20/05/2006 - pubblicazione

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Nome file
060520AL_AC3.pdf
data
20/05/2006
Contesto
ALTRO
Relatore
A Colombo
Liv. revisione
Pubblicazione
Lemmi
Aristotele
Averroé
Competenza
Filosofia
Legge
Legge-Filosofia
Lerner, Ralph
Maimonide, Mosé
Rivelazione
Strauss, Leo
Tommaso d’ Aquino
STUDIUM CARTELLO 2005/06
COOPERATIVA EDITH STEIN - RIMINI
CONVEGNO “MOSÉ GESÙ FREUD”
20 MAGGIO 2006
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Alberto Colombo
Leo Strauss nello scritto Filosofia e Legge 1 con grande rilievo mette a tema un’istanza peculiare della teoresi di M. Maimonide,2
pensatore di spicco della vicenda filosofica dell’ebraismo nell’età
medioevale.
Si tratta dell’istanza di provvedere ad una “fondazione giuridica”
o ad una “giustificazione legale” della Filosofia, e con essa della
metafisica che ne è il vertice, in quanto attività teoretica.
1
Leo Strauss, Philosophie und Gesetz. Beiträge zum Verständnis Maimunis und seiner
Vorläufer, Schocken Verlag, Berlino 1935, trad. it. Filosofia e Legge. Contributi per la
comprensione di Maimonide e dei suoi predecessori, Editrice La Giuntina, Firenze 2003.
Questo saggio di Strauss è il termine di riferimento e la fonte principale di riflessione
da cui procede questo scritto.
2
Mosheh ben Maymun, figlio del rabbino Isaac, nasce a Cordova in una data tra il
1135 e il 1138. Lasciata Cordava sotto la minaccia del regime almohade, si rifugia a
Granada poi ad Almeira e a Fe’s, insieme alla famiglia. Nuovi motivi di insicurezza
gravanti su di essa, lo spingono a Gerusalemme (1166).
Da ultimo interviene il trasferimento a il Cairo dove, sotto la protezione di al-Fadil,
segretario e visir di Sal-ah al-Din, Maimonide è nominato medico di corte. Nella
nuova condizione favorevole egli può attendere alla stesura delle sue opere maggiori.
Muore il 13 dicembre 1204.
2
Strauss nota le affinità e le convergenze della posizione di
Maimonide sotto questo profilo con quella della grande autorità
filosofica contemporanea, l’islamico Averroé,3 di lui maggiore di
una decina d’anni. Tuttavia si deve ritenere che Maimonide abbia
maturato le proprie tesi indipendentemente dall’influenza di
quelle di Averroé, dato che l’opera di questo filosofo raggiunge
l’Egitto nel 1190, quando le concezioni di Maimonide sono già
essenzialmente definite.
L’argomento della “fondazione giuridica” della Filosofia è ampiamente, anche se non sistematicamente, affrontato da Maimonide
nell’opera La guida dei perplessi. Questo scritto è considerato il
documento per eccellenza di ciò che, con pur discutibile
denominazione, è chiamato il razionalismo del cosiddetto illuminismo ebraico medioevale.
Giova, preliminarmente, introdurre qualche chiarificazione insieme concettuale e lessicale.
Il binomio Legge-Filosofia è apparentabile e, ultimamente, coincidente con altre coppie di termini quali: Rivelazione-Filosofia,
Legge (o Rivelazione)-Scienza e, ancora, Fede-Ragione.4
Al proposito va osservato che, se nella teoresi di Maimonide tra i
primi termini di questa serie di coppie, Legge (Torah) va
privilegiato rispetto a Rivelazione e ancor più, forse, rispetto a
Fede, ciò dipende dal fatto che per il filosofo ebreo, ma ciò vale
corrispondentemente anche per Averroè nell’orizzonte islamico,
3
Ibn Rushd nasce a Cordova nel 1126. Appartenente ad una famiglia di giuristi malechiti, diviene lui stesso “qadì” della Grande Moschea. Primo medico alla Corte degli
Almohadi, succeduto a Ibn Tufayl, sotto la protezione del sovrano illuminato Abu
Ya’kub Yusuf, egli ha redatto le sue opere principali tra il 1180 e il 1193. Caduto in
disgrazia ed esiliato da Abu Yusuf Ya’qub al-Mansur, viene poi richiamato a Marrakech, dove muore il 10 dicembre 1198.
4
Il binomio Fede-Ragione è più tipico, in compagnia di alcune varianti, del Medio
Evo filosofico-teologico latino, ed è destinato, poi, a continuare la sua vicenda storica
nei secoli successivi dell’Occidente filosofico, fino all’età contemporanea.
3
la Legge, nell’insieme delle sue prescrizioni e precetti, non è semplicemente una componente della Rivelazione di Dio, ma ne è
l’essenza ed in essa la Rivelazione si risolve.
Ciò ha il suo riscontro ed uno dei segni della sua conferma nel
primato e nella singolarità che Maimonide assegna a Mosè rispetto a tutti gli altri profeti che lo precedettero e che lo seguirono
nella storia di Israele.
Significativamente Ralph Lerner, nel capitolo dedicato a
Maimonide nella Storia della filosofia politica curata da Leo
Strauss e da Joseph Cropsey, scrive che per lui: «La distinzione
fondamentale tra le profezie mosaiche e quelle pre-mosaiche è
precisamente questa: ciò che fu dato a Mosè aveva la forma della
legge. Nessuno dei suoi noti predecessori si era presentato al popolo dicendo: “Dio mi ha mandato a voi e mi ha ordinato di
dirvi ciò e tali cose; Egli vi ha proibito di fare ciò e vi ha ordinato
di fare quest’altro”. Pur istruendo il loro popolo l’appello di profeti anteriori non assume la forma di una legislazione divina, al
contrario i profeti che seguirono Mosè intesero principalmente
indicare al popolo come osservare la sua legge. La differenza di
Mosè e il segno della sua superiorità, rispetto ai profeti che lo
precedettero e che lo seguirono, consiste nell’essere stato l’unico
profeta a promulgare leggi».5
Quanto alla seconda serie di termini quello di Filosofia, cui sono
riconducibili, senza eccessi riduzionistici, quello di Scienza e
quello di Ragione, nomina ciò che si può chiamare il patrimonio
dottrinale dei Greci, il “depositum rationis” greco, che è identico
appunto al sapere filosofico. Ma poiché per i greci, e Maimonide
è di questo avviso, non esiste altro sapere razionale che non sia
sapere scientifico e non esiste scientificità che non sia scientificità
filosofica, allora vi è coincidenza senza scarti tra filosofia, scienza
e razionalità.
5
R. Lerner, “Maimonide” in L. Strauss e J. Cropsey, Storia della filosofia politica, vol. 1,
Il Melangolo, Genova 1993, p. 367.
4
D’altro canto, conformemente alla preminente tradizione ellenica, recepita da Maimonide, la connotazione principale del sapere
filosofico, che ne identifica l’essenza teoretica, è di essere sapere
dimostrato, cioè sapere che rende ragione inoppugnabilmente nella
sua verità. Esso è un sapere, perciò, irrevocabile e definitivo, una
definitività ed una stabilità di cui esso gode perché sta nell’evidenza, cioè nella certezza innegabile.
Per essere tale esso si avvale di quel procedimento argomentativo
che è la dimostrazione, nel senso ristretto e tecnico del termine,
cioè del sillogismo dimostrativo, organo tipico del sapere filosofico, il quale non soltanto connette secondo necessità le premesse
con le conclusioni, ma impiega solo premesse vere, la cui verità è
evidente, iniziando da evidenze prime. Non a caso Maimonide
definisce i filosofi come gli uomini della dimostrazione «[essi]
hanno inteso la dimostrazione di tutto ciò che è dimostrabile, sono pervenuti alla certezza relativamente alle cose metafisiche».6
Orbene, questo modo di intendere il filosofico come sapere certamente appartiene ad una larga tradizione greca, ma, nei pur
sommari termini ricordati, esso è schiettamente aristotelico. E
con ciò si viene a richiamare un ultimo apporto alla sequenza di
identità prima tracciata.
Per Maimonide, infatti, non soltanto Filosofia è il sapere filosofico e questo è il sapere scientifico, il quale è il sapere razionale, ma
tutti questi domini coincidenti coincidono con quella che può
essere chiamata l’“enciclopedia aristotelica delle scienze filosofiche”. In altri termini, il sapere filosofico è la “sua edizione
aristotelica”: le dottrine filosofiche di Aristotele sono l’attuazione
compiuta e insormontabile del sapere filosofico.7
6
Cfr. A. De Libera, Storia della filosofia medioevale, Jaca Book, Milano 1995, p. 206.
7
L’ammirazione quasi adulatoria di Rabbi Mosheh per Aristotele, come rileva A. De
Libera, non ha nulla da invidiare a quella di Averroè, sino a fargli dire in una lettera a
Samuel Ibn Tibbon, traduttore in ebraico della Guida dei perplessi: «Abbi l’avvertenza
di studiare le opere di Aristotele con i loro commenti: quello di Alessandro di Afrodisia, di Temisio e di Averroè. Gli scritti del maestro di Aristotele, Platone, sono delle
parabole di difficile comprensione, di cui non c’è alcun bisogno dato che l’opera di
5
Pur non essendo esclusa la possibilità di qualche emendazione
l’opera di Aristotele è l’apparire filosofico della verità, incontestabile e integrale, secondo la misura conoscitiva dell’intelletto
umano, ed ha i suoi pilastri nella metafisica, nella fisica e nella
logica.
In posizione di spicco sta la metafisica, che, secondo una delle
accezioni aristoteliche di “filosofia prima”, è teologia (razionale),
in quanto sapere che accede a Dio e alla sua esistenza come realtà
eterna, immutabile, verità assoluta e assoluta incorporeità.
L’enciclopedia aristotelica delle scienze filosofiche è, dunque,
luogo sicuro della conoscenza vera proprio perché sapere dimostrato, cioè giustificato in se stesso e da se stesso.
Se così è, si potrebbe ritenere anche che nella natura di questo
sapere giustificato sia iscritta la giustificazione della dignità e della legittimità dell’attività filosofica, cioè dell’esercizio conoscitivo
che consegue e presentifica il sapere filosofico.
Ma per Maimonide così non è: il valore conoscitivo del sapere
filosofico non basta a fondare il valore morale, la rettitudine
dell’esercizio conoscitivo, dell’attività teoretica che ad esso
attendono.
A tutto prima sorprendentemente Maimonide apre la questione
della convocazione del sapere filosofico o, più esattamente, dell’esercizio teoretico di natura filosofica dinnanzi ad un tribunale
non filosofico che ne accerti i titoli di legittimità.
La sapienza scientifica greca, Atena-Atene, per così dire, deve
preliminarmente sottoporsi ad una supervisione da parte di un’istanza altra che la autorizzi.
Di quale istanza si tratta? La risposta a questa domanda chiarirà
la natura giuridica di tale fondazione.
Aristotele è sufficiente; non è nemmeno necessario occuparsi dei libri scritti dai suoi
predecessori, dato che il suo intelletto rappresenta il grado più alto dell’intelligenza
umana, eccezion fatta per coloro che hanno beneficiato dell’ispirazione divina». Cfr.
A. De Libera, op. cit. p. 202.
6
In ogni caso va notato che, essendo il sapere filosofico “ragione”,
si tratta allora di istituire un “praeambulum rationis”.
È utile, intanto, rilevare che la medesima istanza di fondazione, nello
stesso periodo ed in un’analoga temperie intellettuale,
preoccupa, nell’area arabo-islamica, il lavoro intellettuale di Averroè.
Nel Trattato decisivo dell’accordo della religione con la filosofia egli
muove dal riconoscimento che vi è il compito preventivo di accertare la legittimità o la illegittimità dell’occuparsi di Filosofia e
di Logica.
E questo accertamento non può che essere giuridico, giacché
giuridica è l’istanza da cui nasce la questione e dalla quale deve
venire la risposta. Essa è la Rivelazione coranica che è essenzialmente “Legge”. La Rivelazione coranica è il presupposto inaggirabile della possibilità legale della filosofia e senza il favore di essa
questa dovrebbe essere bandita dalla comunità dei credenti.
La Legge rivelata sembra, in effetti, rendere problematica l’attività filosofica: se tale legge è data da Dio ed è, quindi, perfetta ed
autosufficiente, quale senso può avere una fonte ed un dominio
di conoscenza altri? Che cosa si può apprendere di giusto e di
conveniente da essi? Non sono destinati ad essere un’oziosa
distrazione se non un documento di umana superbia?
Occorre, allora, domandarsi sul fondamento della Legge coranica
(sah’ria) se la speculazione logico-filosofica sia vietata, permessa o
prescritta.
La risposta di Averroè è che, in virtù di innumerevoli versetti del
Corano, non soltanto la Legge autorizza, ma prescrive la speculazione filosofica, in quanto dà luogo alla conoscenza delle “cose
esistenti”. La speculazione filosofica è, dunque, un dovere, come
un dovere è lo studio della logica, cioè della scienza dell’apparato
procedurale che garantisce la scientificità filosofica del sapere.
La Filosofia è, quindi, sottomessa alla Legge perché da essa, solo
da essa e indispensabilmente da essa riceve la propria autorizzazione; d’altro canto la Filosofia non soltanto è autorizzata addirittura nella forma dell’essere prescritta, ma una volta autorizzata, essa
deve procedere motu proprio, inxta propria principia e secondo il
7
proprio metodo, senza curarsi del testo coranico della Legge,
almeno in una certa misura e, certamente, nel suo senso ovvio o
letterale. Sotto questo profilo il filosofare è libero rispetto alla
Legge. Lo è a tal punto che la speculazione filosofica rispetto alla
Legge assume una funzione ermeneutico-direttiva. Se insorge,
infatti, un contrasto fra i risultati conoscitivi della Filosofia ed il
senso letterale della Legge, sono i primi che devono essere tenuti
fermi e, di conseguenza, il senso letterale va abbandonato e
diventa obbligatorio interpretare il Corano in un senso figurato.
Ebbene l’impianto concettuale argomentativo di cui si avvale
Maimonide è ampiamente sovrapponibile a quello di Averroè.
Anche per Maimonide occorre, preventivamente, accertare l’esistenza di una giustificazione legale dell’esercizio della conoscenza
filosofica.
Questa giustificazione è, in effetti, anche per lui rinvenibile nella Legge mosaica e nella fede in essa che chiede non soltanto di
assentire alla Rivelazione, ma anche di comprenderla, cioè di
conoscerla dimostrativamente sino agli estremi limiti della dimostrabilità.
Ancora, pure Maimonide assegna alla conoscenza filosofica la
“guida” nella determinazione del senso della Legge, del quale
quello letterale, se contrasta con qualche contenuto della scienza
filosofica, va sostituito con un senso “interpretato”.
Per ambedue i pensatori la Filosofia si atteggia nei confronti della
Legge secondo il duplice nesso di sottomissione alla Legge e di
libertà, in qualche misura, dinnanzi alla Legge.
Alla delineazione della posizione di Maimonide, tramite il confronto con quella di Averroè, circa la fondazione giuridica della
speculazione filosofica seguono ora alcune considerazioni di
commento e di conclusione, precedute da una notazione.
Essa avverte che sarebbe un errore ricavare dal ricordato plesso di
sottomissione e libertà della Filosofia rispetto alla Legge, che
implica una sottomissione, per così dire, della Legge alla interpretazione filosofica, che allora Maimonide sostenga una sorta di
pariteticità tra Legge e Filosofia.
8
Sarebbe un errore perché è da ricordare che questo plesso di sottomissione e libertà della Filosofia rispetto alla Legge è pur sempre sotto il primato della Legge, nel senso che è per la Legge e nella Legge che si stabilisce questo plesso. Perciò, se come giustamente Strauss ritiene,8 Averroè non è il Voltaire del XII secolo,
certamente non lo è neppure Maimonide.9
Una prima considerazione di commento, tratteggiata come le
due successive prevalentemente in forma di apertura di interrogativi o di questioni, indica come l’apparentamento tra Averroè e
Maimonide risalti ancor di più per contrasto con la successiva
posizione di Tommaso D’Aquino.
In lui non è in verità rintracciabile un impegno per la fondazione
giuridica della Filosofia né una preliminare inchiesta da parte di
un tribunale non filosofico, sia pure quello della Fede rivelata,
circa l’autorizzabilità o meno dell’esercizio della conoscenza
filosofica. Per Tommaso non vi è da procedere a nessuna supervisione preventiva circa i diritti di Atene.10
8
Strauss, nell’esaminare la questione circa i passi reperibili negli scritti di Averroè in
cui il filosofo sembra sostenere l’esistenza di una eccedenza del contenuto della Rivelazione rispetto alla conoscenza razionale, afferma che: «Naturalmente esiste un
dibattito intorno alla completa attendibilità di queste dichiarazioni. Tuttavia era qui
in ogni caso necessario indicare con vigore questa problematica, in modo da giungere
a chiarire che Ibn Rushd non è stato il Voltaire del XII secolo. A dire il vero, per questa prova, non erano indispensabili quelle dichiarazioni: infatti, questa prova è chiaramente fornita dal fatto che Ibn Rushd riconosce senza dubbio il primato della Legge». Strauss, op. cit., trad. it., p. 212. Si aggiunga che in Maimonide questo primato
non è sconfitto dal fatto che nella sua opera si configura anche una “fondazione filosofica della Legge”.
9
Per questa ragione si deve essere quanto meno prudenti nel giudicare Maimonide come l’esponente esemplare del “razionalismo” del supposto “illuminismo” ebraico medioevale.
10 In questo senso R. Lerner, esaminando il taglio della trattazione di argomenti di filo-
sofia politica da parte di filosofi ebrei scrive: «La presentazione non-tematica della loro filosofia politica deriva in parte dalla necessità dei filosofi ebrei (come i loro corrispondenti mussulmani) di giustificare la loro attività filosofica innanzi al tribunale
della legge rivelata.
Nessuno ha osato iniziare un’opera con la questione che apre la Summa Teologica:
“Accanto alle discipline filosofiche, è richiesta un’ulteriore dottrina?». In op. cit., trad.
it., p. 363.
9
È ben nota la dottrina di Tommaso circa i “praeambula fidei”, ma
essa non è affiancata da un’altra circa un “praeambulum rationis”.11
Questa differenza è di una portata che probabilmente merita di
essere opportunamente indagata ed esattamente misurata anche
in ordine alla questione circa i diversi, storici percorsi filosoficoteologici dell’Ebraismo, del Cristianesimo e dell’Islam.
11 In verità un “praeambulum rationis” è incompatibile con quella “ratio” che detta la
razionalità di quel sapere che è il sapere filosofico, secondo il concetto greco di episteme. Uno dei tratti formali definitori di esso è, infatti, l’esclusione di qualsiasi presupposto; il sapere epistemico è, per definizione, privo di presupposti (voraussetzungslos).
In questo senso esso è un sapere sovrano ed autarchico, autoevidente, che in se stesso
e da se stesso ex-pone la sua verità. Esso non ammette, quindi nessuna “introduzione”
eteronoma. Pertanto la sussunzione della “ratio” sotto una qualsiasi “fides” fa perdere
alla ratio la propria identità di “ratio” filosofica. Ogni pretesa di Gerusalemme di associare a sé Atene sotto il proprio primato snatura e compromette la stessa figura teoretica di Atene.
Va per altro osservato che ciò non riguarda propriamente quel tipo di “praeambulum
rationis” che è costituito dalla “fondazione giuridica” della Filosofia secondo Maimonide. Infatti l’episteme filosofica è sì incompatibile con qualsiasi “praeambulum” non filosofico, ma lo è solo quanto alla sua verità, cioè nella misura in cui da un “praeambulum” non filosofico si faccia dipendere, in qualche modo, la verità del sapere filosofico.
Ma non risulta essere questo il caso della fondazione giuridica della Filosofia secondo
Maimonide, così come è chiarita dall’esegesi straussiana.
Invero tale fondazione non ha la pretesa di fondare la verità della Filosofia in quanto
sapere (il che rimane affidato alla Filosofia stessa), ma quella di fondare la legittimità,
cioè la conformità alle prescrizioni pratico-morali della Legge, della Filosofia come
speculazione filosofica, cioè come attività o esercizi teoretici.
Essa, in altri termini, non concerne la Filosofia come Theoria filosofica, quale ordinamento dei suoi teoremi, ma concerne la Filosofia come prassi teoretica; il che significa
che essa non concerne, detto altrimenti, la “ragione teoretica”, in quanto sapere che
sa in atto la verità dei suoi contenuti, ma la “ragione teoretica” come “pratica della ragione teoretica”. Ne consegue che non vi è omologia tra i “praeambula fidei ” della
dottrina tommasiana e quel “praeambulum rationis” che è la fondazione giuridica della filosofia in Maimonide.
Attraverso i “praeambula fidei ” Tommaso, infatti, ha di mira la verità dei contenuti
della fede, che egli intende accreditare, per esempio attraverso la fondazione filosofica
della verità di alcuni di essi.
Maimonide mediante il suo “praeambulum rationis” non ha di mira la verità della
“ratio” filosofica come sapere, ma la sua legittimità-liceità, rispetto alla Legge, come
“prassi teoretica”.
10
Una seconda considerazione concerne la concordanza tra Maimonide ed Averroè anche nel sancire il divieto imposto ai filosofi
di divulgare la loro dottrina e le loro interpretazioni. Ciò significa
vietare il carattere “pubblico” della Filosofia. Essa è riservata a
coloro che ne sono adatti e che perciò, ne sono gli esclusivi addetti.
Il bando di qualsiasi “propaganda filosofica”, più marcato in
Averroè e più temperato in Maimonide, si radica nella convinzione che la trasmissione della Filosofia a coloro che non ne hanno
le attitudini, è fonte di confusione, di turbamento della fede, di
incredulità. L’emiro stesso, secondo Averroè, deve impedire che
ciò avvenga. La verità filosofica o è una verità riservata o diventa
pericolosa per la comunità politico-religiosa.
Orbene è interessante notare che i due grandi aristotelici, Averroè
e Maimonide, certamente in questo caso, si dimostrano inclini
ad un ritorno a Platone, aspetto questo su cui Strauss insiste.
È infatti Platone che diffida gli stessi filosofi da una comunicazione indiscriminata della conoscenza filosofica, ravvisandone la
pericolosità etico-politico-pedagogica per la città.
Si profila così la questione, assai notevole, del nesso tra Filosofia,
“esotericità” della stessa e, al limite, del controllo politico dell’esercizio delle competenze filosofiche. Tale questione si salda, infine, con il contenuto di una terza considerazione.
È stato ripetutamente richiamato il fatto che Maimonide, con
Averroè, ritiene che, stante la Legge, l’esercizio della conoscenza
filosofica non si autolegittimi, ma la sua legittimazione debba essere fondata sulla Legge. È alla Legge che spetta di autorizzare la
Filosofia. Quest’ultima non inizia da se stessa, non è “sovrana”.
Ora, se si tiene conto del fatto che la speculazione filosofica anche per Maimonide non è altro che un certo modo di pensare,
che è poi il pensare logico-argomentativo o concettuale-dimostrativo (i filosofi sono “la gente della dimostrazione”), ciò significa che, secondo Maimonide, l’istanza della Legge (cioè della Rivelazione) comporta che c’è almeno una competenza di pensiero
che non è di competenza di ciascun soggetto esercitare liberamente, cioè senza previa autorizzazione.
© Studium Cartello – 2007
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