza. Comunque la comunicazione
commerciale non deve contenere descrizioni o rappresentazioni tali da indurre i
destinatari a trascurare le normali regole di prudenza o a diminuire il senso di vigilanza e
di responsabilità verso i pericoli». La disposizione in parola non è venuta in rilievo
sovente nella presente trattazione, poiché lambisce soltanto occasionalmente e in modo
assai marginale il tema che ci occupa.
154
preliminarmente che ai fini del presente giudizio di liceità non rileva «il
carattere più o meno realistico delle immagini, quanto le emozioni che
esse sono idonee a suscitare, pur nella loro irrealtà; interessano non i dati
logici, ma quelli emozionali; i significati, i simboli negativi e
traumatizzanti, gli eventuali disvalori, che le immagini esprimano, così
indirettamente propagandandoli, al mero scopo di imprimere nelle menti
il marchio pubblicizzato e i prodotti a cui è associato».
Il Giurì, nel suo prudente apprezzamento, ritiene che entrambi i
messaggi litigiosi valichino i limiti imposti dall’art. 10 e 11 CAP. Quanto
alla violazione dell’art. 10 CAP, essa deve rinvenirsi nel primo messaggio
perché in esso emerge in tutta la sua drammaticità cruenta e conturbante
la passività autodistruttiva e nel secondo perché «i significati di cui sopra
appaiono ancor più accentuati, con l’aggravante che la distruttività della
persona non appare rivolta solo contro se stessa, ma si manifesta contro il
mondo esterno, mediante il gesto di appiccare un incendio e la
raffigurazione impressiva del risultato raggiunto». Nulla osta, soggiunge
il Giurì, all’accertamento della violazione dell’art. 10 CAP, ai sensi
dell’art. 37, 4° comma, lett. c), pur se non ritualmente contestata nel
ricorso introduttivo, in quanto è rilevabile senza necessità di apposita
istruttoria.
Quanto alla violazione dell’art. 11 CAP, essa è ravvisabile sol che si
consideri la non trascurabile circostanza che la pubblicità litigiosa è stata
pubblicata su rotocalchi facilmente accessibili agli adolescenti e in ispecie
alle giovani fanciulle sulle quali le suggestioni evocate, quantunque
irrealistiche, potrebbero nondimeno fomentare il compimento di atti
emulativi. Non si rinviene invece alcuna violazione dell’art. 12. Per questi
motivi, il Giudice autodisciplinare dichiara la non conformità della
pubblicità litigiosa agli art. 10 e 11 e ne ordina la cessazione.
155
La pronuncia che si procede ad esaminare, dec. n. 71/2000, ebbe
una grande eco nell’ambiente pubblicitario ( 163). La campagna, volta a
(163) Dec. n. 71/2000, 10 marzo 2000, Comitato di Controllo c. Cesare Paciotti
s.p.a., Edizioni Condé Nast s.p.a., A. Mondadori Editore s.p.a., Mondadori Pubblicità
s.p.a.
, Rcs Editori s.p.a. Settore Periodici, Rcs Editori s.p.a. Settore Pubblicità. Gli
annunci pubblicitari in questione erano apparsi su “Grazia” n. 7, data di copertina 22
febbraio 2000, e “Amica” n. 8, data di copertina 23 febbraio 2000, e “Vogue”, data di
copertina gennaio-febbraio 2000. In un’altra occasione il Giurì condannò un
inserzionista che, con più velata sobrietà, si dilettava nell’arte di effigiare la protagonista
dei propri messaggi pubblicitari come una bambola di porcellana imbellettata di tutto
punto, afflitta delle stigmate sanguinanti. Il messaggio pubblicitario in parola raffigurava
l’immagine di una giovane donna, avvolta in una sottile camicia di voile, con lo sguardo
e il volto rivolti verso le proprie mani, che risaltavano in primo piano, con le dita
accostate al seno e impreziosite da un anello di rubini e brillanti, mani sulle quali si
scorgevano due profonde ferite insanguinate. Secondo il Comitato di Controllo il
messaggio litigioso è censurabile ai sensi degli artt. 9 e 10 CAP. L’eccentrico
accostamento tra il prodotto reclamizzato ed un corpo femminile segnato da laceranti
ferite «costituivano una parte iconografica dell’annuncio oggettivamente idonea a
provocare una sensazione di forte disagio nell’osservatore». Soggiunge il Comitato che
le piaghe che insistevano sul dorso delle mani rievocavano, nemmeno tanto
sommessamente, le stigmate di Cristo, suscitando un sentimento di viscerale ripugnanza
per la profanazione del sentire religioso e per la strumentalizzazione ai fini meramente
commerciali di «eventi soffusi di sacralità». Sensibilmente differente è l’interpretazione
data dalla parte resistente, secondo cui il messaggio contestato, lungi dal suscitare
riprovazione per la presunta quanto pretestuosa volgarità e ripugnanza dell’immagine,
avrebbe dovuto essere letta nel suo insieme, e non mediante l’arbitraria estrapolazione di
un singolo particolare iconografico, la cui funzione, peraltro era soltanto quella di
enfatizzare il rosso sfavillante del rubino reclamizzato. Inoltre la vaporosa leggiadria
delle maniche di voile, acuiva l’eterea evanescenza della figura, smorzando
ulteriormente la violenza cromatica generata dal rosso carminio delle ferite. Orbene, da
questa analisi degli elementi figurativi, soggiunge la resistente, emerge con lapalissiana
evidenza che la donna è rappresentata quale icona virginale, quasi celestiale, il cui
contegno di eterea pudicizia emana una lucente spiritualità: «unendo sacralità e gioiello
in un’iconografia casta e soffusa di un alone di luce, stagliava la figura di una donna che,
di fronte alle ferite mercificanti delle abituali strumentalizzazioni commerciali, si
raccoglieva nell’intimità e nella sicurezza di valori certi. In questo contesto il
collegamento fra iconografia della figura di donna e preziosità del gioiello non poteva
ritenersi gratuito ma funzionale al fine della presentazione del prodotto».
Il Giurì dichiara la non conformità del messaggio pubblicitario all’art. 10 CAP,
non ravvisando invece profili di violazione dell’art. 9, e ne dispone l’immediata
cessazione. V. dec. n. 126/2000, 5 maggio 2000, Comitato di Controllo c. Zancan s.p.a.,
Rcs Editori s.p.a. Settore Periodici,
Cairo Pubblicità s.p.a., relativo ad un annuncio
pubblicitario apparso su “Io donna” n. 12 del 2000.
156
pubblicizzare una linea di articoli di abbigliamento e accessori, «si
articola in diversi messaggi che ambientano la collezione Paciotti in un
cimitero nel quale si scorgono lapidi, tombe, una bara ricoperta di fiori e
una fossa ancora aperta». Sostiene il Comitato che «tutte le immagini
contestate raffigurano modelle, in pose improbabili e fuor di luogo in un
contesto cimiteriale: sedute sulle tombe, con gambe nude fino all’inguine
e divaricate, o inginocchiate davanti a una tomba aperta, o sedute accanto
a una bara, a gambe aperte a mostrare l’inguine o che “sfilano”, con
grande indifferenza, camminando su una lastra tombale. Tutte calzano
vistose e coloratissime scarpe di pelle di serpente». L’accostamento della
scena sepolcrale a immagini pregne di richiami erotizzanti «irride al
concetto
della
morte
e
offende
la
sensibilità
del
pubblico»,
contravvenendo alle disposizioni di cui agli artt. 9 e 10 CAP. Tale
contrasto diventa intollerabile proprio a causa delle peculiari modalità
figurative ed espressive adottate, la cui unica finalità è quella di scioccare
attraverso la profanazione di valori universalmente avvolti da sacralità e
rispetto. Da sempre cimiteri e sepolcri sono luoghi deputati ad accogliere
la morte e a simboleggiarne il valore sacrale. Infatti l’immediatezza del
contrasto tematico è resa ancor più evidente dalla contrapposizione tra la
macabra oscurità della scena cimiteriale e i colori sfavillanti dei preziosi
pellami sfoggiati dalle modelle, nella più totale incuria della sacralità che
avvolge la scena. I messaggi contestati violano anche l’art. 11 CAP nella
misura in cui sviliscono sensibilmente la credibilità della pubblicità tutta.
La parte resistente si duole delle censure mosse contro i messaggi
litigiosi lamentando l’inutile verbosità delle stesse. Invero i personaggi
sono «elegantemente ma sobriamente vestiti», afferma la resistente, e
hanno «un contegno certamente consono» all’ambientazione cimiteriale.
Inoltre «le immagini sepolcrali […] non creano un’atmosfera di tristezza
157
toccante che suscita emozione o provoca angoscia o turbamenti in chi le
osserva. Le immagini non sono crude, né rozze, ma si collocano in una
dimensione aspaziale e atemporale, goticamente glamour e, in quanto tali,
non possono arrecare offesa alle altrui convinzioni religiose e morali».
Per tali motivi le modalità espressive adottate devono essere considerate
espressione di raffinata ricercatezza, rivelandosi assolutamente inidonee a
procurare quell’avvilente reificazione dei luoghi tombali che la parte
inquirente contesta. Il Giurì, ritenendo meritevoli di accoglimento le
censure avanzate dal Comitato, dichiara la campagna pubblicitaria in
contrasto con gli artt. 9, 10 e 1 del Codice di Autodisciplina e ne dispone
la cessazione (164).
( 164 ) In motivazione il Giurì spiega perché ritiene sanzionabili le modalità
espressive impiegate nella pubblicità de qua, ammonendo ancora una volta che il suo
sindacato può legittimamente dispiegarsi soltanto in riferimento al peculiare atteggiarsi
delle summentovate modalità espressive e non anche con riguardo alla scelta di un
particolare tema pubblicitario. Enuncia il Giurì che «non è forse inutile cercare di capire
le ragioni per cui la pubblicità, sempre più spesso, ricerca l’attenzione del pubblico
ricorrendo alla proposta di situazioni che suscitano sentimenti intensi, a prescindere dalla
loro valenza positiva/negativa. La ragione è presto detta: da molto tempo, la ricerca sulla
psicologia
del
ricordo
ha
dimostrato
che
la
memorabilità
dell’evento/immagine/situazione aumenta all’aumentare del livello di arousal che
accompagna l’osservazione. Più il contesto osservativo è emotivamente carico (senza
diventare eccessivo, perché altrimenti l’effetto si inverte), maggiore è la probabilità che
si attivi la traccia mnestica. Questo significa che la salienza dell’ambientazione (difficile,
per esempio, non restare colpiti da quella in esame) induce un aumento di attenzione che
“trascina” e fa aumentare la memorabilità anche degli oggetti inseriti nel contesto. […]
La valutazione della liceità dell’utilizzo in pubblicità del tema della morte rappresenta
un aspetto del più vasto insieme costituito da tutte quelle manifestazioni pubblicitarie
che realizzano deliberatamente “incursioni” in aree afferenti alla sfera etica e religiosa,
dove il messaggio diventa censurabile quando […], per l’ambientazione o per il testo,
produce l’impressione “di un’inammissibile volgarizzazione in formule e luoghi che
sono considerati, dalla generalità, avvolti da sacralità e il cui collegamento con prodotti
commerciali può provocare, nella generalità, un’esperienza sgradevole di un sentimento,
come quello religioso». A confermare questa impostazione il Giurì cita la dec. n. 5/1989,
in cui enunciava che il collegamento di momenti e luoghi sacrali con un prodotto
commerciale non può non comportare un vissuto di profanazione del senso religioso, di
deificazione dei beni di consumo.
Ciò premesso, ad avviso del Giurì, «nelle immagini
contestate si riscontra il ricorso a modalità espressive sanzionabili. Si utilizza non la
158
morte in senso astratto, ma la sepoltura: elemento realistico che chiama in causa il culto
dei morti, cioè un valore universalmente diffuso. L’impressione globale che emerge
dall’ambientazione è quella di un’inammissibile reificazione di luoghi che per la
generalità del sentire comune meritano rispetto. Collegarli con la pubblicità di prodotti
commerciali suscita la sensazione della profanazione di sentimenti, come quello del
culto dei morti, che non tollerano attacchi di questo tipo.
Come più volte ribadito dalla
giurisprudenza autodisciplinare, per valutare l’applicabilità dell’art. 10 bisogna
prescindere dal fatto che la sensibilità di alcuni sia stata ferita o rispettata: l’esistenza di
un parziale consenso o dissenso è un fenomeno fisiologico che non vale, in sé, a
motivare un contrasto con l’art. 10. Quello che rileva è il comune sentire dei cittadini, il
fatto che una certa pubblicità venga sentita come lesiva di un patrimonio comune e
condiviso e che è interesse di tutti non vedere mercificato o svilito. Come giustamente ha
stabilito la pronuncia n. 219/1995, “all’Autodisciplina non si può dare il carico di
salvaguardare la patologia o l’ottica individuale nel sentire la religione, dovendo limitare
il proprio intervento, se richiesto, alla migliore difesa dei valori storici generalmente
condivisi [...] quello della sensibilità individuale, dei limiti del buon gusto è un territorio
che il Giurì deve ritenere al di fuori del proprio ambito di dovuta tutela”.
Proprio
perché la funzione del tipo di comunicazione che si sta esaminando è puramente
commerciale, è giusto esigere che i messaggi proposti al pubblico non investano
negativamente le convinzioni profonde che costituiscono un patrimonio comune
condiviso dalla generalità.
È pur vero che disposizioni normative che fanno
riferimento a concetti come l’indecenza, la volgarità, la ripugnanza, le convenzioni
morali sono, per loro natura, di non agevole decifrazione, specie quando l’iter
decisionale imponga l’individuazione di un punto di riferimento che funga da linea di
demarcazione. In questi casi, per evitare il rischio di risposte soggettive, il criterio di
valutazione diventa quello del “sentire medio”, inteso come la risposta prevalente in un
dato momento in una certa comunità».
159
CAPITOLO IV
L’UTILIZZAZIONE PUBBLICITARIA DEL CORPO DELLA DONNA NEL
REGNO UNITO ALLA LUCE DELLA PIÙ RECENTE CASISTICA
DELL’ADVERTISING STANDARDS AUTHORITY.
SOMMARIO: 1. Premessa metodologica. — 2. Principi generali. — 3.
L’utilizzazione pubblicitaria del corpo della donna nel Regno Unito alla luce della più
recente casistica dell’Advertising Standards Authority. — 4. I principali criteri
ermeneutici elaborati dalla giurisprudenza autodisciplinare d’oltremanica sul tema.
Gratuità del riferimento a motivi di carattere erotico e financo pornografico ed estraneità
con la natura dei prodotti reclamizzati. Destinatari della pubblicità. — 5. Opportuni
rilievi comparatistici sul concreto estrinsecarsi dell’autoregolamentazione pubblicitaria
in Italia e nel Regno Unito con particolare riguardo alla pubblicità sessista.
1.
Uno sguardo alla giurisprudenza autodisciplinare inglese
sul tema della rappresentazione pubblicitaria della donna svela un primo
interessante dato comparatistico, giacché, sebbene i parametri valutativi
impiegati dall’Advertising Standards Authority per la risoluzione delle
controversie siano tendenzialmente analoghi a quelli invalsi nella prassi
autodisciplinare italiana, cionondimeno, gli esiti applicativi di quei
medesimi criteri ermeneutici sono sovente assai diversi. Sotto
quest’aspetto deve osservarsi come l’attività cognitoria del giudice
pubblicitario inglese sia caratterizzata della meditata ponderazione dei più
sottili aspetti fenomenologici della fattispecie in un’ottica di affascinante
pragmatismo, rifuggendo ogni tentazione di velleitaria autoreferenzialità.
Da ciò discende che nel Regno Unito i limiti alla pubblicità
suggestiva che si intrometta nella sfera dei valori più sacri – investendo di
cariche negative le più profonde convinzioni che alimentano ed
indentificano la personalità stessa del cittadino – siano, in un’ottica
160
squisitamente applicativa, dei limiti proteiformi, suscettibili di essere
plasmati plasticamente secondo le peculiari sfaccettature del caso.
Prezioso corollario a una tale impostazione è la straordinaria
sensibilità dell’autodisciplina inglese alle esigenze di razionalizzazione ed
efficientismo
del
marketing
pubblicitario.
Ancorché
pienamente
consapevole che ogni espediente adoperato nelle campagne pubblicitarie
rileva primariamente ed essenzialmente come artificio posto in essere
dall’inserzionista al fine di ricevere un ritorno apprezzabile in termini
commerciali, il giudice pubblicitario inglese, mostra di tenere in grande
considerazione, oltreché, le esigenze del consumatore, anche quelle
dell’inserzionista.
All’uopo occorre fare un’ulteriore precisazione circa la struttura
delle decisioni dell’ASA, ontologicamente contrassegnate dalla totale
assenza della motivazione o dalla presenza di apparati motivazionali assai
contratti. A fronte degli sforzi ermeneutici profusi dal Giurì italiano nella
costruzione di architetture argomentative esaurienti ed approfondite, il
giudice autodisciplinare inglese predilige uno stile redazionale stringato,
quasi minimalista, rendendo non poco arduo il compito dei commentatori
di individuare le motivazioni su cui si fonda la decisione.
Nonpertanto la certezza del diritto pubblicitario inglese, la
prevedibilità delle sue soluzioni applicative ed il corretto funzionamento
dell’intero ordinamento autodisciplinare sono garantiti dalla inconsueta e
cristallina intellegibilità che esibisce il Code of Non-broadcast
Advertising, Sales Promotion and Direct Marketing così come anche
dell’UK Code of Broadcast Advertising, il cui articolato normativo è
contrassegnato da una mirabile sintesi di sistematicità strutturale e
semplicità formale.
161
2.
Scopo dell’autodisciplina pubblicitaria inglese, come anche
di quella italiana, è garantire che la pubblicità venga realizzata come
servizio al pubblico, con speciale riguardo alla sua influenza sul
consumatore. Pertanto l’autodisciplina tutela non soltanto l’interesse, di
natura eminentemente concorrenziale, dell’imprenditore a non essere
pregiudicato dalla comunicazione pubblicitaria altrui, ma anche quello del
fruitore del messaggio a non subire forme di sviamento nelle proprie
scelte di consumo e a non essere turbato nelle proprie convinzioni morali
o ideali. All’uopo la premessa all’art. 1 CAP code enuncia: «The central
principle for all marketing communications is that they should be legal,
decent, honest and truthful. All marketing communications should be
prepared with a sense of responsibility to consumers and society and
should reflect the spirit, not merely the letter, of the Code» ( 165 ).
Parimenti sintomatiche del carattere garantistico e vieppiù solidaristico
dell’autodisciplina pubblicitaria sono le disposizioni contenute nel testo
della medesima norma, il quale recita:
«1.1 Marketing communications should be legal, decent, honest
and truthful.
1.2 Marketing communications must reflect the spirit, not merely
the letter, of the Code.
( 165 ) Similmente, la lett. a) delle Norme Preliminari e Generali al Codice di
Autodisciplina della Comunicazione Commerciale prescrive che «Il Codice di
Autodisciplina ha lo scopo di assicurare che la comunicazione commerciale, nello
svolgimento del suo ruolo particolarmente utile nel processo economico, venga
realizzata come servizio per il pubblico, con speciale riguardo alla sua influenza sul
consumatore. Il Codice definisce le attività in contrasto con le finalità suddette, ancorché
conformi alle vigenti disposizioni legislative; l’insieme delle sue regole, esprimendo il
costume cui deve uniformarsi l’attività di comunicazione, costituisce la base normativa
per l’autodisciplina della comunicazione commerciale». Questa straordinaria assonanza
è il frutto dell’opera di armonizzazione ed europeizzazione dei diritti autodisciplinari
nazionali condotta dall’EASA al fine di garantire, attraverso la tendenziale
standardizzazione normativa sul piano codificatorio, una sostanziale uguaglianza di
tutela sul piano effettuale.
162
1.3 Marketing communications must be prepared with a sense of
responsibility to consumers and to society.
1.4 Marketers must comply with all general rules and with relevant
sector-specific rules.
1.5 No marketing communication should bring advertising into
disrepute […]» (166).
Euristicamente gravida ai fini della presente trattazione, è la
disposizione di cui all’art. 4 CAP code, la quale enuncia: «Marketers
should take account of the prevailing standards in society and the context
in which a marketing communication is likely to appear to minimise the
risk of causing harm or serious or widespread offence.
4.1 Marketing communications must not contain anything that is
likely to cause serious or widespread offence. Particular care must be
taken to avoid causing offence on the grounds of race, religion, gender,
sexual orientation, disability or age. Compliance will be judged on the
context, medium, audience, product and prevailing standards.
Marketing communications may be distasteful without necessarily
breaching this rule. Marketers are urged to consider public sensitivities
before using potentially offensive material. The fact that a product is
offensive to some people is not grounds for finding a marketing
communication in breach of the Code.
4.2 Marketing communications must not cause fear or distress
without justifiable reason; if it can be justified, the fear or distress should
(166) Si confrontino le clausole di cui ai punti 1.1 e 1.5 CAP code con l’art. 1 del
Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale, secondo cui «La
comunicazione commerciale deve essere onesta, veritiera e corretta. Essa deve evitare
tutto ciò che possa screditarla».
163
not be excessive. Marketers must not use a shocking claim or image
merely to attract attention.
4.3 References to anyone who is dead must be handled with
particular care to avoid causing offence or distress.
4.4 Marketing communications must contain nothing that is likely
to condone or encourage violence or anti-social behaviour.
4.5 Marketing communications, especially those addressed to or
depicting a child, must not condone or encourage an unsafe practice […].
4.6 Marketing communications must not encourage consumers to
drink and drive. Marketing communications must, where relevant, include
a prominent warning on the dangers of drinking and driving and must not
suggest that the effects of drinking alcohol can be masked.
4.7 Marketers must take particular care not to include in their
marketing communications visual effects or techniques that are likely to
adversely affect members of the public with photosensitive epilepsy».
In particolare l’art. 4.1, comma 2, enuncia uno dei fondamentali
canoni
ermeneutici
della
giurisprudenza
inglese,
quello,
cioè,
dell’assoluta irrilevanza ai fini dell’autodisciplina pubblicitaria del mero
cattivo gusto. Questo stesso principio, ancorché non formalmente
codificato, è stato saldamente recepito dalla giurisprudenza del Giurì:
«[…] principio fondamentale dell’ordinamento autodisciplinare […]
secondo il quale il compito dell’Autodisciplina non è di farsi arbitro del
buon gusto dei pubblicitari, ma di censurare quelle manifestazioni di
volgarità e indecenza che possono far sorgere sentimenti ostili verso la
pubblicità. L’ironia a sfondo sessuale deve ritenersi lecita. […] Il Giurì è
certo di non dover essere il giudice del cattivo gusto. In un’altra
occasione il Giurì ha ribadito che «[…] prende […] in esame il concetto
di cattivo gusto riferito a quello di volgarità. Premesso che il Codice di
164
autodisciplina pubblicitaria debba tutelare le minoranze, ma non i singoli
eventualmente scandalizzati, la condanna sembra necessaria quando si va
oltre il cattivo gusto e si reca offesa a molte persone. La volgarità evocata
dall’art. 9 insieme ai concetti di indecenza e ripugnanza deve intendersi, a
parere del Giurì, come un limite estremo: perché si configuri la volgarità
prevista dall’art. 9 occorre che, nell’immagine o nel discorso
pubblicitario, ci siano elementi molto negativi. […] Il Giurì non si ritiene
giudice del buon gusto, ma dell’aderenza dei messaggi allo spirito del
Codice di autodisciplina pubblicitaria». Ancora, «appare abbastanza
evidente
che
le
espressioni
verbali
[“Toccalo”.
“Accarezzalo”.
“Stringilo”. “È il piacere infinito”] utilizzate sono state scelte per la loro
ambiguità, cioè per il fatto che si prestano a essere decodificate in una
duplice direzione: o quella più “triviale”, in cui l’oggetto del “toccare”,
“accarezzare”, “stringere”, così come del “piacere infinito”, possiede
indubbie connotazioni sessuali; oppure quella strettamente merceologica
in cui l’oggetto delle predette azioni è il prodotto pubblicizzato. Del resto
è ampiamente noto che il carattere “ambiguo” dei segni, la loro apertura a
una polivalenza di significati e di percorsi di lettura è uno dei tratti
distintivi del linguaggio espressivo in generale e quindi anche del
linguaggio pubblicitario in particolare. I segni che presentano ambiguità e
doppi sensi sono particolarmente funzionali al discorso persuasorio, come
quello pubblicitario, poiché aumentano il carattere di originalità del
messaggio, attirano maggiormente l’attenzione (specie in un contesto
molto affollato e competitivo) e sono di conseguenza più memorizzabili»
(167). Questa ricognizione, ancorché contratta, rappresenta icasticamente
(167) Rispettivamente dec. n. 258/1997, 17 ottobre 1997, Comitato di Controllo c.
Swish Jeans s.r.l., Saatchi & Saatchi Advertising s.p.a., A&P s.r.l., Alessi s.p.a.,
Publiflor s.r.l., Sma s.p.a., Affitalia s.r.l., Giengi s.r.l., Sia s.r.l., Editrice Il Messaggero
s.p.a., Piemme s.p.a.; dec. n. 190/1997, 20 giugno 1997, Comitato di Controllo c.
165
l’atteggiamento della giurisprudenza autodisciplinare italiana rispetto al
principio dell’insindacabilità del semplice cattivo gusto in pubblicità.
Atteggiamento costante ed irriducibilmente monolitico.
3.
Anche nella comunicazione pubblicitaria inglese è dato
scorgere una morbosa forma di affezione per l’iconografia erotica.
L’erotizzazione di elementi iconici e fraseologici si estrinseca in modalità
assai varie, quali la densità di espliciti riferimenti sessuali e financo
pornografici, l’ostentazione seducente del nudo femminile e, non ultima,
l’ambiguità del contesto lessicologico. Cionondimeno è dato osservare
come alcune caratteristiche delle pubblicità che ci accingiamo ad
esaminare si ripropongano in maniera costante e reiterata, quasi ad
integrare un elemento strutturale ed intrinseco delle stesse. Tra queste
caratteristiche
si
annovera
certamente
la
tendenziale
gratuità
dell’implicazione erotica rispetto alla natura del prodotto reclamizzato.
Esaurita questa breve premessa, si valuteranno alcuni dei casi
giurisprudenziali più rappresentativi affrontati dall’Advertising Standards
Authority, al fine di mettere a fuoco i profili fenomenologici della
fattispecie valorizzati dal giudice inglese nella propria attività cognitoria.
Un manifesto, sponsorizzante un “Lap Dence Club” reca la scritta
“Corporate Gentleman’s Entertainment Club Oops …!” (168). L’annuncio
mostra l’immagine di una donna nuda dalla vita in giù con la biancheria
intima abbassata in corrispondenza dell’inguine. In luogo del viso e della
parte superiore del corpo della modella compare un disegno a fumetti
Volteco World Technology s.p.a., Forlati Zera, Rcs Pubblicità s.p.a. e dec. n.
145/1988, 24 gennaio 1989, Comitato di Controllo c. Fratelli Piacenza s.p.a., Life
Media Network s.r.l., Arnoldo Mondadori Editore s.p.a., Editoriale L’Espresso s.p.a.,
Editrice La Stampa s.p.a., Publietas s.p.a., Publikompass s.p.a..
( 168 ) ASA Adjudication on Club Spice Ltd, n. 126665, 4 August 2010, in
www.asa.org.uk.
166
ritraente una donna nuda intenta a danzare. Immediatamente sopra la
scritta “Oops ...”.
L’annuncio in questione è stato accusato per il suo carattere
eminentemente sessista, offensivo e umiliante per le donne, giacché
l’ostentazione delle nudità femminili e le forti allusioni sessuali ne
rendono sconsigliabile la visualizzazione pubblica. L’ASA condanna la
pubblicità litigiosa per contrasto con l’art. 5.1 CAP Code, ritenendo che
«[…] the woman was pictured naked and considered her pose and the
removal of her underwear were likely to be seen as sexually suggestive.
[…] the nudity in the ad reflected the nature of Club Oops, but considered
that the depiction of the woman in such a provocative pose with her
underwear pulled down around her thighs, was likely to be seen as unduly
explicit and degrading to women. We concluded that the image was likely
to cause serious or widespread offence and concluded it was unsuitable
for public display».
In un’altra occasione il giudice autodisciplinare inglese ha escluso
la sanzionabilità di un manifesto pubblicizzante le attività di una scuola di
ballo che mostra una donna, ripresa dalla vita in su, appoggiata ad una
parete (169). La donna è interamente nuda, la pelle ed i capelli bagnati e
lucidi. Accanto all’immagine vi è la scritta: “Come worship me
www.comeworshipme.com 0191 XXX XXXX”.
Ad avviso dei denuncianti, l’annuncio pubblicitario sarebbe in
contrasto con gli artt. 5.1 e 5.2 CAP Code, perché, stante il suo contenuto
volgare e grossolano, profondamente inidoneo alla visualizzazione da
parte di un pubblico di minori.
(169) ASA Adjudication on Platinum Dance Studio, n. 73463, 25 February 2009, in
www.asa.org.uk.
167
Sotto un altro profilo è stato sottolineato il carattere gravemente
offensivo del manifesto in parola rispetto alla fede cristiana, giacché la
scritta “Come worship me”, echeggerebbe reminiscenze idolatriche.
L’ASA assolve la pubblicità litigiosa, ritenendo assai improbabile
che dall’immagine in contestazione potesse derivare qualsivoglia
pregiudizio ad un pubblico di adolescenti e preadolescenti. Inoltre, sulla
scorta delle argomentazioni addotte dalla resistente, il giudice
autodisciplinare inglese esclude che la scritta di cui sopra offenda le più
profonde
convinzioni
religiose
dei
credenti
cristiani,
all’uopo
sottolineando che la summentovata scritta intendesse piuttosto enfatizzare
l’importanza del benessere fisico e psicologico in relazione al
raggiungimento o accrescimento dell’autostima della persona. Enuncia il
giudice: «We noted their assertion that the woman on the poster reflected
the sort of positive self-image they wished to promote. Although we
accepted the image might be distasteful to some, we considered it was
unlikely to cause serious or widespread offence or harm to children. […]
We noted Platinum Dance Studio’s assertion that the phrase “Come
worship me” was used to encourage people to worship and appreciate
themselves. Although we accepted that the concept of worship played an
integral part in the language and ceremony of many religions, we noted
that its use was not limited to a religious context, and the term was also
commonly used as a figure of speech in everyday language. We therefore
concluded that the phrase “Come worship me” alongside the image was
unlikely to cause widespread offence».
L’advertising inglese non è neppure estranea all’impiego di
riferimenti sadomasochistici, che abbondano copiosamente nella grafica
pubblicitaria. L’ASA ha censurato
l’annuncio “Retell” che, per
reclamizzare un sistema di gestione delle chiamate, mostra una grande
168
fotografia di una donna nuda con il fondoschiena in primissimo piano
(170). La modella è avvolta da pesanti catene e i suoi glutei sono marchiati
con la scritta “Access denied”, letteralmente.
Il messaggio in parola, a detta dei denuncianti, si porrebbe in
stridente contrasto con l’art. 5.1 CAP Code perché inequivocabilmente
sessista e discriminatorio verso le donne.
Il Giudice autodisciplinare inglese accoglie il ricorso. Quantunque il
riferimento alla sodomia sia velato, alla stregua di un’interpretazione
legata al dato realistico, deve sicuramente riconoscersi che la fotografia –
e segnatamente l’espediente iconico della marchiatura della donna
unitamente a quello dell’incatenamento – procuri una sensazione assai
conturbante per i destinatari della pubblicità. L’attitudine della pubblicità
litigiosa a turbare gravemente la sensibilità dei consumatori è quanto più
visibile ove si consideri l’assenza di qualsiasi apprezzabile collegamento
tra l’immagine impiegata e il prodotto reclamizzato. Pertanto il giudice
ritiene che l’inserzionista, obnubilato dalla inestricabile necessità di
ottenere un effetto visivamente e simbolicamente scioccante, abbia di
gran lunga travalicato il limite del buon gusto, trascendendo nell’
indecenza: «although the ad’s image was not explicit, the “access denied”
sign across the naked woman’s bottom implied anal sex. That sign, in
conjunction with the chains wrapped around the naked woman’s body,
suggested the woman was a sex object and were likely to be seen as
demeaning and objectifying women. We noted nudity and sex had no
relevance to the product advertised. We concluded that Retell had gone
too far in their bid to attract attention and that the commercial e-mail, for
an advertiser whose products would be of interest to those wishing to
(170) ASA Adjudication on Retell Ltd, n. 11735, 27 April 2010, in www.asa.org.uk.
169
install call management systems, was likely to cause serious offence to
some recipients».
Particolare scalpore ha destato anche l’annuncio su stampa relativo
alla famosa pellicola “Antichrist” apparso su molteplici testate nazionali
inglesi, quali “The Times”, “The Guardian” e “The Independent” (171). In
esso sono raffigurati un uomo e una donna completamente nudi nell’atto
di copulare ai piedi di un albero, dal cui tronco fuoriescono
inaspettatamente delle fantomatiche mani. L’immagine è accompagnata
dalla scritta: “When nature turns evil, true terror awaits […] 18 contains
strong real sex, bloody violence and self mutilation”. L’annuncio contiene
altresì alcune citazioni delle recensioni quali, a titolo meramente
esemplificativo: [...] Cinema at its most extreme […] the strangest and
most original horror movie of the year […] nothing can prepare you for
the experience of Antichrist. Nothing […] the most shocking film in the
history of the cannes film festival […]”.
Le segnalazioni ravvisano nell’immagine in parola una pura
esaltazione della pornografia. L’eccessivo realismo con cui è raffigurato
l’amplesso tra i due amanti desta malumore e forte sbigottimento nel
pubblico, in ispecie nei più giovani, veicolando una rara crudezza
emotiva.
L’Artificial Eye Film Company (AEFC) replica che l’immagine
utilizzata per pubblicizzare l’uscita del film nel Regno Unito è la
medesima di quelle diffuse a livello internazionale. La resistente
sottolinea altresì la circostanza che l’immagine in contestazione sia stata
accolta con entusiasmo dalla stampa nazionale, stante il carattere
(171) ASA Adjudication on Curzon Artificial Eye Ltd, n. 100412, November 2009,
in www.asa.org.uk.
170
squisitamente onirico e surreale dell’ambientazione e la raffinatezza
estetica della forma. Il magico antropomorfismo dell’albero, che
fantasiosamente si apre ad un abbraccio, così come le cromie crepuscolari
ed ombrose dell’immagine, non consentirebbero di ravvisarvi alcuna
idoneità a suscitare pulsioni erotiche. Infine la resistente pone l’accento
sull’ulteriore circostanza che le testate su cui è apparso l’annuncio, siano
editorialmente indirizzate ad un pubblico di adulti.
Il Giudice pubblicitario esclude ogni violazione del CAP Code, così
argomentando: «ASA considered that the ad, which had a dark tone, was
unlikely to cause sexual excitement and was therefore not pornographic.
We were of the view that The Times, The Guardian and The Independent
were read mostly by adults and, although the possibility of children
seeing the ad in those publications could not be ruled out, we considered
it unlikely.
If children did see the ad, we considered it was not
particularly explicit and the dream-like context, introduced by the hands
protruding from the tree (or roots), had the effect of making the image of
the naked couple seem removed from reality. We noted the film itself
contained graphic scenes of sex, and considered that readers would
understand that the image of the naked couple in the ad was relevant to
the advertised product. We considered that the ad did not go too far in its
depiction of the film's content, and was unlikely to be seen as
irresponsible or cause serious or widespread offence to readers of The
Times, The Guardian and The Independent».
In un’altra occasione l’ASA assolve un annuncio di due pagine dal
titolo “Where are all the men? Staying in just got fun” che esibisce
l’immagine di una donna in lingerie all’interno di un night club deserto
(172). Segue la scritta “The 6 channel line up. The world’s most beautiful
( 172 ) ASA Adjudication on Playboy TV UK Ltd, n. 121345, 14 July 2010, in
171
women come to your screen and bring you the best in quality erotic
entertainment Watch the hardest British sex featuring the UK’s filthiest
talent Three channels of themed programming showing wall to wall nonstop sex Watch the best Top Shelf girls being absolutely filthy every night
of the week”.
L’annuncio sarebbe gravemente offensivo e denigratorio per le
donne ed il suo contenuto intellegibilmente sessista. Inoltre l’annuncio in
parola, ancorché volto a reclamizzante un canale televisivo a pagamento
per soli adulti, il Playboy TV UK Ltd, sarebbe in grado di raggiungere un
pubblico indifferenziato, stante la sua pubblicazione su una comune
rivista. Per questi motivi, a detta dei denuncianti, la pubblicità litigiosa si
porrebbe in contrasto con gli artt. 2.2, 5.1 e 5.2 CAP code.
In primo luogo l’inserzionista pone l’accento sulla circostanza che
l’espediente iconico impiegato, così come la parte testuale, abbia carattere
meramente strumentale rispetto allo scopo di illustrare la tipologia e l’alta
qualità dei servizi offerti dal canale a pagamento sponsorizzato.
In secondo luogo, rileva l’ulteriore circostanza che la rivista sulla
quale l’annunzio è pubblicato, sia distribuita unicamente ad un pubblico
maschile adulto in luoghi quali palestre, lounge degli aeroporti e sedi
aziendali.
L’ASA, respingendo pressoché integralmente le doglianze dei
denuncianti, manda assolta la pubblicità in contestazione, statuendo:
«[…] We understood that, although the free magazine was potentially
available to a large variety of consumers, it was targeted at men who were
interested in sport and efforts had been made to distribute in accordance
with that demographic. We understood the phrases “filthiest talent” and
www.asa.org.uk.
172
“Top Shelf girls being absolutely filthy every night of the week” to be
enticements to readers to trial the adult subscription service and
considered that the ad itself was not commenting on women in general or
inviting readers to view all women in that way and was unlikely to be
seen by most readers as sexist and degrading. Although we understood
that some people might have found the ad and the product which it
promoted to be distasteful, we considered that it did not contain explicit
imagery or text that was likely to cause serious or widespread offence to
readers of Sport.
We concluded that the ad was unlikely to cause serious or
widespread offence to readers of Sport magazine and was unlikely to be
seen as sexist and degrading.
On this point, we investigated the ad under CAP Code clauses 5.1
and 5.2 (Decency) but did not find it in breach.
We noted, although young boys may have been interested in the
content of Sport, the magazine was targeted at adult males and the
manner of distribution meant that it was unlikely that children would be
directly handed a copy or would be able to pick it up from the other
locations in which it was available. We concluded that, because children
were unlikely to see the ad, it was acceptable for publication in Sport
magazine.
On this point, we investigated the ad under CAP Code clause 2.2
(Responsible advertising) but did not find it in breach […]».
Ancora maggiore tolleranza ha mostrato il giudice autodisciplinare
inglese verso quelle pubblicità reclamizzanti prodotti che esibiscano, per
le proprie intrinseche caratteristiche merceologiche, una naturale
correlazione con l’uso di implicazioni sessuali, di talché queste perdano il
loro carattere di manifesta superfluità e sovrabbondanza, svolgendo,
173
rispetto alle esigenze di pubblicizzazione dei suddetti prodotti, un ruolo
ancillare e servente.
All’uopo si ricorda il filmato televisivo reclamizzante un gel intimo
“Durex Play O”, il quale ritrae le espressioni estatiche di alcune donne in
stato di evidente eccitamento parossistico, mentre una voce fuori campo
declama: “Feel like never before. durex Play O. Pleasure enhancing gel
for women. durex play. All you need” (173).
L’annuncio, secondo alcuni denuncianti, si porrebbe in aperto
contrasto con gli artt. 6.1 e 7.4.7 BCAP TV code e con gli artt. 4.1.1 e
4.2.3 BCAP TV Scheduling code.
L’emittente rileva la circostanza che l’annuncio in contestazione sia
stato trasmesso dopo le 22.00 su Channel 4 durante il programma
“Gordon Ramsey’s F word”, programma consigliato alla sola visione di
un pubblico adulto perché caratterizzato da un linguaggio assai spinto e
ricco di suggestioni sessuali.
L’ASA ritiene la pubblicità litigiosa in conformità con i dettami del
BCAP TV code e BCAP TV Scheduling code e, pertanto, non dispone
alcuna misura sanzionatoria, all’uopo argomentando: «[…] the viewers
saw the ad after 10pm but were of the opinion that it was unsuitable for
broadcast at any time. […] the viewers' concern, and appreciated that
advertisers and broadcasters needed to be aware of the sensitive nature of
ads for this type of product. We considered that this ad was not overtly
graphic, contained no explicit material and was unlikely to cause offence,
provided it was scheduled appropriately. […] However, […] Channel 4
had broadcast the ad shortly after 10pm in the first instance and shortly
after 10.30pm in the second instance. We checked the audience index
(173) ASA Adjudication on SSL International plc, n. 110449, 10 Marzo 2010, in
www.asa.org.uk.
174
figures for those ad breaks in the relevant programmes, and noted that
they did not attract a significant proportion of younger viewers, and
concluded that neither programme had demonstrated a particular appeal
to younger children.
Although the ad was broadcast by Channel 4 earlier than Clearcast's
scheduling advice, in consideration of the child audience index figures for
the ad breaks and surrounding programmes, we considered that it had
been scheduled appropriately and was unlikely to cause offence to
viewers.
We investigated the ad under CAP (Broadcast) TV Advertising
Standards Code rule 6.1 (Offence) and 7.4.7 (Use of scheduling
restrictions) and Rules on the Scheduling of Television Advertisements
rule 4.1.1 (Particular separation of advertisements and programmes and
4.2.3 (Treatments unsuitable for children) but did not find it in breach».
È
stato
ritenuto
parzialmente
conforme
alle
norme
autoregolamentari uno spot reclamizzante un profumo che mostra la
cantante Beyoncé interamente nuda nel bel mezzo di una stanza (174). La
donna indossa un abito di seta rossa e, camminando verso la telecamera,
si accarezza il collo con la mano, mentre con l’altra disegna una scia di
fiamme infuocate sulla parete. Immediatamente dopo, la donna,
muovendo la mano lungo il collo fino a sfiorare il seno, si appoggia
dapprima ad una finestra per cominciare poi una danza assai sensuale con
in primissimo piano i seni e le gambe. Il filmato si chiude con l’immagine
della cantante che si allontana dalla fotocamera, mentre il pavimento cede
sotto i suoi passi. In questa atmosfera di fascinosa ed incantevole
austerità, la donna sussurra: “Catch the fever”. Risponde una voce
( 174 ) ASA Adjudication on Coty UK Ltd17, n. 136170, November 2010, in
www.asa.org.uk.
175
maschile fuori campo: “Beyoncé Heat. The first fragrance, by Beyoncé”.
L’annuncio violerebbe gli artt. 6.1, 7.4.1. e 7.4.7 BCAP TV Code nonché
con l’art. 4.2.3 BCAP TV Scheduling Code.
L’ASA osserva preliminarmente che l’immagine contestata,
quantunque contenga traboccanti suggestioni erotiche, cionondimeno si
pone in stretta correlazione con il prodotto reclamizzato, rimarcando
all’uopo la invero notoria circostanza che le tecniche di pubblicizzazione
dei profumi impongono sempre più spesso il ricorso ad immagini
ammalianti e seduttive. Alla luce di codeste considerazioni l’annuncio,
benché possa risultare sgradevole per alcuni, non è certamente in grado di
causare un’offesa grave e diffusa per il più vasto pubblico, e non si pone
pertanto in contrasto con l’art. 6.1. BCAP TV.
L’ASA ritiene invece che nel caso di specie ricorra la violazione
degli artt. 7.4.1., 7.4.7 del BCAP TV Code e dell’art. 4.2.3 BCAP TV
Scheduling Code. «We noted several complainants had told us their
children had seen the ad broadcast during the middle of the day around
family programmes. We also noted that Clearcast had given the ad an exkids scheduling restriction, meaning it could not be broadcast in or around
childrens programming. Although we considered that the ad was unlikely
to be harmful to adults or older children, we considered that Beyoncé’s
body movements and the camera’s prolonged focus on shots of her dress
slipping away to partially expose her breasts created a sexually
provocative ad that was unsuitable to be seen by young children. We
considered that the ad should not have been shown before 19.30 due to
the sexually provocative nature of the imagery.
On this point the ad breached the CAP (Broadcast) TV Advertising
Standards Code rules 7.4.1 (Mental harm), 7.4.7 (Use of scheduling
176
restrictions) and CAP (Broadcast) Rules on the Scheduling of TV
Advertisements rule 4.2.3 (Treatments unsuitable for children)».
È stata altresì riconosciuta la liceità dell’impiego di una similitudine
smaccatamente erotica per effigiare le profittevoli aspettative di guadagno
correlate ad un investimento azionistico. Il manifesto affissionale in
questione esibisce la fotografia di una donna che indossa una stoffa sottile
e vaporosa che ne rivela le nudità ( 175 ). L’immagine è percorsa dalle
impronte di baci stampati con un rossetto sfavillante. L’headline recita
“Sex sells […] almost as much as our websites […]”.
L’annuncio, secondo i denuncianti, si porrebbe in contrasto con gli
artt. 2.2 e 5.1 CAP Code, integrando un’aggressione sessista e misogina.
La resistente spiega che l’immagine contestata, invero assai audace,
applicava la diffusa formula “Sex sells” al fine di illustrare la lucrosa
effervescenza del proprio mercato azionario e la conseguente possibilità
di guadagno per chi vi avesse investito. L’ASA respinge in blocco le
censure mosse dai denuncianti, sulla base di un duplice rilievo:
«Although distasteful to some, we considered most people who saw the
ad would understand it primarily as an ironic take on the idea that sex
sells, particularly because the text stated “Sex sells […] almost as much
as our website”. Moreover, we did not consider the pose of the model
explicit. We therefore concluded the ad was suitable for public display
and not in breach of the Code.
We investigated the ad under CAP Code (Edition 11) clauses 2.2
(Social responsibility) and 5.1 (Decency) but did not find it in breach».
Una recentissima pronuncia ha mandato assolto uno spot televisivo
pubblicizzante il sito web Confused.com, un sito di comparazione per
assicurazioni automobilistiche, che rappresenta un robot intento a bussare
(175) ASA Adjudication on Retell Ltd, n. 11735, 27 April 2010, in www.asa.org.uk.
177
alla finestra di una macchina parcheggiata con all’interno un uomo ed una
donna (176). L’uomo, seduto al posto di guida della vettura, manifesta un
certo imbarazzo, mentre la donna, seduta sul sedile del passeggero con la
testa china come a praticare una fellatio, si ricompone improvvisamente,
impaurita e sbigottita al contempo. Inizia uno scambio di battute tra
l’automa e l’uomo: “I’ve run your details through my extensive circuits
resulting in a saving of £225 on your car insurance” - “That’s alright, that
is” - “Who is our daddy?”- “I don’t know”.
Il messaggio conterrebbe suggestioni erotiche che rimandano ad
una sessualità decadente ed ormai imbarbarita. La donna, colta in un
gesto di erotica sudditanza, è ritratta in modo offensivo e degradante. Di
qui il contrasto con gli artt. 32.3, 4.1, 4.2 e 4.8 BCAP code.
Secondo la resistente il filmato pubblicitario non conterrebbe alcun
esplicito riferimento sessuale, non essendovi alcun elemento iconico atto
a disvelarne l’asserito carattere erotico, nondimeno, pur a volerne
ipotizzare una siffatta natura, non può disconoscersi la circostanza che la
donna si sia spontaneamente e liberamente determinata a praticare la
supposta fellatio e pertanto nessuna offesa alla sua dignità può essere
invocata.
L’ASA assolve il messaggio pubblicitario asseverando che «on
close inspection, the woman was shown to rise from the footwell on her
side of the vehicle. Notwithstanding that, we acknowledged the
complainants’ concerns that the presentation of the ad included an
implied reference to oral sex. We acknowledged that the dishevelled
appearance of the couple; the positioning of the woman; the surrounding
location; and the reaction of the couple added to that impression.
(176) ASA Adjudication on Inspop.com Ltd, n. A13-235255, 16 October 2013, in
www.asa.org.uk.
178
However, we noted the ad contained no explicit reference to sex and no
explicit sexual imagery. Whilst we acknowledged that some viewers
might find the ad distasteful, we considered it was unlikely to cause
serious or widespread offence.
On this point, we investigated the ad under BCAP Code rules 4.1
and 4.2 (Harm and Offence) but did not find it in breach. […] We noted
the ad depicted the woman in a state of alarm at the appearance of the
robot. We acknowledged that some viewers would interpret the ad as a
reference to oral sex. However, we considered the ad did not depict the
woman as a sexual object, nor did it suggest that the woman was in
distress. On that basis, we concluded that the ad was not likely to be
viewed as degrading to women.
On this point, we investigated the ad under BCAP Code rules 4.1
and 4.2 (Harm and Offence) but did not find it in breach».
Altro tema conduttore dell’advertising inglese è rappresentato dal
consueto accostamento tra il consumo di alcol e l’efficienza sessuale, una
correlazione tanto stretta da richiedere un’iconografia gravida di
implicazioni erotiche. All’uopo si esaminano tre casi sintomatici
dell’atteggiamento severo e persino rigoristico del giudice inglese.
Il primo caso ha ad oggetto un manifesto affissionale, volto a
sponsorizzare un evento del locale notturno “SEX - the Saturday
Entertainment Xperience”, il quale mostra delle immagini di giovani
donne che indossano una lingerie assai seducente ( 177 ). A fianco
all’immagine un cerchio più grande ed uno più piccolo con la scritta “I
love […] S.E.X (R)” e, immediatamente sotto, l’ulteriore scritta “The
Saturday Entertainment Xperience!”, “Leeds’ Wildest Saturday Night
(177 ) ASA Adjudication on Taking Liberties Ltd, n. 70200, 11 March 2009, in
www.asa.org.uk.
179
Party - Saturdays! The biggest saturday night party in leeds – Now ar
Baja!!!" e, in caratteri più piccoli, “£1 Shots! Sambuca - Tequila - Yes!”
and “£2 Vodka Redbull - Yes!”
L’annuncio si porrebbe in stridente contrasto con gli artt. 5.1, 2.2 e
5.2 CAP code, poiché l’accostamento al nudo femminile dell’headline “I
love S.E.X.” produce un effetto di trasbordante volgarità, tanto più che
l’annuncio, essendo esposto alla visione di un pubblico indifferenziato,
potrebbe essere visto dai più piccoli, con effetti per loro assai
pregiudizievoli. Sotto un altro aspetto, i denunciati incriminano la
pubblicità de qua poiché, istituendo un legame funzionale tra il consumo
di alcol e l’efficienza sessuale, viola il principio solidaristico della Social
responsibility.
L’inserzionista, dopo aver chiarito che l’annuncio pubblicitario
fosse stato esposto in luoghi frequentati unicamente da universitari e
matricole, ragion per cui ne riteneva alquanto improbabile la
visualizzazione da parte di adolescenti e preadolescenti, rimarca che «[…]
they did not believe the ad was sexual in nature; that it did not link the
drinks advertised with seduction, sexual activity or sexual success; that it
did not suggest the drinks advertised enhanced attractiveness, masculinity
or femininity or that drinking alcohol was the reason for the success of
any personal relationship. They said they did not believe advertising the
price of drinks made the women appear more attractive or that it implied
the price of the drinks was key to sexual success or removing inhibitions.
They said the prices of the drinks were displayed as factual information
without any link to the women and that the circles were completely
independent parts of the design, not linked in any way with the models.
They said it was common place to use attractive, appealing and young
models in advertising and that the ad stated the four key points for
180
advertising a club night: what, where, when and how much. They said
they believed the “I love S.E.X. - the Saturday Entertainment Xperience”
was well known in Leeds and believed it would be widely recognised as a
reference to the slogan “I love New York”. They did not believe anyone
would think their brand was connected with the sex industry or that it
aspired to be sexual in nature».
In ordine al primo quesito l’ASA afferma che «[…] the ad was for a
party event. We considered that most of the people who saw the poster
would be unlikely to think the women’s clothing or pose indecent or
provocative. We acknowledged the use of the phrase “I love S.E.X” and
the style of the women’s clothing might not be to everyone’s taste but
concluded that, in the context of an ad for a party event, those elements
were unlikely to be considered inappropriate for children or more widely
offensive by most people».
Il giudice pubblicitario esclude pertanto che sotto questo primo
profilo possa essere integrata la violazione degli artt. 2.2 (Social
responsibility) 5.1 e 5.2 (Decency) CAP code.
Per quanto attiene all’altro profilo di censura, quello della presunta
istituzione di un significativo nesso causale tra il consumo di alcol e
l’efficienza erotica, l’ASA ritiene integrata la violazione dell’art. 2.2 CAP
code: «[…] the poster advertised a party night. We noted the advertiser’s
comments but considered, nevertheless, that, while the clothing and poses
of the women were not in themselves likely to be considered sexually
provocative or sexually explicit, their appearance was likely to be
considered attractive and appealing to young people wanting to meet and
socialise. We considered that to show the images in conjunction with the
phrase “I love S.E.X.” evoked an atmosphere of sociability that focused at
least in part on sexual activity. We considered that, in the context
181
established by those elements of the ad, the circles that stated “£1 Shots!
Sambuca - Tequila - Yes!” and “£2 Vodka Redbull - Yes!” went beyond
advertising alcohol at the event simply in the context of price or
entertainment and linked it with sexual activity».
Il secondo caso riguarda un telefilmato reclamizzante il noto liquore
Baileys. Lo spot mostra una successione di immagini in cui appaiono
diverse labbra femminili illuminate da un fascio di luce e delle gocce di
liquido che vengono irrorate sopra di esse ( 178 ). Sullo sfondo scuro è
rappresentata una bottiglia di Baileys ed una goccia del pregiato liquore
che cade in un bicchiere di cristallo. Una voce fuori campo sussurra:
“Listen to your lips”.
Lo spot effigia con rara enfasi evocativa una scena a carattere
esplicitamente sessuale, valendosi, in ultima analisi, di una vera e propria
citazione pornografica. Inoltre lo spot in parola istituisce un legame tra
alcol e consumazione del rapporto erotico, del quale è effigiata
l’eiaculazione maschile, ponendosi in violazione con gli art. 6.1 e 11.8.1
CAP code.
L’inserzionista precisa che la strategia comunicazionale impiegata
da Baileys si è sempre valsa di una precisa iconografia volta a enfatizzare
le caratteristiche del prodotto, quali la consistenza cremosa ed il gusto
soave del liquore nonché la sensualità ed il fascino dell’opulenta
confezione, rimarcando che «the ad concept was based entirely upon the
beautiful appearance, texture and taste of the Baileys liquid. […] the
sensuousness of Baileys has been a key part of the brand's communication
for many years, […] sensory perception was the focus of the TV ad and
the use of lips, symbolising the taste and texture of Baileys, accompanied
(178) ASA Adjudication on Diageo Great Britain Ltd, n. 75903, 18 February 2009,
in www.asa.org.uk.
182
by the phrase “Listen to your lips”, was highly relevant in that context».
L’ASA assolve la pubblicità litigiosa argomentando che, sebbene
appaia verosimile l’osservazione secondo cui alcuni spettatori possano
intendere la successione sequenziale come eroticamente allusiva,
nondimeno sembra assai improbabile che questi stessi spettatori non
dispongano di quelle elementari strutture cognitive che consentano loro di
comprendere che l’immagine sia finalizzata ad evidenziare la vellutata
delicatezza del liquore, piuttosto che ad insinuare pretestuosi legami con
la copulazione o la pornografia.
L’ultimo caso riguarda un manifesto reclamizzante la birra
“Courage”, che esibisce un uomo dall’espressione angosciata e irrequieta,
seduto su di un divano con accanto una lattina ed un boccale di birra. In
piedi innanzi a lui vi è una donna con indosso un vestito assai succinto.
Accanto all’immagine, un fumetto fuoriesce dal boccale di birra: “Take
courage my friend”.
La pubblicità in parola violerebbe l’art. 56.8 CAP Code, perché la
scritta “Take courage my friend” si atteggerebbe quale inappropriata
forma di subdolo incitamento ed incoraggiamento al consumo della
bevanda reclamizzata, bevanda alla quale sarebbero attribuite proprietà
benefiche quali, come nel caso in esame, l’accrescimento l’autostima
della persona. L’uomo, bevendo la birra, acquisterebbe la spavalderia
necessaria per rivelare alla donna l’inadeguatezza del vestito o farle delle
advance.
Rileva la resistente che la scelta dell’headline, lungi dal voler
esaltare qualsivoglia potere disinibitore dell’alcol, fosse finalizzata ad
incoraggiare la scelta della birra “Courage” sulle altre in commercio,
precisando: «the Courage brand was known as an easy going every day
beer, for easy going every day people and its heritage was about
183
celebrating and enjoying times with friends in the local community pub.
They said their recent advertising picked up the theme from their
advertising from the 1950s to 1980s by using the strapline “Take
Courage”, which was a call to action to choose Courage over other beers.
[We] took a number of steps, including legal advice, to ensure there was
no breach of the Code and no reference to bravery in the poster and that
the brand name was used appropriately.
[We] believed the poster
featured a situation many men could relate to, where the man was likely
to be asked what he thought of the woman's new dress. We believed it
was clear from the expression on his face that he would rather be
elsewhere and not facing the dilemma. [We] carried out several pieces of
consumer research before publication but there had been no suggestion
that the poster implied the beer would give the man courage, change his
mood or give him confidence. [We] did not believe this was implied by
the text “Take courage my friend”, which they said was simply a call to
choose Courage beers over competitor brands».
L’ASA ritiene che nel caso sottoposto alla sua cognizione, l’analisi
congiunta degli elementi iconici e verbali, conduca inequivocabilmente
ad una codifica del messaggio in contrasto con le norme di cui all’art.
56.8 CAP code. Pertanto condanna la pubblicità litigiosa enunciando
sinteticamente i motivi della decisione: «[…]we considered that the
combination of the text and the image of the man with an open beer and
half empty glass of beer was likely to be understood by consumers to
carry the clear implication that the beer would give the man enough
confidence to tell the woman that the dress was unflattering. We did not
consider that consumers generally would believe that the poster suggested
that the man would be unnecessarily negative or take advantage of the
woman, but would simply tell the truth. Although we understood the
184
humorous intention of the scenario, we concluded that the poster
breached the Code by suggesting that the beer could increase
confidence».
4.
Alla luce della giurisprudenza autodisciplinare inglese
dianzi esaminata, è possibile ora svolgere talune considerazioni sui
principali criteri ermeneutici sviluppatisi in seno ad essa.
In primo luogo deve osservarsi come le linee conduttrici che
percorrono le argomentazioni addotte dall’ASA per valutare la conformità
delle pubblicità recanti implicazioni erotiche e/o l’uso del corpo della
donna, siano tutte intimamente permeate da tre fondamentali criteri:
quello della gratuità del riferimento sessuale rispetto alle caratteristiche
merceologiche del prodotto reclamizzato, o alle caratteristiche intrinseche
ed estrinseche del servizio oggetto di reclamizzazione; quello del
travalicamento del limite del mero cattivo gusto irrilevante e
trascendimento inescusabile nell’indecenza; quello, infine, della concreta
riferibilità della pubblicità ad un pubblico indifferenziato o, viceversa, a
classi di consumatori aprioristicamente determinate.
Il primo criterio interpretativo è certamente quello di più immediata
percezione, giacché la gratuità dell’impiego di elementi iconici o verbali
che abbiano afferenza con la sfera sessuale, è ictu oculi evidente laddove
il prodotto od il servizio pubblicizzato non esibisca, per le sue peculiari
caratteristiche, un legame immediato con siffatti elementi. Come si è
evidenziato nel corso della presente trattazione, i prodotti per i quali è
emersa una maggiore apertura del giudice pubblicitario in ordine al
giudizio di congruità e non manifesta superfluità dei riferimenti erotici
anzidetti, sono perlopiù quelli finalizzati alla cura e all’estetica del corpo,
quali profumi, deodoranti, lingerie, o quelli che, come i profilattici,
185
impongano imprescindibilmente un esplicito riferimento all’attività
sessuale affinché siano soddisfatte le esigenze descrittive e funzionali
della pubblicità reclamizzante il prodotto stesso.
Non di rado gli inserzionisti ricorrono ad una calligrafia erotizzante
al solo fine di catalizzare i processi di memorizzazione del marchio che si
esplicano nella psiche del consumatore a livello subcosciente
e
subliminale, in un momento ancora antecedente rispetto a quello del
possibile dispiegarsi di qualsivoglia giudizio critico mediato da una
cognizione pensata e raziocinante. L’ontologica intrusività ed inelusibilità
della
pubblicità
accentua
oltremodo
l’intensità
degli
effetti
pregiudizievoli che potrebbero scaturire dalla mera visualizzazione del
messaggio.
Nessun problema interpretativo sorge laddove non vi sia neppure un
legame occasionale o transeunte tra le caratteristiche del prodotto/servizio
reclamizzato e la grafica erotica prescelta, così anche nel caso in cui vi sia
un legame strutturalmente forte, cristallizzato nella stessa natura o
funzione del prodotto/servizio, talché ogni ulteriore indagine divenga
disutile e financo pretestuosa.
Diversamente deve opinarsi per quei casi in cui il legame tra
prodotto/servizio reclamizzato e riferimento sessuale sia percepibile
soltanto a livello metaforico o di similitudine ( 179 ). In situazioni del
genere, affinché la sua valutazione prudenziale non si metamorfosi in
mero arbitrio trascendendo i limiti della ragionevolezza, della logicità e
della coerenza della decisione, il giudice deve, con prodigalità di
argomenti, rendere intellegibili le ragioni del proprio convincimento.
Del secondo criterio si è già detto in precedenza, pertanto si rinvia a
quanto osservato in sede di commento dell’art. 4 CAP code.
(179) ASA Adjudication on Retell Ltd, cit., in www.asa.org.uk.
186
Il terzo criterio elaborato dalla giurisprudenza inglese, quello
dell’individuazione dei destinatari della pubblicità in relazione alle
concrete modalità estrinsecative della stessa, si pone in stretta
correlazione con il principio di offensività. Il giudizio afferente alla
concreta attitudine del messaggio pubblicitario a recare offesa ai suoi
fruitori si atteggia quale giudizio di prognosi postuma. Pertanto il giudice
autodisciplinare dovrà, secondo criteri epistemologici predeterminati,
svolgere una valutazione ex ante al fine di verificare l’astratta idoneità del
messaggio pubblicitario ad essere visualizzato da un certo target di
consumatori. Quella in parola è un’operazione che il giudice inglese è
solito condurre con raro rigore, come la casistica esaminata chiaramente
dimostra ( 180 ). Particolare rilievo ai fini del giudizio prognostico ha la
circostanza che il messaggio pubblicitario sia esposto alla visualizzazione
di un pubblico indifferenziato, nel qual caso l’esposizione dello stesso
anche agli adolescenti e preadolescenti determina, ove ricorra almeno uno
degli ulteriori elementi caratterizzanti la condotta violativa, l’opportunità
del rimedio sanzionatorio. All’uopo l’art. 5 CAP code recepisce il
fondamentale principio secondo cui «Care should be taken when
featuring or addressing children in marketing communications.
The way in which children perceive and react to marketing
communications is influenced by their age, experience and the context in
which the message is delivered. Marketing communications that are
acceptable for young teenagers will not necessarily be acceptable for
younger children. The ASA will take those factors into account when
assessing whether a marketing communication complies with the Code»
( 180 ) Al riguardo v. ASA Adjudication on Playboy TV UK Ltd, cit., in
www.asa.org.uk.
187
(181). Similmente l’art. 5 BCAP code, il quale ammonisce: «Children must
be protected from advertisements that could cause physical, mental or
moral harm.
[…] The context in which an advertisement is likely to be broadcast
and the likely age of the audience must be taken into account to avoid
unsuitable scheduling. Advertisements that are suitable for older children
(181 ) Il testo dell’articolo così recita: «For the purposes of the Code, a child is
someone under 16.
5.1 Marketing communications addressed to, targeted directly at or featuring
children must contain nothing that is likely to result in their physical, mental or moral
harm:
5.1.1 children must not be encouraged to enter strange places or talk to strangers
5.1.2 children must not be shown in hazardous situations or behaving
dangerously except to promote safety. Children must not be shown unattended in street
scenes unless they are old enough to take responsibility for their own safety.
Pedestrians and cyclists must be seen to observe the Highway Code
5.1.3 children must not be shown using or in close proximity to dangerous
substances or equipment without direct adult supervision
5.1.4 children must not be encouraged to copy practices that might be unsafe for a
child
5.1.5 distance selling marketers must take care when using youth media not to
promote products that are unsuitable for children.
5.2 Marketing communications addressed to, targeted directly at or featuring
children must not exploit their credulity, loyalty, vulnerability or lack of experience:
5.2.1 children must not be made to feel inferior or unpopular for not buying the
advertised product
5.2.2 children must not be made to feel that they are lacking in courage, duty or
loyalty if they do not buy or do not encourage others to buy a product
5.2.3 it must be made easy for children to judge the size, characteristics and
performance of advertised products and to distinguish between real-life situations and
fantasy
5.2.4 adult permission must be obtained before children are committed to buying
complex or costly products
5.3 Marketing communications addressed to or targeted directly at children:
5.3.1 must not exaggerate what is attainable by an ordinary child using the
product being marketed
5.3.2 must not exploit children’s susceptibility to charitable appeals and must
explain the extent to which their participation will help in any charity-linked
promotions». Cfr. anche le disposizioni di cui all’art. 5 BCAP code che reiterano
pressocché pedissequamente quelle dianzi citate.
188
and young persons but could distress younger children must be sensitively
scheduled or placed. This section should therefore be read in conjunction
with Section 32: Scheduling. Care must be taken when scheduling
advertisements that could frighten or distress children or could otherwise
be unsuitable for them: those advertisements should not be scheduled or
placed in or around children’s programmes or in or around programmes
likely to be seen by significant numbers of children. Care must also be
taken when featuring children in advertisements».
La concreta riferibilità di un messaggio pubblicitario ad un pubblico
non indiffernziato viene generalmente valutata in relazione al mezzo su
cui lo stesso messaggio è pubblicato. Pertanto per le pubblicità televisive
o radiofoniche si avrà riguardo al programma nel cui spazio pubblicitario
le stesse sono inserite, oltreché alla fascia oraria di riferimento ( 182 ).
Similmente, per le pubblicità su rivista dovranno tenersi in considerazione
la natura del contenitore pubblicitario ed il target di lettori cui è
indirizzato. Ancora, per le pubblicità cartellonistiche si farà riferimento al
luogo in cui le stesse sono esposte etcetera.
( 182 ) V. a titolo meramente esemplificativo la disposizione di cui all’art. 23
BCAP code, il quale regola in modo analitico le modalità di pubblicizzazione dei servizi
di intrattenimento a sfondo erotico: «23.1 Radio Central Copy Clearance –
Advertisements for telecommunications-based sexual entertainment services must be
centrally cleared.
23.2 Television only – Advertising for telecommunications-based sexual
entertainment services is only acceptable on:
23.2.1 Encrypted elements of adult entertainment channels, or
23.2.2 Channels that are licensed for the purpose of the promotion of the services
and are appropriately positioned and labelled within an “Adult” or similar section of an
Electronic Programme Guide.
23.3 Television only – Advertising for telecommunications-based sexual
entertainment services must not be broadcast before 9pm or after 5:30am. On Digital
Terrestrial Television, advertising for telecommunications-based sexual entertainment
services must not be broadcast before 12am or after 5:30am». Simili disposizioni sono
dettate per le pubblicità sponsorizzanti programmi o telefilmati pornografici dall’art. 30
BCAP code.
189
5.
In apertura si è evidenziata la sostanziale medesimezza
della tutela apprestata dall’ordinamento autodisciplinare inglese ed
italiano in ambito pubblicitario. Devono ora lumeggiarsi le ragioni per cui
da tessuti codicistici così simili scaturiscano prassi applicative sovente
differenti, accrescendo sensibilmente le difficoltà di una corretta
anamnesi sul piano effettuale.
All’uopo si considereranno i tre criteri sopra mentovati al fine di
individuare il differente approccio ermeneutico ad essi da parte della
giurisprudenza inglese e di quella italiana.
Un primo elemento di differenziazione tra le prassi applicative dei
due paesi si scorge allorchè la pubblicità esaminanda contenga
recrudescenze verbali o iconiche tali da trascendere nell’indecenza non
scusabile. Secondo la più recente giurisprudenza autodisciplinare italiana,
una sifatta scelta comunicazionale, sarebbe di per sé sufficiente a
giustificare l’intervento inibitorio, esonerando il giudice da ulteriori
verifiche che si rivelerebbero manifestamente sovrabbondanti ( 183 ).
Diversamente opina il giudice inglese, secondo cui il solo elemento
fraseologico o iconico non potrebbe in nessun caso essere valutato
prescindendo da un’accurata indagine sugli effetti pregiudizievoli che lo
stesso possa concretamente dispiegare, avuto riguardo alla classe di
(183) V. ing. n. 8/2013, 28 gennaio 2013, Comitato di Controllo c. Piazza Italia
s.p.a., in www.iap.it., relativamente al messaggio pubblicitario “L’Italia va a puttane?
Fateci pagare le tasse.” rilevato su “Chi” n. 50, data copertina 12 dicembre 2012, in cui il
Comitato di Controllo afferma che «il messaggio di per sé considerato, a prescindere
dalla campagna in cui si colloca, si pone in contrasto con le disposizioni del Codice, in
particolare con l’art. 9, a causa dell’esplicita volgarità del termine utilizzato. Il fatto che
espressioni intrinsecamente scurrili possano essere largamente utilizzate nel linguaggio
corrente, non significa che esse conservino la medesima valenza e neutralità se trasposte
nel linguaggio pubblicitario che, in quanto forma di comunicazione pubblica, è peraltro
suscettibile di raggiungere un pubblico indifferenziato».
190
consumatori cui è diretto ed alla intrinseca pertinenzialità rispetto
all’oggetto di reclamizzazione (184).
Da quanto appena esposto, emerge con lapalissiana evdenza che il
ragionamento del giudice inglese sistematicamente rifugge dall’impiego
di presunzioni, talchè l’apporto conoscitivo e probativo che sgorga dal
tessuto del materiale pubblicitario è sempre attentamente esplorato.
Un atteggiamento sensibilmente dissimile esibisce la giurisprudenza
italiana che ammete il ricorso a presunzioni allorchè il trascendimento
nell’indecenza sia non meramente sgradevole, ma così odiosamente
deprecabile da rendere superflui e defatiganti ulteriori sforzi ermeneutici,
ponendosi la condotta violativa in assoluto contrasto con le norme
autoregolamentari.
Da ciò può inferirsi che nella prassi appicativa italiana i criteri
elaborati dalla giurisprudenza autodisciplinare al fine di esplicare
correttamente il proprio sindacato sulle pubblicità sessiste assumono
rilevanza mariginale dinanzi a pubblicità che, intrise delle più turpi
nefandezze, siano manifestamente contrarie ai principi autodisciplinari
(185).
(184) Cfr. ASA Adjudication on Retell Ltd, n. 11735, 27 April 2010, cit. in cui
l’ASA manda assolta l’espressione pubblicitaria “Sex Sells” rilevando che quantunque la
stessa sia idubbiamente scurrile e grossolana, nondimeno, valutata negativamente la
ricorrenza del requisito di gratuità rispetto al servizio reclamizzato, deve concludersi per
la non censurabilità dell’espressione de qua.
( 185 ) A titolo meramente esemplificatovo v. ing. n. 11/2013, 1 febbraio 2013,
Comitato di Controllo c. Oriocenter, in www.iap.it., in relazione al messaggio
pubblicitario “Shopping Selvaggio. Oriocenter Shopping Center”, rilevato su affissioni
nella città di Milano nel mese di gennaio 2013, ritenuto manifestamente contrario all’art.
10 CAP perché «veicola un contenuto svilente della dignità della persona, che viene
dipinta alla stregua di un animale, mosso unicamente dalla pulsione dello shopping».
L’immagine censurata esibisce «in primo piano una donna a quattro zampe, con un
minivestito a stampa animalier, accovacciata dinanzi a vari oggetti […] mentre tiene tra
le labbra […] una collana di perle e rivolge lo sguardo obliquamente, come un animale
in allerta».
191
Lo stesso non può dirsi per quelle pubblicità che richiedano, per
l’assenza di estremismi espressivi immediatamente percepibili, una
riflessione ponderata al fine di superare l’ontologica indeterminatezza e
vaghezza semantica dei canoni della decenza e della volgarità per
verificarne il travalicamento rilevante nel caso concreto. In questi casi
l’organo giudicante non può prescindere da un’indagine fenomenologica
secondo regole prudenziali, imponendosi al giudice l’obbligo di indulgere
alla verifica che una violazione in concreto sia prodotta e non
semplicemente presunta, secondo i principi ermeneutici cristallizzati nella
giurisprudenza autodisciplinare e dalla stessa formalmente enunciati.
Pertanto può rettamente concludersi che in casi contrassegnati da
una più spiccata complessità sia rinvenibile una sostanziale omogeneità
della prassi
applicativa dell’autodisciplina italiana e
di
quella
d’oltremanica, entrambe contraddistinte da un accertamento del fatto
condotto alla luce di precisi criteri interpretativi e scevro da presunzioni
di sorta.
Ciò posto, deve senz’altro precisarsi che, stante la natura
squisitamente logico-deduttiva della decisione giudiziale, assimilabile ad
un processo inferenziale di tipo sillogistico, l’eventuale impiego di
presunzioni si colloca nella fase dell’accertamento del fatto oggetto di
controversia e, ove il suo carattere apodittico non fosse meramente
apparente, si destituirebbe di fondamento razionale l’intero ragionamento
del giudice.
Dell’attenzione riposta dall’autodisciplina inglese ed italiana in
ordine alla ricognizione delle classi di consumatori raggiungibili dalle
pubblicità sessiste si è detto in precedenza, all’uopo preme rammentare
192
che l’indagine in parola consente di apprestare una tutela della cui
effettività ed incisività non è dato dubitare, giacchè ove le suddette
pubblicità siano idonee a raggiungere un pubblico di adolescenti e
preadolescenti, o financo bambini, saranno senz’altro colpite da sanzione
inibitoria.
Dalle riflessioni appena sviluppate può inferirsi la significatività
epistemica
del
multiforme
atteggiarsi
della
giurisprudenza
autodisciplinare d’oltremanica rispetto a quella italiana. Lo screziato
panorama del diritto vivente dischiude percorsi di indagine assai
affascinanti, nondimeno, la prevedibilità delle soluzioni applicative è
presidiata dal viscerale attaccamento del diritto giurisprudenziale al
precedente vincolante, lume che rischiara i sentieri ermeneutici più
adombri,
graziosamente
elargendo
impreteribile.
193
all’interprete
una
bussola
CONCLUSIONI
«Io tengo in conto di sozza villania le due preposizioni diverse da
ogni civiltà, e non men assurde che bestiali, che un autor oltramontano
ebbe l’impudenza di consegnare ad un suo dettato, di cui oggimai, e
meritevolmente, e spersa ogni memoria, cioè che tra il cervello e l’organo
della favella del bel sesso non passa alcuna relazione, e che fra tutti i
membri del corpo femminile il solo impassibile è la lingua. Ognuno
sentenzia delle cose secondo la propria esperienza; ed a vero dire un
uomo cotanto scortese da mettere in un fascio le donne tutte, non
meritava di essere fatto lieto della conoscenza di quelle che gli potessero
somministrare diverso argomento pei suoi giudizii; ma tal sia di lui»
(VIEUSSEUX, Memorie sul progetto de’ due canali navigabili fra l’Oceano
Atlantico e il Pacifico, Opera del Signor Robinson, in Antologia: giornali
di scienze lettere ed arti, tomo XXVI, Firenze, 1827, pag. 125 ss.).
L’ardita modernità di un tale argomentare desta non poco
sgomento, giacchè, come si è avuto modo di illustrare, l’iconografia
pubblicitaria odierna è pervasa da un’inestirpabile tendenza reificatrice
nell’effegiazione della donna, sempre più spesso oggetto di spudorato
mercimonio. Ritratta ora come sventurata ancella, ora come ammaliatrice
avvenente e procace ella, avviluppata nel più sordido isolamento
empatico, è in ogni caso deprivata di qualsivoglia sostanza intellettiva e
raziocinante. Dianzi ad una siffatta spregiudicatezza che metamorfosa le
più incredibili recrudescenze con calligrafia estetizzante, l’opera cui sono
dediti gli organi di autodisciplina pubblicitaria è quantomai irrinunciabile,
vieppiù in considerazione del lantanico silenzio delle leggi.
194
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