GARIBALDO Francesco - Fondazione Cercare Ancora

Francesco GARIBALDO – Sociologo industriale
Io vorrei tentare di creare una relazione tra quello che abbiamo sentito ieri e quello che abbiamo
discusso oggi, partendo dal titolo, che era ‘Per una nuova coalizione del lavoro’. Quindi, una nuova
coalizione del lavoro, su quale base concreta dovrebbe costituirsi? Io ho sentito questa suggestiva
cosa dei flussi dei territori; io francamente non credo che sia un quadro analitico che ci aiuta, perchè
nell’ipotesi dei flussi dei territori si presuppone che, a livello dei territori, esista la possibilità di
costruzione di elementi comunitari in grado di resistere contro l’espropriazione prodotta dai flussi.
Io credo che non sia questa la situazione che descrive in modo adeguato quello che sta accadendo.
Non solo, ma credo che, così facendo, si mette in qualche misura tra parentesi la natura dello
scontro che sta avvenendo, che, com’è stato dipinto da molti interventi ieri e oggi, in modo
assolutamente esauriente, ha messo di nuovo al centro i rapporti tra capitale e lavoro a tutti i livelli,
dai livelli della struttura sociale ai livelli della impresa. Quindi, io credo che noi dobbiamo cercare
un quadro analitico differente. Ovviamente non ho il tempo di poter descrivere questo quadro
analitico, però alcuni elementi forse faccio in tempo a dirli.
Il primo, è quello che collega il tema di oggi, l’organizzazione del lavoro, con i processi più
generali; e quello che collega le due cose sono i processi di ristrutturazione. I processi di
ristrutturazione, quando avvengono, hanno sempre una logica dominante. Allora, rifacendoci alle
privatizzazioni che sono state presentate ieri, che io recupero in modo assolutamente brutale, se noi
abbiamo avuto una fase di ristrutturazione dell’economia capitalistica e in specifico dell’Europa,
che si apre grosso modo nella metà degli anni Settanta ed è proseguita fino ad arrivare alle ultime
fasi, quelle che ieri venivano descritte come la seconda fase, in questa logica di ristrutturazione che
cos’è che era la ratio? Quale era l’elemento dominante del processo di ristrutturazione? L’elemento
dominante era quello che fu chiamato allora la disinflazione dell’economia mondiale ed era un
capovolgimento da operare nei rapporti tra monte salari e monte profitti con tutti i settori, e in quel
periodo è avvenuta a partire dal 1980 in Italia e via di là, tutte le cose che sono state documentate,
che non sto a ripetere.
La forma per poter realizzare questo processo di ristrutturazione è stata quella degli accordi neocorporativi. Gli accordi neo-corporativi a cosa puntavano? Al controllo delle dinamiche macro a
livello nazionale. Quindi, abbiamo conosciuto in Europa questa ondata di accordi neo-corporativi,
che hanno avuto caratteristiche differenti, che hanno avuto momenti più efficaci o meno efficaci,
ma il cui significato era chiarissimo: era quello di mettere dentro una cornice che aveva come
confine il confine nazionale e che aveva come ipotesi di base quella di regolare le grandi imprese.
Noi abbiamo avuto una seconda fase di ristrutturazione, quella che ha immediatamente preceduto la
crisi e che ha in qualche misura costruito la crisi, nella quale l’elemento chiave non è più stato
quello per una fase della competizione nazionale e del problema del controllo di queste dinamiche,
ma è diventato fondamentale sempre di più il confronto tra imprese e sistemi di imprese, con la
nascita delle grandi imprese multinazionali. Il confronto tra queste imprese e quei sistemi di
impresa aveva bisogno di mettere al primo piano nella nascita del processo di ristrutturazione, il
controllo effettivo e diretto della prestazione lavorativa e delle modalità di regolazione della
prestazione lavorativa, in una situazione totalmente nuova, in cui il processo di controllo, la
regolazione sociale del lavoro doveva avvenire con un’impresa che si disarticolava e si distribuiva
su più paesi, su più realtà, nazionali e territoriali.
Questo apriva un problema del rapporto tra le imprese ed i poteri dello stato. Rapporto tra le
imprese ed i poteri dello stato che è stato in larga misura riorganizzato non con la scomparsa dello
stato, come si veniva dicendo, ma è stato riorganizzato rifunzionalizzando le politiche statali ai fini
di sostenere questo processo di ristrutturazione, di razionalizzazione. L’Unione europea è un
esempio fulgido della pura rifunzionalizzazione del funzionamento delle strutture pubbliche al
sostegno di questi processi di ristrutturazione. Ad iniziare dal Piano Delors che, non so perchè a
Sinistra è stato per così tanto tempo magnificato, e che era la sanzione definitiva del fatto che ci
doveva essere una funzionalizzazione piena del funzionamento dell’Unione europea.
Siamo oggi, dopo la crisi, entrati in una fase nuova, e se noi non mettiamo, diciamo così, una lente
di ingrandimento sulla fase nuova di cui Marchionne e la Fiat sono un esempio perfetto, noi
corriamo il rischio di continuare a fare dei ragionamenti che avremmo potuti fare oggi come tre anni
fa. E chiaramente c’è qualcosa che non funziona, se possiamo fare oggi un ragionamento che
potevamo fare tre anni fa: in mezzo c’è stata la crisi. Quindi, evidentemente, c’è bisogno di una
innovazione delle categorie.
Quale è l’elemento, secondo me, che produce un effetto nuovo? Il fatto che accanto alla ossessiva
attenzione ad un conflitto, che è un conflitto mortale tra imprese e, quindi, ha una progressiva
esigenza di un controllo del comportamento specifico e quotidiano degli operai e non solo degli
operai, ma di tutti quelli che prestano un lavoro subordinato ed anche di una parte di quelli che non
prestano un lavoro subordinato, ma sono direttamente funzionali al processo di valorizzazione del
capitale, si riapre un problema che la crisi ha reso evidente e, cioè, una crisi fiscale e, di fronte a
questa, l’esigenza di fare i conti con una messa in discussione dello stato sociale come è stato nel
passato.
E non a caso abbiamo due processi molto simili, perchè la grande società di Cameron e quello che
dice il nostro ministro del lavoro, di una società giusta, hanno tutti degli elementi comuni. Quali
sono gli elementi che convergono? Sono: un forte aziendalismo corporativo, quindi non gli
interessano più i patti neo-corporativi con la regolazione delle grandezze a livello nazionale:
interessano dei patti che siano in primo luogo dei patti di tipo corporativismo aziendale. Accanto al
corporativismo aziendale si vuole selezionare un nuovo tipo di sindacalismo, un sindacalismo in
Europa praticamente sconosciuto, che è il business unionism, un sindacalismo che è costruito
sempre su un puro adeguamento subalterno alle esigenze dell’impresa, come quello che si chiama
un atteggiamento realistico.
Quindi, corporativistico aziendale, business unionism, e, si aggiunge oggi, l’esigenza di una forma
di grande società che ha due componenti possibili sulle quali si giocano le differenze oggi in
Europa: quella ultrareazionaria del ministro Sacconi, che vuole costruire, accanto ad un modello di
corporativismo aziendale, quello di un corporativismo sociale, in senso proprio non neocorporativo, ma proprio corporativismo, la gestione diretta da parte degli attori sociali, con
l’intermediazione dello stato che delega agli attori sociali parte delle sue funzioni, il funzionamento
di quello che oggi sono gli istituti fondamentali dello Stato, che vengono delegati direttamente alle
parti sociali che li devono gestire in nome e per conto dello Stato. E questo si chiama sussidiarietà,
si chiami come si vuole, sono tutti fronzoli per descrivere un processo.
Cameron, dall’altra parte, cosa fa? Fa un’operazione simile, dice: “Io dismetto e che sia la società
che si costruisce i suoi istituti”. E quindi, siamo di fronte ad un cambio del processo, perché, in
questo processo, viene richiamato un ruolo dello Stato ed un ruolo dei poteri politici che è differente
da quello che avevamo conosciuto subito prima della crisi. Non c’è più solo una
rifunzionalizzazione, ma c’è la riscoperta di una cosa antica, che un disciplinamento sociale di
questo genere non può avvenire senza avere il fatto che lo Stato assuma di nuovo dei compiti diretti
di repressione e contenimento della dinamica sociale. Non a caso in tutta Europa vi è un inneggiare
alle comunità. Tutti sappiamo cosa vuol dire quando si inneggia alle comunità, che le uniche
comunità che non sono comunità regressive sono quelle di scopo. Siccome qui non si inneggia alle
comunità di scopo, ma si inneggia alle comunità nel senso sostanzioso e sostanziale del termine,
questo vuol dire una cosa sola: si vuole dire che la società deve funzionare liberandosi dai conflitti
sociali.
Cosa c’entra la Fiat dentro questo? La Fiat introduce dentro questo quadro l’elemento, diciamo così,
di svelatore del processo, nel senso che rende chiaro quale è l’elemento dal punto di vista del
criterio del processo di ristrutturazione. Come stanno assieme un organicismo sociale reazionario
come quello di Sacconi con un atteggiamento ultra-liberale come quello di Marchionne? Dal punto
di vista teorico non stanno insieme, ma dal punto di vista pratico benissimo, attraverso la pura e
semplice scoperta che ci sono dei momenti in cui il compromesso tra capitalismo e democrazia
tentenna e che devono esserci - e devono essere introdotti nel sistema - robusti elementi di tipo
autoritario per poter reggere il sistema.
Allora, se questa è la situazione, il problema del potere torna in primo piano. Io non ho niente
contro i discorsi sul reddito, la povertà, tutte cose giustissime; aiutano ad affrontare una fase come
questa, perché non si vede come dobbiamo avere anche delle politiche per sostenere oggi le persone
nel momento crudo della ristrutturazione, ma credo che sia, almeno a me pare evidente, che siamo
proprio ad un punto in cui gli elementi chiave per costituire una coalizione del lavoro stanno nel
fatto di mettere in evidenza che questo processo apre un problema di potere a più livelli. Apre un
problema di potere nell’impresa e cioè se vi può essere o no un elemento di controllo dei processi,
apre un problema di potere a livello della società che non coinvolge solo i lavoratori dipendenti in
senso proprio, perché la trasformazione che si vuole introdurre sulla società nel suo insieme, apre
un problema che riguarda fasce ben più ampie della popolazione, per esempio la rovina dei ceti
medi che è programmata ed è in corso e sulla quale è possibile costruire un’operazione anche questa
che riguarda un processo…. Apre un problema di potere politico, e questo non lo posso affrontare e
lo dico solo come nome, che è un problema antico per l’attuale movimento operaio e che non è
quello dei flussi dei territori. Il problema del movimento operaio nella sua storia è quello della scala
alla quale deve costruire la sua capacità di coalizione. La scala che noi abbiamo oggi è una scala
inadeguata.
Quindi c’è un problema di costruire una scala diversa che non può che essere in due direzione: una
è una scala geografica, noi abbiamo bisogno di costruire una scala a livello europeo. E l’altra è una
scala a livello sociale, cioè è orizzontale. Noi abbiamo bisogno di ricomporre una coalizione, cioè di
rimettere al centro i problemi di rappresentanza delle condizioni materiali del lavoro dipendente e
di una parte della società che assieme al lavoro dipendente costituisce oggi la base del processo di
valorizzazione. Questo è il punto e chiedo scusa della brutalità dell’espressione.