del pensiero filosofico e scientifico

LUDOVICO GEYMONAT
Storia
del pensiero
filosofico
e scientifico
VOLUME TERZO
Il Settecento
Con specifici contributi di
Corrado Mangione, Gianni Micheli, Felice Mondella, Renato Tisato
GARZANTI
www.scribd.com/Baruhk
1 edizione: marzo 1971
Nuova edizione: ottobre 1975
Ristampa 1981
© Garzanti
Editore s.p.a., 1971, 1975, 1981
Ogni esemplare di quest'opera
che non rechi il contrassc:gno della
Società Italiana degli Autori ed Editori
deve ritenersi contraffatto
Printed in Italy
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SEZIONE QUINTA
L'illuminismo· Kant
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CAPITOLO PRIMO
Il secolo dei lumi
I
· TRASFORMAZIONI ECONOMICHE E SOCIALI
L iav~_?;~t~_<:fç)ll;l__R()fgh~sf~ che già aveva caratterizzato lo sviluppo di una
notevole parte dei più civili paesi d'Europa durante il secolo precedente, assunse
nel Settecento un nuovo impeto e una nuova forza d'urto. Si realizzano cospicui
~postatl1C!l!!i_gj___fiçç_b!!Z?;~, si lanciano ~ove imprese economic:he, auJ:!len~_ il
commercio, si riorganizza e consolida lo ~rE__g~JJ:len_to_ <,lei_ p9poH _cglgnial!. Le
nuove iniziative non tollerano più di venire comunque ostacolate, ed entrano in
aperto conflitto con le forze che avevano detenuto il monopolio del potere nelle
epoche precedenti.
Se la terra continua ad essere la principale fonte di ricchezza, accanto ad essa
se ne comincia ad affermare un'altra che può in certo senso venir considerata
come lo sviluppo dell'antica attività artigiana ma con caratteri via via più differenziati. È legata alla 5_:_9stitt1zione_ di_gra11<1i opjfici, con un notevole quantitativo di mano d'opera e di macchine: essa richiede per ogni addetto un impiego
di capitale assai superiore a quello richiesto dalla terra, ma può fornire in breve
tempo un elevato numero di prodotti da gettare sul mercato e, se questo è favorevole, permette guadagni per l'innanzi sconosciuti.
Il trapasso dall'artigianato al nuovo tipo di produzione avviene per gradi,
attraverso fasi che variano da un popolo all'altro. Il suo inizio può venire fatto
risalire - in ispecie per l 'Inghilterra e per la Francia- al secolo precedente, come
si è accennato nel capitolo I della sezione IV; ma è solo nel xviii che assume un
ritmo accelerato ed è soltanto in Inghilterra che esso entra, negli ultimi anni del
secolo, in una fase di piena attuazione. Il principale effetto cui perviene è il notevole aumento di produttività, e quindi il rapido incremento del reddito globale
della nazione interessata in misura nettamente superiore a quello dei popoli in
cui il trapasso non ha ancora avuto inizio o è rimasto a fasi più arretrate. È uno
squilibrio che si avverte nell'ambito dei paesi europei ma ancor più nei confronti
dei paesi coloniali o comunque extraeuropei.
È istruttivo citare le parole con cui nella voce« Arte» dell' Enryclopédie Denis
Diderot- che pur non sembra aver compreso appieno il valore della rivoluzione
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Il secolo dei lumi
industriale - illustra i vantaggi realizzati dai grandi opifici: « La bontà delle materie prime sarà il principale fattore della superiorità di una manifattura su un'altra, insieme con la speditezza del lavoro e con la sua perfetta esecuzione. La bontà
dei materiali è questione d'attenzione, mentre la speditezza e perfezione del lavoro sono soltanto in funzione del numero degli operai impiegati. Quando una
fabbrica ha numerosi operai, ciascuna fase di lavorazione occupa un uomo diverso. Un operaio ha eseguito ed eseguirà per tutta la vita una sola ed unica operazione; un altro, un'altra; perciò ognuna è compiuta bene e prontamente, e la
migliore esecuzione coincide con il minimo costo. Inoltre, il gusto e la destrezza si
perfezionano indubbiamente fra un gran numero di operai, poiché è difficile che
non ve ne siano taluni capaci di riflettere, combinare e scoprire infine il solo
modo che consenta loro di superare i compagni: ossia come risparmiare il
materiale, guadagnar tempo, o far progredire l'industria, sia con una nuova
macchina, sia con una manovra più comoda.»
È chiaro che, nel suo ingenuo ottimismo, Diderot non riesce a vedere i gravi
conflitti economici che traggono origine dalla nuova organizzazione della produzione (non si chiede per esempio che interesse debba avere l'operaio- il quale
non è più proprietario o comproprietario dell'azienda, come lo era l'antico artigiano - a risparmiare il materiale, a guadagnar tempo o a far progredire l'industria), né a rendersi conto della frustrazione psichica del lavoratore costretto
a eseguire per tutta la vita una sola ed unica operazione. Ciò che attrae la sua attenzione, è l'enorme vantaggio che la produzione ricava dalla suddivisione del
lavoro e dall'impiego di sempre nuove macchine; macchine però che l'industria
introduce sempre più numerose nel ciclo produttivo non - come scrive il nostro
autore- perché l'operaio ne comprenda l'utilità ma perché il padrone dispone
dei capitali indispensabili per acquistarle e sa quale aumento di reddito può ricavare dal loro uso.
I problemi sociali della classe lavoratrice non suscitano ancora un interesse
molto grande nel Settecento, neppure fra i pensatori più progressisti; la preoccupazione fondamentale è, per il momento, un'altra: quella di agevolare l'iniziativa
dei nuovi imprenditori (abbattendo gli ostacoli che essa incontra nelle vecchie legislazioni di origine feudale) e di permettere che essi assumano nel più breve
tempo il peso politico che compete alla loro crescente forza economica.
Dal punto di vista della storia del pensiero filosofico-scientifico, il fenomeno
testé accennato è soprattutto importante per due effetti ad esso collegati: I) per
l' accres~l!l~!!__fidl!_<i!!_c_h~_fa SQrgere nellej_t}iZ~!!tiY~... ~!E..~!_f?:~, le quali si rivelano in
grado di raggiungere sempre nuovi e più sorprendenti successi pratici, purché
vengano perseguite da individui energici, tenaci, intelligenti, capaci di impostare
modernamente la produzione, indipendentemente dal fatto di appartenere in origine all'uno o all'altro ceto sociale, di avere l'uno o l'altro grado di istruzione;
z) per l'~.c!esciuto_p5:sg___<.:h~.~!!!'ibl!isce al progresso tec~i~?· nel quale è sempre
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Il secolo dei lumi
più facile riconoscere uno dei fattori fondamentali dello sviluppo della civiltà.
È bene sottolineare fin d'ora- riservandoci di tornare con maggiore ampiezza sull'argomento nel capitolo vm - che i progressi realizzati dalla tecnica
nel XVIII secolo furono veramente enormi, notevolmente superiori a quelli compiuti nel secolo precedente. Basti pensare alla invenzione della macchina a vapore, che diverrà ben presto lo strumento essenziale della rivoluzione industriale
in quanto si rivelerà in grado di fornirle quelle risorse energetiche, di cui il rapidissimo sviluppo della produzione avrà un bisogno via via crescente. Se i progressi della tecnica sono ancora in larga parte indipendenti da quelli della scienza
(solo nel XIX secolo questa si rivelerà in grado di assumere la guida delle ricerche
tecnologiche), comincia in ogni modo a profilarsi all'orizzonte la necessità di una
collaborazione sempre più stretta fra le due; essa vale, tra l'altro, a radicare in un
numero crescente di studiosi la convinzione che le applicazioni pratiche possano
fornire la più valida prova della scientificità delle teorie. Si comprende agevolmente che ciò contribuirà alla u_adl,!ale J~i_c:::i~?~~t9!lf! ci~!~~- s<;it,:nza: è chiaro, infatti, che quanto più questa si preoccupa di fornire ausilio alla tecnica, tanto meno
si interessa dei rapporti tra i propri principi e le concezioni metafisico-teologiche.
In altri termini: se la validità delle teorie scientifiche è cercata nella loro fecondità
pratica (sia pure non esclusivamente in essa), è evidente che diminuisce il bisogno
di cercare in un essere trascendente la garanzia della loro assoluta verità o di
provare la « nobiltà » del sapere scientifico mostrando che esso costituisce la via
più diretta per giungere alla conoscenza di tale essere.
Avanzata della borghesia e incremento della produzione, fiducia nelle iniziative umane e laicizzazione della cultura sono fenomeni che caratterizzano
- tutti insieme - il grandioso e complesso sviluppo della civiltà europea nel
xvm secolo. Noi ci fermeremo soprattutto sull'accresciuta fiducia nelle forze
umane e sulla laicizzazione del pensiero, perché esse si inseriscono direttamente
nell'argomento della nostra trattazione; non dovremo però mai dimenticare il
substrato socio-economico cui risultano connesse, onde non perdere di vista
l'unità del processo storico. È un'unità indispensabile per comprendere i fatti
nella loro reale concretezza.
II
· SITUAZIONE POLITICA GENERALE
I grandi eventi politici del Settecento riflettono in sé, come è ovvio, le trasformazioni economiche e sociali di cui si è fatto cenno nel paragrafo precedente.
Ma le riflettono in forma diversa da paese a paese, secondo la varia struttura dei
singoli stati e secondo il tipo di resistenza che le vecchie classi dirigenti oppongono al rinnovamento della società. Esemplari, da questo punto di vista, sono
le vicende dei due più progrediti popoli europei dell'epoca, l'inglese e il francese,
in cui l'avanzata della borghesia si effettua lungo vie in certo senso antitetiche.
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I l secolo dei lumi
Come abbiamo menzionato nella sezione IV, la seconda rivoluzione inglese
ha pacificamente portato la borghesia (in particolare l'alta borghesia) alla direzione dello stato: il regime parlamentare ne garantisce l'assoluto predominio, pur
entro il quadro di una moderna libertà costituzionale, permettendo alla grande finanza (banche, compagnie coloniali, ecc.) di controllare l'indirizzo generale della
politica del paese. Stabilità interna ed equilibrio fra le grandi potenze sono le due
direttrici di questa politica; incremento del commercio con tutti i paesi europei
ed extraeuropei, e rafforzamento della flotta ormai padrona di tutti i mari, sono
i due principali strumenti per l'attuazione del grandioso programma. «Il commercio, » scrive Voltaire nella decima delle sue famose Lettere inglesi, « che in
Inghilterra ha arricchito i cittadini, ha contribuito a renderli liberi, e questa libertà a sua volta ha esteso il commercio, donde è derivata la grandezza dello
stato. È il commercio che ha formato a poco a poco quelle forze navali per cui
gli inglesi sono i padroni dei mari. Attualmente essi possiedono circa duecento
vascelli da guerra. I posteri apprenderanno forse con sorpresa che una piccola
isola, che di suo non possiede che un po' di piombo, dello stagno, della terra da
purgo e della lana grezza, è divenuta con il suo commercio tanto potente da inviare, nel 1723, contemporaneamente tre flotte ai tre capi del mondo: una davanti
a Gibilterra conquistata e mantenuta dalle sue armi, un'altra a Porto Bello, per
togliere al re di Spagna il godimento dei tesori delle Indie, e una terza nel mar
Baltico per impedire alle potenze del nord di battersi. »
La Francia invece sta attraversando un periodo in cui la frattura tra forze
reali e direzione politica del paese si fa via via più profonda. La politica estera
di Luigi XIV è fallita, e le lunghe guerre da lui combattute hanno pesantemente
gravato sulle finanze dello stato. Con la revoca dell'editto di Nantes (168s) il potente monarca è senza dubbio riuscito a stroncare entro i confini del paese la minoranza ugonotta, rafforzando l 'unità politica del regno; ma nel contempo ha
privato la società francese di preziose energie, che avevano contribuito in notevolissima misura all'arricchimento della nazione. Con tale atto egli ha dato inizio
ad un'aperta scissione fra le sorti dell'assolutismo regio e quella della classe borghese, o terzo stato, cui l'anzidetta minoranza era stata- dai tempi di Enrico IVparticolarmente legata. La scissione non verrà sanata dai successori di Luigi XIV,
ma anzi si approfondirà a grado a grado in conseguenza dei loro errori politici,
spingendo la borghesia a posizioni sempre più avanzate, cosicché la lotta da questa
intrapresa per la propria affermazione assumerà un'asprezza mai conosciuta dagli
altri paesi europei. Le vicende di tale lunga lotta, che sfocierà nella grande rivoluzione, sono troppo note per doverle qui ricordare. Certo è che le guerre rivoluzionarie e napoleoniche sconvolgeranno pressoché tutti i paesi europei, e quando
le truppe francesi rientreranno sconfitte nei vecchi confini l 'intero continente si
troverà profondamente trasformato, malgrado gli sforzi dei conservatori per restaurarne l'antico assetto politico.
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Il secolo dei lumi
Dovremo varie volte ritornare, con qualche maggiore dettaglio, sulle condizioni politiche dell'Inghilterra, della Francia e di altri popoli europei, per illustrare l'influenza che queste condizioni esercitarono su alcuni caratteristici orientamenti di pensiero affermatisi in tali paesi. Qui ci limiteremo ad aggiungere
che un grande fenomeno storico destinato ad assumere un notevole peso sulla
cultura del secolo fu l'assolutismo illuminato, del quale è ben nota la diffusione
in vari stati europei, come l'Austria, la Prussia, la Russia, ecc. Particolare menzione va fatta del re di Prussia Federico n, che non solo cercò di dare il massimo
incremento alle ricerche scientifiche nel suo stato (potenziando notevolmente
l'accademia delle scienze di Berlino), ma varie volte offerse generosa ospitalità
a studiosi stranieri, in ispecie a pensatori francesi che si sentivano minacciati
dalle autorità politico-religiose del proprio paese.
Questa ospitalità trova spiegazione non solo nella particolare apertura di Federico n verso i problemi della cultura, ma ancor più nel fatto che i philosophes da
lui protetti difendevano autorevolmente nei loro scritti la naturale alleanza tra
la borghesia più avanzata e il principio monarchico. Essi costituivano la guida
spirituale di tale borghesia, profondamente desiderosa di una riforma generale
della società europea ma sinceramente convinta che una riforma del genere avrebbe
potuto venire attuata solo per l'intervento diretto dei sovrani. Non è necessario
aggiungere che il programma riformatore in questione era sostanzialmente moderato, anche nei casi in cui i! monarca appariva più coraggioso; esso poteva condurre i governi a prendere qualche efficace iniziativa contro il potere ecclesiastico
(si ricordino i vari provvedimenti presi contro la compagnia di Gesù, in seguito
ai quali il papa Clemente xrv fu indotto a sciogliere il già fortissimo ordine nel
1773 1), ma non potevano giungere a colpire le radici più profonde dei vecchi
privilegi. Sui limiti specifici del programma innovatore di Federico II ritorneremo
nel capitolo xv.
Furono soprattutto le vicende della politica estera - come ad esempio la
guerra dei sette anni - a dimostrare le contraddizioni del dispotismo illuminato;
la prima spartizione della Polonia, eseguita nel 177z da Federico II, Giuseppe II
e Caterina II rappresentò, da questo punto di vista, il fatto più grave. Vi furono,
sì, alcuni tentativi di giustificarla da parte dei philosophes personalmente legati a
Federico II e Caterina II; ma furono tentativi maldestri e inconsistenti. La spartizione dimostrava, al di là di ogni dubbio, che la politica di potenza non aveva mai
cessato di conservare il sopravvento - nei tre monarchi illuminati del nord rispetto a tutte le belle dichiarazioni progressiste.
Malgrado questi limiti, il movimento testé accennato ebbe un notevole peso
nell'ampio processo in via di attuazione entro la società europea; l'opinione pubblica, da esso influenzata, non ebbe timore di esprimere severi giudizi sulla situazione francese, e, nel 1789, accolse con sincero favore i primi atti del nuovo goI
L'ordine dei gesuiti venne ricostituito nel .!!!±_da Pio
VII
II
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col breve « Sollecitudo omnium ».
Il secolo dei lumi
verno rivoluzionario. I pareri mutarono però rapidamente, quando la rivoluzione
cominciò a radicalizzarsi, e il favore si trasformò in decisa condanna allorché i
giacobini spinsero la propria coerenza fino alla decapitazione di Luigi xvi.
Il quadro da noi sommariamente delineato può servire, pur nella sua schematicità, quale primo generico orientamento alla comprensione dei fondamentali
sviluppi del pensiero settecentesco. Prima di iniziare l'esposizione di questi sviluppi, occorre però aggiungere ancora qualche brevissimo cenno alla rivoluzione
americana conclusasi con il g:~~-~a~o _c:l~Y~~~!l:.i!l_t:~_(1_~_i) mediante il quale veniva
riconosciuta dali 'Inghilterra l 'indipendenza degli Stati Uniti d'America.
Tale rivoluzione costituì il primo duro colpo, inferto dalle più decise forze
progressiste contro il vecchio assetto politico disposto dalle potenze europee. Per
un lato esso dimostrava che nella stessa « liberale » Inghilterra si annidavano parecchi elementi reazionari, contro cui sarebbe stato necessario combattere per
spingere a fondo il rinnovamento della società; per un altro lato dimostrava che
tali elementi non erano invincibili, quando si fosse decisi a muovere guerra aperta
contro di essi. L'entusiasmo suscitato dalle vicende americane fu enorme tra i
progressisti europei, in ispecie francesi. La Dichiarazione dei diritti, solennemente
votata a Filadelfia nel 1774 (in cui si proclamavano i diritti storici delle colonie
verso la madre patria e i diritti naturali che nessun governo può disconoscere
senza violare le leggi eterne della giustizia), si riallacciava manifestamente al grande
movimento dei philosophes e sembrava fornire la prova storica dell'effettiva realizzabilità delle loro più avanzate idee politiche. Nel giro di pochi anni toccherà
alla Francia imitare questo esempio, formulando la famosa Dichiarazione dei diritti
dell'uomo e del cittadino (2.4 agosto 1789), che costituirà la base della democrazia
borghese moderna.
III
· L 'ILLUMINISMO
L'indirizzo di pensiero che dominò il Settecento europeo suol venire indicato
col nome di illuminismo. Va subito osservato, però, che non trattasi a rigore di
un vero e proprio indirizzo filosofico o scientifico, bensì di un'atmos_fg~_c~l­
turale che improntò di sé quasi tutte le correnti filosofiche e scientifiche del secolo, malgrado le sostanziali differenze riscontrabili tra l'una corrente e l'altra
(per esempio fra empiristi e materialisti in Francia, fra empiristi inglesi e razionalisti tedeschi, fra fisici matematici e fisici sperimentali, ecc.). Per profonde che
siano queste differenze, sulle quali avremo modo di fermarci a lungo nei capitoli successivi, esistono tuttavia - entro le varie correnti di pensiero in largo
senso illuministiche- alcuni caratteri comuni, che sembrano riflettere lo slancio
innovatore da cui fu pervasa gran parte della società europea.
Il primo fra essi è la fidllQ_ll, __nelJ!!__~gione, intesa come strumento atto a chiarire tutti i problemi dell'uomo, da quelli schiettamente filosofici e scientifici a
quelli religiosi, politici e sociali.
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Il secolo dei lumi
Non è certo possibile sostenere che il termine «ragione» possegga qui un
significato preciso ed univoco. Al contrario bisogna riconoscere che a proposito
di esso sono proprio riscontrabili le più importanti differenze cui abbiamo or ora
accennato fra i vari indirizzi illuministici, tendendo alcuni a legare indissolubilmente la ragione all'esperienza, altri invece a vedervi una facoltà capace di raggiungere principi forniti di una evidenza superiore a quella dei dati sensibili. A
rigore, però, si tratta di divergenze che riguardano più le fonti del conoscere che
non la nostra possibilità di accrescere il patrimonio conoscitivo dell'umanità, correggendo a grado a grado gli errori in cui siamo incorsi, dissolvendo le false
credenze per quanto radicate nel nostro animo, sottoponendo ogni concezione a
prove via via più attente. Fiducia nella ragione significa dunque, in questa accezione, non tanto fiducia in questa o quella fonte del conoscere, quanto nelle capacità critiche dell'uomo, nella chiarezza delle argomentazioni, nell'assoluta superiorità dello « spirito scientifico » rispetto a ogni forma di oscurantismo.
Va notato che persino gli autori, come Rousseau, che sembrano opporsi al
razionalismo dei loro contemporanei, in realtà non fanno altro se non denunciare
la superficialità delle loro presunte argomentazioni razionali per contrapporvi una
razionalità più autentica. Anch'essi sono, comunque, convinti che l'uomo sia in
grado di raggiungere con le proprie forze le verità più profonde, e non si trovi
impotente di fronte ad esse.
In conclusione: i «lumi» della ragione di cui parlano gli illuministi non sono
qualcosa di ben determinato, non sono legati a una specifica forma di razionalità,
ma indicano ~~ a~i!()_f!l:~~~-~1-~__<:Ìli~~m~_!!te cont~~l?E.C?~to all 'accetta:zi~1le p:ts~i~a
di _':!!it!,_ di sup~!'~!}_:Z!?.1li~~i <:logm~ indis~\lt~~~· Di qui il secondo carattere fondamentale di tutto il movimento: il dovere, che ogni illuminista sente vivissimo, di
diffondere la cultura, di rendere tutti gli uomini partecipi dello «spirito scientifico », di fare:_~ella ragione uno st~11Il1c:!f1~0 di_ ~-l.C:::Y:t?ic;>!!.~--c:l~U:~_l!l:l!li_tà_.
Questo dovere investe anzitutto il campo delle scienze, le cui conquiste non
vanno insegnate ai soli specialisti ma, nelle loro linee essenziali, al più largo numero di persone. Gli illuministi si rendono conto con rara perspicacia delle difficoltà insite in tale sforzo, e proprio perciò ritengono che essa rientri nei precisi
compiti dei più bravi conoscitori delle singole discipline. Spiegando il modo con
cui vennero stese le voci dell' Encyclopédie (che suol venire giustamente considerata il capolavoro dell'illuminismo francese nell'ambito della diffusione del sapere), Diderot precisa che per arrivare ai risultati voluti «è stato necessario dare a
ciascuna materia un'estensione conveniente, insistere sull'essenziale, trascurare le
minuzie, evitare un difetto troppo comune, quello cioè di dilungarsi su ciò che
non richiede che una parola, di dimostrare l'incontestabile e commentare ciò che
è chiaro ». E aggiunge: « Per questa ragione gli elementi di una scienza possono
essere ben esposti soltanto da chi l 'ha coltivata a fondo; poiché racchiudono il
sistema dei principi generali che si estendono alle diverse parti della scienza, e per
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Il secolo dei lumi
conoscere il modo migliore di presentare tali principi, bisogna averne fatto una
pratica varia e approfondita. » È in questo spirito che i massimi scienziati dell'epoca - come Euler e Laplace - non disdegneranno di scrivere, accanto a
memorie rivolte agli specialisti, alcune opere rivolte a un pubblico più largo.
Oltre al campo delle scienze propriamente dette, la diffusione dei più avanzati prodotti della ragione deve poi investire il campo delle discipline morali e
politiche. Qui essa assume un significato più immediatamente rivoluzionario.
L'accettazione dogmatica dei vecchi valori, degli istituti tradizionali, dei costumi
più barbari, costituisce infatti- secondo l'illuminismo- la base più forte della
religione: far luce nell'inconsistenza razionale di tali valori, istituti, costumi, significa dunque aprire la via al rinnovamento della società; significa in particolare
debellare l'i~_t_~l~~!l~a, l'oscurant~~_!!!o, il conservat~;_~~'E<>• dando inizio a un'era
decisamente migliore di tutto il passato.
Affiora a questo punto il terzo carattere fondamentale di tutto il movimento
illuminista: _!_a_fedf:! fl.~ll-~J?s>_s_si.~i.lità~ttEi_g!is>r~r_c:_~~~ic~tJ~-~~~~lll_~i!l,l_~~()_!le :!!~na.
La polemica contro il passato si integra con l'attimis~~· Non si tratta solo di denunciare la corruzione delle civiltà antecedenti, gli orrori delle pratiche superstiziose, i vizi che si appoggiano sull'ignoranza, ma di avere fede nella capacità
umana di creare un mondo incontestabilmente migliore. I lumi della ragione costituiscono la molla più potente del progresso. Il compito del filosofo è precisamente quello di diffondere questi lumi, sicché egli diventa per ciò stesso un fattore essenziale della trasformazione della società.
È chiaro che una tale concezione della filosofia non poteva non entrare in
urto sia con gli insegnamenti tradizionali della metafisica sia con quelli delle religioni positive. Su questo punto le posizioni dei vari illuministi differiscono
spesso una dall'altra. La posizione più diffusa è quella del filosofo che si accontenta
di polemizzare contro l'aspetto superstizioso delle religioni positive, tentando di
sostituir loro una « _t:eligione ?llturale » (religione in cui alcuni credono di scorgere la vera essenza del cristianesimo, altri invece una nuova religione da sostituirsi alle varie confessioni cristiane). Una posizione più radicale è quella dei materialisti, che dall'applicazione conseguente dei lumi della ragione ritengono di
poter ricavare una concezione della realtà che esclude ogni trascendenza.
A ben guardare, però, sia l 'una che l'altra posizione sono parimenti laiche, in
quanto si parte dall'uomo e solo dall'uomo (cioè dall'esercizio più intransigente
della nostra ragione) per pronunciare l'ultima parola sui problemi della struttura dell'universo e dei fini dell'umanità. Abbiamo già fatto cenno nel primo paragrafo al processo di laicizzazione della cultura verificatosi nel Settecento parallelamente all'impetuosa avanzata della borghesia. Qui possiamo aggiungere che
tale processo ha trovato nel movimento illuministico la sua più diretta espressione.
Nelle sezioni successive troveremo senza dubbio delle forme più radicali di
ateismo (per esempio nella filosofia di Comte), ma esse hanno potuto sorgere e
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I I secolo dei lumi
affermarsi solo in quanto l'illuminismo aveva abituato gli studiosi a trattare i
problemi etici e scientifici da un punto di vista puramente umano è terreno, cioè
in modo del tutto indipendente da ogni eventuale ipotesi intorno all'esistenza e
alla natura di dio.
IV
· IL PROBLEMA DELLA STORIA
Fino a non molto tempo addietro gli storiografi dell'illuminismo erano soliti ripetere - sotto l'influenza della polemica condotta contro il pensiero settecentesco dai romantici -che tale movimento di idee sarebbe stato caratterizzato da un astratto antistoricismo. Per sostenere tale accusa essi affermavano,
più in base a considerazioni aprioristiche che non in base a un attento esame dei
testi, che l'illuminismo non poteva rivelare un'autentica sensibilità per i problemi
concreti della storia dato l'orientamento razionalistico della sua concezione dell'uomo e dell'universo.
Oggi questo pregiudizio può dirsi pressoché unanimemente abbandonato. Il
merito di avere dato inizio a una più esatta valutazione dell'atteggiamento degli
illuministi di fronte al problema della storia spetta a Wilh_~l_!ll PHthey, che fin dal
1901 nel saggio dal titolo Das achtzehnte Jahrhundert und die geschichtliche Welt
(Il XVIII secolo e il mondo storico) -partendo da un rigoroso esame sia delle dottrine filosofiche sia delle principali opere di storia scritte dai maggiori illuministi - sostenne che l'illuminismo aveva elaborato una vera e propria concezione originale della storia, fondata su una nuova consapevolezza della connessione esistente tra tutte le vicende dell'umanità. «Per la prima volta,» egli
scrive, «la storia universale pervenne a una connessione che nasceva dalla
stessa considerazione empirica; essa era razionale in virtù della concatenazione
di tutti gli eventi secondo il principio di causa ed effetto ed era criticamente
superiore in virtù del rifiuto di qualsiasi superamento della realtà data in rappresentazioni che la trascendessero. I fondamenti di tale costruzione erano un impiego deL__gi.!!22P!~Ei~~Lcat~__d,~lla c::t:i~ica storic:a, che non si fermava neppure
dinanzi alle più sacre reliquie del passato, e un metodo c~!!!Q_li.J'~~iyq che si estendeva a tutti gli stadi dell'umanità. »
Le ricerche di Dilthey, proseguite da Cassirer, Meinecke e vari altri, hanno
fatto giustizia dei gravi equivoci contenuti nella vecchia caratterizzazione dell'illum~qismo come filosofia antistoricistica, ed hanno di conseguenza reso possibile
scoprire nuovi rapporti (non solo di antitesi ma di continuità) fra il pensiero illuministico, quello di Kant, e lo stesso pensiero romantico.
È bensì vero che molti illuministi, influenzati dalle scienze di tipo fisico-matematico, rivelarono nei loro dibattiti una spiccata tendenza a cercare i principi
generalissimi da cui poter dedurre l'intero corso dei fenomeni; vero è però
- come vedremo nel seguito della presente sezione - che non mancarono nel
Settecento, accanto alle grandi opere di fisica-matematica, altre opere scientifiche
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Il secolo dei lumi
a netto carattere sperimentale, il cui centro di interesse era manifestamente costituito dal mondo dei fenomeni, nella loro particolarità e nella varietà delle loro
concatenazioni. Né le prime né le seconde hanno una posizione di monopolio
entro il pensiero illuministico, ma, al contrario, concorrono entrambe in misura
essenziale alla creazione dell'atmosfera specifica dell'illuminismo, caratterizzata
dalla fiducia nello «spirito scientifico», nell'uomo, nelle possibilità umane di
trasformare il mondo.
La radice dell'accusa di «antistoricismo», di «astratto razionalismo », di
sostanziale disinteresse per il mondo concreto, va probabilmente cercata nella
mancata compr~nsione della riccl1ez~~ cii sig~!!i_~:;~tl_c:b-_t: gl_i illumi~isti coll~ega,y~Q
;Tt~~f~~-~< -~ag_i~?:~ »,della funzione essenzialmente operativa che gli attribuivano.
Questa funzione è particolarmente -chi~~~ -nei grandi scrittori francesi, presso
i quali l'appello alla ragione aveva soprattutto un significato polemico: costituiva
cioè un energico richiamo al nostro dovere di respingere le soluzioni tradizionali, facili e dogmatiche, dei problemi etico-politici, di applicare anche ad essi
-come ai problemi propriamente scientifici -il più rigoroso spirito critico, la
più attenta e spregiudicata riflessione. Né si può negare che tale richiamo abbia
rivelato una notevolissima efficacia: esso riuscì infatti, per un lato, a dimostrare
l'assoluta infondatezza delle vecchie interpretazioni teologico-metafisiche della
storia (che pretendevano incentrare le vicende dell'umanità sulla comparsa e gli
sviluppi del cristianesimo), per un altro lato a porre definitivamente in chiaro le
differenze tra la pura e semplice registrazione dei fatti storici e l 'autentica ricerca
storiografica (che ha da essere - secondo gli illuministi- sforzo di comprensione
razionale del passato e, nel contempo, implacabile critica dei suoi errori).
Le considerazioni testé accennate possono aiutarci, tra l'altro, a valutare con
una certa esattezza l'effettivo contributo della Francia allo sviluppo dell'illuminismo. La difficoltà di questa valutazione dipende dal fatto che, se ci limitassimo
a tener conto dell'apporto francese ai problemi tradizionali della filosofia, dovremmo concludere che proprio il paese ove l'illuminismo assunse un maggior
peso politico diede in realtà i contributi meno originali allo sviluppo di questa
corrente di pensiero. È invero innegabile che gli illuministi francesi nelle loro
critiche delle religioni positive non fecero altro che assimilare i dibattiti dei deisti
inglesi; nella trattazione del problema della conoscenza non fecero altro· che percorrere la via aperta da Locke; nella costruzione di un modello fisico del mondo
si attennero per lo più ai grandi insegnamenti di Newton; nello stesso problema
politico si limitarono a ripetere e integrare le concezioni dei liberali inglesi. Se
tutto ciò è vero, non meno vero è però che l'illuminismo non si esaurisce nei
temi testé accennati. Esso non fu soltanto una collezione di dottrine filosofiche,
ma un movimento di idee che cercava di rispecchiare in sé la grande esigenza
rinnovatrice della borghesia settecentesca: come tale va giudicato non solo nel
suo aspetto teoretico ma anche in quello pratico. Orbene proprio qui si rivela
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Il secolo dei lumi
l 'autentica originalità degli illuministi francesi: il nuovo interesse che essi seppero portare per il mondo umano: quello passato, costituente l'oggetto delle indagini storiche, e quello presente costituente l'oggetto dell'azione politica. Il radicalismo delle loro posizioni che si manifesta sia nelle opere storiografiche sia
negli scritti politici, il vigore polemico con cui attaccarono gli errori del passato
per poter dare inizio a un migliore presente, lo slancio che li spinse a trasformare
la propria filosofia in strumento ideologico del terzo stato, sono apporti originali
del più alto valore. Tenendo conto di essi, ogni accusa di scarsa originalità contro
gli illuministi francesi si rivela superficiale e inconsistente.
Ciò non significa che il tipo di indagini intraprese da alcuni fra i maggiori
illuministi francesi - seriamente impegnati solo nei problemi storico-politici, e
non, o non altrettanto, in altri problemi di fondo della filosofia e della scienza sia stato privo di inconvenienti. Al contrario, insisteremo parecchio su questi inconvenienti e sui pericoli della sterzata che essi impressero alla cultura europea;
dobbiamo però riconoscere che, pur nei loro limiti, essi furono l'anima del movimento illuministico, e che questo non avrebbe avuto l'importanza che di fatto
ebbe se una parte dei suoi rappresentanti non avesse saputo porre in primissimo
piano la polemica storico-politica.
V
· L'IMPORTANZA DEL PENSIERO ILLUMINISTICO
Qualora si volesse sollevare il problema (peraltro poco rigoroso) se nello
sviluppo del pensiero moderno abbia avuto un peso maggiore l'apporto degli
autori presi in esame nella sezione IV o di quelli che verranno considerati nella
presente sezione, sarebbe necessario compiere in via preliminare una ben netta
distinzione.
Fra gli autori che tratteremo nei prossimi capitoli uno solo, David Hume, 1
regge per così dire il confronto con i grandi filosofi del Seicento (Cartesio, Hobbes,
Spinoza, Locke e così via), e anche nel campo delle scienze propriamente dette la
bilancia pende senza alcun dubbio a favore del XVII secolo; per quanto grandi
siano stati infatti gli scienziati settecenteschi (Euler, D' Alembert, Lagrange, Buffon, Lavoisier, ecc.), essi non fecero certamente compiere al pensiero matematico,
fisico, biologico, svolte così innovatrici come quelle dovute a Cartesio, Fermat,
Newton, Leibniz, Harvey, Malpighi, per non menzionarne che alcuni.
Da un altro punto di vista, però, la situazione risulta ben diversa. Come in
politica l'inizio della società moderna può senza dubbio venir fatto risalire al
Seicento, ma la rottura definitiva con le strutture medievali è opera del Settecento,
così nella storia del pensiero spetta senza dubbio al XVII secolo il merito di avere
impresso un nuovo corso alla scienza e alla filosofia, ma la vera modernizzazione
I Oltre, ben inteso, a Kant, che però fuoriesce dai limiti del vero e proprio illuminismo, da
cui attinge sì alcuni fondamentali problemi aprenclone tuttavia altri di carattere radicalmente nuovo.
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della cultura ha avuto luogo soltanto nel secolo successivo. Limitiamoci a qualche esempio: ali 'inizio del Seicento la chiesa cattolica può ancora intervenire
con una certa efficacia nel dibattito fra copernicanesimo e cosmologia tolemaica, nel Settecento il copernicanesimo è universalmente accettato dagli scienziati i quali non fanno più alcun conto della condanna che continua a gravare
contro di esso; nella seconda metà del Seicento Malebranche può ancora seriamente indagare quali fossero le dimensioni possedute dall'ape vivente ai suoi
tempi quando era contenuta, cinquemilaseicento anni prima, entro gli organi genitali del primo campione di tale insetto creato direttamente da dio, un secolo
dopo questo problema appare risibile; durante tutto il Seicento la fisica deve fare
i conti col problema dei miracoli, interpretati come un intervento diretto di dio
che sospende per un istante le leggi da lui imposte alla natura, alla fine del Settecento Laplace delinea un sistema del mondo in cui non ha più bisogno di fare in
alcun modo intervenire « l'ipotesi di dio »; agli inizi del Settecento si crede
ancora alle streghe e qualche disgraziata è purtroppo condannata al rogo sotto
l'accusa di stregoneria, alla fine del secolo le esecuzioni capitali vengono compiute per motivi dichiaratamente politici, senza più invocare alcuna giustificazione religiosa.
In questo rapido e radicale processo di modernizzazione il movimento illu_ministico ha avuto un ruolo di primissimo piano. La molla propulsiva della ragione non si è più limitata ad operare in ristretti circoli scientifici, ma ha esteso
il suo campo di azione a strati sempre più ampi della società. Se nel Seicento il
nucleo più vivo della ricerca scientifico-filosofica si era trasferito dalle vecchie università di stampo medievale alle grandi accademie di nuova creazione, nel Settecento- pur continuando a operare attivamente nell'ambito delle accademietende ormai a proiettarsi fuori di esse mediante opere a carattere più o meno
divulgativo che trovano rapidamente un grandissimo numero di lettori.
Il filosofo e lo scienziato sentono il dovere di « illuminare » i loro contemporanei, per liberarli dalle vecchie superstizioni e fornir loro una piena consapevolezza intorno all'effettiva situazione dell'uomo. Abbattuta la credenza dogmatica che l 'uomo fosse stato collocato dal creatore al centro dell'universo, si trattava di ridargli una piena dignità facendolo diventare il protagonista e l'artefice
del proprio destino.
N el succedersi degli anni questo nuovo modo di pensare potrà forse venire
deprecato e combattuto, ma nessuno potrà negare che ha rappresentato una tappa
decisiva nello sviluppo della cultura moderna. Senza dubbio eserciterà un'influenza della massima importanza anche su pensatori come Fichte ed Hegel
che certo non rientrano nel quadro della filosofia i)luministica. Nell'Ottocento il
positivismo, pur rifiutando molte tesi illuministiche, verrà considerato il suo diretto continuatore; anche la «sinistra hegeliana » si ispirerà al programma illuminista per rinnovare a fondo le concezioni hegeliane. Pieno riconoscimento,
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o recisa negazione, del valore dell'illuminismo cost1tu1scono ancora oggi, per
così dire, il punto di più evidente distacco fra gli indirizzi (pur diversi fra loro)
che inseriscono nel proprio programma la difesa e lo sviluppo della razionalità
umana e quelli che ne dichiarano il fallimento a favore di altre « dimensioni »
dell'uomo.
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CAPITOLO SECONDO
Trasformazioni nell'impostazione
del problema religioso e morale*
I
· CONSIDERAZIONI PRELIMINARI
I notevolissimi sviluppi realizzati dal pensiero filosofico e scientifico durante
il XVII secolo e all'inizio del XVIII non potevano non riflettersi profondamente
anche nell'ambito delle concezioni religiose, sulle quali per altro verso esercitarono
una diretta influenza le stesse ampie trasformazioni in atto nella vita politicosociale dei popoli europei. Si pensi, per comprendere il peso del primo fattore
(più propriamente teoretico), ai grandi trionfi dello spirito razionalistico ed alla
sempre più manifesta impossibilità di mantenere in vita, accanto ad esso, le superstizioni tramandate dalle epoche precedenti; e per comprendere il peso del
secondo, all'esito disastroso delle guerre di religione, che- malgrado il grande
spargimento di sangue - non avevano portato a completa vittoria nessuna delle
varie confessioni cristiane, onde lo stesso culto poteva venire contemporaneamente giudicato pio o empio secondo che lo si praticasse al di qua o al di là di
certe frontiere, spesso provvisorie, fra gli stati. Oppure si pensi, da un lato, al
rapidissimo ampliarsi dei confini dell'esperienza per effetto delle sempre più
numerose e precise osservazioni scientifiche, ed alla conseguente difficoltà di
inserire tutte queste nuove scoperte nella vecchia concezione del mondo fatta
propria dalla tradizione ebraico-cristiana; dall'altro, al profondo disagio che la
conoscenza di lontane civiltà - del tutto indipendenti da quella europea faceva sorgere in una cultura che era sempre stata abituata a identificare l 'intera
storia del mondo (e degli stessi rapporti fra uomo e dio) con la storia, sia pur
molto travagliata, della cristianità.
Di fronte ad un tale stato di cose, è chiaro che la pura e semplice difesa di rigide posizioni dogmatiche diventava sempre più difficile. Ciò non significa che si
affievolisse nella cultura dell'epoca l'interesse per i problemi religiosi (abbiamo
visto, al contrario, quanto rimanesse vivo in due pensatori della statura di Leibniz
e di Newton); esso tendeva però ad assumere forme nuove, miranti a conciliare
la religione con le nuove vedute della scienza e della filosofia.
Il problema, nel contempo teorico e pratico, su cui si scontravano con maggior
*
All'elaborazione del capitolo ha direttamente contribuito Enrico Rambaldi.
zo
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Trasformazioni nell'impostazione del problema religioso e morale
asprezza gli innovatori ed i conservatori fu quello della tolleranza, di cui già illustrammo l'importanza centrale nel pensiero filosofico-politico di Locke. Nel presente capitolo dedicheremo anzitutto un paragrafo a delineare il significato che
assunse tale problema entro il deismo, il che fornirà l'occasione di tratteggiare i
caratteri generali di questo ampio e complesso indirizzo. Dedicheremo poi un
paragrafo alla grande e singolare figura di Bayle, che costituì uno dei principali
punti di riferimento per i deisti e in generale per gli illuministi (anche se spesso
questi ne interpretarono il pensiero al di là delle sue effettive intenzioni). Sarà così
possibile affrontare un'analisi abbastanza completa, seppure molto schematica, dei
temi fondamentali dibattuti all'inizio del xvm secolo fra apologeti e deisti inglesi, ponendo in luce l'impostazione sostanzialmente comune che essi diedero
ad alcune delle grandi questioni religiose. Dopo una breve esposizione della filosofia di Berkeley - che, ideata per difendere la fede cristiana contro tutti i liberi
pensatori e perfino contro la scienza newtoniana, finirà per aprire la via ad una
forma di idealismo soggettivistico tutt'altro che cristianamente ortodosso - chiuderemo il capitolo con un paragrafo dedicato ai moralisti inglesi, il cui pensiero
è profondamente collegato ai dibattiti intorno al problema religioso.
Prima di entrare nel vivo della trattazione, sarà bene però dire qualche parola su uno dei maggiori rappresentanti della cultura teologica cattolica francese,
accanito oppositore di ogni tendenza seriamente innovatrice in materia religiosa:
il vescovo cattolico (facques BenigneBo-ssuetJI62.7-1704); già lo ricordammo nel
capitolo XVI della sezione precedente, per la decisa resistenza da lui opposta all'iniziativa di Leibniz, rivolta alla riunificazione tra cattolici e protestanti. Egli fu una
delle più autorevoli guide del movimento politico-religioso diffusosi in Francia
nella seconda metà del xvn secolo, che- sostenendo in forma esasperata l'assolutismo intollerante di Luigi XIV- preparò quella rottura radicale fra autorità e
cultura che caratterizzerà gran parte dell'illuminismo francese. La sua posizione
filosofica, che tentava di unificare le dottrine di Agostino, di Tommaso d'Aquino
e di Cartesio, non brillò certo per profondità e chiarezza di idee; ma la sua influenza fu, ciò malgrado, assai vasta, sia per il suo vigore polemico e la sua facondia
di scrittore ed oratore, sia per i suoi legami politici (fu uno dei più accesi sostenitori della tendenza gallicana del cattolicesimo francese). Fra i suoi molti scritti ci
limiteremo a ricordare due opere: il Discours sur l' histoire universelle (Discorso sulla
storia universale, 1681), opera nella quale Bossuet si richiama all'agostiniana distinzione tra città di dio e città terrena e traccia un'ampia filosofia della storia
di tipo provvidenzialistico, e la Histoire des variations des églises protestantes (Storia
delle variazioni delle chiese protestanti, 1688), nella quale sostiene questa tesi: la verità
è per sua essenza unica; quale miglior prova delle falsità delle confessioni protestanti, che la infinita frantumazione dei loro credi? Occorre quindi ristabilire il
principio di autorità in tutto il suo rigore, perché essere tolleranti equivale a per2.1
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Trasformazioni nell'impostazione del problema religioso e morale
mettere ai lupi di entrare liberamente negli ovili degli agnelli; scardinare non solo
la vita religiosa, ma anche quella morale e gli stessi fondamenti della convivenza
sociale e politica.
II
· CARATTERI GENERALI DEL DEISMO
Come abbiamo visto nel corso del capitolo xn della sezione IV, sia in Olanda,
sia soprattutto in Inghilterra, gli scontri dottrinali ed anche cruenti tra cattolici e
protestanti, e tra le varie confessioni protestanti, erano lentamente evoluti verso
una forma di tolleranza religiosa e dogmatica. Nel corso di questo capitolo ci soffermeremo prevalentemente sul pensiero religioso olandese ed inglese.
Naturalmente, il fatto che la tolleranza si sia affermata prevalentemente in
questi due paesi non è dovuto al caso. Erano le due nazioni nelle quali la borghesia
aveva saldamente raggiunto il potere, e quelle in cui più era fiorita la tradizione
giusnaturalistica e il messaggio della pax .ftdei erasmiana. Per la floridezza dei loro
commerci e delle loro industrie in espansione, per la potenza della loro politica
internazionale, marittima e coloniale, le borghesie olandese ed inglese avevano
assoluto bisogno della pace interna. E giacché in quei secoli, come si è visto
nella sezione precedente (si ricordi, oltre alla rivoluzione puritana inglese, la
violenta __J2ol~mi~!_t1::.!!:.. ar!!!ini~L"'_.&Q_m~_ig_i nella quale restò coinvolto Ugo
Grozio), le tensioni politiche e sociali assumevano spesso l'aspetto ideologico di
contrasti religiosi, pace interna significava ricollegamento alla tradizione della
pax .ftdei auspicata già dagli umanisti, difesa sia in Olanda sia in Inghilterra dalla
devotio moderna di Erasmo da Rotterdam, richiesta dall 'irenismo cristiano e razionalistico dei platonici di Cambridge.
Sia in Olanda sia in Inghilterra la lotta per la_!<:>l!~!"-~~~~t. Y.<:!t:~ f<:>.r:!!J.a!~~gigsa
de!l~_jJ..Qfg_h~~~~'- era soprattutto ~-<?§_i?.:L<me alJ>!"i11_9p!Q cattqlico dJ. ~lJJprità.
Non va dimenticato che la rivoluzione inglese era stata fatta contro una dinastia
cattolica, e che l'Olanda aveva conquistato l'indipendenza dopo una cruentissima
lotta contro la cattolica Spagna, ed era perennemente minacciata dalla potenza cattolica francese. Motivi storici e culturali confluirono quindi nel promuovere una
~lle_~~-~_, ~e_l_ _ C::O_I~_<:>___g~l __ ~_Y-!! --~<;:c<;>lq,_~_t:~_!Lp_r.g_te;g~_gt~~!!llo__ più _ _ t<:>.llepl{l te_ e più
« borg~~-~e » ~ itt:liziof1~~~~~~· La ragione divenne spesso, nelle mani dei protestanti tolleranti, uno strumento per dimostrare che Roma era la « Babilonia moderna », e per distruggere ogni attendibilità della dogmatica cattolica (bersaglio
preferito fu spesso il dogma della transustanziazione, cioè della presenza reale
del corpo e del sangue di Cristo nel pane e nel vino dell'eucarestia). Teniamo
presente inoltre che la borghesia tollerante era la stessa che otteneva sempre più
grandiose conquiste scientifiche, che inventava sempre più ingegnose soluzioni
tecniche per risolvere i problemi dello sviluppo e della floridezza economica del
paese. All'inizio del Settecento vi era ormai un principio quasi unanimemente
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Trasformazioni nell'impostazione del problema religioso e morale
accettato: «Non il dubbio, ma il dogma è il nemico più pericoloso del sapere;
non la semplice ignoranza, ma l'ignoranza che si spaccia per verità e si vuol imporre per tale, è quella che intacca la conoscenza nel suo nucleo più intimo e
vero » (Cassirer). Era naturale che questo principio fosse fatto valere non solo
per la scienza, ma anche per la fede.
Per raggiungere la pax ftdei, almeno all'interno delle confessioni protestanti,
si ricorse in un primo momento all'uso della ragione. Ma si trattava di una alleanza che non poteva durare. Ad un più approfondito esame, il dio che, da diversi punti di vista, Spinoza, Cartesio, Locke, Leibniz e i platonici di Cambridge
avevano cercato di definire, non poteva non risultare diversissimo da quello di
tutta la tradizione ebraico-cristiana, patentemente antropomorfico, capriccioso,
vendicativo, geloso, spesso ingiusto, e comunque sempre accompagnato da una
secolare congerie di superstizioni popolari.
A cavallo tra xvii e XVIII secolo l'ammirazione per lo sviluppo delle scienze,
ed in particolare per Newton, era immensa, cosl come era vivissimo l'interesse
per le scoperte geografiche e per le nuove culture che si veniva a sapere esser
esistite da tempi antichissimi (come quella cinese). Proprio questa ammirazione
per la ragione rendeva sempre più difficile accettare senza conflitti una religione
come quella cristiana che, anche nelle confessioni riformate, restava intrisa di superstizioni nate in secoli barbari. Le scoperte astronomiche e geologiche avevano tolto
ogni autorità scientifica alla Bibbia; le scoperte geografiche le toglievano inesorabilmente ogni autorità morale. La vecchia formula scolastica, secondo cui era
vero « quod semper, quod ubique, quod ab omnibus », diveniva manifestamente
insostenibile quando l'ubique si era esteso all'infinito; quando il semper non era più
i cinquemila anni biblici dal giorno della creazione, ma milioni di anni, come la
geologia dimostrava; quando gli omnes non erano più, oltre ai cristiani, soltanto i
turchi e gli arabi, che avevano avuto conoscenza del messaggio evangelico pur
avendolo rifiutato, ma anche i civilissimi cinesi o gli aborigeni americani, africani ed australiani, ignari- senza loro colpa- che più di un millennio e mezzo
prima era nato Cristo. Come conciliare con l'idea di un dio giusto il dogma che
chi non credeva in Cristo sarebbe stato dannato, quando era evidente che la stragrande maggioranza dell'umanità « non aveva potu.to » conoscerlo? I vecchi dogmi, sia cattolici sia protestanti, sul peccato originale, sulla salvazione e sulla dannazione, non potevano non apparire- a un numero sempre maggiore di persone
- sostanzialmente incompatibili con l 'idea di un dio giusto e razionale, cioè
con la stessa ragione.
Già _Herbert di Cherbury, come abbiamo visto, si era posto questi problemi,
ed aveva cercato di definire una religione universale, puramente razionale. Ma
con ciò stesso aveva cessato di essere un pensatore « specificamente » cristiano.
Egli può essere considerato il primo esponente· del deismo inglese.
La tolleranza non fu dunque una semplice manifestazione di lassismo o di
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T:t:asformazioni nell'impostazione del problema religioso e morale
indifferentismo nei confronti dei problemi religiosi (e quindi dei problemi morali
ad essi connessi). Fu, al contrario, l'espressione di una esigenza che racchiudeva
in sé un'enorme carica morale.
Si trattò inizialmente di un'ardita presa di posizione di molti pensatori protestanti, diametralmente opposta a quella di Bossuet: poiché le credenze religiose
sono diverse, anziché reprimerle tutte ad eccezione di una (da imporsi con tutti i
mezzi dell'autorità spirituale e secolare), indaghiamo: la ragione, dataci da dio, ci
consentirà di trovare, al di là di tutte queste «variazioni» (che vanno rispettate),
un credo fondato su alcuni punti comuni. La dottrina che risulterà da questa analisi
sarà certamente l'essenza della religione cristiana; solo nella tolleranza, non nella
faziosità, troveremo i fondamenti di una morale comune ai cristiani. Gli apologeti che imboccarono questa strada - e furono parecchi - si fermarono però a
mezza via, cercando, pur nella tolleranza, un credo comune a tutte le confessioni
cristiane (o almeno a quelle protestanti). I deisti fecero un passo più in là: prendiamo come campo di indagine, dissero, tutto il mondo, non solo quello cristiano; avremo allora se non una religione e una morale specificamente cristiane,
quanto meno i fondamenti razionali di una religione ed una morale specificamente
umane, naturali.
Già in Bayle- come vedremo fra poco- risultava chiaro che la tolleranza
recava in sé tal une implicazioni scettiche; sarà proprio la polemica p luri decennale
tra deisti ed apologeti a portarle sempre più in luce. L'esigenza della tolleranza
partiva in fondo anche dalla constatazione che secolari diatribe teologiche, lungi
dal chiarire gli articoli fondamentali della fede, li avevano resi più confusi ed
oscuri. Di fronte a questo sconfortante panorama, il dubbio non era più sintomo
di mera incredulità, ma pure di onestà intellettuale e morale.
Merita di venire sottolineato che anche in chi non ponesse consciamente il
dubbio alla base della propria ricerca in campo religioso, le implicazioni scettiche
assumevano un rilievo via via crescente. Possiamo ricordare a questo proposito l'arcivescovo di Canterbury John Tillotson (1630-94), avversario degli
Stuart, che verrà citato con molta stima da David Hume. Tillotson fu un campione della polemica anticattolica, ed in particolare confutò la transustanziazione.
Come i platonici di Cambridge egli dichiarava, contrariamente a Bayle, che pretendere che dio ci abbia rivelato alcunché di contrario alla retta ragione è bestemmia. Nel combattere il dogma dell'eucarestia romana, egli finì tuttavia per usare
di fatto argomentazioni scettiche, che ridicolizzavano la pretesa di credere a qualche cosa che non solo non ci fosse attestato, ma anzi ci fosse contraddetto dall'esperienza sensibile. Proprio per questo suo atteggiamento sostanzialmente scettico molti deisti si richiameranno a lui, considerandolo addirittura un campione
del «libero pensiero».
Del resto tentare la dimostrazione razionale di un articolo di fede, fosse pure
il più importante di tutti (l'esistenza di dio), significava esporsi a contraccolpi
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scettici, poiché comportava il sottoporre al vaglio critico degli avversari la propria
dimostrazione. È rimasta famosa a questo proposito l'affermazione del deista
Collins: nessuno aveva dubitato dell'esistenza di dio prima che Clarke si figgesse
in capo di dimostrarla. Ecco perché si può affermare che con la filosofia di Hume
la controversia deistica si chiuda: il grande filosofo scozzese dimostrerà in modo
inequivocabile che di tutto ciò che non concerne questioni di fatto basate sull'esperienza o relazioni tra idee (matematica) è inutile discutere, perché si tratta
di mere sofisticherie metafisiche e teologiche che meritano solo di essere abbruciate.
Per meglio comprendere alcune astruserie del dibattito che stiamo per esporre
- ad esempio certe apparentemente inspiegabili concessioni fatte dai deisti ai
loro avversari- sarà bene ricordare che la tolleranza (perfino in Inghilterra) non
proteggeva l'ateo, e che nell'opinione comune i deistL_çt.:a,Jl() C()nsiderati, al pari
. c1ei liberi pensato_!~~~L~~~ C!J!/!1~. Vi fu anche chi distinse__tr__ ~-i_~fil e deis~~ indicando con il primo termine coloro che credevano in un 9:!o _p~~~onale ~--!!:.~~~!!:- o':)
_dente..... che seguisse provvidenzialisticam~!!t~.l des_!:ini c1el__m.on_9.g, e.~ con il secondo chi, QP.....!__çg:g~f!.<!Q..lt_l__U..t! cliC?, pet}saya,___ çhe questiavesse abbahdonato il.k:;
mondo alle sue kgg!_ç!~!.f!.ç_ ~c:l . i~!PU.t:~J?!U, e non si curasse di operare miracoli
o rivelazioni. Ma si tratta di una distinzione fluttuante, perché costringe ad una
casistica pedante per distinguere poi da costoro gli atei dichiarati, i panteisti, i
teisti che credevano ad un dio personale ma non alla rivelazione, ecc. Del resto
storicamente è accaduto che i vari autori di cui tratteremo usassero i termini di
deista, ateo, panteista e libero pensatore come sinonimi. Per ragioni non solo di
sinteticità, ma anche di chiarezza, noi distingueremo quindi solo due grandi filoni: quello apologetico e quello deistico, cercando di precisare autore per autore
il valore specifico di questi termini generali.
III
· PIERRE BAYLE
Pierre Bayle nacque il 18 novembre 1647 a Carlat, una cittadina calvinista
della Francia meridionale. Educato in lettere e teologia dal padre, pastore protestante, all'età di 19 anni si recò alla scuola superiore calvinista di Puylaurens, ove
studiò appassionatamente Plutarco e Montaigne. Nel 1669 ottenne il permesso di
immatricolarsi all'università cattolica di Tolosa, diretta dai gesuiti, e cominciò
uno studio sistematico di filosofia. Dopo poche settimane dal suo arrivo nella
città costiera, si convertì al cattolicesimo, ma solo per riconvertirsi al protestantesimo poco più di un anno dopo. Poiché le leggi francesi contro gli eretici
relapsi (recidivi) erano molto severe, lasciò il regno e si recò a Ginevra in qualità
di precettore, proseguendo gli studi ed appassionandosi alla filosofia di Descartes.
Certo l'esperienza di questa duplice abiura fu assai importante per Bayle, perché gli permise di sperimentare di persona con quanta facilità ci si potesse
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Trasformazioni nell'impostazione del problema religioso e morale
ingannare nella pretesa di risolvere con mezzi razionali le questioni teologiche.
Nel 1674 Bayle tornò in Francia, recandosi sempre come precettore a Rouen.
Nella primavera del '75 si trasferì, con lo stesso incarico, a Parigi; nell'autunno
di quello stesso anno vinse un concorso per una cattedra di filosofia all'università
calvinista di Sédan, grazie anche all'appoggio del teologo riformato Pierre Jurieu
(1637-1713). Per sei anni Bayle insegnò e studiò molto intensamente, concedendosi solo brevi viaggi, finché nel 1681 Luigi XIV decise di chiudere le scuole superiori protestanti. Dopo un breve soggiorno a Parigi, Bayle venne chiamato
dalla neonata École illustre di Rotterdam. Ricambiando il favore ricevuto anni
prima, si adoperò con successo perché venisse chiamato anche Jurieu. Nel 1682
pubblicò, anonimo, uno scritto composto l'anno prima: Pensées diverses écrites à
un Docteur de Sorbonne, à l'occasion de la comète qui parut au mois de décembre z68o
(Pensieri diversi scritti ad un dottore della Sorbona a proposito della cometa apparsa nel
mese di dicembre del z68o). L'avvenimento era stato interpretato dal popolino e
da molti teologi come un segno della collera di dio. Bayle invece non solo diede
una spiegazione scientifica e razionale del fenomeno, ma soprattutto criticò la
credenza che dio ricorresse a mezzi così triviali per annunciare i propri castighi:
tale credenza, frutto della superstizione, rappresentava secondo lui la negazione
della vera religione.
In Francia frattanto si stava preparando l'opinione pubblica alla revoca dell'editto di Nantes (che avverrà nel I685). Nel I68z, un esponente della corrente
gallicana, Louis Maimbourg, pubblicò una Histoire du calvinisme (Storia del calvinismo) che conteneva infami calunnie contro i riformati. Bayle replicò con una mordace Critique de l' histoire générale du calvinisme (Critica della storia generale del calvinismo,
I68z), che venne arsa pubblicamente per mano del boia a Parigi. Tre anni dopo
uscirono le Nouvelles lettres de l'auteur de la Critique générale (Nuove lettere dell'autore
della Critica generale).
Nel I 684 si fece promotore di una rivista mensile, « Nouvelles de la République cles Lettres », che redasse personalmente fino al 1687, quando una grave
malattia lo costrinse a rinunciare all'impresa. L'organo continuò sotto la direzione di un amico di Bayle, Basnage, con il nuovo titolo di « Histoire cles ouvrages cles savants ».
Pur difendendo i riformati dalle calunnie di Maimbourg e della pubblicistica
cattolica, appoggiata da Luigi xiv, Bayle non sposò mai fanaticamente la causa
protestante, bensì trasse sempre argomento dalle persecuzioni per riaffermare la
necessità della tolleranza. Questo lo portò ad una rottura con J urieu. Mentre il
nostro autore nello scritto Ce que c'est que la France toute catholique, sous le règne de
Louis le Grand (Che cosa è la Francia interamente cattolica sotto il regno di Luigi
il Grande, I68 5) invitava alla moderazione, Jurieu pubblicava Le vrai système de
l'église (Il vero sistema della chiesa, I686), opera in cui, quanto ad intolleranza, si
metteva sullo stesso piano dei gesuiti. Nel 1686 Bayle pubblicò i primi due volumi
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Trasformazioni nell'impostazione del problema religioso e morale
del suo capolavoro contro l'intolleranza: Commentaire philosophique sur ces paro/es de
jésus-Christ « contrains-les d'entrer », ou Traité de la tolérance universelle (Commentario
filosofico su queste parole di Gesù Cristo «costringeteli ad entrare», o Trattato della tolleranza universale). Nel 1687 apparve uno scritto di Jurieu, Des droits des deux souverains, la conscience et le prince, en matière de religion (Dei diritti dei due sovrani, la
coscienza ed il principe, in materia di religione), in cui si sosteneva che la tolleranza
spirituale verso l'errore era indice di lassismo morale. Bayle replicò nel terzo
volume del Commentario (1687), sostenendo che la tolleranza non era lassismo,
bensì frutto di umiltà cristiana, di modestia intellettuale, di fiducia in dio e di
amore per la verità. I due si scambiarono altri colpi con scritti polemici, finché
nel 1691 Jurieu sporse denuncia presso le autorità olandesi, accusando l'ex amico
di essere un sovvertitore dei costumi religiosi, politici e morali, un agente segreto
dell'assolutismo di Luigi XIV.
Le autorità olandesi gli diedero ragione, e privarono Bayle della cattedra,
proibendo gli anche l 'insegnamento privato. Questo ultimo divieto venne poi
tolto, ed a Bayle giunsero molte offerte onorevoli e vantaggiose, ma egli non ne
accettò nessuna, e preferì vivere frugalmente dedicandosi completamente agli
studi, lavorando febbrilmente ad un'opera che aveva progettato dal 169o, e di
cui aveva pubblicato un estratto nel 1692. dal titolo Projet d'un dictionnaire critique
(Progetto di un dizionario critico). Nel 1694 pubblicò le Additions aux Pensées diverses
sur /es comètes (Aggiunte ai pensieri diversi sulle co1nete); nel 1695 apparve il primo
volume del Dictionnaire historique et critique (Dizionario storico e critico), seguito dal
secondo volume nel 1697. Jurieu ricorse nuovamente alle autorità, denunciando il
Dizionario come monumento di empietà, ma questa volta venne sconfitto: a
Bayle vennero imposte solo alcune modifiche marginali, che apportò nella seconda
edizione (1702.). Le ultime opere del nostro sono la Réponse aux questions d'un
provincia/ (Risposta alle domande di un provinciale, 1703-o6), la Continuation des
pensées diverses sur /es comètes (Continuazione dei pensieri diversi sulle comete, 1704),
oltre ad alcune opere polemiche contro teologi razionalisti. Morì il 2.8 dicembre
del 1706, dopo aver lavorato sino alla sera prima.
a) Scetticismo e ragione
Nonostante che il Dizionario sia poi divenuto l'arsenale erudito dei deisti,
dei philosophes e degli increduli, Pierre Bayle, pensatore non sistematico nel quale
convivevano razionalismo e scetticismo, fu indubbiamente un apologeta. Fu anzi
tra i primi apologeti riformati a rompere l'alleanza tra protestantesimo e razionalismo, ed a fare dello scetticismo, in campo teologico, un preambulum ftdei.
Per quanto concerne la conoscibilità degli articoli di fede, Bayle è decisamente pirroniano, e spinge il suo dubbio ben al di là di quello metodico di Cartesio o di quello scettico-atomistico di Gassendi. Al fondo del dubbio iperbolico,
Cartesio aveva trovato l'evidenza come solido fondamento di una scienza sistema-
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tica e sicura, garantita da dio. Gassendi ed i libertini avevano polemizzato con
Cartesio, sostenendo che l'evidenza era pur sempre sensazione, e quindi non poteva essere fondamento di una conoscenza razionale. Bayle, in uno scolio alla voce
« Pirrone » del Dizionario, va molto più in là, criticando sia l'evidenza sensibile,
sia quella razionale. Della prima osserva, ad esempio, che se noi ammettiamo la distinzione tra qualità primarie e secondarie, introdotta da Galileo ed unanimemente,
quasi, accettata nel Seicento, ed ammettiamo che le qualità secondarie siano solo
soggettive, siamo forzati ad ammettere la possibilità che siano soggettive anche
le qualità primarie: « Se gli oggetti dei nostri sensi ci appaiono colorati, caldi,
freddi, profumati, pur senza esserlo, perché non potrebbero sembrarci estesi e
forniti di figura, in quiete e in movimento, anche senza possedere nulla di ciò? »
Quanto all'evidenza razionale, essa non può essere accettata senza grave pregiudizio per la fede: « È evidente che le cose che non differiscono da una terza non
sono differenti tra di loro: questa è la base di tutti i nostri ragionamenti, e su ciò
si fondano tutti i nostri sillogismi; e tuttavia la rivelazione del mistero della Trinità ci assicura che questo assioma è falso. »
La conclusione sarà, secondo Bayle, che la fede è vera ma imperscrutabile:
«Non ci si deve dilettare nella disputa con i pirroniani, né immaginare che i loro
sofismi possano essere facilmente elusi con le sole forze della ragione: occorre
invece innanzitutto far sentire loro l'infermità della ragione, affinché il sentimento
li conduca ad una guida migliore, che è la fede. »
Ma nonostante questa e molte altre affermazioni scettiche, Bayle non era, di
fatto, un antirazionalista. Formatosi nello spirito del cartesianesimo, nonostante
la critica, sub specie theologiae, del criterio dell'evidenza, assimilò dal fondatore del
meccanicismo e da Malebranche principi che non abbandonò mai. Il dualismo
cartesiano diviene anzi in Bayle la traduzione filosofica di una netta separazione
tra teologia e filosofia: nel campo del divino, l 'uomo non può che accettare la
rivelazione, ma nel campo dell'umano (sia· della scienza, sia della storia sia della
morale), la ragione deve guidarci in una tenace ricerca della verità: «Nella vera
filosofia è un procedimento irragionevole affermare qualche cosa di cui non si
ha una rappresentazione chiara e distinta. Proprio perché Cartesio ha dato questa
legge a chiunque voglia divenire filosofo egli ha dato, nel nostro secolo, un così
grande contributo al compimento della ragione, mettendola in condizione di scacciare i vecchi errori e di evitare i futuri» (Nuove lettere critiche).
Se quindi Bayle non consente ai sociniani ed ai libertini di negare la trinità
perché non è razionale, nemmeno consente ai teologi di sostenere filosoficamente
la razionalità di proposizioni rivelate. Tipica da questo punto di vista la sua polemica contro la teologia razionalistica che cercava di risolvere il problema del
male « dimostrando » la solidarietà dell'intero genere umano nel peccato originale
di Adamo.
Nella Risposta alle domande di un provinciale, Bayle espone i punti fondamentali
z8
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del razionalismo teologico riformato: dio è onnisapiente, onnipotente, ecc., e
scelse dall'eternità di creare l'uomo, rendendolo libero di obbedirgli o no, ma
minacciandolo di grave castigo se non avesse obbedito. Disobbedendo, Adamo
ed Eva corruppero insanabilmente sé e la propria discendenza. Nella sua misericordia, dio scelse tuttavia alcuni predestinati, per salvare i quali regge provvidenzialisticamente il mondo intero, senza mai svelare chi sarà salvato e chi dannato.
Orbene Bayle osserva che questa dottrina non può essere fondata razionalmente. Alla ragione appare infatti chiaro che dio creò il mondo per bontà, quindi
per la felicità delle creature. Egli pertanto non può né poté mai esigere dalle
creature che le azioni « buone » fossero tali proprio perché in contrasto con le
inclinazioni naturali degli uomini. Lo stesso libero arbitrio non sarebbe mai stato
dato da dio agli uomini, se non avesse saputo che ne avrebbero fatto buon uso,
perché non è segno di bontà regalare una magnifica seta ad un uomo, sapendo che
egli l 'userà per impiccarsi. Inoltre dio certo odia il male, ma il vero odio del
male non è nel punirlo, bensì nel prevenirlo, cosa che dio poteva fare, sia in
ambito fisico sia in ambito morale, grazie all'onnipotenza. Se non lo fece, egli
risulta, filosoficamente, il primo responsabile del male, e quindi è malvagio.
Quanto alla dottrina della predestinazione, essa cozza contro il concetto razionale
di giustizia: chi potrebbe definire giusto un sovrano che, punendo una città, massacrasse tutti gli abitanti, salvo alcuni scelti a proprio arbitrio?
I confini che Bayle traccia tra fede e ragione sono quindi rigorosi: la ragione
non può pretendere di criticare la fede, pena il precipitare essa stessa nel pirronismo; ma la fede, dal suo canto, non può strumentalizzare la ragione, pena il
cadere nell'incredulità.
Sul problema del male, Bayle fu in aperto contrasto con Leibniz che, come
sappiamo, lo giustificava con la teoria del migliore dei mondi possibili. Dal punto
di vista strettamente filosofico, per Bayle la sola dottrina accettabile è quella del
manicheismo - alla quale è dedicata una delle più importanti voci del Dizionario - assai più comprensibile che non quella dell'armonia prestabilita o del
peccato originale. Si accetti per fede la falsità del manicheismo, afferma Bayle,
ma non si pretenda di dimostrarla razionalmente.
b) La storia
L'aspetto razionalistico della complessa personalità culturale del nostro autore
si manifesta soprattutto nel suo capolavoro, il Dizionario, opera che affronta un
problema del tutto nuovo: la ricerca della « verità » dei fatti storici. In ambito
storico il problema della certezza si pone diversamente che in ambito scientifico:
per Cartesio, il mondo della storia esulava dal regno della conoscenza certa, perché
egli negava ogni fatto che non fosse riducibile ad assiomi evidenti, al modello
meccanico, a dimostrazioni rigorose. Anche in Male branche la storia ha una fun-
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zione esclusivamente negativa, servendo solo a far risaltare maggiormente la verità atemporale, astratta e rigorosa della matematica e della logica. Bayle invece
si avvale di un dubbio di incontestabile origine cartesiana proprio per conquistare
la conoscenza di fatti storici veramente sicuri. Il suo dubbio è però rivolto non
contro il fatto storico, bensì contro l'errore che può velarlo o falsarlo; è un dubbio
che porta alla scoperta, alla documentazione, alla prova della verità storica. Conscio
che la certezza storica è meno rigorosa di quella matematica, Bayle sottolinea che
per altri versi essa è più certificabile: è più certo che in rerum natura sia esistito
un uomo di nome Cicerone, afferma, che non il triangolo isoscele perfetto del
quale, pur con estremo rigore, discorre Euclide.
Bayle non ha però ancora una visione organica e coerente della storia; in lui
l'amore, la passione per la ricerca del singolo fatto è tale, che sceglie la forma
coordinata del Dizionario anziché quella subordinata di una filosofia della storia
o quella organica di un trattato storico vero e proprio. Nel Dizionario avvenimenti importantissimi ed avvenimenti insignificanti sono messi sullo stesso piano.
Anche in questo campo, inoltre, la complessità della sua personalità rasenta la
contraddizione. Il suo pessimismo di derivazione calvinista sulla natura dell 'uomo ed il suo pur parziale scetticismo gli facevano, da un lato, considerare la
storia più come un coacervo di delitti ed infamie dovuti all'intolleranza ed al
fanatismo che non come un progresso verso la ragione. Ma, d'altro lato, egli
mostra anche di credere che da questo cumulo di macerie e di follie si possa trarre
un insegnamento positivo, e considera la storia come magistra vitae della nuova
scienza, della morale, della tolleranza.
Ad ogni modo, quel che è certo è che l'infaticabile tenacia con cui Bayle
svela l'errore e denuncia la superstizione e l'intolleranza, l'estrema acutezza con
cui studia le condizioni di verità ed attendibilità dei fatti storici - condizioni che
dipendono unicamente dai « principi universali della nostra conoscenza » -fanno
sì che egli sia stato giustamente definito il « fondatore della " acribia " storica ».
Non solo: Bayle fu anche il primo moralista di questa disciplina: nella storia egli
applicò concretamente e serenamente la tolleranza, respingendo ogni faziosità e
dichiarando: come storico sono «esclusivamente al servizio della verità; questa
è la mia unica regina, alla quale ho prestato giuramento di obbedienza».
c) Autonomia della morale e toll~ranza religiosa
La riflessione di Bayle sulla tolleranza ha due cardini: uno la ricerca storica,
che mostra le infinite rovine causate dal fanatismo; l'altro il rifiuto, decisamente
razionalistico, di accettare, nell'ambito dei fenomeni che concernono la esperienza umana, le imposizioni della rivelazione. Lo scetticismo, che in campo teologico era preambulum ftdei, qui scompare, col che ci appare chiaro che esso era
soprattutto un rifiuto della sedicente conoscenza razionale di dio e della rivelazione, non un rifiuto globale anche del mondo dei fatti umani. E la morale, questo
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è importantissimo, per Bayle è un fatto umano. Per credere al dogma della trinità, la legge di non contraddizione è non solo superflua, ma dannosa. Ma per
dare un giudizio del comportamento di re Davide, e dei comandamenti positivi
della Bibbia, il principio di non contraddizione, ed in generale la evidenza razionale di stampo cartesiano, è validissima. Ciò nonostante che Davide ed i comandamenti positivi della morale cristiana abbiano la stessa fonte dei dogmi: la rivelazione. Come da un lato Bayle rende intangibile, con il pirronismo, l'aspetto
teologico della fede, così dall'altro rende criticabile, per mezzo del razionalismo,
l'aspetto fattuale, positivo, storico, morale della rivelazione, e dà un grandissimo
impulso alla critica storica della Bibbia.
Già nei Pensieri diversi Bayle aveva osservato che il continuo richiamarsi ai
Vangeli non impedì mai ai governi ed alle chiese cristiane di macchiarsi dei più
orrendi delitti. È quindi evidente che la morale non dipende dalla confessione
religiosa, giacché gli antichi stati pagani non erano certo peggiori degli odierni
stati cristiani, ed uno stato governato da atei non si differenzierebbe da nessuno
stato europeo. « Ciò pone in luce che nulla è più esposto alla illusione che la
tendenza a giudicare i costumi di un uomo in base alle opinioni generali che ha
ricevuto. Ancor peggio è giudicare le sue azioni in base ai suoi libri ed alle sue
orazioni, che sono pessime garanzie delle inclinazioni dell'autore.» Il comportamento è condizionato in massima parte dalle passioni e dalla abitudine, certo non
dalla confessione religiosa.
Se quindi la religione positiva non serve, di per sé, al controllo delle passioni, ciò significa che quegli uomini che tentano di raggiungere questo controllo,
che si sforzano di essere virtuosi, fanno riferimento ad una morale naturale,
uguale per tutti. Non vediamo forse antichi pagani essere esempi di altissime virtù?
Atei sacrificare la vita pur di non negare la propria convinzione che dio non
esista? Vi è quindi una unica morale naturale per tutti gli uomini, e la santità
non è tale perché ci viene comandata da dio, ma ci viene comandata da dio
perché è santità.
La morale naturale si fonda sul controllo razionale delle passioni; e questo
controllo si esercita anche nei confronti della Bibbia. Se i molti massacri ordinati
da antichi profeti ebrei contro gli idolatri erano santi solo perché quel profeta si
vantava di essere la bocca di dio, allora hanno ragione i libertini, i quali dicono
che sono giusti anche tutti gli altri massacri. «Non esiste una terza soluzione: o
queste azioni sono indegne, oppure le azioni simili ad esse non sono malvagie »
(Dizionario).
Questo concetto dell'indipendenza della morale dal senso letterale della rivelazione è espresso limpidamente nel Commentario filosofico, che confuta l'interpretazione letterale di un versetto ,del Vangelo di Luca, «costringeteli ad entrare»
(xrv, 23); versetto che i sostenitori di Luigi xrv citavano a sostegno del diritto
di perseguitare gli eretici. Secondo Bayle, « tout sens littéral qui contient l'obli-
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gation de faire cles crimes est faux » («ogni senso letterale che contiene l'obbligo
di compiere dei crimini è falso»). Nell'uomo esiste una «idea naturale di equità»;
orbene « occorre sottoporre tutte le leggi morali, senza eccezione, a questa idea
naturale di equità che, al pari del lume metafisica, illumina ogni uomo venuto al
mondo». L'equità naturale è «il termine di paragone di tutti i precetti e di tutte
le leggi particolari - senza eccettuare quelli che Dio ci ha rivelato ».
La tolleranza, oltre che l'unico mezzo per evitare gli orrori e le infamie denunciati dalla ricerca storica, è anche un dovere morale. Bayle è infatti un deciso
sostenitore del fatto che lo sbaglio, purché non volontario, non è colpa, quindi della legittimità della coscienza errante: «Un uomo non può mai agire contro i lumi
. della sua coscienza errante, senza commettere un delitto. » Certo egli è responsabile se l'errore è dovuto a pigrizia mentale; ma un uomo che credesse in perfetta
buona fede ad una confessione errata, fosse pure il paganesimo, che non si fosse
mai convinto di altra religione, e non esigesse il rispetto della propria fede pagana, « incorrerebbe davanti a Dio nel delitto di aver disprezzato la verità »
(Aggiunte ai pensieri diversi). .
IV · IL DEISMO INGLESE
La discussione sulla validità di ogni religione che si pretenda rivelata riveste,
nel deismo inglese, due aspetti: il problema dell'evidenza «interna» della religione, e cioè l'esame se la rivelazione presa in sé, a prescindere dai suoi monumenti storici, sia giusta e ragionevole o no, sia necessaria o no all'uomo ed alla
salvezza; ed il problema dell'evidenza «esterna», cioè l'esame rivolto ad appurare se quegli stessi monumenti storici - che per la religione cristiana sono
l'Antico ed il Nuovo testamento - siano o no degni di fede proprio in quanto monumenti storici. Nel corso della nostra trattazione esporremo separatamente i due aspetti, non mancando di far via via rilevare le loro strette connessioni.
a) Il problema dell'evidenza interna
Come si è visto nella sezione precedente, nel r695 Locke aveva pubblicato
un'opera intitolata Ragionevolezza del cristianesimo. Anche se il pensiero di questo
filosofo fu senza dubbio uno dei punti di partenza del deismo inglese, esso può
essere considerato un pensiero apologetico, soprattutto in quest'opera. L'atteggiamento metodico dello scritto è lo stesso che quello del Saggio sull'intelletto
umano: dirimere le questioni per mezzo di un esame spassionato, condotto con la
ragione e verificato empiricamente. In questo caso, la « verifica » era la lettura
dei Vangeli: Locke li lesse prescindendo dai commenti e dalle chiose della scolastica, e quando pubblicò i risultati della sua ricerca era convinto di poter ottenere ciò che aveva almeno in parte ottenuto con il Saggio: spazzare via le pe3Z
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danterie inutili e dannose. Il suo assunto era semplicissimo: quando battezzavano, Cristo e gli apostoli non avevano chiesto nessuna professione di fede nel
credo di Nicea, nella confessione augustana o negli articoli della chiesa anglicana, bensì solo di credere che Cristo fosse il messia inviato da dio. Certo credere in Cristo comporta anche credere in ciò che egli ci ha testimoniato nel
Nuovo testamento, ma pretendere di fare un catalogo degli articoli di fede è cosa
vana: ogni uomo lo può fare da solo, giacché dio dà a tutti la illuminazione necessaria. Anche Locke, come Bayle, difende quindi la coscienza errante: l'errore
intellettuale nell'interpretazione delle Scritture non solo non è peccato, ma al limite neppure esiste, a meno che non vi sia una deliberata volontà di alterare il
testo.
Questa semplicità nascondeva però molti problemi, sentitissimi dai più acuti
spiriti della cristianità sin dai tempi medievali, e resi sempre più urgenti dalla
riscoperta dei classici greci e latini, attuata già dagli umanisti, e dalle grandiose
scoperte geografiche. I cinesi, popolo civilissimo che non poté mai conoscere
la predicazione di Cristo, sono necessariamente dannati? E Socrate, Aristotele,
Platone? Su questo punto Locke mostra qualche incertezza: egli ha troppo amore
giusnaturalistica per la giustizia e l'equità per ammettere che la stragrande maggioranza degli uomini sia dannata senza colpa, ma non vuole rinunciare al fatto
che la rivelazione sia necessaria, altrimenti proprio quell'unico articolo fondamentale, la fede nel messia, diverrebbe superfluo. Il problema viene risolto con
un compromesso: la rivelazione messianica era necessaria da un punto di vista
pratico. Certo alcuni uomini di eccelsa intelligenza possono anche giungere a dimostrare l'esistenza del vero dio e la necessità del messia, ma per la maggior
parte del genere umano un simile risultato sarebbe irraggiungibile. È proprio
per equità che dio ci ha inviato il messia: perché tutti gli uomini - anche se non·
tutti simultaneamente - potessero giungere alla salvezza; non solo i filosofi
e gli eccelsi ragionatori, ma anche i ciabattini, le massaie, gli analfabeti.
Seppur apologetica, la concezione di Locke ha la caratteristica di basarsi unicamente sulla ragione. Essa nega a chicchessia l'autorità di stabilire quali debbano essere gli articoli fondamentali di un cristianesimo ortodosso.
Erano passati solo due anni dalla pubblicazione dello scritto lockiano quando
le sue potenzialità deistiche vennero in piena luce: nel 1696 John Toland (16691722), richiamandosi a Locke sia nel titolo sia nel metodo, pubblicò uno scritto
intitolato Christianiry not mysterious (Cristianesimo non misterioso). Di Tol~nd si possono ricordare anche altre opere: Nazarenus (1718), nella quale sostiene che i veri
seguaci di Cristo furono una setta ebraica che da un lato continuava ad osservare
la legge mosaica, dall'altro considerava Gesù un profeta uomo; le Letters to Serena
(Lettere a Serena), dedicate alla regina di Prussia, nelle quali sostiene che tutte le
forme di religione positiva sono superstizioni nate in epoche barbare; il Pantheisticon (172.0), opera parzialmente spinozista nella quale sostiene l'uniformità della
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natura, esclude i miracoli, nega la catastrofe diluviana e fa addirittura una parodia
della religione cristiana e della sua liturgia.
Nel Cristianesimo non misterioso il metodo lockiano è spinto sino ad affermare
che nel cristianesimo non esistono contraddizioni di ragione, cioè « misteri ».
La conoscenza, afferma il nostro autore citando Locke, è percezione dell'accordo o
disaccordo tra idee; ma in campo teologico le idee, come mostra la grande varietà delle confessioni, sono tanto confuse che ogni serio paragone è impossibile. Occorre quindi attenersi al metodo newtoniano, che Toland usa con venature scettiche marcate: sulle cause ultime, forzatamente incerte, meglio vale
sospendere il giudizio, astenendosi da formulazioni azzardate. Le conseguenze in
campo religioso sono rimarchevoli: in primo luogo non possiamo andare oltre
quanto ci dice la ragione, e quindi non possiamo accettare nulla che abbia carattere contraddittorio; in secondo luogo, della Bibbia non possiamo accettare se
non quanto presenta la massima attendibilità per la ragione. Per « misteri »
dunque, spiega Toland, si deve intendere non già una proposizione « incomprensibile», bensì una proposizione «rivelata», fermo restando che la circostanza che una proposizione ci sia stata rivelata non significa affatto che essa non
possa essere compresa. Ogni proposizione « incomprensibile » è per Toland pregiudizialmente inaccettabile, ed a questo proposito usa un'argomentazione rimasta famosa: «Una persona che avesse l'assoluta certezza che nella natura esiste
un essere chiamato blictri, e nel contempo non sapesse che cosa sia questo blictri,
potrebbe nutrire giustamente fiducia nella propria conoscenza? »
Tutto sta quindi nel giudicare quali dogmi cristiani siano dei blictri e quali
no. La trinità di dio, ad esempio, è un blictri? La risposta di Toland si basa ancora
sulla filosofia di Locke: delle cose, noi possiamo conoscere solo l'essenza nominale, non quella reale. I dogmi sono quindi conoscenze relative nel senso in cui sono
relative anche le nostre conoscenze scientifiche, ma non « misteriosi », in quanto
deve sempre essere possibile conoscerne i nomi (che corrispondono alle idee)
percependone l 'accordo o il disaccordo con altri nomi. Toland, certo per prudenza, non si pronuncia né sulla trinità né su altri dogmi fondamentali, e la sola
dottrina che rigetta esplicitamente è quella cattolica della transustanziazione. Tuttavia le radicali implicazioni deistiche della sua dottrina sono evidenti: il cristia- ·
nesimo non è misterioso solo perché le sue proposizioni di fede sono relative; e'
tra queste, quelle che appaiono contraddittorie sono senz'altro da respingere.
Le reazioni che l'opera di Toland suscitò furono violente. Locke sconfessò
ogni paternità indiretta dello scritto, e Samuel Clarke (1675-172.9), nelle Boy/e
lectures (1704-05) - di particolare rilievo A discourse concerning the being and
attributes oj god (Discorso concernente l'essere e gli attributi di dio, 1705), e A discourse
concerning the unchangeable obligations of natura/ religion, and the truth and certainty
of the christian revelation (Discorso concernente gli immutabili doveri della religione naturale e la verità e certezza della rivelazione cristiana, 1705) -,tentò di correre ai ripari
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dando una dimostrazione apologetica della verità del cristianesimo. Ispirandosi
sia a Locke, sia a Cartesio, sia a Newton, Clarke ambiva a costruire un saldo edificio
teologico basato su verità chiare e distinte e cementato da dimostrazioni assolutamente rigorose, seguendo il procedimento antologico a priori che sarà poi
aspramente criticato da Hume e da Kant.
Con una catena di dodici proposizioni Clarke pensa di poter dimostrare l'esistenza di dio con la stessa certezza con cui Euclide studiò le proprietà dei triangoli. Il succo della sua argomentazione è questo: tutti gli esseri di questo mondo
sono effetti dipendenti da qualche causa finita; presi nel loro complesso, questi
effetti e queste cause finite costituiscono una catena di esseri dipendenti. Ma supporre che una catena di esseri dipendenti sia, nel suo complesso, indipendente ed
increata è contraddittorio, perché la proprietà di un tutto è pari alla somma delle
proprietà delle parti. Ergo esiste un essere indipendente, causa sui, creatore degli
esseri finiti e la cui non esistenza è contraddittoria. L'universo materiale, anche se
preso nel suo complesso, non può essere questa causa sui, perché noi possiamo
pensare l'annichilimento della materia senza cadere in contraddizione. Si tratta
quindi di un essere spirituale: dio.
Clarke ammette che non è possibile all'uomo conoscere a priori tutti gli attributi di questo essere; ma per alcuni attributi la deduzione antologica è valida:
dio è eterno, infinito ed onnipresente, perché ciò che è necessario deve essere
ubique; unico, perché se fossero due, uno dei due non potrebbe più essere causa
universale; intelligente, libero, onnipotente.
Fin qui però Clarke ha discorso del dio della ragione (e quindi dei deisti),
non di quello cristiano della rivelazione. Con la stessa esigenza di rigore egli si
accinge quindi a dimostrare, per mezzo di quindici proposizioni fondamentali,
la verità e la necessità della rivelazione. La legge morale, afferma richiamandosi a
Locke, ha lo stesso grado di certezza della conoscenza matematica: che si debba
agire verso il prossimo nello stesso modo in cui si vorrebbe esso agisse verso di
noi è come dire che la somma degli angoli di un triangolo è pari a I soo, Ogni
azione santa quindi lo è in sé, non perché comandata da dio. Ciò non lede però
la libertà di dio, giacché la santità è insita nell'ordine della natura, liberamente
dato da dio alla creazione.
Ma allora, si può chiedere, a che pro la rivelazione? Se religione e moralità
sono come la matematica, in che modo spiegare che Platone ed Aristotele abbiano
fallito là dove è riuscito Euclide? La risposta è ancora quella di Locke: come la
stragrande maggioranza degli uomini non riuscirebbe ad elaborare gli Elementi di
Euclide, così essa non riuscirebbe a conoscere la vera religione e la vera morale.
La rivelazione è stata voluta da dio, nella sua bontà, per motivi pratici, per salvare anche le massaie ed i ciabattini. Inoltre, come si è detto, non tutti gli attributi di dio sono deducibili a priori. L'uomo, ad es., può sperare che dio sia misericordioso, ma non dimostrarlo, ed una incerta speranza può incoraggiare la
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superstizione, i sacrifici umani per placare la collera di dio, ecc. La rivelazione
era quindi necessaria. Ma allora, perché fu fatta solo ad una piccola minoranza
del genere umano? Dio sarebbe ingiusto? Clarke non riesce a rispondere né a
questo né ad altri problemi. Ed in effetti, il richiamo alla giustizia distributiva di
dio fu sempre un argomento a favore dei deisti: dio, essendo giusto, ha dato
a tutti gli uomini la ragione, ed essa basta a raggiungere la salvezza; la rivelazione è un sovrappiù.
Nonostante gli intenti apologetici, Clarke, pretendendo di fare uso della
sola ragione, si muove di fatto sul terreno dei deisti, tanto che venne definito un
«deista cristiano». Non è quindi da stupire che, anziché placare la polemica,
egli l'abbia alimentata. Caratteristica ad esempio l'opera di William Wollaston
(1660-1724), Religion of nature delineated (Delineazione della religione naturale, 1722),
nella quale si deduce con la sola ragione il decalogo, senza fare nessun riferimento
alla rivelazione del Sinai; e ciò, nonostante che anche Wollaston fosse un apologeta, e che il fulcro del suo scritto fosse la dimostrazione dell'immortalità dell'anima. Ecco le linee generali di questa dimostrazione: dio è buono, quindi non
può aver creato gli uomini in modo che le gioie siano inferiori ai dolori; ma in
questo mondo i dolori sopravanzano nettamente le gioie, quindi deve esistere un
altro mondo in cui, se i meriti del singolo individuo glielo consentiranno, egli sarà
felice (è interessante notare che, nella descrizione dei dolori del mondo, l'autore si
sofferma sul pauperismo e sulle conseguenze della rivoluzione industriale).
Nel 1730 Matthew Tindal (1653 ?-1733) pubblicò il capolavoro della critica
deistica della evidenza interna: Christianity as o/d as the creation (Cristianesimo antico
quanto la creazione). Egli si appoggiò a Clarke, usandolo a fini deistici, come Toland
si era appoggiato a Locke. Clarke ha ragione - osserva Tindal - nel dire che si
può dimostrare a priori l'esistenza di dio e la giusta morale, nel sostenere che queste verità sono eterne ed immutabili come quelle matematiche. Ma ciò significa che
l 'uomo le conosceva sin dal primo giorno della creazione. Come pensare infatti
che dio abbia spregiato il maggior dono che diede all'uomo, la ragione, ed abbia
capricciosamente eletto come oggetto della rivelazione (superflua) un popolo rozzo ed ignorante come quello ebraico? Come credere che dio abbia posto in condizioni di inferiorità la stragrande maggioranza degli uomini, trascurando di far loro
conoscere la rivelazione messianica? Il criterio essenziale della verità della rivelazione è la sua universalità, indipendente da ogni limitazione spazio-temporale: la
religione cristiana è vera solo in quanto coincide con una rivelazione naturale antica quanto il mondo. La rivelazione messianica è valida solo in quanto rienunciazione della rivelazione naturale, appannaggio del genere umano dal giorno
della sua nascita.
Tindal rifiuta anche ogni criterio di autorità. Dio per giustizia distributiva
non può aver favorito alcuni uomini, dando solo a loro il privilegio di interpretare le Scritture. La religione è sostanzialmente simile ad un contratto, le cui
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clausole sono scolpite nella coscienza e nella ragione di ognuno, perché sarebbe
ingiusto che dio non avesse dato ad ogni uomo anche la capacità di intendere ed
applicare quelle clausole e di salvarsi. Tindal è quindi avverso ad ogni forma di
comandamenti e liturgia positivi, e pensa che la religione confuciana sia superiore
a quella cristiana, ebraica e maomettana. Le superstizioni positive che si addensano in queste religioni occidentali sono anzi per lui l'indice che dai tempi della
creazione l'uomo non ha affatto progredito; i vizi e la corruzione sono aumentati, soprattutto a causa dei preti e delle chiese.
Tra gli avversari di Tindal possiamo ricordare John Leland (1691-1766),
che pubblicò scritti contro vari deisti ed un'opera apologetica generale, che può
valere ancora oggi come buona fonte per conoscere i dibattiti del tempo.
Lo svolgimento del dibattito stava implacabilmente mettendo in luce la verità di quanto aveva detto Bayle: per la ragione è impossibile tentare una dimostrazione delle verità di fede senza cadere nello scetticismo. Caratteristica da
questo punto di vista l'opera dell'apologeta William Law (1686-1761), autore di
una The case of reason, or natura/ religion fair!J stated (Il fatto di ragione, o religione
naturale equamente stabilita, 176z), in cui osserva che il deismo dell'evidenza interna
ha costruito tutto sulla presunzione che il concetto umano della giustizia possa essere esteso a dio. Per Law ciò è assurdo, perché la natura divina è del tutto diversa
da quella umana: « È certo che la legge secondo cui Dio agisce deve essere sotto
molti riguardi interamente inconcepibile per noi, tale da non poter essere conosciuta affatto, e non c'è caso alcuno in cui possa essere conosciuta completamente
ed intesa interamente. » Law quindi respinge non solo il deismo, ma anche il
razionalismo teologico di Clarke; la nostra ragione, afferma, nulla può senza la
rivelazione e senza la fede per conoscere dio e la morale. Che vale infatti la ragione in materia morale e religiosa, se chi nasce maomettano vive in genere da
maomettano, chi nasce pagano da pagano, e solo chi nasce cristiano da cristiano?
Solo la rivelazione può salvare l 'uomo.
Tra gli autori dell'evidenza interna va ricordato anche Thomas Chubb
(1679-1747), sostenitore della possibilità di ridurre il cristianesimo a tre proposizioni fondamentali: la morale consiste nel seguire l 'universale legge della coscienza; il pentimento rende all'uomo peccatore la grazia di dio; dio giudicherà
gli uomini dalle loro azioni, e darà a ciascuno secondo i suoi meriti. Per dimostrarè queste tre proposizioni, Chubb usa tutta una gamma di proposizioni deistiche, come la negazione di un piano provvidenzialistico, dei miracoli e dell'ispirazione letterale della Bibbia.
Nell'opera di Thomas Morgan (m. 1743), invece, sono presenti spunti di una
filosofia della storia della religione: ai tempi della creazione l'uomo aveva una
religione naturale equilibrata e sana, che si corruppe per causa di una sorta di
feticismo, consistente nel voler scorgere l 'intervento diretto di dio negli eventi
naturali: piogge, siccità, terremoti, malattie, morti, tutto venne fatto dipendere
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Trasformazioni nell'impostazione del problema religioso e morale
da interventi diretti della divinità. Questo stato di corruzione dell'umanità, di
decadimento dalla religione naturale, venne messo a profitto da vari lestofanti,
come Mosè, che se ne valsero per tiranneggiare il popolo. Paolo di Tarso, nemico dei farisei, è esaltato come « libero pensatore » della sua epoca, come difensore della religione naturale predicata da Cristo contro il fanatismo ed il settarismo giudaicizzanti di Pietro e degli altri apostoli. Con Morgan il problema dell'evidenza interna comincia a fondersi con quello dell'evidenza esterna, cioè con
l'analisi dell'attendibilità della Bibbia come monumento storico.
Nell'opera di Henry Dodwell (?-1784) Christianity not founded on argument
(Cristianesimo non fondato su argomenti, I 742.) si ha un lucido consuntivo del dibattito
sull'evidenza interna. Clarke, osserva l'autore, h~ cercato di fondare l'apologia
sulla ragione, ma ogni passaggio delle sue vantate dimostrazioni rigorose ha solo
dato luogo a mille nuove diatribe, anziché spegnere le discussioni. Per parte loro
gli ortodossi dovrebbero, di fronte allo sconfortante panorama dell'apologia,
quanto meno ammettere il dubbio, ed invece continuano ad esigere la più cieca
obbedienza al principio di autorità. Né ragione né autorità possono quindi salvare
la fede, e Dodwell propone di seguire la via della « illuminazione interiore », che si
ottiene abbandonandosi, senza pregiudizi, alla fede. Andate in una assemblea di
fedeli raccolti in preghiera, egli esclama, e chiedete loro se ciò che li spinge li è una
generalissima e generica idea di un dio naturale e razionale, o non piuttosto una
passione, un amore interiore per dio e Cristo? Ancora una volta, è da parte apologetica che si fanno valere argomentazioni scettiche che preludono al pensiero di
Hume.
Sotto questo rigu.ardo possiamo ricordare anche Bolingbroke (1678-1751) in
cui si registra la stanchezza per la decennale disputa ed il rifiuto di ogni forma di
«delirio metafisica». A differenza di Law e Dodwell, Bolingbroke fu un deista,
ma egli non credeva che la ragione potesse giungere là dove non era mai giunta
la teologia tradizionale: a dare una definizione certa di dio. « La conoscenza
umana, >> afferma recisamente, « è relativa, non assoluta », e quindi tanto la teologia di Clarke quanto l'antologia di Tindal vanno ugualmente respinte. Anche
in Bolingbroke appaiono elementi di una filosofia della storia delle religioni: i
primi uomini furono idolatri e politeisti, afferma, ed il monoteismo rappresenta
un progresso. Tuttavia la sua considerazione non è per nulla lineare od ottimistica: catastrofi sono sempre possibili, perché l'andamento delle civiltà è ciclico:
«dalla generazione alla corruzione e dalla corruzione alla generazione».
b) Il problema dell'evidenza esterna
Da quanto abbiamo esposto sino ad ora, risulta chiaro che la posizione degli
apologeti razionalisti era una contraddizione in termini, e ciò spiega come mai i
deisti, anche se tra loro non figurano grandi pensatori, riportarono facilmente la
vittoria sul piano del dibattito filosofico. Sul piano dell'evidenza esterna, il
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punto d'attacco dei deisti era ancora più facile, e si ricollegava agli spunti di critica biblica contenuti non solo in Bayle, ma anche in Galileo, Hobbes e Spinoza.
Come credere che Giosuè avesse fermato il sole e che ciò non fosse più possibile
ai generali cristiani del xvm secolo? Per gli apologeti, la storia era irrimediabilmente scissa in due tronconi: uno che si perdeva nella notte dei tempi e nel quale
i miracoli erano cosa ordinaria, ed uno che coincideva con l'esperienza storica
dell'umanità, e nel quale erano del tutto assenti.
Un seguace di Herbert di Cherbury e di Thomas Hobbes, Charles Blount
(1654-93), pubblicò alla fine del Seicento un'opera in cui sosteneva che i miracoli biblici erano frutto della superstizione di secoli barbari: Oracles of reason
(Oracoli della ragione, 1693). Contro di lui scese in campo quegli che può essere
considerato il Clarke dell'evidenza esterna, Charles Leslie (165o-1722), autore
di un A short and easy method with the deists (Metodo breve e facile contro i deisti,
1697). Egli proponeva quattro regole o canoni di veridicità dei miracoli:
1) che fossero stati tali da poter esser percepiti con sicurezza dai sensi umani;
z.) che fossero stati fatti pubblicamente, alla presenza di testimoni; 3) che fossero
poi stati ricordati con festività e ricorrenze pubbliche; 4) che queste festività datassero dall'epoca in cui era stato compiuto il miracolo. Le prime due regole miravano a certificare che i testimoni non si fossero ingannati e non potessero esser
stati ingannati; le seconde due, che la loro certezza fosse stata trasmessa, integra,
ai posteri. Leslie era convinto che con le sue quattro regole si potesse dimostrare
la verità di tutti i miracoli biblici e la falsità di quelli coranici, ed aggiungeva che
esse facevano si che il cristianesimo non fosse basato sull'autorità, bensi sulla testimonianza, giacché negare la veridicità della Bibbia sarebbe equivalso
a negare quella del De bello gallico. Tra Mosè e Vercingetorige non ci sarebbe più stata nessuna differenza riguardo all'attendibilità delle azioni loro attribuite.
Il maggior deista dell'evidenza esterna fu Anthony Collins (I676-172.9), il
quale giudicava che i miracoli fossero solo allegorie. Con l'opera di Collins apparve chiaro che il deismo metteva in moto un meccanismo irreversibile: anche se
non si riusciva a provare che un singolo miracolo, poniamo quello della risurrezione di Cristo, fosse falso o comunque privo di verità storica effettiva, il deismo costringeva gli apologeti a continue difese di questo o quell'evento miracoloso, e quindi di fatto faceva penetrare i criteri dell'acribia storica nella Bibbia,
dissacrandola praticamente. Di Collins ricordiamo An essay concerning the use of
reason (Saggio sull'usQ della ragione, 1707), ma soprattutto A diJcourse on freethinking (Discorso sul libero pensiero, 171 3); l'autore sosteneva che la fede deve
basarsi sulla ricerca razionale libera (free enquiry, da non confondersi con il
« libero esame » di Lutero), e che quindi ogni concezione sovrannaturalistica andava abbandonata.
L'opera di Collins suscitò violentissime proteste da parte degli ortodossi,
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tanto che egli (che pure era un esponente whig molto vicino alla dinastia protestante) fu costretto a riparare per un certo periodo in Olanda. Nel 1724 pubblicò
però un altro scritto, veramente esplosivo: A discourse of the grounds and reasons of the christian religion (Discorso sui fondamenti e le ragioni della religione cristiana). L'occasione dello scritto venne data dall'apologeta William Whiston
(1677-1752), un matematico che occupava la cattedra che era stata di Newton,
e che era fedele al grande predecessore anche nel tentativo di difendere la Bibbia. Nel 1722, Whiston aveva pubblicato uno scritto in cui prendeva soprattutto in esame il problema delle « concordanze »: nei Vangeli si afferma spesso
che le azioni di Cristo furono realizzazioni di profezie contenute nell'Antico testamento, ma il più delle volte quelle profezie non appaiono realizzate alla lettera.
Orbene la pretesa di Whiston era questa: cotreggere l'Antico testamento, alla
luce del Nuovo, considerando spurio ciò che non era stato realizzato da Cristo.
Collins lo prese in contropiede: in realtà, poiché Gesù e gli apostoli conoscevano
lo stesso Antico testamento che conosciamo noi, il testo della vecchia rivelazione
ebraica è il solo canone di veridicità di quella messianica, la quale si appellava a
quella antica rivelazione. Ma poiché appare chiaro, come lo stesso Whiston ammette, che tra i due testi non vi è concordanza, non resta che una soluzione:
Gesù e gli apostoli intesero miracoli, profezie, ecc. unicamente come allegorie,
che non necessitavano di una espletazione letterale.
Collins suffragava la sua tesi con i risultati di uno studio della lingua ebraica
fatto in Olanda. L'esame della tradizione talmudica aveva mostrato che spessissimo i rabbini usavano di varie libertà: la Bibbia poteva essere letta con una
punteggiatura diversa da quella corrente (ricordiamo che le lingue antiche non
erano punteggiate); si potevano scambiare tra di loro le lettere dell'alfabeto
ebraico (anche questo procedimento è molto in uso nella lingua ebraica, che viene
scritta senza vocali); si potevano interpolare lettere e parole, espungeme altre,
invertirne l'ordine; si potevano suddividere e comporre parole. Collins mostrava
come queste regole fossero state applicate dai rabbini e dagli stessi apostoli nell 'interpretazione della Bibbia, e fossero di uso corrente nella filologia ebraica. La
conclusione che traeva era che le profezie ebraiche non erano state rispettate alla
lettera, e che miracoli, profezie, ecc. erano da considerarsi fatti allegorici e non
storici.
Queste tesi vennero riprese da Thomas Woolston (1669-1733), che probabilmente collaborò direttamente con Collins nella stesura dei Discourses on the
miracles (Discorsi sui miracoli, 1727-29). La sua critica dei miracoli evangelici è
estremamente mordace ed egli osserva, ad esempio, che i magi avrebbero fatto
meglio a donare a Maria del sapone, dello zucchero e delle candele, piuttosto che
dell'incenso e della mirra. Pensare che Gesù abbia voluto imporre una fede nei
miracoli come «fatti», equivarrebbe a fare di lui un furfante, e della Bibbia il
testo più truffaldino di tutti i tempi, sicché opporsi all'interpretazione allegorica
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significava, a suo giudizio, bestemmiru:e. La interpretazione allegorica conservava
invece un valore spirituale preciso: la mutazione dell'acqua in vino avvenuta alle
nozze di Cana, veniva interpretata come allegoria dell'unione di Cristo con la chiesa
confessante: la mancanza di vino simboleggia la carenza di fede nello Spirito Santo, ed il nuovo vino la sostituzione del senso allegorico a quello letterale.
Dopo le critiche di Collins e Woolston gli apologeti si ridussero alla difesa
del miracolo fondamentale della religione cristiana: la risurrezione. Interessante
da questo punto di vista l'opera di Thomas Sherlock (1678-176I), che nello scritto
The tryal of the witnesses of the resu"ection of Jesus (Esame delle testimonianze sulla
risurrezione di Gesù) discusse la veridicità della risurrezione simulando un dibat-
tito in un tribunale inglese del XVIII secolo. L'argomentazione deistica, osserva
Sherlock, pretende che la risurrezione sia falsa, perché contraddice il corso uniforme della natura. Ma, aggiunge (anche questa è una implicazione scettica che
precorre Hume), «quando gli uomini parlano del corso della natura, in realtà
pru:lano dei propri pregiudizi e delle proprie immaginazioni ». La testimonianza
di molte persone, come gli apostoli, che dimostrarono di essere disinteressate,
pagando con il martirio le loro affermazioni senza ritrattarle, ha più valore della
nostra esperienza sempre lacunosa ed incerta. Il miracolo della risurrezione è
quindi vero.
Questo legame con la tradizione giuridica inglese, che già allora godeva di
enorme prestigio, fu molto importante perché costrinse a fare un passo innanzi: a
esaminare se la Bibbia potesse o no essere considerata frutto di testimonianze
oculari. Decisiva fu qui la critica di Conyers Middleton (I683-175o), il quale si
affermò con uno scritto intitolato A letter from Rome (Lettera da Roma, 1729), che
venne inteso più come una critica protestante del cattolicesimo che non come
un'opera deistica. Con Middleton la critica comincia ad operare in profondità, e ad
assumere il carattere di storia comparata. Esaminando i riti cattolici, la dislocazione e l'architettura delle basiliche romane, il culto dei santi e le ricorrenze del calendru:io, egli mostra come il cattolicesimo sia infarcito di antichi elementi pagani, e
come lo stesso papa sia solo una versione rammodernata del pontifex maximus dei
romani. La vecchia accusa di Lutero, Roma è la « Babilonia moderna », veniva
suffragata dalla ricerca storica.
In un altro scritto, diretto contro Daniel Waterland (1683-1740), Middleton
sposava la tesi dell'interpretazione allegorica e le dava un fondamento di storia
comparata, mostrando come gran parte dei costumi ebraici non fossero affatto
dovuti ad una rivelazione divina, ma fossero copiati da costumi egiziani. Egli
asseriva che difendere l'interpretazione letterale della Bibbia era il mezzo migliore
per screditarla. In un'opera postuma, Remarks, paragraph lry paragraph, upon the
proposals for a new edition of the Testament (Riflessioni, paragrafo per paragrafo, sulle
proposte per una nuova edizione del Testamento), egli giungeva poi ad una formulazione
assai rigorosa dell'acribia storica: «Nelle ricerche teologiche il problema è lo
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stesso che nelle ricerche naturali: solo l'esperienza e l'osservazione dei fatti possono chiarire la verità dei principi. I fatti sono cose ostinate, che derivano la propria esistenza dalla natura; per quanto spesso mal rappresentati e distorti ad arte
e con falsi pretesti, tuttavia è impossibile che siano totalmente cambiati o resi docili ai sistemi che per avventura sono di moda; presto o tardi, ridurranno sempre
le opinioni degli uomini all'accordo e alla conformità con se stessi. »
Nonostante il rigore di questo principio, Middleton ammetteva la possibilità che parte dei miracoli biblici fossero autentici, voluti da dio per diffondere
la rivelazione. Ma quelli dopo il n secolo (quindi anche quelli della patristica)
erano senz'altro falsi. Dopo la sua opera, per screditare definitivamente i miracoli
non restava che un passo da compiere: mostrare che i miracoli di tutte le epoche
hanno la stessa origine e caratteristica: l'inclinazione dell'uomo alla superstizione.
Questo passo verrà compiuto da Hume.
In William Warburton(1698-1779) la polemica tra deisti ed apologeti denuncia chiaramente la stanchezza, che in questo autore dà luogo ad una sorta di misantropia culturale e ad un esasperato amore per il paradosso. Per lui tutti o
quasi gli autori che abbiamo nominato sono fuori strada, o bigotti o senza dio.
Warburton fu un apologeta che tentò di rovesciare paradossalmente le tesi dei
deisti. Questi avevano puntato i loro strali contro l'Antico testamento, accusandolo di essere un'inattendibile congerie di superstizioni? Egli si propone, come
dice il titolo della sua opera maggiore, The divine legation of Moses demonstrated
(Dimostrazione dell'ambasciata divina di Mosè, 1737-41), di mostrarne l'origine
divina con argomenti paradossali. Tutti gli uomini in tutte le epoche, osserva, ammettono che la dottrina di uno stato futuro - nel quale vi sarà premiazione dei meriti e punizione dei delitti - sia necessaria per il mantenimento
dell'ordine morale e sociale. Questa convinzione era molto diffusa tra i popoli antichi del tempo di Mosè. Ebbene, osserva l'autore, questa idea· dello
stato futuro non è presente nella rivelazione mosaica, il che dà luogo al seguente
« sillogisma »: Mosè non era un pazzo, e quindi non avrebbe omesso di far
riferimento ad una dottrina così utile per governare il popolo, se l'avesse giudicato necessario; se non lo fece, fu perché sapeva di poter contare su di una
forza ben maggiore: la certezza che l'onnipotente sarebbe intervenuto miracolosamente per convincere gli ebrei dell'utilità di seguire la sua legge. Così
l'assenza di una menzione esplicita della vita eterna diviene il fulcro della dimostrazione che la vita eterna esiste, e che la legge mosaica era rivelata direttamente
da dio.
Di questo autore va ricordata un'altra circostanza paradossale per un apologeta: cioè che egli avviò la storicizzazione di dio! Nel comportamento dell'onnipotente vede infatti la seguente evoluzione: dapprima egli avrebbe eletto arbitrariamente il popolo ebraico tra tutti gli altri e, governandolo proprio come un re
terreno, si sarebbe impegnato non solo alla premiazione e punizione ultraterrena,
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ma anche a rendere a ciascuno il suo durante la vita terrena. All'epoca di Davide
e Salomone, dio avrebbe incaricato nuovi profeti (come Samuele) di predicare la
vita ultraterrena, e nel contempo avrebbe ridotto proporzionalmente i propri interventi diretti, delegando il potere ai re d'Israele come suoi viceré. Infine, con
la nascita del messia, avrebbe lasciato ogni preferenza per il popolo ebraico, divenendo il monarca costituzionale di tutti gli uomini. A questa evoluzione si
sarebbe accompagnata l 'importanza via via crescente della dottrina dello stato
futuro. Con questa storicizzazione di dio, Warburton crede anche di poter spiegare la scomparsa dei miracoli: nella sua nuova veste di monarca costituzionale,
egli si comporterebbe come la dinastia inglese con il parlamento: regnerebbe
senza governare, cioè senza intervenire direttamente negli affari terrestri, e rispettando egli stesso quelle leggi di natura che in passato sarebbero state suggellate
dalla sua onnipotente autorità.
Ricordiamo infine Joseph Butler (1692-1752), che lo stesso Hume citerà
come proprio precursore, ed i cui scritti maggiori sono i S ermons on human nature
(1726) e l'Analogy (1736). In questo autore- su cui ritorneremo nell'ultimo paragrafo per illustrarne l'opera morale - l'uso dello scetticismo come preambulum
ftdei ha di nuovo un posto preminente, e la caratteristica delle sue argomentazioni
è di essere fondate sul principio dell'analogia sfruttato con il ricorso ad ignorantiam. In tal modo egli pensa che si possa dimostrare, seppur imperfettamente,
non solo la verità della fede, ma anche che il dio rivelato dalla Bibbia sia lo stesso che si manifesta nello studio analogico della natura.
Le argomentazioni di Butler si fondano spe!sso sulla filosofia morale. L'esistenza di dio viene data per scontata; quella dell'anima è dimostrata con un'argomentazione di sapore clarkiano: l'anima non può essere materiale, perché le proprietà di un aggregato materiale sono pari alla somma quantitativa delle proprietà
delle singole parti. Poiché le singole parti del corpo non pensano, nemmeno il
corpo nel suo complesso, inteso come entità meramente materiale, potrà pensare. Il principio del pensiero è quindi l'anima, trascendente al corpo, immateriale, incorruttibile, semplice. Il ricorso analogico ad ignorantiam differenzia però
l'argomentazione di Butler da quella di Clarke, che pretendeva di essere assoluta. Butler osserva che poiché noi constatiamo che singole amputazioni parziali
per lo più non spengono il pensiero, possiamo presumere (ecco il ricorso ad ignorantiam) che anche l'annullamento di tutto il corpo non lo spenga, e quindi che
esista l'anima. Si tratta ovviamente di un'argomentazione solo negativa, che
acquista un illusorio carattere positivo proprio dalla sua incompletezza.
Con lo stèsso procedimento, Butler dimostra l'esistenza di un piano provvidenziale nel mondo. Ognuno di noi, osserva, non ha l'impressione di vivere in
un caos, bensì in una rete, seppur finita, di relazioni abbastanza ordinate e stabili,
che gli consentono di fare delle previsioni. Possiamo quindi supporre che, per
analogia, questo ordine si estenda anche al di là delle nostre piccole cerchie finite,
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e dipenda direttamente da dio. Nell'ambito delle nostre esperienze noi vediamo
inoltre che ad un'azione buona segue spesso gioia, e ad una cattiva, dolore. Possiamo quindi presumere che questo piano provvidenziale contempli uno stato
futuro, di premiazione del bene e punizione del male. E siccome le leggi naturali
sono ordinate in modo tale, che alla virtù si presume di solito che segua il bene,
ed al vizio il male, questa è una prova che il dio della natura, studiato da Newton,
è lo stesso che il dio della rivelazione.
Ma evidentemente Butler non poteva sostenere che alla virtù segue sempre il
bene! Anzi, ammette che spesso accada il contrario. Come distinguere allora il
male derivante dal martirio per una causa giusta dall'esecuzione patita per mano
del boia in seguito ad un delitto? Il male del mondo, afferma Butler, è dovuto al
fatto che esso è una valle d'esilio, un periodo di prova per raggiungere lo stato
futuro. Ed il fatto che l'uomo sia capace di sopportare il martirio (e quindi il
male) per amore del bene, dimostra proprio che la legge morale esiste,' che è
scolpita direttamente da dio nel cuore degli uomini. L'uomo si attende che alla
virtù segua il bene, la sua moralità gli dà una testimonianza in questo senso. Ora,
il fatto che questa testimonianza non sempre sia rispettata dimostra proprio che si
tratta di una rivelazione non contingente ma assoluta, avvertita come vera a dispetto di tutte le avversità, e diviene la testimonianza del fatto che la vita in questo
mondo è un periodo di prova per l'altro mondo.
Il fatto che il mondo sia una «prova», comporta che in esso l'uomo sia libero, non necessitato, perché altrimenti non vi sarebbe né merito né demerito, e
quindi lo stato futuro diverrebbe inutile. Della libertà dell'uomo, Butler dà una
dimostrazione molto interessante, che prelude alle argomentazioni di Hume, e
che è indice della stretta fusione che l'autore fa tra legge naturale e legge morale,
tra il dio della rivelazione e quello della natura. Supponiamo, egli dice, che un
·ragazzo venga allevato nel più completo fatalismo, cioè nella convinzione che
tutto sia necessitato. Un simile ragazzo non vivrebbe a lungo, perché ben presto
gli capiterebbe di uscire con disinvoltura dalla finestra di un alto palazzo anziché
dalla porta, tanto sarebbe convinto che gli toccherebbe di morire solo se la sua ora
fosse già suonata, e che altrimenti non dovrebbe temere nulla. È possibile questo?
Evidentemente no, perché le possibilità che gli uomini hanno di sperimentare le
leggi della natura, e di avere timore di infrangerle, sono infinite, e nessuno sarà
tanto fatalista - a meno di essere pazzo - da avventurarsi senza tema nel vuoto.
Il comportamento pratico contraddice quindi il fatalismo. Analogamente, è impossibile che un ragazzo sia educato a mentire senza provare la minima vergogna,
perché potrà sempre fare esperienza del fatto che la sua coscienza gli proibisce di
peccare e che il male genera vergogna. Quindi anche in campo morale facciamo
esperienza diretta della libertà, e il dio della morale e della rivelazione appare ancora una volta essere lo stesso dio delle leggi naturali.
Anche sul problema dell'evidenza esterna Butler segue l'argomentazione ad
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ignorantiam: il fatto stesso che i deisti sentano il bisogno di accanirsi a dimostrare
la infondatezza del racconto biblico dimostra che esso, di per sé, è attendibile.
Nulla asta quindi a che sia vero, e dunque possiamo senz'altro presumere che lo
sia.
Butler non fu un grande filosofo, ed i suoi procedimenti analogici sono sempre estremamente lacunosi. Tuttavia egli ebbe il coraggio di sostenere che noi
sappiamo poco di dio, solo perché sappiamo poco di tutto, e di legare strettamente !:apologetica con la morale. Per questi aspetti della sua opera, egli è stato
paragonato a Pascal. Inferiore al filosofo francese per penetrazione intellettuale e
vastità d'interessi, ebbe però in comune con lui la sfiducia nella ragione e la fiducia nella morale e nella fede.
V
· GEORGE BERKELEY
Il più vigoroso avversario del deismo fu però non Butler, bensì il vescovo
anglicano George Berkeley (1685-1753), originale sintetizzatore delle tendenze
empiriche e scettiche con la tradizione platonica del realismo delle essenze. Spirito
profondamente cristiano, missionario e pioniere di un nuovo ordine sociale in
America, vescovo infine della diocesi anglicana di Cloyne in Irlanda (ove seppe
cattivarsi la stima e l'affetto degli stessi cattolici), Berkeley fu pensatore coltissimo
non solo dal punto di vista religioso e speculativo, ma anche da quello scientifico
e matematico. Dal punto di vista strettamente filosofico il suo grande avversario
fu il materialismo (a suo giudizio implicito nella concezione meccanicistica e
newtoniana dell'universo), contro cui seppe ideare argomenti che avranno enorme
peso nella storia della filosofia successiva.
Anche Berkeley, come Locke, prende le mosse dall'istanza empiristica, e si
domanda che cosa ci sia possibile conoscere « al di là » delle percezioni. Locke
gli appare, da questo punto di vista, ancora preda di un dualismo: da un lato
aveva racchiuso la conoscenza nei limiti dell'esperienza, ma dall'altro non accettava di vedere nel mondo un prodotto dell'esperienza, considerandolo ancora come origine e condizione di essa. Berkeley superò questo dualismo sviluppando il concetto empiristico della corrispondenza e dipendenza tra idea e percezione sensibile. Nell'opera An essay towards a new theory of vision (Saggio
su una nuova teoria della visione, 1709), egli critica le nozioni di spazio ed estensione, che Cartesio aveva identificato (nella res extensa) e che altri filosofi, tra
cui Locke, avevano invece distinto. Sia Cartesio sia Locke si erano comunque
basati sulla galileiana distinzione tra qualità primarie e secondarie, distinzione
nella quale Berkeley vede la prima radice di quella filosofia materialistica che
costituirebbe il più temibile nemico del cristianesimo. Per stroncare il pericolo a suo giudizio non vi è che un mezzo: porre sullo stesso piano qualità
primarie e secondarie, osservando che le prime non sono né così indipendenti da
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noi, né così costanti, da giustificare l'attribuzione ad esse di una effettiva esteriorità. A questo scopo, egli critica in primo luogo, come dicevamo, le nozioni di
spazio e di estensione.
Seguendo il metodo di Locke di vagliare la consistenza delle idee con l'analizzarne l'origine, Berkeley studia la nozione di spazio in collegamento ai due
sensi - i l tatto e la vista - cui suoi venir attribuita la capacità di percepire i rapporti spaziali. Egli comincia col notare che « le idee della vista e del tatto formano
due specie completamente distinte ed eterogenee »; la vista percepisce soltanto
sensazioni di luce e colore, mentre il tatto percepisce le distanze e grandezze dei
corpi. Il fatto appare evidente se collochiamo ad una certa distanza da noi (per
esempio a cento metri) una sfera rossa di un metro di diametro: la vista ci darà
soltanto un dischetto colorato; la distanza, la grandezza, la sfericità di questo
dischetto deriveranno invece dall'associazione psicologica di esso con quelle idee
di tatto che il dischetto ci preannunzia. Data l'irriducibilità di vista e tatto, quest'associazione sarà però qualcosa di intrinsecamente arbitrario, come la connessione
fra parole e idee: le percezioni visive vengono a « suggerirei » le idee di distanza e
grandezza « così come le parole di una lingua qualsiasi suggeriscono le idee, per
rappresentare le quali quelle parole sono state escogitate ». Solo l'esperienza e l 'abitudine giustificano l 'associazione in esame: «Tanto che un uomo nato cieco, al
quale in seguito fosse data la vista, non potrebbe, a un primo sguardo, rappresentarsi come fuori della propria mente le cose che egli vede. » Alla nozione di spazio
non spetta dunque alcuna obiettività, e sarebbe gratuito fondarsi su di essa per
attribuire un significato realistico alla cosiddetta esperienza spaziale. L'oggetto
dell'intuizione spaziale si risolve in una sintesi psichi ca, in una relazione che
istituiamo tra i dati di differenti campi sensoriali; ogni affermazione sulle relazioni
spaziali è frutto dell'intelletto, non della sensazione. In tal modo l'esigenza empiristica lockiana, dalla quale Berkeley era partito, viene per così dire svuotata
dall'interno.
Per quanto riguarda la nozione di materia, il risultato dell'analisi di Berkeley
è ancora più sorprendente. La materia dovrebbe costituire, secondo la filosofia
tradizionale, il substrato degli oggetti, ossia ciò che sorregge le loro qualità pur
essendo irriducibile a queste qualità stesse. Molte sono tuttavia le difficoltà insite
in siffatta concezione. Sappiamo per esempio che Locke sostiene da un lato l 'inconoscibilità del substrato anzidetto, dall'altro la necessità di fare ricorso ad esso
quale causa delle percezioni che si formano in noi, indipendentemente dalla nostra
volontà. Se~onché, proprio la distinzione tra qualità primarie e secondarie rende
estremamente equivoca la pretesa inconoscibilità del substrato: ed inve~o, se
ammettiamo che la materia è fornita delle qualità primarie, come potremo negare che essa risulta in qualche modo conoscibile? Chi potrà, d'altra parte, pretendere che il substrato delle nostre percezioni sia effettivamente conosciuto, se si
sostiene- come Locke- la sua irriducibilità al mondo delle percezioni?
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Berkeley dà un taglio netto a queste difficoltà mutando i termini di rapporto
tra i due capisaldi della filosofia del Seicento, sensazione e riflessione. In Locke
dominava ancora la concezione di due «metà» del reale: alla percezione corrisponderebbe il mondo cosiddetto «esterno», alla riflessione quello «interno».
Berkeley si chiede invece: è proprio necessario accettare questa distinzione?
Esiste una percezione assolutamente semplice, distinguibile dalla riflessione? No,
risponde Berkeley: non è il nostro occhio, inteso in modo immediato, che vede,
ma il nostro spirito che, depurando la percezione visiva di ogni immediatezza, le
dà significato. Nella Nuova teoria della visione Berkeley distingue tre piani: quello
anatomico-fisiologico, che esamina come mai l'occhio veda materialmente; quello
della disposizione geometrico-spaziale delle cose viste (questa disposizione, insiste
Berkeley, è già frutto dell'astrazione); quello filosofico, che spiega come e perché
l'uomo arrivi alla visione:« Spiegare come lo spirito e l'anima dell'uomo giungano a vedere, è l'unico problema rientrante nel compito della filosofia.»
Questo problema non potrà evidentemente essere risolto con mezzi logici,
poiché è impossibile stabilire nessi logici tra due sfere eterogenee come quella
tattile e quella visiva. Riprendendo ancora l'esempio del cieco nato, messo in grado
con una fortunata operazione, di vedere, Berkeley si chiede: aprendo gli occhi, il
neoveggente sarà in grado di porre immediatamente in relazione il tavolo che
vede con il tavolo che tocca? Certamente no, e quando arriverà a fare questa correlazione che tutti facciamo, essa sarà dovuta unicamente all'esperienza, non ad
un processo razionale di unificazione delle sfere sensoriali. La nostra mente opera
secondo principi associativi dovuti ali 'esercizio ed ali 'abitudine (habit: il vocabolo
tornerà in Hume), non alla ragione.
La problematica è ripresa ed approfondita nello scritto A treatise concerning
the principles of human knowledge (Trattato sui principi della conoscenza umana,
1710). Se, come abbiamo testé visto, non v'è motivo di credere né all'esistenza
del substrato, né all'esistenza di una percezione sensoriale significante di per
sé (senza la riflessione), allora appare chiaro che in nessun modo possiamo
considerare le nostre sensazioni «copie» del mondo esterno. L'esistenza delle
cose è solo nel loro venir percepite (esse est percipi). Ogni oggetto è solo la collezione delle idee percettive che ne abbiamo, e la materia non è altro che un « nome >>.
Ma qui si annida una grossa difficoltà, della quale Berkeley si rende perfettamente conto: perché abbiamo l 'idea astratta di « uomo », anziché la semplice collezione di idee (o « nomi >>) dei singoli uomini che possiamo percepire? di Giuseppe, Pietro, Giovanni, ecc.? Perché abbiamo il concetto astratto di retta, anziché solo la collezione delle rappresentazioni dei singoli segmenti che possiamo
percepire? Chiunque studi le proprietà della retta non può, in realtà, che studiare
quelle di una linea finita, disegnabile su un foglio di carta o alla lavagna. «Tale
linea, in sé e per sé particolare, è cionondimeno universale nel suo significato,
poiché, secondo il modo in cui viene qui adoperata, essa rappresenta qualsiasi
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retta particolare; in tal caso, ciò che è dimostrato riguardo ad essa, varrà per tutte
le linee o, in altre parole, per la linea in generale. »
Anche i Three dialogues between Hylas and Philonous (Tre dialoghi tra Hylas e
Philonous, 1713) affrontano questo gravissimo problema: come conciliare l'origine empirica del nominalismo berkeleyano con la funzione universale attribuita ai nomi? Che cosa può essere da noi considerato « reale », visto che non possiamo sperare di paragonare le nostre percezioni ad un mondo esterno? Reale,
risponde Berkeley, è ciò che viene da noi percepito secondo una certa uniformità, costanza e regolarità; reali sono quei gruppi di sensazioni che, a differenza dei prodotti vaghi e continuamente mutevoli della fantasia e del sogno,
si presentano alla percezione come immutabili, omogenei, costanti, uniformi. Il criterio di realtà non è quindi nelle cose, bensì in noi, in un canone del
loro venire percepite da parte della nostra coscienza. Non solo: questa costanza ed uniformità del « reale » non può essere basata su argomentazioni razionalistiche, ma esclusivamente sull'habit, cioè sull'esperienza. E tuttavia non è
l'esperienza da sola che ci fa dire che cosa sia reale e cosa no; è un criterio ideale,
o meglio coscienziale: l 'u.nlformità e la costanza con cui percepiamo.
Questa coincidenza tra criterio di realtà e criterio di uniformità porta Berkeley, per tanti versi antinewtoniano, ad un giudizio molto vicino a quello che
Newton aveva dato della legge scientifica. Anche per Berkeley, reale è ciò che è
passibile di una legge scientifica universale e necessaria; anche per Berkeley, la
spiegazione di un fatto risulta cosi ridotta ad una sua correlazione rigorosa con
i fatti che l'hanno preceduto e con quelli che lo seguono, senza che abbia luogo
la pretesa di conoscere la causa ultima, il substrato ultimo dei fenomeni.
Tanto più singolare è quindi la circostanza che Berkeley abbia criticato molti
aspetti del sistema scientifico newtoniano, principalmente i concetti di spazio e
tempo assoluti ed il calcolo delle flussioni. Sia l'infinitamente grande, sia l'infinitamente piccolo non possono essere percepiti, e quindi vanno respinti pregiudizialmente. Ma Berkeley, che aveva profonde conoscenze matematiche, spinse la
sua critica anche nei dettagli, e nel 1734 pubblicò uno scritto polemico intitolato
The analist: or a discourse adressed to an infedel mathematician (L'analista, ovvero discorso ad un matematico injèdele), in cui utilizzava le aporie riscontrabili nell'analisi infinitesimale newtoniana a fini apologetici. Voi, affermava rivolto
agli scienziati newtoniani, esaltate la ragione al punto da mettere in forse la
fede, ma non avete timore di accettare un calcolo, come quello delle flussioni,
che non ha nessuna base razionale dimostrabile. Tale calcolo, osserva Berkeley,
è costellato di errori, e se in certe applicazioni può anche condurre a risultati veri,
ciò dipende unicamente dal fatto che questi errori finiscono a volte, per puro
caso, con il compensarsi a vicenda. Ma come può rifiutarsi di credere ai misteri
della fede cristiana chi accetta una matematica sicuramente irrazionale?
A Berkeley risposero immediatamente due newtoniani di stretta osservanza:
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James Jurin, sotto lo pseudonimo di Philaletes Cantabrigiensis, e John Walton.
Essi dichiararono che il filosofo non aveva capito le idee di Newton e che solo
per questo poteva pretendere di trovare degli errori nell'analisi infinitesimale. Il
diffondersi dell'opinione che questo nuovo tipo di calcolo non meritasse a rigore
nessuna fiducia li preoccupava moltissimo, come pure l'accusa che la costruzione
scientifica newtoniana non risultasse accordabile con la fede cristiana.
Berkeley non si diede per vinto e, nel medesimo 1734, pubblicò una risposta
dal titolo A defence of free-thinking in mathematics (Difesa del libero pensiero in
matematica). La polemica proseguì per alcuni anni, senza riuscire a smuovere né
l'uno né l'altro dei contendenti dalle proprie posizioni. Certo le critiche del nostro
filosofo non erano prive di fondamento, dato che a quel tempo l'analisi era un edificio ancora privo di rigore (ad esempio non si era trovata ancora una sistemazione
razionale di concetti fondamentali come quello di limite, di convergenza, di somma di infiniti termini, ecc.). Ma egli cadeva nell'eccesso di rifiutare globalmente
questo strumento matematico che si stava rivelando fecondissimo, e soprattutto di
basare questo rifiuto più che altro su considerazioni psicologistiche: il limite psicologico della percettibilità del finito viene considerato come la prova decisiva che il
processo di divisibilità sia limitato; la stessa considerazione vale, all'inverso, per
l'accrescimento illimitato (quindi per i concetti newtoniani di spazio e tempo assoluti). Berkeley è così costretto a rifiutare tutto ciò che non è percepibile, ad esempio anche i numeri irrazionali (persino la famosa yz e lo stesso teorema di Pitagora, che porta alla definizione di grandezze incommensurabili).
Ma è evidente che in tal modo torniamo ancora una volta a quell'aporia gravissima dell'impostazione berkeleyana, alla quale abbiamo ripetutamente accennato. Se infatti si respingono concetti (come quelli newtoniani) perché non
percepibili, per qual motivo accetteremo poi il concetto di « uomo », di « retta »,
ecc. certo altrettanto impercepibili? Berkeley non solo si rende conto di questa
difficoltà, ma anzi la accetta e la esaspera, facendone il cavallo di battaglia della
propria impostazione apologetica. Verissimo, afferma, la funzione universale dei
« nomi » non può provenire da noi stessi, dato che non ha nessuna base empirica
nelle nostre percezioni. Ciò vale per tutti i concetti, anche per quello più generale
di tutti, l 'uniformità e la costanza della natura, sul quale, come si è visto, si basa
il nostro stesso giudizio di realtà. Ma se l'universalità dei «nomi» non ci può
venire dall'esperienza, e non può essere prodotta da noi che siamo incatenati all'esperienza, non può che venirci da una causa universale superiore a tutto: dio.
Senza questo rimando a dio, l'esperienza non ha alcun senso. È dio che introduce, immette nella nostra coscienza le impressioni sensibili, seguendo una uniformità ed un ordine preordinati dalla sua provvidenza infinita, e suscitando in
noi, mediante l' habit, il concetto de Il 'uniformità della natura, dell'esistenza del
mondo esterno, ecc. Ecco quindi quale è la vera spiegazione del rapporto, ad esempio, tra la sfera sensoriale della vista e quella del tatto: «Le idee della vista sono il
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linguaggio per mezzo del quale lo spirito sovrano da cui dipendiamo ci informa delle
idee tangibili che egli imprimerà sopra di noi, nel caso che noi eccitiamo nel nostro
corpo tale o tal altro movimento. » Se Butler ci aveva ricordato Pascal, Berkeley
ci ricorda senza dubbio l'occasionalismo, anch'esso apologetico e platonizzante,
di Malebranche.
Ma il vescovo anglicano è ancora più radicale dell'oratoriano francese: se la
natura della materia è nell'esser percepita, ciò significa che esistono delle sostanze
immateriali che la percepiscono; queste sostanze immateriali - cioè spirituali possono essere di due categorie: lo spirito infinito, cioè dio che è la causa universale di ogni percepibile e di ogni percepiente finito, e le anime particolari, finite, degli uomini. La distruzione del realismo gnoseologico del mondo esterno
diviene quindi, in Berkeley, l'unico strumento apologetico decisivo. Chiunque
accetti la soluzione realistica non può non distinguere tra essere e pensiero, e
quindi è costretto ad accettare una impostazione, come quella meccanicistica e
newtoniana, che fatalmente abbassa dio al rango di artefice il quale, dato il primo
impulso al mondo, se ne disinteressa. Solo l'antirealismo berkeleyano garantirebbe
che dio continui ad essere la causa universale, dato che anche la più insignificante
delle nostre percezioni ha senso solo se fatta risalire direttamente alla causa universale divina: «Come è certo che il mondo sensibile sussiste realmente, così pure
è certo che esiste un essere infinito, onnipresente e spirituale, il quale contiene
in sé e sostiene tale mondo. » Se ci si ferma al piano meramente sensibile, tutto
si frantuma necessariamente in un coacervo di percezioni disorganiche; solo ammettendo che la percezione sia segno del linguaggio divino possiamo dare ordine
al mondo. Nell'Alciphron (Alcifrone, 1723), Berkeley afferma che lo stesso concetto
di legge scientifica non può derivarci dalla sensazione, bensì solo dall'illuminazione divina.
Come si vede, siamo passati da una problematica lockiana empiristica ad una
soluzione idealistico-platonica. In Siris (1744), Berkeley elabora una ascesi dai
sensi alla ragione. I sensi, afferma, sono fonte di illusioni che tengono prigioniero
e schiavo l'uomo; l'intelletto è il primo raggio di luce in questo regno di ombre,
e ci consente, con l'aiuto divino, di elevarci ai concetti universali di unità, identità ed esistenza. Con evidente riferimento al platonico mito della caverna, Berkeley scrive: «Le cose, che prima sembravano costituire per noi tutto l'insieme
della realtà, diventano fuggevoli fantasmi, non appena noi le consideriamo con
l'occhio dell'intelletto.» L'idea, nel senso platonico di aitìa e arché, è la causa, il
principio attivo del mondo; solo essa, non la sensazione, è fonte di conoscenza,
proprio come aveva affermato Platone nel Teeteto.
L'antinewtonianesimo di Berkeley diventa quindi il corrispettivo moderno
dell'antidemocritismo di Platone. La ragione, afferma l'apologeta anglicano in
evidente polemica con tutta la tradizione scientifica inaugurata da Galileo e portata alla massima perfezione in Newton, ci è data da dio per scopi più nobili che
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non la conoscenza quantitativa della natura. Il suo oggetto naturale è la conoscenza
qualitativa, teologica e teleologica (cioè provvidenzialistica) dell'universo. Berkeley, per tanti versi filosofo sottilissimo ed impastatore di problemi che travaglieranno per i secoli seguenti il pensiero filosofico, ci appare, sotto questo riguardo, ancora uno scolastico, sostanzialmente disancorato dalla corrente più
feconda del pensiero moderno. La sua opera è tuttavia, come si è visto, estremamente complessa, e presenta una sintesi originalissima di empirismo scettico e di
platonismo idealistico ed apologetico.
VI
· I MORALISTI INGLESI
Parallelamente alla controversia deistica vi fu, in Inghilterra, una notevole
fioritura di moralisti. La circostanza non deve stupire: una volta che venga messa
in forse la rivelazione, cioè la religione positiva, entra in crisi anche la credenza
dogmatica secondo cui morali sono le azioni comandate direttamente da dio. Se
l'imperativo «non uccidere» non si regge più sulla rivelazione del Sinai, perché
l'uomo continuerà a considerare immorale l'omicidio? Il problema, come si è
visto, aveva appassionato Hobbes, Spinoza, Bayle, Locke e molti altri pensatori.
Si trattava quindi di dare una fondazione « laica » alla morale, sganciandola dal
testo biblico. Anche qui, vediamo una netta distinzione tra apologeti e no. Per
brevità, ci soffermeremo tuttavia solo sulle figure di maggior rilievo.
Nel novero dei moralisti inglesi del Settecento, spiccano due figure nettamente contrapposte tra di loro, entrambe legate ad una visione anticonfessionale
della morale: Shaftesbury e Mandeville.
Anthony Ashley Cooper, lord di Shaftesbury (1671-1713), era stato allievo
di Locke, di cui conosciamo dalla sezione rv gli stretti legami con questa famiglia
patrizia. Egli tuttavia si distaccò dall'illustre maestro, richiamandosi in larga misura proprio a quella scuola platonica di Cambridge che Locke aveva combattuto
con tanta energia, e la sua prima opera fu una prefazione ai Sermons di B. Whichcote. Uomo coltissimo, aveva viaggiato molto, soggiornando tra l'altro in Italia
(dove si era formato una cultura estetica vastissima) ed in Olanda, ove aveva conosciuto Bayle. Un suo primo scritto, An inquiry concerning virtue (Ricerca
sulla virtù), venne pubblicato abusivamente da Toland nel 1698. Gli altri suoi
saggi apparvero tra il 1708 e il 1711, e sono raccolti sotto il titolo di Characteristics.
Shaftesbury, come i platonici di Cambridge, era avverso all'utilitarismo puritano ed all'empirismo pragmatico baconiano. Egli reputava che i principi gnoseologici e morali siano sostanzialmente coincidenti ed innati nell'uomo. L'ordine
della natura, asseriva, è lo specchio dell'ordine morale, e come l'uno è immanente
all'universo, così l'altro è immanente all'uomo e alle sue azioni. La maggiore
originalità del nostro autore sta proprio in questa identificazione tra morale e gno-
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seologia, da lui espressa con una geniale formulazione del!' estetica: bene e verità,
afferma, coincidono perché hanno la stessa « bella forma ». La forma diviene così
indice rivelatore della sostanza: una forma bella ed armoniosa è indice di una
sostanza nobile e vera. La virtù non può che essere bella, armoniosa e piacevole;
ed il vizio, per contro, brutto, sgraziato e disarmonico.
Questa identificazione tra bellezza e verità introduce anche un altro concetto:
quello di humour. Ciò che è sgraziato e sproporzionato, e quindi falso ed immorale,
non può non essere anche comico, ridicolo. Il ridicolo diviene quindi, in certo
modo, il criterio della verità, perché solo ciò che resiste al ridicolo, ciò che ha
una forma tanto equilibrata ed armoniosa da risultare inattaccabfle dal riso, è vero.
Il ridicolo diviene anche uno strumento catartico per liberare l'uomo dalle superstizioni, ed è ridicolizzandolo che Shaftesbury critica l'« entusiasmo», termine con cui designa la bigotteria, la superstizione, il fanatismo (ed è con la satira che egli pensa di distruggere il cattolicesimo, tipica religione, per Shaftesbury,
dell'entusiasmo). Il ridic,alo è anche uno strumento di emancipazione politica e
sociale, giacché l'entusiasmo è uno strumento nelle mani dei potenti e delle gerarchie ecclesiastiche per tenere schiavo il popolo. Per confutare i miracoli (verso
quelli evangelici Shaftesbury conserva però un seppur ironico rispetto) dei ciarlatani, dei sedicenti profeti, degli esaltati, basta satireggiarli.
Shaftesbury condivide anche l'ottimismo dei platonici di Cambridge (e quello
di Leibniz): la virtù porta la felicità, ma non è assolutamente riducibile al principio
utilitaristico ed edonistico per cui è virtuosa un'azione che reca piacere. Certo la
virtù reca piacere, ma non perché sia subordinata ad esso, bensì perché rientra
nell'ordine divino immanente all'universo, che tutto intero è da considerarsi mirabile opera d'arte, capolavoro di bellezza, di giustizia e di felicità. Il fondamento
teologico della morale di Shaftesbury, che pure fu un deista, appare cosl evidente.
Per lui dio è il creatore, il primo principio di un universo perfetto, nel quale l'armonia (e quindi la virtù e la felicità) regnano incontrastate. Credere in dio significa percepire l'armonia tra noi e l'universo, avere il senso della bellezza del
creato; non crederci, significa esservi sordi. L'ateismo va quindi condannato,
come va condannata la confessionalità bigotta ed entusiasta. Il dio di Shaftesbury
è ancora una volta quello della scuola di Cambridge: più il principio archetipo del
mondo che non un dio personale e trascendente. Per il moralista ogni forma di
antropomorfismo va ridicolizzata come entusiasmo.
Vi è un altro punto importante che oppone Shaftesbury agli apologeti: egli
respinge il dogma della corruzione umana causata dal peccato originale. Nel contesto della sua visione filosofica l'uomo non può che essere intrinsecamente buono,
bello e virtuoso, con un senso morale (che Shaftesbury definisce anche istinto
divino) innato, al quale affidarsi per distinguere il bene dal male, per amare la
virtù ed odiare 11 vizio. Il senso morale è però solo un aspetto particolare del più
generale senso estet1co di cui dio ci ha gratificato; grazie al quale senso estetico
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percepiamo la bellezza e l'armonia, e quindi anche la verità e la giustizia. «Ciò
che è bello, » scrive, « è armonioso e proporzionato, e ciò che è armonioso e proporzionato è vero; ciò che è ad un tempo sia bello sia vero è, conseguentemente, piacevole e buono. »
Quanto alle passioni, Shaftesbury le divide in tre categorie: quelle che portano al bene del prossimo (quindi al bene pubblico); quelle che portano al bene
proprio; quelle che portano al male. Queste ultime sono, in certo modo, non reali,
non rientrando nell'armonia della natura; Shaftesbury le chiama infatti « affezioni innaturali ». Criticandole, e criticando le loro manifestazioni concrete, il
moralista non fa cosa diversa dall'esteta che critica le brutture formali di un dipinto o dal filosofo che critica un principio errato.
Ma se l'etica è come l'arte, ci potranno forse essere etiche diverse, come ci
sono arti diverse? In una cattedrale gotica, l'arco a sesto acuto è armonioso, mentre stonerebbe in una costruzione greca classica. È allora possibile una morale
nella quale l'omicidio sia virtuoso? In altre parole: la morale è storicizzabile o è
eterna? Shaftesbury supera la difficoltà affermando che ogni forma di arte, ogni
forma di morale, trova il proprio fondamento nell'armonia, e che l'armonia ha
una oggettività reale, che funge da modello archetipo a tutte le azioni e realizzazioni
concrete, storiche. Quali che siano gli indirizzi artistici, le leggi della proporzione
e dell'intrinseca armonia tra le parti permangono. Tra una guglia ed un arco a
sesto acuto di una cattedrale gotica intercorre un'armonia intrinseca identica a
quella che si riscontra tra un capitello ed una colonna di un tempio dorico. La
morale è quindi, in quanto armonia, eterna ed immutabile, e Shaftesbury, da platonico, è un realista della virtù: l'armonia morale ha una realtà antologica. Anzi,
le proporzioni sono così eterne e fisse, che possono essere studiate con la stessa
certezza dei principi matematici (come aveva affermato anche Locke).
Il capolavoro di Bernard Mandeville (1670-1733) venne pubblicato in due
tempi: nel I 704 apparve anonimo un poemetto intitolato The grumbling hive: or
knaves turn'd honest (L'alveare scontento, ovvero i furfanti diventati onesti); nel 1714
Mandeville ripubblicò il poemetto, inserendolo in un'opera intitolata The fable
of the bees: or private vices, public beneftts (La favola delle api, ovvero vizi privati,
benefizi pubblici). La nuova opera conteneva, oltre al poemetto, un commento in
prosa ai versi salienti ed una introduzione.
Come affermava lo stesso Mandeville, non era possibile concepire due filosofie più radicalmente opposte che la sua e quella di Shaftesbury. Il pensiero morale di Mandeville ebbe grandissima risonanza, anche grazie ad una straordinaria
capacità dell'autore di esprimere gli aspetti più importanti della sua impostazione
filosofica in aforismi paradossali, che colpivano la fantasia (ce ne fornisce un
esempio già lo stesso sottotitolo, che afferma crudamente che i vizi privati sono
fonte di bene pubblico).
La tesi di Mandeville, estremamente penetrante per spiegare la « ricchezza »
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di una società capitalistica, è che i vizi (come il lusso, lo sperpero, l'invidia, la lussuria, ecc.) sono utili al fiorire della società, perché costringono i ricchi a spendere, quindi a mettere in circolazione capitali e a dare lavoro ai poveri. Il vizio
di seguire la moda e di vestirsi lussuosamente, ad esempio, costringe a farsi continuamente abiti nuovi, ed implica l'ambizione di farli più belli di quelli del vicino
che si invidia. « A questa emulazione e continua gara per superarsi vicendevolmente si deve se, dopo molte innovazioni e cambiamenti della moda - inventandone di nuove e rinnovando le vecchie - ai più ingegnosi rimane ancora un
plus ultra. È tutto ciò, o almeno la sua conseguenza, che mette al lavoro i poveri,
stimola l'industria e incoraggia l'artigianato intelligente a migliorare il suo lavoro.» Invece la «virtuosa» massima dell'accontentarsi del proprio stato, di ricercare la ricchezza interiore anziché quella del mondo è, socialmente, sinonimo
di «pigrizia», e pertanto risulta «nociva all'industria», causa della povertà delle
nazioni. La conclusione di Mandeville è quindi spregiudicatamente realista, e dà
un quadro certo non completo, ma assai penetrante dei primi decenni ruggenti
di un secolo che vide l'impetuoso affermarsi, soprattutto in Inghilterra, della rivoluzione industriale: « Quel che rende un animale socievole non è il suo desiderio
di vivere insieme agli altri, la sua bontà, la sua pietà, la sua affabilità o le altre
grazie di una bella apparenza, ma ... , invece, le sue qualità più basse e odiose sono
le doti più necessarie per renderlo adatto alle società più grandi, che sono, a giudizio del mondo, le più felici e fiorenti.»
Perfino le calamità, non teme di affermare Mandeville, sono utili alla società.
I disastri provocati a Londra da un incendio, scrive, hanno causato lutti, pianti e
rovine; ma hanno dato lavoro ad innumerevoli carpentieri, manovali, fabbri, falegnami, sicché la somma dei benefizi provocati da quella catastrofe supera la somma dei dolori. Ciò vale anche per le guerre, che provocano distruzioni ma stimolano la produzione.
Nonostante che le radici hobbesiane e machiavelliche di queste realistiche considerazioni sulla società della prima rivoluzione industriale siano evidenti, il
pensiero di Mandeville conserva però un impianto teologico. Dalla teologia
infatti egli accetta il concetto che il piacere sia cosa viziosa (e per piacere intende
tutto ciò che va al di là delle necessità immediate del nudo selvaggio o del trappista che si ritira dal mondo), sicché mentre rovescia la morale ascetica, ne conserva paradossalmente i valori. Giunge pertanto a considerare il commercio, l'industria, la stessa cultura, l'amore per l'arte e per le invenzioni tecniche che consentono di evitare disagi e fatiche, come peccato, non come elementi di una nuova
morale umanistica e laica, sicura del proprio orizzonte e capace di cercare in esso
nuovi valori che eliminino le conseguenze nefaste della prima rivoluzione industriale, conservandone i pregi. Essi devono esistere solo « fino a quando ne cogliamo i benefizi».
Malgrado questo fondamento teologico, Mandeville suoi essere considerato
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il primo acuto moralista della civiltà industriale sebbene sia doveroso notare che
anche da questo punto di vista la sua pur brillante analisi risulta alquanto carente.
Nell'esaltazione del lusso e non del risparmio, egli appare ancora legato agli
schemi del capitalismo commerciale, per il quale la ricchezza consisteva nella
circolazione delle merci, più che a quelli del capitalismo industriale. Non capì
che le forme di « ascesi mondana » dei puritani, dei giansenisti, degli stessi primi
grandi capitani d'industria, realizzavano una condizione essenziale per lo sviluppo industriale: l'accumulazione di capitale da investire e la priorità data all'investimento sul consumo di lusso.
In conclusione possiamo dire che l'opposizione di Mandeville a Shaftesbury
non potrebbe essere più radicale, e che dei due Mandeville si rivela pensatore
assai più acuto e' vigoroso. Come Hobbes, egli è risolutamente avverso ad una
morale naturale, ed ha anzi una visione storica di essa: i vizi variano con il progredire dell'industria e dei lussi, e quindi hanno una dimensione storica, positiva.
Tra i moralisti del Settecento inglese meritano inoltre di venire ricordati:
Samuel Butler, del quale abbiamo già illustrato l'opera apologetica, Francis
Hutcheson, David Hartley, Joseph Priestley e Adam Smith.
L'opera morale del primo si colloca in gran parte nella scia di Shaftesbury,
nonostante che Butler, del quale abbiamo sottolineato le affinità con Pascal,
abbia un senso del peccato, del male e della corruzione umana causata dal peccato originale, ignoto al facile ottimismo di Shaftesbury.
Di che natura è, egli si chiede, il male morale? Perché consideriamo peccato
l'omicidio commesso da un uomo, e non quello perpetrato da una tigre che sbrana
un inerme bambino? La risposta ricorda il criterio estetico di Shaftesbury:
l'azione della tigre è in armonia con la sua natura, mentre l'omicidio è in irrimediabile c"ontrasto con l'armonia insita nella natura umana. Ma come discernere,
allora, questa disarmonica sproporzione che chiamiamo male, peccato? Ancora
una volta, riappare l 'insegnamento del filosofo dell'armonia; in tutti gli uomini
è innata la coscienza, dataci da dio perché giudicassimo azioni ed inclinazioni.
E poiché il dio che ci dà la coscienza è lo stesso che governa il corso del mondo
con un piano provvidenziale, anche Butler, come Shaftesbury, crede che la virtù
arrechi felicità; infatti dio ha creato il mondo per bontà, e quindi lo ha fatto felice,
sicché seguire i suoi piani (suggeriti daila coscienza), comporta una partecipazione a questa bontà universale e una fruizione dei suoi piacevoli frutti provvidenziali. Se ne deduce che le azioni _virtuose, pur senza essere dettate da un movente utilitaristico, contribuiranno a rendere felice chi le compie.
Per Butler la coscienza è il principio regolatore delle passioni, che egli divide
in due classi: quelle che interessano più davvicino la vita morale (come l'amor
proprio e la benevolenza verso il prossimo), e quelle che ci spingono immediatamente ad agire nel mondo (come la fame, la sete ecc.). La funzione di queste
ultime è eminentemente pratica, ed esse, come per Shaftesbury, hanno una aseità
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antologica indipendente dalla loro applicazione concreta, proprio in quanto ci
sono date originariamente da dio per guidarci nella vita pratica. Con la sola ragione non potremmo convincerci della necessità di mangiare; la passione innata
della fame sopperisce a questo pericolo di atarassia. È una spiegazione praticoteologica che mira ad eliminare ogni fondazione utilitaristica anche da questo
tipo di passioni. È infatti evidente che se noi mangiamo per un impulso originario
datoci per il nostro bene dal disegno provvidenziale divino, ogni considerazione
sull'utilità o sul piacere di mangiare risulta, ai fini della nostra azione, irrilevante.
Butler riesce, in certo modo, a sfuggire alla dicotomia delle impostazioni di
Shaftesbury e Mandeville. Dal filosofo dell'ottimismo morale prende vari elementi (quello del senso morale - che in Butler diviene la coscienza - come spia
dell'armonia tra virtù e natura umana; quello dell'innatismo dei criteri morali),
ma d'altra parte non chiude gli occhi (ed in questo ricorda Mandeville) sul male
del mondo e sul fatto che l 'uomo è peccatore; sfugge tuttavia ad una soluzione
utilitaristica assorbendo anche la felicità arrecata dalla virtù nel piano provvidenziale di dio, che trascende l'uomo ed i suoi calcoli.
Le opere principali di Francis Hutcheson sono: Ideas of beauty and virtuc
(Idee di bellezza c virtù, 1725); Passions and affections (Passioni cd affezioni, 1728);
5_ystcm ofmoral philosop~y (Sistcmadiftlosofta morale, uscito postumo nel 1755). Più
vicino a Shaftesbury che a Butler, Hutcheson asserisce che in questo mondo la felicità è di gran lunga superiore alla miseria, e che dio ci si manifesta come architetto e legislatore attraverso l'armonia della natura. Ma, a differenza di Shaftesbury, egli non dissolve dio nel principio archetipo del mondo, bensì, apologeticamente, lo considera un essere personale. Inoltre egli ammette che il male
esista, anche se (con Leibniz) ritiene che rientri in un piano provvidenziale per un
bene maggiore.
L'originalità di Hutcheson risiede specialmente nell'articolazione da lui data
al senso morale di Shaftesbury. Egli distingue anzitutto i sensi esterni dai sensi
interni, e tra questi ultimi enumera il senso della bellezza e dell'armonia (immaginazione), il senso di simpatia per il prossimo, il senso di piacere che danno
le azioni, il senso del pudore, dell'onore, della dignità, il senso sociale e quello
religioso. Quando questi sensi entrano in conflitto (ad esempio quando il senso
di un'azione piacevole urta quello dell'onore), interviene, come supremo principio regolatore, il senso morale, che è superiore a tutti gli altri ed indipendente da
essi. Ma in che cosa consiste il senso morale? Sviluppando Shaftesbury, Hutcheson dichiara che si tratta di una tendenza naturale ad approvare sentimenti ed
azioni che abbiano come scopo il bene pubblico. Non volendo però cadere in una
concezione utilitaristica, egli non ammette che il bene pubblico sia la causa della
moralità di tali azioni e sentimenti. Tale causa resta la volontà divina, nella quale
bene pubblico e senso morale concorrono armoniosamente. È comunque evidente che, una volta accettata questa definizione della virtù come bene pubblico,
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basta un piccolo spostamento dell'angolo visuale per laicizzare la virtù e dire
che l'utile collettivo non ne è l'effetto concomitante, ma la causa efficiente.
Questo passo sarà compiuto da Hume, come vedremo nel capitolo v, dedicato
all'esposizione del suo pensiero.
Una posizione particolare, tra i moralisti del Settecento inglese, è occupata
da David Hartley (1705-57), autore di uno scritto intitolato Observations on man,
his frame, his dury and his expectations (Osservazioni sull'uomo, la sua struttura fisica, i
suoi doveri e le sue prospettive, 1749). Dedicatosi alla medicina dopo aver coltivato
gli studi teologici, fu profondamente influenzato da Locke e da Newton. Subì
pure l 'influenza della morale puritana calvinista, il che lo indusse ad accettare la
dottrina della necessità: tutti gli atti umani, asseriva, sono retti da una ferrea
legge che concatena implacabilmente cause ed effetti, e solo dio è veramente
libero. Ma come far rientrare in questo schema la virtù, dato che essa sembra richiedere la possibilità di scelta tra le azioni, e quindi la libertà? Per Hartley ciò
non solo è possibile, ma la necessità può anche essere conciliata con la felicità.
Da un lato sostiene che noi siamo virtuosi perché dio ci ha costruiti tali; dall'altro, radicalizzando Shaftesbury, afferma addirittura che tutti gli uomini sono
attualmente felici, giacché dio li ha creati in modo che lo divenissero necessariamente.
Merita di venire ricordato che l'influenza newtoniana dà luogo nel nostro
autore ad una sorta di studio delle passioni e del pensiero ispirato allo studio della
legge di gravitazione universale dei corpi. Dopo aver affermato che dio è la causa
efficiente non solo delle mutue attrazioni e repulsioni di tutte le cose dell'universo, ma anche della vita interiore dell'uomo, Hartley, precedendo Bentham,
pensa di poter fare una vera e propria matematica morale, analoga alla matematica
fisica newtoniana. La sua opera contiene formule matematiche sconcertanti, con
l'applicazione di funzioni algebriche alle passioni.
Oltre che a Newton egl! si richiama pure a Locke. Ma non accetta la teoria
lockiana secondo cui le idee umane si distinguerebbero in due classi, sensazioni
e riflessioni; ritiene invece che le seconde si possano ricondurre alle prime, e sulla
base di questa riduzione generale alla sensazione (analoga a quella di Condillac)
distingue sette classi, gerarchicamente ordinate, di idee: sensazione, immaginazione, ambizione, amor di sé, simpatia, teopatia e senso morale.
Alla base di tutte sta, evidentemente, la sensazione, che può essere scomposta
nei due elementi irriducibili di piacere e dolore; elementi di origine sensibile, materiale, fasci di vibrazioni sensibili, con base anatomica. Queste piccole vibrazioni
possono essere, appunto, o piacevoli o dolorose, e, secondo la legge che regola i
moti dei pianeti, le vibrazioni della stessa natura tendono alla coesione, dando
luogo a vere e proprie masse di piacere e di dolore. Su queste masse, Hartley
opera poi con criteri algebrici, formando delle equazioni che dimostrerebbero
come il piacere tenda ad aumentare ed il dolore tenda ad annullarsi.
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Trasformazioni nell'impostazione del problema religioso e morale
Ma in che modo avviene questa nullificazione del dolore, che pure costituisce
insieme al piacere, un dato originario della sensazione (e quindi del mondo dell 'uomo)? Hartley risponde affermando che ciò è reso possibile dal tipo di rapporto
esistente fra le sette classi di idee poco sopra mènzionate. A livello della sensazione
è certo che noi avvertiamo anche vibrazioni dolorose, ma con la immaginazione
già introduciamo un correttivo, in quanto fuggiamo la causa di queste vibrazioni.
Ha quindi luogo un processo di sublimazione, per cui il piacere sensibile (passibile
sempre di avere in sé un residuo di dolore) si sublima nell'altruismo, il quale si
espande a sua volta in quello sociale per giungere infine alla teopatia, ave il dolore
non ha più luogo. Il senso morale, infine, è la « somma totale » del piacere e regola, necessariamente, questo processo di sublimazione.
Con la teoria delle vibrazioni sensibili come base della vita psichica, e della
sostanziale omogeneità tra sensazione, pensiero e sentimento, Hartley poneva le
premesse per una riduzione della coscienza a gioco meccanico delle sensazioni, e
per uno studio anatomico-fisiologico di essa. Su questa scia si mosse anche il suo
seguace Joseph Priestley, autore dell'opera Disquisitions relating to matter andspirit (Disquisizioni sulla materia e lo spirito, 1767). Alle scoperte chimiche di
Priestley faremo cenno nel capitolo VIII della presente sezione.
Tra i moralisti del Settecento inglese non va inoltre dimenticato Adam
Smith. Ci riserviamo però di trattare la sua teoria morale non qui, bensì nel
capitolo VIII della sezione VI, nel quale esporremo brevemente i lineamenti di
un importantissimo ramo della cultura moderna: la fondazione dell'economia
politica classica del capitalismo industriale. Sottolineeremo così con maggiore
chiarezza gli stretti legami di Smith moralista con Smith fondatore dell'economia
politica moderna.
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CAPITOLO TERZO
Montesquieu e Voltaire
I
· CONSIDERAZIONI PRELIMINARI
Nei primi decenni del Settecento cominciarono a prender piede anche in
Francia i nuovi indirizzi di pensiero dei quali abbiamo parlato nel capitolo precedente. Le idee cui essi si ispiravano possono venire così riassunte: aperto e netto
rifiuto della rivelazione, condanna intransigente degli elementi mitologici contenuti in tutte le religioni positive, denuncia dello sfruttamento politico di tali
religioni (con utilizzazione dell'ignoranza delle plebi a sostegno delle peggiori
ingiustizie sociali), critica della tradizione (considerata come fonte di pregiudizi e
di chiusura mentale), appello alla ragione- peraltro non ben definita- come
unico criterio di verità, e conseguente affermazione che solo una religione razionale può aspirare ad essere universalmente valida. La loro rapida diffusione costituisce un evento storico della massima importanza, che non può venire spiegato
se non lo si collega - oltreché alla struttura sociale della Francia di cui si è
fatto cenno nel primo capitolo- alla particolare situazione della cultura francese
dell'epoca, stimolata per oltre un secolo dal movimento libertino e vivamente
impressionata, in anni recenti, dalle penetranti critiche contenute negli scritti di
Bayle.
Come già in Inghilterra, troviamo anche in Francia fra i seguaci del deismo
sia alcuni spiriti sinceramente religiosi, mossi dal desiderio di aprire la via ad una
nuova apologetica capace di sceverare il nucleo più autentico del cristianesimo
dalle incrostazioni superstiziose accumulatesi su di esso nel corso dei secoli, sia
alcuni spiriti insofferenti di ogni dogma e financo propensi -in qualche caso - a
forme aperte di ateismo. In un primo tempo i loro scritti circolano in forma
quasi clandestina; più tardi (verso la metà del secolo) questi medesimi scritti
verranno stampati e si affiancheranno alla grande letteratura illuministica. Ci
limiteremo a ricordare, a titolo di esempio: Le ciel o~vert à tous !es hommes (Il
cielo aperto a tutti gli uomini, saggio redatto verso il 1710-15 da Pierre Couppé,
curato di Bois, ma pubblicato solo nel 1768) che vorrebbe essere sostanzialmente un'opera apologetica, e l'Examen de la religion (di autore ignoto, composto esso pure verso il 1710-20 e pubblicato una prima volta nel 1745, una
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Montesquieu e Voltaire
seconda volta nel 1761) che nega invece esplicitamente la rivelazione: «Noi
disponiamo soltanto di due vie per conoscere la volontà divina: la ragione
e la rivelazione. Ma perché mai la ragione è presente più o meno in tutti gli
uomini, mentre ve ne sono tanti che ignorano la rivelazione, e così pochi che
ne siano stati testimoni? Ciò avviene perché effettivamente c'è una ragione,
mentre non c'è mai stata una rivelazione. » Talvolta gli autori di questi scritti
sono persone isolate; altre volte però appartengono a piccoli ma combattivi circoli culturali. In tal caso la medesima opera esprime le opinioni di un intero gruppo di studiosi, che collaborano direttamente o indirettamente alla sua stesura.
Ad uno dei gruppi più vivaci e più apertamente impegnati nella diffusione del
deismo appartenne, per esempio, Jean-Baptiste Mirabaud, autore di varie opere
direttamente rivolte alla critica del testo biblico e al rifiuto radicale della fede cristiana (scrisse, fra l'altro, un celebre Examen du Nouveau testament, Esame del
Nuovo testamento, pubblicato nel 1769).
Malgrado il carattere clandestino degli scritti testé accennati, è certo che essi
incontrarono un largo favore in diversi strati della società francese, preparando
- per così dire - il terreno al successo di quella che sarà la grande letteratura
illuministica. I problemi sollevati da tali scritti apparivano alla generalità dei lettori incontestabilmente seri, anche se ai nostri occhi non risultano sempre discussi
con la dovuta profondità: problemi delicati e complessi, ricchi di implicanze non
solo nei confronti delle istituzioni ecclesiastiche ma pure nei confronti di quelle
civili (istituzioni, del resto, non facilmente separabili fra loro dato l'appoggio sostanziale che le une fornivano alle altre). La pretesa delle autorità statali e religiose
di metterli a tacere andava a urtarsi contro un'opinione pubblica sempre più
consapevole e finiva per apparire un atto di imperio assolutamente intollerabile.
I ceti della popolazione interessati al dibattito si sentivano ormai così forti da non
dover sottostare a imposizioni del genere; gli animi si facevano disincantati;
cresceva ovunque l'esigenza di una critica spregiudicata di tutti i principi della
religione, della politica, della vita pubblica.
È uno stato d'animo di cui bisogna tenere conto per spiegarci sia l'autentico
entusiasmo suscitato dai libri di Montesquieu, di Voltaire e di altri illuministi, sia
le singolari incertezze delle autorità che, pur condannando tali opere, non osavano opporsi fino in fondo alla loro diffusione ma giungevano talvolta a subirne,
esse stesse, l 'influenza.
Verso la metà del secolo l 'iniziativa passa decisamente dalle mani dei difensori delle vecchie idee a quelle degli illuministi; le loro critiche si fanno via via
più serrate e più taglienti, investendo sempre nuovi problemi. La vecchia cultura
è ormai sulla difensiva e deve cedere una posizione dopo l'altra. Perfino gli innovatori più moderati vengono messi da parte, per far posto ad altri più radicali.
La trasformazione in atto assume un andamento rapidissimo e irresistibile.
La carica propulsiva di questo grandioso movimento culturale fu senza dubbio
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Montesquieu e Voltaire
enorme. La sua diffusione costituì - come già abbiamo osservato - uno dei
fatti più rilevanti della storia del xvm secolo, ed ebbe un peso determinante per
tutto lo sviluppo del pensiero moderno. Eppure vi si possono riscontrare fin
dall'inizio alcuni caratteri, che sembrano rivelare una certa intrinseca debolezza.
Secondo il parere dello scrivente essi risultano connessi alla natura stessa dei
temi che diedero avvio alla rivolta contro la vecchia cultura: temi limitati che si
richiamavano essenzialmente al problema religioso, ai pericoli del fanatismo, alle
perniciose conseguenze dell'alleanza fra stato e chiesa, alle barbarie commesse in
nome di questa o quella fede. Autorevoli studiosi moderni attribuiscono poca
importanza a questa origine del movimento; secondo essi, cioè, il fatto che le
radici dell'illuminismo francese si affondino soprattutto nei dibattiti politico-religiosi non avrebbe gravato in modo sensibile sui suoi sviluppi. È tuttavia innegabile che il peso preminente del settore politico-religioso finì per far sorgere
l 'illusione che esso potesse venire affrontato a sé, senza doverlo inserire in un
quadro più generale. La conseguenza fu un rapido affievolirsi dell'interesse per i
problemi più schiettamente teoretici, un diminuito impegno nello sforzo di rinnovare, accanto alle istituzioni politico-religiose, anche la concezione scientificofilosofica del mondo.
Vengono così a mutare le funzioni stesse attribuite alla filosofia. Non ci si
rende più chiaro conto dell'opera profondamente innovatrice, compiuta dai grandi pensatori del Seicento; si sottovalutano i problemi da essi sollevati o si ritiene
di poter loro dare una facile soluzione. La figura del filosofo si trasforma profondamente e viene, grado a grado, identificandosi con quella del moralista, del letterato brillante, dello studioso di argomenti politici, del fine indagatore degli istituti civili e religiosi.
Egli nutre, sì, una grande ammirazione per la scienza - in cui scorge l 'unico
strumento capace di dissolvere le vecchie superstizioni- ma non si impegna personalmente in essa; ne resta per così dire ai margini, limitandosi a studiarla dall'esterno, a divulgarne i risultati, a farne la più larga ed entusiastica propaganda.
Ciò non esclude ovviamente che vi sia qualche pensatore più completo, capace
di occuparsi con la massima serietà dei problemi naturali come di quelli umani,
ma non si tratta della regola generale. Così il gran discorrere di scienza, di verità
scientifiche da contrapporsi ai dogmi religiosi, di sempre nuove vittorie della ragione, finisce per gettare un'ombra di dilettantismo su molte opere degli illuministi, anche su alcune che sarebbe ingiusto tacciare di superficialità.
Quando si cercano le lontane radici di quella frattura fra le due culture
(umanistica e scientifica) che costituirà una delle peggiori calamità della nostra
epoca, non si può non prendere atto che tali radici risalgano proprio al Settecento. Il fatto singolare è che - in tale epoca - nessuno sarebbe stato disposto
ad ammettere una qualsiasi forma di esplicita separazione fra la scienza e la cultura umanistica; eppure questa separazione si veniva di fatto affermando per il
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Montesquieu e Voltaire
graduale disimpegno dei « filosofi-letterati » dai problemi di fondo della matematica, della fisica e della biologia. È appunto prendendo le mosse da questa pericolosa scissione che la borghesia francese del periodo immediatamente successivo
alla rivoluzione riterrà possibile (come spiegheremo nella sezione VI) ripudiare
lo spirito rivoluzionario dei « filosofi » settecenteschi pur salvando appieno il patrimonio, da essi tanto esaltato, delle nuove scoperte scientifiche e anzi sforzandosi
di arricchirlo con sempre nuovi incrementi e ampliamenti.
I due autori, dei quali intendiamo occuparci nei prossimi paragrafi, sono
molto rappresentativi dal punto di vista testé accennato. Essi diedero certamente
un contributo decisivo al rinnovamento della cultura francese (e non solo francese) dell'epoca, diffondendo in tutta la società stimoli fecondi di esigenze critiche,
ma non riuscirono a dare a tale rinnovamento quella solidità razionale che senza
dubbio era nei loro intenti (soprattutto negli intenti di Voltaire).
Il
· VITA E OPERE DI MONTESQUIEU
Charles-Louis de Secondat, barone di La Brède e di Montesquieu, nacque
l'anno I689 nel castello di Brède, presso Bordeaux, da una illustre famiglia la cui
nobiltà risaliva all'inizio del XVI secolo. Il titolo di Montesquieu gli venne non
dal padre ma da uno zio, presidente del parlamento di Bordeaux.
Dopo essere stato educato in un collegio di oratoriani, sito nelle vicinanze di
Meaux, studiò diritto a Bordeaux dal I 706 al I 709. Ben presto però diede prova
di possedere interessi assai più larghi, di carattere filosofico-letterario.
La sua attività di scrittore ebbe inizio nel 171 I con la composizione di un'opera, che andò perduta, dal titolo De la damnation éternelle des paiens (Sulla dannazione
eterna dei pagani), nella quale sosteneva che i filosofi dell'antichità non possono
essere stati dannati perché ignoravano la rivelazione.
Nel 1714 venne nominato consigliere presso il parlamento di Bordeaux.
Nel 17I6 ereditò dallo zio, di cui abbiamo fatto cenno, la carica di presidente di
tale parlamento (carica che mantenne per dodici anni) oltre al titolo di barone di
Montesquieu e un grande patrimonio. Nel frattempo si era sposato, nel I7I 5, con
una ragazza protestante, semplice e ricca.
A Bordeaux ebbe modo di collaborare con la locale accademia delle scienze,
presentandovi diverse memorie di argomento filosofico, politico e di scienze naturali; fra queste ultime alcune trattavano di patologia medica e della funzione
delle ghiandole renali, altre del fenomeno dell'eco, della trasparenza dei corpi,
ecc. Al 17I6 risalgono pure due saggi filosofici di notevole interesse: Politique des
romains dans la religion (Politica dei romani nella religione) e Système des idées (Sistema
delle idee).
Nel 1721 pubblicò anonime le Lettres persanes (Lettere persiane), romanzo epistolare che si ricollegava a un filone allora assai diffuso di letteratura esotica. Vi
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Montesquieu e Voltaire
sono raccolte varie lettere che l'autore immagina scritte da alcuni persiani vissuti per qualche tempo in Francia. In realtà le notizie che tali lettere forniscono
sui costumi orientali sono del tutto secondarie mentre il nocciolo dell'esposizione è costituito da una fine satira dei costumi e delle istituzioni politiche francesi
nonché della chiesa cattolica. Il romanzo ebbe subito un enorme successo e riuscì
a scuotere profondamente la migliore cultura dell'epoca. Suscitò pure varie
polemiche, cosicché nel 1725 -essendo stata presentata la candidatura di Montesquieu all'accademia di Francia 1 -vennero sollevate contro di essa notevoli
resistenze da parte delle autorità politico-religiose. Queste furono comunque superate nel 1728 con una sorta di compromesso, abbastanza confacente del resto
al carattere tutt'altro che intransigente del nostro autore.
Intanto si era trasferito a Parigi (nel 1722) continuando però a suddividere la
p·ropria vita tra tale città e Bordeaux, fino al 1727 quando abbandonò definitivamente la carriera giudiziaria. Aveva pure scritto alcune composizioni a carattere
letterario ed etico-politico, che accrebbero sempre più la sua notorietà nei salotti
letterari della capitale.
Subito dopo l'ammissione all'accademia, inizia una lunga serie di viaggi in
Germania, Austria, Italia, Svizzera, Olanda, Inghilterra (dove si trattiene circa
due anni ed è iniziato alle logge massoni che), tornando periodicamente al castello
natio per meditare sulle esperienze vissute. Di speciale importanza sono quelle
compiute in Inghilterra, che suscitano in lui una viva ammirazione per le istituzioni di tale paese (in particolare per la tripartizione, ivi vigente, dei poteri
dello stato in legislativo, esecutivo e giudiziario); non si può dire tuttavia che
questa ammirazione provenisse da un'approfondita conoscenza del popolo inglese
e della sua storia: è probabile che essa derivasse soprattutto dalla lettura delle
opere scritte da Locke a difesa della forma di governo instaurata sull'isola dalla
seconda rivoluzione. Non a torto Diderot rimprovererà Montesquieu di avere
tracciato un quadro troppo idilliaco di tale governo.
Nel 1734 pubblica anonime ad Amsterdam le Considérations sur /es causes de la
grandeur des romains et de leur décadence (Considerazioni sulle cause della grandezza
dei romani e della loro decadenza); poco dopo presenta egli stesso una copia del
volume all'accademia, assumendone così ufficialmente la paternità. L'opera
costituisce un tentativo di interpretazione globale della storia di Roma; è interessante che, in essa, vengano collocate tra le cause della grandezza romana non solo
le virtù militari ma particolarmente quelle civili, e tra le cause della decadenza non
solo l'abbandono delle armi ai barbari ma anche l'oblio delle antiche virtù.
I Mentre l'Académie royale des sciences, cui si
accennò nel capitolo I della sezione IV, venne fondata nel I666 ad opera del ministro Colbert, l' Académie française (accademia di Francia) fu costituita
fin dal I 6 3 5 ad opera del cardinale Richelieu ed
accolse, all'inizio, soltanto dei letterati col pre-
cipuo scopo di studiare e riformare la lingua francese. In seguito vi entrarono pure diplomatici,
giuristi, filosofi, storici, critici ecc.; come ricorderemo nel paragrafo v anche Voltaire venne
eletto «accademico di Francia» nel 1746.
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Montesquieu e Voltaire
Nel I748 esce finalmente a Ginevra (essa pure anonima) l'opera a cui Montesquieu veniva lavorando dal I73 I, L'esprit des lois (Lo spirito delle leggi), in cui
confluiscono tutti i suoi studi sulle costituzioni europee dell'epoca. Essa ebbe
grande diffusione, malgrado l'accoglienza assai fredda che ne fecero sia i gesuiti
sia i giansenisti. Per rispondere alle critiche sollevate contro il proprio capolavoro
Montesquieu pubblicherà nel 1750 (sempre a Ginevra) una Difence de l'Esprit des
lois. Malgrado questa difesa l'opera venne posta all'indice nel 175 I.
Dopo L'esprit des lois Montesquieu compose ancora un romanzo, Arsace et
lsménie, e uno scritto intitolato Lysimaque. Compose pure, per l'Enciclopedia, una
voce sul gusto che sarà pubblicata nel I756 col titolo Essai sur le gout (Saggio sul
gusto).
Nel 1754 ritornò a Parigi, ove continuò a stendere appunti per rielaborare
L'esprit des lois. Morì a Parigi nel I 7 55. L 'unico fra i letterati parigini che segui
i suoi funerali fu Diderot.
Che l'interesse di Montesquieu sia stato quasi interamente assorbito dai problemi civili, risulta evidente dai titoli stessi delle sue opere. Erano, del resto, i
problemi che la società francese dell'epoca sentiva come più urgenti. Purtroppo
gran parte dei lettori di tali opere ne trassero l'impressione che questi problemi
potessero venire trattati senza un inquadramento filosofico più generale, il che
non giovò certo al loro approfondimento.
Né va d'altra parte dimenticato che la fortuna degli scritti di Montesquieu è
anche dovuta al carattere moderato delle idee da lui sostenute. Sono idee che non
richiedevano né un mutamento radicale delle concezioni filosofiche né un mutamento radicale delle strutture sociali. Proprio perciò potevano venire accolte con
molto favore da chi, pur avvertendo i mali della Francia, non intendeva impegnarsi
a fondo nella complessa opera - teorica e pratica - necessaria per estirparli.
III
· MODERATISMO E SENSO STORICO
Abbiamo accennato nel paragrafo precedente al sostanziale moderatismo di
Montesquieu. È necessario ritornare qui brevemente su di esso, ponendone in
luce i rapporti con un altro carattere fondamentale del nostro pensatore: cioè con
la sua tendenza a considerare la storia come fonte di spiegazione razionale dei
grandi eventi dell'umanità.
Tale tendenza emerge con particolare chiarezza nel distacco di Montesquieu
dal giusnaturalismo: questo indirizzo scorgeva - come sappiamo - una vera e
propria opposizione fra l'individuo e lo stato, considerando quest'ultimo come
una costruzione artificiale (arbitraria) della ragione, basata su di un patto ideato per
porre ordine al primitivo comportamento irrazionale e caotico degli individui.
Per Montesquieu invece la formazione dello stato è opera di un processo ben più
lento e complesso. Sono le necessità stesse del sostentamento e della conserva-
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Montesquieu e Voltaire
zione a favorire il riunirsi in gruppi dei primi uomini, ed è l'ambiente in cui questi
gruppi si trovano a vivere a determinarne gradualmente i costumi che risulteranno diversi da popolo a popolo. Tali costumi - che non sono ancora vere e
proprie leggi - verranno poi istituzionalizzati in regole che non hanno in sé
nulla di casuale o di arbitrario. « Le leggi sono in strettissimo rapporto con il
modo in cui i diversi popoli si procurano i mezzi di sostentamento. Occorre un
codice di leggi più esteso per un popolo dedito al commercio e alla navigazione,
che non per un popolo il q_uale si limiti a coltivare le proprie terre. Occorre un
codice di leggi più esteso per quest'ultimo, che non per un popolo il quale viva
sulle proprie greggi, ed ancor più che non per un popolo il quale viva di caccia. »
La formazione degli stati è proprio connessa alla istituzionalizzazione delle regole
che si sono venute consolidando nei costumi dei popoli. Con lo stato nasce il
diritto positivo, che si distinguerà in diritto delle genti, diritto politico e diritto
civile. Il primo codifica i rapporti tra le varie società ed ha come suo scopo la tutela e la salvaguardia della pace; il secondo codifica i rapporti tra i cittadini e lo
stato; il terzo regola i diritti fra i cittadini come privati.
I legami fra il moderatismo di Montesquieu e la concezione testé delineata
sono evidenti: questa concezione ci conduce infatti a « comprendere » e quindi in
certo senso a «giustificare» tutte le forme statali costituitesi nel procedere della
storia. Ciò non significa, ben inteso, che non si debba operare per modificarle e
migliorarle, ma l'azione diretta a questo scopo dovrà tendere soprattutto a trasformare il modo di vivere dei popoli, i loro costumi, le loro credenze tradizionali: e questa trasformazione potrà venire conseguita più dal diffondersi del
commercio che non dall'improvvisa sostituzione di una forma di governo all'altra.
Non senza motivo Voltaire e Diderot negheranno energicamente che gli effetti
del clima siano determinanti per le vicende storiche dei popoli. Ecco le chiare e
forti parole scritte da Diderot sull'argomento: « Dappertutto i costumi sono effetti della legislazione e del governo; non sono né africani né asiatici né europei,
sono buoni o cattivi. Ci sono schiavi al polo dove fa molto freddo. Ci sono schiavi
a Costantinopoli, dove fa molto caldo; è necessario che dappertutto un popolo sia
istruito, libero e virtuoso. I mutamenti introdotti da Pietro 1 in Russia, se erano
buoni in Europa, lo erano dappertutto. Pur non negando l 'influenza del clima sui
costumi, lo stato attuale della Grecia e dell'Italia, lo stato futuro della Russia dimostreranno a sufficienza che i costumi buoni e cattivi hanno altre cause. »
Quanto ora detto non deve farci ritenere che Montesquieu vedesse nel clima
l'unico fattore delle vicende dei popoli: accanto ad esso egli introduce anche altri
fattori - cui dà il nome di « morali » - costituiti dai costumi, dalle leggi, dalle
credenze religiose di tali popoli. È vero - come abbiamo testé spiegato - che
questi fattori morali sono all'origine determinati proprio dal clima, ma è una dipendenza che diventa via via meno immediata. «La natura e il clima dominano
quasi da soli presso i selvaggi », ma col progredire delle civiltà i costumi, le leggi,
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Montesquieu e Voltaire
le istituzioni acquistano una vera e propria autonomia, diventando essi stessi fattori assai importanti dello sviluppo delle nazioni. È in altri termini, il patrimonio
morale e giuridico accumulato nella storia passata che agisce sulla storia futura.
«Diverse cose governano gli uomini: il clima, la religione, le leggi, le massime di
governo, gli esempi delle azioni passate, i costumi, le maniere e da tutto ciò si
viene formando uno spirito generale. »
Montesquieu insiste molto su questo « spirito » dei popoli, e ne analizza con
straordinario acume i diversi caratteri presso gli antichi romani, presso i cinesi,
presso le moderne nazioni europee: esso gli fornisce il filo conduttore per comprendere la loro storia, la loro civiltà, la loro etica. È uno studio che se per un
lato vale senza dubbio a moderare lo slancio degli innovatori troppo frettolosi,
per l'altro però ha il merito incontestabile di farci riflettere sul carattere non assoluto, non intoccabile, delle nostre istituzioni, le quali non caratterizzano la
civiltà ma una delle tante civiltà possibili.
Sulla base di questo studio diventa agevole irnpostare in modo nuovo la ricerca di una soluzione per il grande problema dei rapporti fra individuo e stato.
Non si tratta più di far dipendere tale soluzione da queste o quelle premesse metafisiche, né di discutere in astratto la via migliore per giungere ad essa. Si tratta
invece di osservare direttamente i fatti umani, con occhio libero da ogni pregiudizio, con una metodologia concreta analoga a quella instaurata da Locke.
Sorretta da un metodo siffatto la ragione umana potrà penetrare il significato
autentico delle istituzioni e dei loro rivolgimenti, e scoprire l'esistenza di un
ordine generale nel corso degli eventi umani così come già è riuscita a scoprire
l'esistenza di un ordine nel corso degli eventi fisici. È una scoperta che da un lato
accrescerà le nostre conoscenze, dall'altro ci porrà in grado di intervenire efficacemente sul mondo politico-sociale, indicandoci la via per elaborare progetti di
riforma non soltanto teorici e utopistici, ma aderenti alla realtà e perciò storicamente attuabili.
IV · LE FORME DI GOVERNO
Chiariti il metodo e lo scopo dell'opera di Montesquieu, possiamo finalmente passare a precisarne l'oggetto. Questo è costituito dalle forme di governo
e dai principi che stanno alla base del loro sviluppo. Il nostro autore ritiene che
esse siano fondamentalmente: repubblica, monarchia, e dispotismo.
« Il governo repubblicano è quello in cui il popolo riunito, oppure solamente una parte del popolo, possiede "la potenza sovrana; nel primo caso si
avrà una repubblica democratica, nel secondo una repubblica aristocratica. Il
principio di tale governo è la virtù, cioè la capacità di sottostare alle leggi da noi
stessi emanate, sì da essere responsabili delle nostre proprie azioni. Nella democrazia questa capacità deve essere posseduta da tutto il popolo, nell'aristocrazia
deve essere posseduta soprattutto dai nobili. »
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Montesquieu e Voltaire
« Il governo monarchico è quello in cui governa un uomo solo, ma in base a
leggi fissate e stabilite. » Il principio che sta alla base della monarchia è l'onore
« vale a dire la consapevolezza che ognuno ha della propria persona e della propria
condizione ». In questo tipo di governo « si troverà raramente qualcuno che sia
fornito di virtù»; ma il principio dell'onore «può ispirare le azioni più belle e
può condurre, se è connesso con la forza delle leggi, a realizzare lo scopo del governo così come fa la virtù».
« Il governo dispotico è quello in cui un solo uomo, senza legge e senza regola, dispone ogni cosa con la sua volontà e con i suoi capricci. » Il principio su
cui esso si regge è la paura che il despota incute nei sudditi. Al suo funzionamento
non è affatto necessaria la virtù dei cittadini; quanto poi al senso dell'onore, esso
sarebbe addirittura pericoloso potendo spingere chi lo prova a ribellarsi contro il
de~pota cioè a infrangere la struttura stessa dello stato.
L'affermazione che i principi delle tre forme testé elencate di governo sono la
virtù, l'onore e la paura non significa- secondo Montesquieu - che ciascuno di
tali principi viga costantemente nella rispettiva forma di governo, ma solo che
dovrebbe esservi sempre presente. « Ciò non vuoi dire che, in una certa repubblica, viga la virtù, ma vuoi dire che si dovrebbe essere virtuosi. E ciò non significa neppure che, in una certa monarchia, si abbia dell'onore: ma implica che se
ne dovrebbe avere, altrimenti il governo sarà imperfetto. »
Queste definizioni possono senza dubbio apparire molto astratte e artificiose;
Montesquieu ritiene tuttavia che siano agevolmente ricavabili dall'esame obbiettivo delle forme concrete di governo via via realizzate dalla storia, e che
riescano molto utili per farci cogliere lo sviluppo di tali forme nonché i motivi
della loro corruzione. È interessante notare che - secondo il nostro autore questi motivi rappresentano - per la repubblica e per la monarchia - qualcosa
di accidentale, mentre nel caso del governo dispotico derivano dalla sua stessa
natura. « Il principio del governo dispotico si corrompe senza sosta, poiché è
corrotto per sua natura. Gli altri governi periscono in quanto alcuni accidenti
particolari vengono a violarne il principio: invece questo perisce per vizio interno
allorché qualche causa accidentale non impedisce al suo principio di corrompersi.
Esso si mantiene solamente quando circostanze, derivanti dal clima, dalla religione, dalla situazione o dal genio del popolo lo costringono a seguire un certo
ordine, e a sopportare qualche regola. Queste cose costringono la sua natura senza
però mutarla: la sua ferocia permane, ed è soltanto addomesticata per qualche
tempo.»
La simpatia di Montesquieu risulta equamente suddivisa tra repubblica e
monarchia: in entrambe infatti è, secondo lui, possibile realizzare un'autentica
libertà.
« Il termine libertà, » egli scrive, «non esprime altro che un rapporto, e
non può servire a distinguere le varie specie di governo; infatti lo stato popolare
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implica la libertà dei poveri e dei deboli, e la servitù dei ricchi e dei potenti, mentre la monarchia comporta la libertà dei grandi e la servitù dei piccoli. Libero
non è un popolo che abbia questa o quella forma di governo, ma è invece quello
che gode della forma di governo stabilita dalla legge ... Da ciò si deve concludere
che la libertà politica riguarda le monarchie moderate al pari delle repubbliche, e
non è più distante dal trono che dal senato: è libero qualsiasi uomo il quale abbia
un motivo fondato di ritenere che il furore di una sola persona o di più persone
non gli toglieranno la vita o la libertà dei suoi beni. » E altrove precisa: «La democrazia e l'aristocrazia non sono degli stati liberi per loro natura. La libertà
politica si trova soltanto nei governi moderati »; « la libertà consiste principalmente nel non poter essere costretti a compiere una cosa non ordinata dalla legge;
e noi ci troviamo in questo stato solo quando siamo governati da leggi civili. Noi
siamo quindi liberi in quanto viviamo sotto le leggi civili».
Condizione indispensabile per la conservazione della libertà è la separazione
dei tre poteri che esistono in ogni stato: il potere legislativo, quello esecutivo e
quello giudiziario. Separandoli uno dall'altro, non solo si circoscrive la zona in
cui ciascuno di essi può operare, ma si crea la possibilità di reagire prontamente,
qualora i rappresentanti di uno dei tre poteri cercassero di usurpare le funzioni
degli altri. Poiché questa separazione può venire praticata sia presso i governi
repubblicani sia presso quelli monarchici, tanto gli uni quanto gli altri risultano
compatibili con la libertà.
Se - come risulta dalla definizione stessa di governo dispotico - non si
realizza in esso alcuna divisione fra i tre poteri legislativo, esecutivo e giudiziario,
e quindi non vi può essere alcuna autentica libertà, sorge spontaneo il quesito:
perché mai il governo dispotico è tanto diffuso nel mondo, particolarmente in
Asia? È interessante notare che per rispondere a questa domanda, Montesquieu
non fa appello a qualità negative dell'animo umano - cosa che getterebbe
un'ombra di pessimismo/ sulla sua trattazione - ma unicamente alla struttura
geografico-climatica del continente asiatico che favorisce i grandi imperi (perché
vi si hanno vastissime pianure solcate da pochi fiumi capaci di fungere da confini
sicuri fra stati diversi): «Il potere deve essere dispotico in Asia. Infatti, qualora
la servitù non fosse estrema, avrebbe luogo per prima cosa una divisione non compatibile con la natura del paese. » L'essenziale è, per il nostro autore, far notare
che del tutto diversa è la situazione europea, ove i governi liberi si rivelano i più
atti alla prosperità dei popoli (il che costituisce la migliore giustificazione del
programma politico dei moderati): « In Europa, invece, la divisione naturale forma vari stati di grandezza media, nei quali il governo delle leggi non si oppone
alla conservazione dello stato: al contrario, esso è talmente favorevole a questa,
che, senza leggi, lo stato decadrebbe, diventando inferiore agli altri stati. »
68
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V
· VITA E OPERE DI VOLTAIRE
François Marie Arouet (che, come vedremo, mutò più tardi il proprio nome
in quello di Voltaire), nacque a Parigi nel I694 da famiglia borghese. Ricevuta la
prima educazione a carattere nettamente letterario dal proprio padrino, l'abate
di Chateauneuf, entrò a dieci anni nel collegio dei gesuiti Louis-le-Grand e qui
rimase fino al I 7 I I. Precocissimo poeta, era stato presentato ancora ragazzo ad una
gran dama, Ninon de Lenclos, famosa per la sua cultura e il suo fascino, che alla
propria morte (I 7 o 5) gli lasciò per testamento duemila franchi « allo scopo di comperare libri ».
Tornato a casa nel I7II, fu costretto dal padre a dedicarsi agli studi giuridici per divenire magistrato; nel frattempo però frequentava i brillanti circoli
letterari parigini, ove non tardò a farsi notare per la sua vivacissima intelligenza.
Nel I 7 I 3 il padre lo inviò all' Aja al seguito del marchese di Chateauneuf (fratello
dell'abate), ma qui vi fu invischiato in un'avventura amorosa con una protestante;
dovette quindi ritornare in patria ove il padre lo relegò per un anno in campagna.
Rientrato a Parigi nel I715 si legò ai circoli letterari contrari al reggente (Luigi
XIV era morto nel settembre di tale anno), cosicché nel I7I6 venne esiliato da
Parigi; dopo meno di un anno gli fu concesso di tornarvi ma, caduto di nuovo
in sospetto, venne rinchiuso nella Bastiglia. Qui si diede ad una intensa vita di
scrittore, iniziando la composizione di uno dei suoi capolavori: la Henriade. Intanto abbandonava il proprio nome di famiglia assumendo quello di Voltaire, che
forse voleva essere un anagramma di Arovet l. i. (le jeune).
Uscì dalla Bastiglia nell'aprile del 17 I 8, ma venne di nuovo esiliato da Parigi, dove poté rientrare solo all'inizio del I 7 z.o. Nel 17 z. I il padre morì !asciandogli una cospicua rendita. Anche il reggente si rappacificò con il giovane assegnandogli una pensione, e nominandolo diplomatico segreto del governo francese. Con questa delicata mansione Voltaire compì alcuni viaggi di notevole responsabilità a Cambrai, a Bruxelles, all'Aja; e già sembrava avviato a una brillante carriera, quando per un diverbio con il duca di Rohan venne arrestato, rinchiuso per due settimane nella Bastiglia e poi esiliato in Inghilterra (I72.5). Intanto era uscita, nel I72.3, la prima edizione della Henriade con il titolo La ligue.
Dopo una permanenza di tre anni in Inghilterra ritornerà a Parigi, nel I 7 2.9,
profondamente trasformato. Non era diventato soltanto un grande ammiratore
delle istituzioni politiche parlamentari, ma aveva letto e meditato Locke, Newton
e i deisti inglesi, traendone un vivo interesse per i problemi filosofici e scientifici
come pure per i dibattiti religiosi.
A Parigi la fama di Voltaire cresce rapidamente. La sua attività_ di scrittore
non trova soste. Nel I 73r pubblica una prima importante opera di argomento
storico, l'Histoire de Charles XII (Storia di Carlo xu). Nel 1734 escono in francese le
sue Lettres écrites de Londres sur /es Anglais et autres stljects (di cui già l'anno prima
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Montesquieu e Voltaire
era stata pubblicata in Inghilterra un'edizione in lingua inglese). L'opera- solitamente nota col titolo di Lettere filosofiche o Lettere inglesi - viene solennemente
condannata come « atta a suscitare illibertinaggio più pernicioso per la religione
e per l'ordine della società civile»; malgrado questa condanna essa ottiene però il
massimo successo (se ne stampano cinque edizioni nell'annata e altre cinque fra il
1734 e il I739)· Voltaire fugge in Lorena nel castello di Cirey con la marchesa di
Chatelet, sua amante fin dal I 7 3 3. Nel I 7 3 5 viene graziato, ma non gli è concesso di
abitare continuativamente a Parigi. Nel I736 è di nuovo costretto a lasciare la
Francia per tre mesi; poi rientra al castello di Cirey ove lavora intensamente (vi
organizza anche un gabinetto scientifico, ove esegue esperimenti di fisica e di
chimica).
Intanto nel I734 aveva scritto il Traité de métaphysique (Trattato di metafisica)
che uscirà solo postumo. Pubblica invece nel I738 gli Éléments de la philosophie de
Newton (Elementi della filosofia di Newton), che segnano la vittoria del newtonianesimo sul cartesianesimo in Francia (su questa vittoria ritorneremo nel capitolo VII
illustrandone i più importanti fattori). La stessa marchesa di Chatelet studia
Newton e si accinge a curare la traduzione francese dei Principia (questa uscirà solo
alcuni anni dopo la morte della traduttrice).
Voltaire lavora pure ad alcuni romanzi filosofici, che pubblica nel I747 e
inizia la stesura delle sue maggiori opere storiche. Nel i745, ormai rappacificato
con la corte, viene nominato (per intercessione della Pompadour) storiografo
reale; l'anno successivo entra a far parte dell'accademia di Francia.
Ma presto ricominciano gli screzi con le autorità, dovuti anche, fra l'altro,
all'appoggio che Voltaire fornisce ai rappresentanti più avanzati della cultura
francese, e in particolare agli enciclopedisti.
Essendo morta nel I749 la marchesa di Chatelet, egli accetta nel I75I l'invito di Federico II a recarsi presso la sua corte; si fermerà a Berlino tre anni.
Nel I 7 53 esce una delle due più importanti opere di storia scritte da Voltaire:
Précis du siècle de Louis XIV (Compendio del secolo di Luigi xiV); l'altra, Essai sur /es
moeurs et l'esprit des nations (Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni), sarà pubblicata
nel I756.
A Berlino entra in urto con Maupertuis, autorevole presidente dell'accademia delle scienze di tale città. Essendo sorta una grave polemica tra Maupertuis
e Koenig intorno al principio di minima azione (del quale parleremo nel capitolo vii), Voltaire interviene in essa per opporsi al tentativo di Maupertuis di dare
un'interpretazione metafisica-teologica di tale principio. Scrive sull'argomento
un libello fortemente satirico dal titolo La diatribe du docteur Akakia, médecin du
Pape. Allorché l'opera viene alla luce (I752·) Federico II lo mette agli arresti. Si
riconcilierà poco dopo con lui, ma sorgeranno nuovi dissapori e infine Voltaire
lascerà Potsdam (la sede della corte prussiana) nel I753·
Per ottenere il permesso di rientrare in Francia, fa un atto di sottomissione,
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ricevendo una comunione solenne a Colmar. Non gli viene tuttavia concesso di
stabilirsi a Parigi. Si rifugia in Svizzera in una villa presso Ginevra. Nel I 7 ss
esce uno dei più famosi drammi di Voltaire: La pucelle (La pulzella).
Il gravissimo terremoto di Lisbona del I 7 s6 •lo spinge a scrivere due opere
contro l'ottimismo leibniziano: Poème sur le désastre de Lisbone (Poema sul disastro di
Lisbona, I7S6) e Candide ou l'optimisme (Candido o l'ottimismo, I7S9)·
Intanto egli si è trasferito, dal I 7 s8, in una vasta proprietà presso ,Ginevra,
a Ferney, in territorio francese. Qui continua con infaticabile tenacia la sua attività di scrittore, e nel frattempo interviene coraggiosamente nella vita pubblica
della Francia, denunciando misfatti giudiziari, e opponendosi ovunque all'intolleranza e al fanatismo religioso. Fra le sue opere che risalgono a questo periodo
ci limitiamo a ricordare: il Traité sur la tolerance (Trattato sulla tolleranza, I763),
il Dictionnaire philosophique portatif(Dizionario filosofico portatile, I764), la Philosophie
de l'histoire (Filosofia della storia, I76s), Le philosophe ignorant (Il filosofo ignorante,
I766), Questions sur I'Encyclopédie (Questioni sull'Enciclopedia, I770-72), Histoire de
l'établissement du.christianisme (Storia dell'istituzione del cristianesimo, I777)·
Nel I776 Voltaire adottò una ragazza, riscattandola dal convento. Nel I778
ritornò dopo ventotto anni a Parigi, accolto trionfalmente, per rappresentarvi
la sua ultima tragedia. lvi morì dopo aver rifiutato il confessore. Nel I79I la sua
salma verrà trasferita al Pantheon.
Le notizie testé riferite, pur non dandoci un quadro completo della sua
straordinaria attività, valgono tuttavia a dimostrarci quanto fu grande l 'impegno
etico-politico di Voltaire (inconfrontabilmente superiore ali 'impegno di Montesquieu), e quanto vari e profondi furono i suoi interessi culturali. Egli ci appare
senza dubbio come una delle figure più rappresentative dell'illuminismo francese,
come uno dei massimi promotori della modernizzazione e laicizzazione del pensiero europeo. Tali notizie mettono però in luce, nel contempo, le non poche
oscillazioni dei suoi interessi, che ora lo portano a impegnarsi con molta serietà
in alcuni problemi (ad esempio quelli storiografici), ora ad affrontarne altri dei'
quali avverte sì l'importanza ma senza rendersi conto della loro più profonda
·
difficoltà.
Nello stesso ambito dei problemi etico-politici egli si rivela non di rado incerto fra la coraggiosa condanna della vecchia società e l'accettazione sostanziale
di alcune tra le sue più tipiche strutture. Il fatto è che Voltaire lavora instancabilmente per riformarla, correggerla, innovarla, ma non si propone affatto di
abbatterla, per crearne una interamente diversa. Anche se molti rivoluzionari si
richiameranno a lui, egli non fu un autentico rivoluzionario; né nel campo della
politica, né - come ora cercheremo di spiegare - in quello della filosofia. Se
sarebbe ingiusto accusarlo di superficialità, come pretesero fare alcuni storici
idealisti, non sarebbe nemmeno esatto, però, nascondercene i limiti. In realtà
egli fu uno dei protagonisti più insigni del progresso della civiltà, non del pro-
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Montesquieu e Voltaire
gresso del pensiero filosofico-scientifico. Il contributo più valido fu, forse, quello
che egli diede alla difficile e complessa opera di liberazione della cultura da ogni
condizionamento religioso.
VI
· GNOSEOLOGIA ED ETICA
Da quanto abbiamo detto nel paragrafo precedente circa la figura e gli
scritti di Voltaire risulta chiaro che egli subì profondamente l'influenza del
pensiero inglese, in particolare quella di Locke e di Newton. La sua entusiastica
adesione all'empirismo lockiano e alla fisica newtoniana segna una tappa importante nella storia della cultura francese, che con Voltaire e con vari suoi contemporanei sembra voler compiere .una vera rottura nei confronti della propria,
anche migliore, tradizione. Il punto più significativo di questa rottura è il netto
rifiuto della filosofia e della scienza cartesiana.
Come vedremo nei prossimi capitoli, molti fra i più noti pensatori della
Francia settecentesca condivisero - almeno nelle sue grandi linee - tale orientamento empiristico e anticartesiano, tanto che alcuni storici della cultura ritennero in passato di potervi scorgere un carattere comune di tutto l'illuminismo
francese; da alcuni anni però un più attento esame della situazione ha dimostrato
che le cose non stanno a rigore così; in quanto vi fu anche un gruppo di
illuministi i quali non solo non rifiutarono l'eredità cartesiana ma fecero perno
su di essa per giungere ad una concezione integralmente materialistica, ben più
radicale dell'empirismo lockiano e voltairiano.
La prima tesi della filosofia di Cartesio che viene aspramente respinta da Voltaire è l 'innatismo. « Chiunque voglia rendersi fedelmente conto di quanto è
avvenuto nel proprio intelletto riconoscerà senza fatica che i suoi sensi gli hanno
fornito tutte le sue idee; ma alcuni filosofi, abusando della loro ragione, hanno
preteso che gli uomini posseggano delle idee innate. » Critica dell 'innatismo e accettazione dell'origine sensoriale di tutte le idee sono, per il nostro autore, due
facce della medesima medaglia:« Un'idea è un'immagine impressa nel mio cervello ... le idee più astratte derivano dagli oggetti che ho sentito. »
Con evidente leggerezza, egli ritiene ovvio che le stesse più difficili nozioni
matematiche- come per esempio quella di infinito- e perfino le nozioni metafisiche provengano unicamente dai sensi: coloro che hanno preteso negare
questo incontestabile risultato dell'analisi dei nostri processi conoscitivi non
avrebbero fatto altro che abbandonarsi a « romanzesche costruzioni ».
Fra tali « romanzesche costruzioni » vanno annoverate non solo l'idea cartesiana di spirito ma anche quella di materia; entrambe debbono venire coraggiosamente abbandonate come i due pilastri di una filosofia in cui Voltaire non
scorge altro che la nuova metafisica dell'epoca moderna, non meno dogmatica
e non meno pericolosa della vecchia metafisica aristotelica.
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Egli riconosce, sì, i grandi meriti acquisiti da Cartesio nella geometria, ma
nega che abbia saputo fare tesoro delle proprie scoperte geometriche per dare
inizio a una scienza veramente moderna (anche il meccanicismo biologico lo
lascia del tutto insoddisfatto). « La geometria rappresentava una guida da lui
stesso in qualche modo formata, e che l'avrebbe fatto procedere sicuramente nella
sua fisica; tuttavia egli abbandonò infine quella guida e si dette allo spirito di sistema. Allora la sua filosofia divenne solo un romanzo ingegnoso, e tutt'al più
verosimile per gli ignoranti. S'ingannò sulla natura dell'anima, sulle prove dell'esistenza di Dio, sulla materia, sulle leggi del movimento, sulla natura della
luce; ammise idee innate, inventò nuovi elementi, creò un mondo, fece l 'uomo a
suo modo, e si dice a ragione che l 'uomo di Descartes è appunto sòltanto l 'uomo
di Descartes, assai lontano dall'uomo vero. »
· Per contro il vero iniziatore della scienza moderna sarebbe stato Bacone «il
padre della filosofia sperimentale», il primo scopritore (secondo Voltaire) dell'attrazione gravitazionale, colui che seppe «indicare» quasi tutte le «esperienze
della fisica che si sono fatte dopo di lui », e pose fine al periodo in cui le invenzioni
erano compiute in virtù del « solo caso ». Se Bacone ha aperto un nuovo orizzonte all'umanità spetterebbe a Newton e Locke il merito di avere definitivamente
debellato il pericolo di un ritorno della metafisica (sia pure formulata in termini
cartesiani anziché aristotelici), che è la vera nemica del libero sviluppo delle indagini sia scientifiche sia filosofiche. Voltaire non si stanca di presentare Newton
quale « distruttore del sistema cartesiano », contrapponendo la sua scienza a
quella di Cartesio come « un capolavoro » a un semplice « tentativo »; e parimenti di esaltare in Lockeil demolitore della teoria cartesiana delle idee innate:
« Locke, dopo aver demolito le idee innate, dopo aver rinunciato completamente
alla vanità di credere che si pensi sempre, constata che tutte le nostre idee ci vengono dai sensi, esamina le nostre idee semplici e quelle che sono composte, segue
lo spirito dell'uomo in tutte le operazioni, fa vedere come le lingue che gli uomini
parlano sono imperfette, e quale abuso dei termini noi facciamo ad ogni momento».
Non è il caso di discutere le valutazioni di Cartesio, di Bacone, di Locke e di
Newton date da Voltaire. Basti sottolineare che, pur essendo stato uno degli studiosi che maggiormente contribuì alla diffusione del pensiero newtoniano in
Francia, non sembra che Voltaire si sia reso effettivamente conto del significato
scientifico dell'opera del grande fisico inglese t;~.é della gravità dei problemi epistemologici da lui lasciati aperti (per esempio del problema - che esamineremo nei
capitoli VII e vm - di precisare e giustificare la strettissima collaborazione fra
matematica ed osservazione empirica attuantesi nella scienza newtoniana). Ciò
che non deve venir dimenticato è che il motivo profondo della decisa opposizione
del nostro autore a Cartesio va soprattutto cercato nel pericolo (senza dubbio effettivo, anche se forse sopravvalutato da Voltaire) di una utilizzazione della filosofia
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cartesiana al fine di affermare l'assoluta dipendenza dell'uomo e del mondo dalla
volontà divina. In altri termini: l'accettazione del cartesianesimo sembra costituire, agli occhi di Voltaire, un grave impedimento alla laicizzazione della cultura
ed è per questo motivo che egli lo ritiene gravemente dannoso allo sviluppo di
un pensiero davvero libero e moderno.
Conseguentemente a quanto testé accennato, Voltaire respinge con pari energia gli sviluppi della filosofia cartesiana operati da Malebranche, Spinoza e
Leibniz. Polemizza pure con straordinaria vivacità contro Pasca! dando spesso
l'impressione, però, di non riuscire a penetrarne il significato più profondo. Al
fine di illustrare l'assoluto divario esistente tra la cultura e la mentalità dei due
autori, e quindi di spiegarci il motivo onde Pascal riesce così incomprensib~le a
Voltaire, vale la pena riferire - a titolo di esempio -le obiezioni di quest'ultimo
al famoso argomento pascaliano della scommessa. 1 « È evidentemente falso dire
" non scommettere che Dio esiste, è scommettere che non esiste ", poiché colui
che dubita e chiede di essere illuminato non scommette sicuramente né pro né
contro. D'altra parte questo articolo risulta alquanto indecente e puerile; l'idea
del giuoco, della vincita e della perdita, non conviene alla gravità del soggetto.
Inoltre, l'interesse che ho a credere una cosa non è una prova dell'esistenza della
cosa stessa ... Cominciate, si potrebbe dire a Pascal, convincendo la mia ragione. »2
È alla ragione che Voltaire vuole appellarsi in ogni problema, poiché essa
gli fornisce lo strumento più sicuro per dare all'uomo un pieno dominio sui propri pensieri e sulle proprie azioni. Secondo lui, essa ci rende chiaro conto non
solo dell'ordine del mondo, ma anche del posto che l'uomo occupa nella natura,
e dei poteri che gli competono.
Fra questi merita un particolarissimo rilievo la libertà che «è unicamente il
potere di agire ». Voltaire respinge con grande energia la concezione di essa come
«libertà di indifferenza» (a suo giudizio questa è soltanto «un'espressione priva
di senso, inventata da uomini che non ne avevano affatto »),per farsi invece paladino di quel tipo di libertà che costituiva ormai una delle più vive aspirazioni della
borghesia. « La vostra volontà, » egli scrive, « non è libera, ma lo sono le vostre
azioni. Voi siete libero di agire quando avete il potere di farlo. » E ancora:
« Essere veramente libero vuoi dire potere. Quando posso fare ciò che voglio,
sono libero, ma io voglio necessariamente ciò che voglio, altrimenti vorrei senza
ragione e senza causa, cosa impossibile. La mia libertà consiste nel camminare
quando voglio camminare, senza avere la gotta. La mia libertà consiste parimenti
nel non compiere un'azione cattiva quando il mio spirito la presenta come neI Si ricordi quanto venne spiegato su questo
argomento nel capitolo vrr della sezione xv.
2. Il brano qui riportato è tratto dalle Remarques s11r !es pensées de Pasca/ aggiunte da Voltaire, come venticinquesima lettera alle Le/tres
philosophiques pubblicate in edizione francese nel
1734. Va comunque notato che Voltaire continuò
a occuparsi per tutta la vita del grande matematico-filosofo del Seicento a ciò sollecitato in particolare dall'edizione dei Pensées uscita nel 1776 a
cura di Condorcet (che vi aggiunse un famoso
Éloge de Pasca/).
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cessariamente cattiva, nel soggiogare una passione quando il mio spirito mi avverte della sua pericolosità, e quando l'orrore di questa azione urta in modo violento contro il mio desiderio. >>
Come risulta ben chiaro, questa libertà - viva, umana, concreta - non p1,1ò
inquadrarsi che in una concezione altrettanto concreta dell'etica, intesa come sforzo per realizzare ciò che il nostro spirito ci presenta come necessariamente buono:
la giustizia, il rispetto reciproco, lo sviluppo della cultura. Tale libertà ci costringe
anche a prendere atto con assoluta franchezza dei mali che esistono nel mondo,
per intervenire con estrema decisione a correggerli, estirparli, o per lo meno ridurne l'efficacia.
È proprio in vista di questo intervento che Voltaire polemizza, con tagliente
asprezza, contro l'ottimismo leibniziano il quale pretenderebbe di sostenere che
il nostro è il migliore dei mondi possibili. Le pagine del Candide dedicate a tale
polemica costituiscono un vero capolavoro di letteratura satirica. Si potrà obiettare, non senza ragione, che esse restano alla superficie del problema, che non
colpiscono i motivi profondi della concezione leibniziana, ma ciò non diminuisce
affatto la loro efficacia (che fu grandissima nel Settecento e contribuì in misura
notevolissima a rinvigorire negli spiriti più illuminati dell'epoca la coscienza delle
proprie responsabilità civili, dei propri doveri umani). Voltaire si rifiuta di polemizzare contro tale concezione sul piano delle idee: sono gli stessi innumerevoli
mali concreti dell'umanità a svuotare di significato l'ottimismo metafisica, a bollarlo col marchio del ridicolo: « Se questo è il migliore dei mondi possibili, che
cosa saranno mai gli altri? »
VII
· CRITICA DELLE RELIGIONI POSITIVE
Come risulta chiaro dai titoli delle opere riferiti nel paragrafo v, la polemica
di Voltaire sul fronte religioso fu vivacissima e si protrasse per tutta la sua vita.
Egli era convinto, come i deisti inglesi, dell'esistenza di dio quale autore del
mondo e ordinatore di esso: « Quando vediamo una bella macchina, noi diciamo
che deve esserci un buon artefice e che questi deve possedere un eccellente intelletto. Il mondo è sicuramente una macchina ammirevole: perciò nel mondo c'è
intelligenza ammirevole, da qualsiasi parte essa si trovi. Questo argomento è
vecchio, ma non perciò è cattivo. » « Tutto ciò che fa parte della natura è uniforme
ed immutabile, ed è l'opera immediata del suo artefice; è lui che ha creato le leggi
in base a cui la luna provoca per tre quarti il flusso e il riflusso dell'oceano, ed il
sole lo provoca per un quarto; ecc. » Era inoltre convinto che l'uomo abbia il
dovere di adorare l'essere divino, ma non secondo le pratiche superstiziose imposte dalle varie religioni positive: il culto del vero religioso « consiste nel fare
il bene; la sua dottrina consiste nell'essere sottoposto a Dio. Il maomettano gli
dice: " guai a te se non fai il pellegrinaggio alla Mecca! "; ed un cappuccino lo
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minaccia: " sventura a te, se non farai un viaggio a Loreto! ". Egli se ne ride
di Loreto e della Mecca, ma aiuta l'indigente e difende l'oppresso.» Ragione, religione e morale venivano così a inserirsi in un unico quadro, presentandosi come
aspetti diversi di ciò che vi è di più elevato in ciascuno di noi e che ci accomuna
a tutti gli altri uomini: «È necessario avere una religione; ma essa deve essere
pura, ragionevole, universale; deve essere come il sole, che esiste per tutti gli
uomini e non soltanto per qualche piccola provincia privilegiata. È assurdo, odioso, abominevole, immaginare che Dio dia luce a tutti gli occhi, ed invece piombi
quasi tutte le anime nelle tenebre. C'è soltanto una specie di probità comune a
tutto l'universo; e quindi c'è una sola religione. E qual è? voi lo sapete: essa
consiste nell'adorare Dio e nell'essere giusto. »1
Ciò che caratterizza in modo più evidente la posizione di Voltaire, è che il
deismo assume in lui un aspetto particolarmente polemico, traducendosi in critica implacabile delle religioni confessionali, dell'intolleranza, della tirannide chiesastica, e in generale di ogni potere che pretenda comprimere la ragione umana.
Se il nostro autore aveva cominciato nelle Lettere inglesi ad elogiare la libertà religiosa vigente in Inghilterra, illustrandone i numerosi e rimarchevoli vantaggi
per la vita di quel paese (in primo luogo per la sua stessa prosperità economica)
a poco a poco egli non si accontenta più di una semplice difesa dello spirito di tolleranza contro quello di persecuzione e sopraffazione. Il principio di tolleranza
si trasforma gradualmente in principio di indifferenza nei confronti di tutte le
religioni positive; e sfocia infine nell'esigenza di sostituire ad esse una religione
« naturale », basata su principi essenzialmente razionali come appunto quelli che
abbiamo or ora delineato. « Gli uomini sono ben ciechi e infelici, » egli scrive,
« se preferiscono una setta assurda, sanguinaria, sorretta da carnefici e circondata
da roghi ... ad una religione semplice e universale che, per riconoscimento stesso
dei Cristiani, costituiva la religione del genere umano ai tempi di Seth, di Enoch
e di Noè. Se la religione di questi primi patriarchi è vera, certamente la setta di
Gesù è falsa. I sovrani si sono sottoposti a questa setta, credendo di diventare più
cari ai loro popoli per il fatto di subire anch'essi il giogo imposto ai popoli. E
non hanno visto che in tale maniera diventano i primi schiavi dei preti: in metà
dell'Europa essi non sono ancora riusciti a rendersi indipendenti. E quale re,
quale magistrato, quale padre di famiglia non preferirà essere padrone a casa
propria, anziché schiavo di un prete? »
Qui la polemica religiosa si è manifestamente tramutata in polemica politica.
Voltaire non intente affatto opporsi - come abbiamo visto - al riconoscimento
di alcuni principi religiosi generali quali l'esistenza di dio, l'esistenza di una legge
morale, ecc., ed anzi è convinto che tale riconoscimento sia estremamente utile
per frenare lo spirito sedizioso delle moltitudini; ma ciò che assolutamente non
I Sugli stretti legami fra il deismo di Voltaire e il suo interesse per la scienza (in particola-
re per la cosmologia nèwtoniana), si ritornerà nel
paragrafo I del. capitolo x.
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ammette è che la religione sia fatta valere per demolire i cardini della civiltà
moderna.
Nel Trattato sulla tolleranza viene preso esplicitamente in esame l'operato del
cardinale Duperon che, negli Stati generali del 1614, riuscì a far annullare il deliberato del parlamento di Parigi il quale« stabiliva come legge fondamentale l'indipendenza della corona». «Tutti i giornali dell'epoca,» scrive Voltaire, « riferiscono i termini di cui Duperon si servì nelle sue arringhe: " Se un principe si_
facesse ariano, si sarebbe ben costretti a deporlo ".»Nulla di più istruttivo, per
comprendere il significato profondamente politico della lotta del nostro autore
contro l 'intolleranza religiosa, che il vigore con cui risponde a queste argomentazioni: « Niente affatto, signor cardinale. Ammettiamo pure la vostra chimerica
ipotesi, che uno dei nostri re, avendo letto la storia dei concili e dei padri della
chiesa, colpito d'altra parte da queste parole del V angelo : il padre mio è più grande
di me, prendendole troppo alla lettera ed esitando tra il concilio di Nicea e quello
di Costantinopoli, si dichiarasse per Eusebio di Nicodemia: non per questo non
obbedirei più al mio re, non mi riterrei più legato dal giuramento che gli ho fatto;
e se voi osaste insorgere contro di lui, ed io fossi uno dei vostri giudici, vi dichiarerei reo di lesa maestà. »
La ben nota posizione di Voltaire a favore del dispotismo illuminato emerge
qui con tutta chiarezza. Una cosa è l'intolleranza religiosa contro chi respinge
questo o quel dogma, e un'altra cosa totalmente diversa è la severità dello stato
moderno nei confronti di chi non intenda rispettare le sue leggi: quella è frutto
di mera ignoranza, è un residuo di barbari costumi ben lontani dai nostri, questa
invece è espressione di una civiltà essenzialmente laica, rivolta a difendere i diritti della ragione: «Se [alcuni gesuiti] hanno propagato massime delittuose, se
il loro istituto è contrario alle leggi del regno, non si può fare a meno di sciogliere
la loro compagnia, e abolire i gesuiti per farne dei cittadini... Si riformano, in
pace, reggimenti intieri, che non se ne dolgono; perché mai i gesuiti strillano
così forte quando vengono riformati per avere la pace? » La difesa della tolleranza
non significa, per Voltaire, accettazione indifferenziata di tutte le opinioni; essa
non cela in sé alcun atteggiamento scettico o passivo: è, al contrario, intervento
attivo contro il fanatismo, cioé contro il più subdolo ostacolo mediante cui si
cerca di rallentare il trionfo della ragione: « Bisogna dunque che gli uomini, per
meritare la tolleranza, comincino col non essere fanatici »; « ogni giorno in Francia la ragione penetra nelle botteghe dei mercanti come nei palazzi dei signori.
Bisogna dunque coltivare i frutti di questa ragione, tanto più che è impossibile
impedir loro di maturare. »
Come abbiamo ricordato più volte, Voltaire è fermamente convinto che il potere del monarca illuminato possa costituire lo strumento più efficace per combattere vittoriosamente contro il fanatismo e la superstizione; ma se, invece di
farsi difensore dello spirito moderno, il re si allea con la superstizione e il fana-
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Montesquieu e Voltaire
tismo, allora è giusto che anch'egli venga travolto dalla civiltà che avanza. Così
fu perfettamente giusta la condanna di Carlo 1 durante la prima rivoluzione inglese: «È senza dubbio costato stabilire la libertà in Inghilterra; in un mare di
sangue si è annegato l 'idolo del potere dispotico; ma gli Inglesi non credono di
aver pagato troppo caro le buone leggi. » Si tratta di un insegnamento che i giacobini del '93 applicheranno con rigorosa coerenza, spingendosi molto al di là
della linea sostanzialmente moderata cui Voltaire aveva sempre cercato di essere
fedele.
VIII
· L 'INIZIO DI UNA STORIOGRAFIA MODERNA
Se già le opere a difesa della tolleranza religiosa erano cariche di contenuto
politico, la cosa deve ripetersi a maggior ragione per le opere di argomento storico. Nella maggior parte dei casi Voltaire fa della storia per fare della politica,
cioè per spiegare i motivi profondi della sua avversione contro la tirannide intesa in senso politico-religioso.
Questo intento fortemente pragmatico non impedisce però al nostro autore
di introdurre nella storiografia alcune innovazioni che valgono a farle compiere
un passo decisivo verso una impostazione moderna. Queste innovazioni sono
fondamentalmente due:
r) la storia non va intesa come pura erudizione, come semplice raccolta di
fatti rigorosamente accertati; deve invece sforzarsi di cogliere il contesto storico,
cioè i legami tra i fatti che valgono a darci una spiegazione razionale di essi;
z) non deve occuparsi soltanto di guerre o, in generale, di quegli eventi che
riguardano i grandi personaggi, ma deve prendere in esame anche il commercio,
le arti, le istituzioni religiose, gli stessi interessi della gente minuta, ponendosi
per così dire dal punto di vista dei sudditi, dei cittadini, anziché da quello dei re
e dei governi.
Così impostata, essa non concluderà le sue indagini con un giudizio moralistico sugli individui, ma dovrà farci comprendere l'autentico corso della storia.
In vista di ciò Voltaire parla di « filosofia della storia », come di sforzo volto a
'selezionare, tra i molti fatti di un'epoca, quelli più significativi, quelli che ne illuminano meglio i caratteri, sia positivi sia negativi.
Egli ritiene, in particolare, che la storia possa e debba porre a nudo le radici
dei mali che affliggono l'umanità e in particolare quelli che affliggono il nostro
tempo. Proprio nella sua capacità di illuminarci sulla natura e sulla causa di questi
mali va cercata la ragione della sua efficacia pragmatica. « Nella storia così concepita si vedono susseguirsi gli errori e i pregiudizi, i quali mettono in fuga la
verità e la ragione. Si osserva che gli uomini abili e fortunati mettono in catene
gli imbecilli e schiacciano gli sfortunati e sono essi stessi lo zimbello della fortuna,
al pari di coloro che essi governano. Infine gli uomini vengono un po' illuminati
da questo quadro della loro sventura e della loro sciocchezza. Le società perven-
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Montesquieu e Voltaire
gono con l'andar del tempo a rettificare le loro idee, e gli uomini imparano a pensare. »
Lo sforzo di cercare il senso filosofico degli eventi storici, andando al fondo
dei problemi umani, è assai importante anche perché permette a Voltaire di non
trasformare la propria sincera ammirazione per le istituzioni inglesi in astratta
pretesa di riportarle tal quali in una società tanto diversa come quella francese.
A differenza di Montesquieu egli sa distinguere con relativa chiarezza fra la sostanza della democrazia e le particolari forme in cui essa si è realizzata in una determinata situazione storica. È proprio tale sostanza ciò che gli sta a cuore; è
all'attuazione di essa che egli dedica, sino alla fine della sua lunga vita, tutte le
vaste risorse del suo brillante ingegno.
Già ricordammo nel capitolo n la profonda antitesi esistente fra i deisti e
B'ossuet circa i problemi religiosi; qui è necessario sottolineare che tale antitesi
non è meno netta e radicale per ciò che si riferisce ai problemi della storia. In
effetti Bossuet costituisce uno degli autori che Voltaire tiene più costantemente
presente, quale rappresentante di un indirizzo storiografico che va respinto con
estrema decisione e pressoché capovolto. Il metodo di condurre le indagini storiche poco sopra delineato è contrario a quello seguito dal pensatore cattolico,
così come sono contrari gli scopi che i due scrittori attribuiscono a tali indagini,
le valutazioni che essi compiono di alcuni eventi fondamentali della storia francese (per esempio della politica religiosa di Luigi XIV), ecc. Ma ancora più aperto,
se possibile, è il loro contrasto su ciò che costituisce per così dire la linea direttrice dello sviluppo dell'umanità: sviluppo che Bossuet vede incentrarsi nel mondo
cristiano mediterraneo, mentre Voltaire rifiuta questa restrizione dichiarando che
un non minore interesse deve spettare alla storia dei popoli estranei a tale pur
importantissima civiltà. La battaglia a favore di questo ampliamento assume, in
lui, un evidente significato di battaglia a favore della laicizzazione del concetto
stesso di uomo: se il cristianesimo è solo una delle tante religioni dell'umanità,
se le vicende della chiesa e della cristianizzazione dei popoli non godono di una
posizione privilegiata nella storia generale, con che diritto si potrà pretendere
che il racconto biblico risponda a verità? Come si potrà evitare che esso venga
ridotto al rango di tutti gli altri miti religiosi?
Un'ultima questione è necessario accennare prima di chiudere la nostra breve
esposizione del pensiero di Voltaire: il problema se egli sia o no pervenuto al
concetto di progresso.
In realtà esistono seri argomenti a favore sia dell'una che dell'altra tesi, e di
conseguenza i pareri dei critici sono notevolmente divisi. Senza addentrarci nel
complesso dibattito possiamo senz'altro ammettere che egli possegga un'idea abbastanza chiara della vastità e complessità dei fenomeni che intervengono nel progresso (non costituito dai successi guerreschi ma dall'incremento del benessere
dei popoli e soprattutto dal perfezionarsi e moltiplicarsi delle opere artistiche);
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Montesquieu e Voltaire
non si nasconde però che il progresso è ben l ungi dall'investire tutto lo sviluppo
dell'umanità, realizzandosi in realtà solo in qualche breve tratto di tempo. «Bisogna ben confessare che in generale tutta questa storia è una congerie di crimini, di follie e di sciagure, in mezzo a cui noi abbiamo visto qualche virtù,
qualche periodo felice, così come si scoprono delle abitazioni sparse qua e là nelle
lande selvagge. »
Quattro sono i periodi in cui l'umanità ha raggiunto un più elevato livello
di civiltà: l'età di Pericle, quella di Augusto, il rinascimento e il secolo di Luigi XIV. « Queste età felici, » spiega Voltaire, « sono quelle in cui sono state perfezionate le arti e che, servendo di modello della grandezza dello spirito umano,
costituiscono un esempio per la posterità. » Aggiunge subito, però: « Non si deve
credere che questi quattro secoli siano stati esenti da sventure e da delitti. La
perfezione delle arti coltivate da cittadini amanti della pace non impedisce ai prìncipi di essere ambiziosi, né ai popoli di essere sediziosi, né ai preti e ai monaci di
essere talvolta turbolenti ed astuti. »
Il fatto è che Voltaire non può più contare su una garanzia divina della
bontà del mondo (si ricordi la sua aspra critica contro l'ottimismo leibniziano)
e d'altra parte non è ancora giunto a vedere nell'umanità il vero essere assoluto,
che realizzando se stesso attua - come sosterranno alcuni @osofi dell'Ottocento -l'unica autentica razionalità. Nulla (né di trascendente né di immanente)
è pertanto in grado di assicurarlo che la storia debba realizzare il progresso. Sono
soltanto i fatti analizzati dallo storico a fornire la prova che in alcuni periodi si
è verificato un progresso mentre in altri la civiltà è retrocessa; il susseguirsi di
periodi di un tipo a periodi di tipo contrario sembra però sfuggire a ogni legge
razionale.
L'analisi storica ci insegna comunque una cosa assai importante: che il progresso è il frutto di molti fattori e che questi fattori dipendono in ultima istanza
dalla volontà umana. In altri termini: l'incivilimento dei popoli è nelle nostre
mani, come pure la loro decadenza. Sta dunque a noi impedire che l 'umanità decada e fare in modo che, in mezzo a mille errori, essa riesca a compiere qualche,
sia pure lento, passo innanzi.
Come gli altri illuministi, Voltaire ha fiducia che d'ora in avanti l'uomo saprà
progredire. «Si può ritenete che la ragione e l'industria faranno sempre nuovi
progressi, che le arti utili accresceranno il loro dominio, che i pregiudizi - i quali
non costituiscono di certo, fra i mali che hanno afflitto gli uomini, il flagello
minore- scompariranno a poco a poco in coloro che reggono le sorti delle nazioni, e che la filosofia, ovunque diffusa, potrà consolare un poco la natura umana
dalle calamità che essa dovrà subire in tutti i tempi. »
È una fiducia che, per non fare appello ad alcuna base metafisica, può essere
giustificata solo dal responso dei fatti e in ogni caso lo può essere solo in via provvisoria. E poiché i fatti dipendono in ultima istanza dall'uomo, è una fiducia
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Montesquieu e Voltaire
che, se da un lato vale a sorreggere e stimolare la volontà umana, dall'altro trova
essa stessa nell'uomo il suo unico e vero fondamento.
Sulla base di questa circolarità, qualcuno potrà sostenere che è una fiducia
incontestabilmente dogmatica. Certo essa costituiva, in Voltaire e nei suoi contemporanei, un potente stimolo all'azione: un deciso sprone a intervenire consapevolmente e attivamente nella storia per darle un senso razionale e per contribuire all'affermazione in essa dei valori morali.
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CAPITOLO QUARTO
Condillac e Helvétius
I
· VITA E OPERE DI CONDILLAC
Etienne de Condillac nacque a Grenoble nel 1714 da una elevata famiglia di
magistrati; il cognome della famiglia era Bonnot, ma il nostro autore assunse quello con cui è passato alla storia, dalla denominazione di alcuni terreni che suo padre
aveva acquistato al principio del secolo presso Romans. Come gran parte dei figli
della buona borghesia, iniziò i propri studi in un collegio dei gesuiti; non essendo il primogenito, venne poi inviato al seminario di Saint-Sulpice a Parigi,
generalmente considerato in quell'epoca un'ottima scuola per giovani destinati
agli alti gradi della gerarchia ecclesiastica. Qui ebbe modo di assimilare abbastanza bene la filosofia aristotelico-tomistica e anche di apprendere alcune nozioni di Euclide. Frequentò pure la Sorbona, ma senza grande impegno. Addottoratosi in teologia, venne ordinato prete nel 1740, dimostrando però fin d'allora
uno scarso entusiasmo per il sacerdozio (donde la leggenda che abbia celebrato
la messa una volta sola in tutta la vita).
Già in quegli anni aveva sentito il bisogno di integrare la propria formazione
con la lettura di opere moderne, e aveva subito provato una viva propensione per
i filosofi e gli scienziati inglesi (Bacone, Locke, Newton, ecc.). Poco dopo il
1740, vivendo a Parigi, ottenne di venire introdotto nei più brillanti salotti della
città, ove poté conoscere alcune delle maggiori personalità della cultura francese:
Diderot e Rousseau (dei quali divenne sincero amico), D'Alembert, Voltaire e
vari altri. Nel 1768 Voltaire dichiarerà che Condillac era destinato ad essere « il
primo uomo dell'Europa».
Il 1746 vide la pubblicazione della prima opera importante di Condillac:
Essai sur l'origine des connaissances humaines (Saggio sull'origine delle conoscenze umane).
Essa ottenne un vivo successo e in breve gli procurò una notevole fama sia in
Francia sia all'estero. Tre anni più tardi uscì il Traité des systèmes (Trattato dei
sistemi) che sottoponeva a un acuto esame critico lo spirito sistematico nelle sue
molteplici e varie espressioni (in filosofia, nelle scienze della natura, in economia,
in politica); di particolare importanza la presa di posizione del nostro autore di
fronte ai grandi sistemi metafisici del Seicento (di Cartesio, Spinoza, Male branche,
8z
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Condillac e Helvétius
Leibniz, ecc.): su di essa ritorneremo con ampiezza nel capitolo x. Nel medesimo anno (1749) Condillac venne nominato membro dell'accademia delle
scienze di Berlino, il che gli fornì occasione di entrare in corrispondenza con il suo
presidente, Pierre Louis Maupertuis. Iniziavano anche, però, i sospetti delle
autorità religiose e politiche contro l'ormai celebre pensatore, che malgrado il suo
abito talare, veniva accusato di lockismo e di materialismo.
Nel 1754 pubblicò il Traité des sensations (Trattato delle sensazioni), che è la sua
opera principale. Essa ottenne però un successo inferiore alle precedenti, sia perché fornì nuovi motivi alle accuse testé menzionate, sia perché suscitò da varie
parti numerosi dibattiti; celebre è per esempio la polemica di Buffon, che sostenne
di essere stato plagiato in alcune fra le più famose pagine del Traité.
Per difendersi dalle numerose critiche, Condillac pubblicò nel 175 5 il Traité
des animaux (Trattato degli animali), inserendovi fra l'altro uno scritto di circa dieci
anni prima sull'esistenza di dio. Una delle tesi principali svolte in questa opera è
l'attribuzione di un'anima - sia pure inferiore a quella umana - anche agli
animali.
Malgrado tale difesa, la permanenza a Parigi diventava sempre più difficile,
ond'egli accettò di buon grado l'offerta di trasferirsi a Parma quale precettore del
giovane Ferdinando di Borbone, erede del ducato. Vi rimase per nove anni, interrotti però da vari viaggi nell'Italia settentrionale (Venezia, Milano, ecc.) che gli
permisero di entrare in contatto con l'ambiente illuministico lombardo.
Nel 1765 gli fu conferito il priorato dell'abbazia di Mureaux (nella diocesi di
Toul), ove egli non si recherà nemmeno una volta pur percependone per tutta la
vita le cospicue rendite.
Nel 1767, essendo il suo discepolo salito al trono (in seguito alla morte del
vecchio duca), Condillac poté rientrare a Parigi ove l'anno successivo venne nominato membro di quella accademia delle scienze. Provvide allora a raccogliere
in un Cours d'études (Corso di studi) gli insegnamenti impartiti sulle più diverse discipline a Ferdinando di Borbone. 1 I numerosi volumi dell'imponente opera vennero stampati a Parma nel 1773 ma non poterono essere posti a disposizione del
pubblico per l'opposizione del vescovo di tale città, cosicché risultano pubblicati
per la prima volta a Parigi nel 177 5. 2
Dopo di allora Condillac non scrisse più alcun'opera di vero impegno filosofico; ci limiteremo a ricordare La logique (La logica), compilata - su richiesta per le scuole polacche (uscirà nel 178o) e La langue des calculs (La lingua dei calcoli),
rimasta incompiuta (pubblicata postuma nel 1798), ove è ripreso il programma
leibniziano della logica combinatoria.
Trascorse serenamente gli ultimi anni, interamente dedicati agli studi, nel
I Fra le parti filosoficamente più interessanti del Cours ricordiamo: la Grammaire, l'Art
d'écrire, l'Art de penser, l'Art de raùonner.
2. In aggiunta a questa edizione venne pure
pubblicato un saggio dal titolo De l'étude de l'histoire (Sullo studio della storia), generalmente attribuito a un fratello di Condillac.
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Condillac e Helvétius
castello di Flux che aveva acquistato per una propria nipote. lvi morì nel I78o.
Pur non avendo mai fatto parte del gruppo dei philosophes, esercitò su di essi
una notevole influenza (al suo pensiero sono ispirate parecchie voci della Enryclopédie) onde potrà venire considerato, durante la rivoluzione, uno degli studiosi
che più avevano contribuito all'abbattimento della vecchia cultura francese. È significativo che i più diretti continuatori della filosofia di Condillac saranno i così
detti « ideologi » (per i quali rinviamo al capitolo IV della sezione vi), che assumeranno un peso determinante subito dopo la morte di Robespierre per cadere poi in
disgrazia quando Napoleone darà inizio a una politica di riavvicinamento con i
cattolici. L'esaltazione di Condillac da parte degli ideologi o la sua condanna da
parte dei loro avversari non devono però trarci in inganno, facendoci scorgere
in lui un ateo o un materialista o un autentico rivoluzionario; d'altra parte sarebbe parimenti erroneo sottovalutarne l'azione innovatrice che - sia pure in
limiti ben circoscritti - fu tutt'altro che trascurabile.
II
· POSIZIONE DI CONDILLAC
DI FRONTE A CARTESIO, LEIBNIZ E LOCKE
Gli studiosi di Condillac hanno giustamente posto in luce che il suo sensismo
subì alcune notevoli trasformazioni dal Saggio del I746 al Trattato del '54, e ciò
proprio in riferimento a taluni problemi filosofici fondamentali (per esempio
circa l'esistenza di una realtà obbiettiva, sostanzialmente difesa nella seconda
opera e lasciata invece in ombra nella prima). Non potendo entrare in analisi troppo particolareggiate, noi dovremo prescindere da tali differenze e !imitarci a sottolineare le tesi più caratteristiche di tutto intero il pensiero del nostro
autore.
Va in primo luogo menzionato che egli si allinea fedelmente a Locke nel riconoscere che il compito essenziale della filosofia è quello di analizzare le operazioni dell'intelletto umano, ossia di studiare nel modo più scrupoloso la genesi
delle idee e i loro reciproci rapporti. Ciò gli consente di assumere subito una
posizione nettamente anticartesiana.
Cartesio aveva sostenuto l'esistenza di idee innate, sulla cui base sarebbe
possibile concludere con assoluta certezza che il mondo è costituito da due sostanze distinte: la res cogitans e la res extensa. Secondo Condillac, invece, una
semplice analisi dei due famosi attributi - pensiero ed estensione - ci fa comprendere che essi non sono affatto il frutto di intuizioni chiare e distinte, ma sono
idee che traggono origine, come tutte le altre, dalle nostre sensazioni e perciò
valgono unicamente nel mondo del sensibile. La presunzione di basare su tali
« intuizioni » una concezione metafisica dell'universo è dunque infondata.
Nel respingere l'identificazione cartesiana della realtà fisica con la mera estensione Condillac si trovava in pieno accordo con i leibniziani, e non si può esclu-
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Condillac e Helvétius
dere che su questo punto egli abbia subito l'influenza diretta del grande pensatore di Lipsia. In un 'altra tesi, però, egli se ne distaccava nel modo più completo:
è quella dell'esistenza, rtella vita psichica, di una infinità di gradi che vanno dalle
percezioni oscure e confuse, pressoché incoscienti, fino alle appercezioni pienamente consapevoli. Condillac è sì disposto ad ammettere la distinzione fra percezioni deboli e forti, ma non l'esistenza di idee oscure: psichicità e coscienza
per lui - come per Locke - coincidono. Ecco in proposito una sua inequivocabile dichiarazione: « Questo problema, se vi siano idee chiare o oscure, e
l'altro, se noi abbiamo coscienza di tutte le nostre percezioni, sono l'un l'altro
pertinenti. Leibniz ha pensato che abbiamo percezioni delle quali non abbiamo
coscienza, e conseguentemente ha dovuto ammettere idee oscure. Io ho ritenuto,
per contro, che la percezione e la coscienza non sono che una stessa cosa, e da
quel momento le idee oscure non hanno potuto fare ingresso nel mio sistema. »
Se, come abbiamo poco sopra accennato, il nostro autore concorda pienamente con Locke nell'impostazione generale della filosofia, non mancano però
punti nei quali si distacca con nettezza da lui. Uno dei principali concerne proprio
il modo di intendere l'estensione che il filosofo inglese- in accordo su ciò con
tutto il meccanicismo - considera come qualità primaria dei corpi, contrapposta
alle loro qualità secondarie (colore, calore, ecc.). Orbene, ciò che Condillac rifiuta
con energia, per lo meno a partire dal 1749 circa, è proprio la distinzione fra
qualità primarie e secondarie (analogo rifiuto era già stato espresso circa dieci
anni prima da Hume, nel Trattato della natura umana, che però egli non conòsceva). Ecco ciò che Condillac scrive nel 1740 in una lettera al matematico
svizzero Gabriel Cramer: « lo non vedo che cosa ha ottenuto Locke col distinguere le qualità primarie dalle secondarie, né so se la sua ipotesi che noi abbiamo
un'idea esatta dalle prime sia un'ipotesi gratuita. Noi conosciamo l'estensione
mediante il tatto e la vista, ma non la conosciamo che attr.averso questo mezzo,
e lo spirito non ne può dare alcuna definizione. »
Un altro punto in cui Condillac si spinge al di là di Locke concerne il problema delle facoltà. Il pensatore inglese aveva parlato di una facoltà intellettuale,
che avrebbe il potere di combinare variamente le idee semplici per costituire quelle
composte, pur avvertendo subito che le facoltà non vanno intese come « esseri
distinti » davvero indipendenti una dall'altra. Il filosofo francese non si accontenta di questa cauta riserva, e vuole metterei chiaramente in guardia dall'interpretare la più semplice percezione come un momento passivo della vita dello spirito, contrapposto all'attività del pensiero: «Alla staticità della veduta lockiana
che segnava i due momenti della sensazione e della riflessione, » scrive Mario
Dal Pra, « qui è sottesa la dinamicità della vita spirituale, nella sua originaria
unità. » È proprio in base a questa interpretazione dinamica di tutto il nostro
percepire, che Condillac può giungere alla sua famosa teoria: tutte le cosiddette
facoltà hanno origine da un unico principio, la sensazione.
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Condillac e Helvétius
Merita di venire sottolineato - come giustamente suggerisce Giovanni Solinas- che, con la teoria testé accennata, Condillac compiva un notevole passo
verso l'unificazione di tutti gli atti conoscitivi «conforme all'ideale scientifico
newtoniano ».Questa presenza di un ideale unitario di marca newtoniana ci spiega
l'enorme importanza (senza dubbio eccessiva, agli occhi del lettore moderno) che il nostro autore attribuì alla presunta dimostrazione (da lui ottenuta
attraverso le più artificiose e astratte argomentazioni) della possibilità di ricavare
l'intera vita psichica dalla sola sensazione, o -più esattamente - dalla sensazione
e dal bisogno.
Con questa tesi il filosofo francese rivela di non avere affatto rinunciato, per
il suo orientamento antimetafisico, all'esigenza della sistematicità. Se egli si dichiara decisamente contrario alle grandi filosofie del secolo precedente, tale sua
opposizione non dipende dal carattere sistematico di queste filosofie; ciò che Condillac rimprovera loro non è di aver cercato una visione unitaria del reale, ma di
aver fatto ricorso- per raggiungerla- a postulazioni metafisiche anziché alla
semplice esperienza1 • Una analoga esigenza di sistematicità non è forse presente
nella matematica come nelle stesse scienze della natura? Queste però cercano di
raggiungere lo scopo voluto non mediante postulazioni vaghe e incontrollabili,
bensì mediante ipotesi esattamente formulate, suggerite dall'esperienza. Orbene
anche il filosofo può e deve fare qualcosa di simile: l 'importante è che, nel proprio
lavoro, egli eviti scrupolosamente ogni pretesa spiegazione assoluta, sovraempirica, incontrollabile; eviti cioè quel tipo di spiegazioni, che Newton aveva respinto con tanta decisione nel famoso Scolium generale dei Principia.
III
· LO SVILUPPO DELLA VITA PSICHICA
Condillac ammette l'esistenza dei due metodi, entrambi in grado di guidare
seriamente le nostre indagini: il metodo analitico e quello sintetico. Con l'espressione « metodo sintetico » egli intende quello deduttivo, efficacemente applicato
dalla matematica; il nostro autore confessa però di conoscere troppo poco questa
disciplina per riuscire a comprendere fino a che punto essa si attenga esclusivamente a tale metodo. Certo è che a suo parere vi si nascondono spesso dei gravi
pericoli, soprattutto quando lo si voglia trasferire dalla matematica alla fisica:
pericoli dovuti alla difficoltà di determinare con esattezza: le idee primitive e gli
assiomi assunti a fondamento delle deduzioni. Invece il metodo analitico offrirebbe tutte le garanzie, perché, scomponendo le singole idee nei loro ultimi costituenti, ci permetterebbe di controllarne fino in fondo l'esattezza evitando gli
equivoci che provengono dalla accettazione sommaria di verità a prima vista evidenti. Peraltro Condillac stesso non si accontenta di una mera analisi stricto sensu,
r Sulle critiche di Condillac all'esprit de système dei grandi filosofi del Seicento, si ritornerà con
maggiore ampiezza e profondità nel capitolo x di
questa medesima sezione.
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Condillac e Helvétius
proponendo di integrare la scomposizione delle idee con una successiva ricomposizione di esse: « Allo stesso modo che si ricompone un orologio allorché si
mettono insieme le parti nell'ordine in cui si trovavano prima che lo si smontasse, così si ricompone l'idea di un corpo quando si rimettono insieme le qualità
nell'ordine in cui coesistono, vale a dire nell'ordine in cui esistono strette in unità.
È necessario scomporre per conoscere ciascuna qualità separatamente; è necessario ricomporre per conoscere il tutto risultante dalla riunione delle qualità conosciute. Questa scomposizione e questa ricomposizione è ciò che io chiamo
analisi. »
L'indagine sullo sviluppo della vita psichica, a partire dalla sensazione, viene
per l'appunto condotta dal nostro autore applicando una analisi nel senso ampio
testé spiegato, cioè mediante l'uso parallelo di una scomposizione e ricomposizione delle idee. Dove è opportuno segnalare che tutta la procedura condillachiana, pur volendo essere strettamente legata all'esperienza, si muove in realtà
- come osserveranno gli scienziati psicologi dell'Ottocento - su di un piano
meramente astratto, non molto diverso da quello in cui costruivano le loro macchine e i loro esperimenti ideali i filosofi meccanicisti del secolo precedente.
Il fatto è che né Condillac né gli altri empiristi della sua epoca riescono davvero
a interrogare in concreto l'esperienza; il loro indirizzo rimane essenzialmente
speculativo come quello dei loro avversari. Sottolineando l'origine empirica di
ogni conoscenza, essi hanno comunque il merito di preparare il terreno alle future indagini scientifiche, che saranno autenticamente empiriche.
Molto caratteristico della situazione testé accennata è il famoso esperimento
teorico, che il nostro autore delinea per «dimostrare» che tutte le attività dello
spirito sono soltanto « sensazioni trasformate ». Esso consiste nella finzione di
una statua, che esteriormente sia di marmo e internamente, invece, risulti organizzata come l'uomo. Finché tale statua non avrà provato alcuna sensazione, essa
non saprà nulla, non vorrà nulla, non ricorderà nulla. Ma se noi immaginiamo
di aprirle ad uno ad uno i cinque sensi, « vedremo » sorgere in essa la nostra medesima vita spirituale, e potremo così «constatare» come tutte le manifestazioni
di questa vita traggano origine dal primum delle sensazioni.
La finzione della statua, ampiamente svolta nel Trattato del 1754, ottenne
subito un grande successo, tanto che diede luogo ad alcune polemiche circa la
sua autentica originalità. Effettivamente si trovano alcune finzioni analoghe in
scritti di Buffon e di Diderot risalenti a qualche anno prima (rispettivamente
al 1749 e al 1751). Ma se si tiene presente che Condillac ne aveva già fatto cenno
in una lettera a Maupertuis del 1750, si può senz'altro ritenere che egli non l'abbia plagiata da altri. Va del resto osservato che fu lui il primo a darle un'importanza centrale nello studio delle attività umane, e inoltre che il ricorso a finzioni
del genere rientrava perfettamente nei gusti e nella mentalità dell'epoca.
L 'idea geniale di Condillac è di aprire i sensi alla sua statua, non tutti in-
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Condillac e Helvétius
sieme, ma uno per volta. Egli comincia dunque ad accendervi il senso dell'olfatto: si « constaterà » che la statua diventa tutta e soltanto odore. In altri termini: essa non avrà alcuna percezione dello spazio né tanto meno della distinzione fra soggetto e oggetto; l'odore sarà per lei una semplice «maniera d'essere». Proverà invece un sentimento piacevole o spiacevole, a seconda dell'odore
percepito, e quindi l'impulso a ripetere o a interrompere tale maniera d'essere.
Questo impulso o bisogno è una specie di tono della sensazione che si accompagna
immancabilmente con essa.
L'accendersi graduale degli altri sensi genererà a poco a poco tutta la vita
spirituale dell'uomo, dimostrando che le nostre varie facoltà (anche le più elevate) non sono altro che lo sviluppo di un processo iniziatosi con le sensazioni:
così per esempio l'attenzione non risulterà altro che una sensazione tanto forte
da escludere le altre; il confronto tra sensazioni non risulterà altro che attenzione
rivolta contemporaneamente a sensazioni diverse; il ricordo sarà un effetto
ulteriore delle sensazioni, ecc.
Pur senza poterei soffermare sui singoli passi di questa ingegnosa ma artificiosa ricostruzione della vita dello spirito, occorrerà aggiungere qualche parola
sulla funzione che Condillac riconosce alle due sensazioni fondamentali della
vista e del tatto. Quanto alla prima, egli sostiene che non fornisce alla statua la
percezione dello spazio, bensì soltanto di luci e di colori, or più or meno piacevoli, ma in ogni caso sentiti come null'altro che «maniere d'essere» del percipiente (non diversamente dunque dalle percezioni dell'olfatto, del gusto e del
suono). Ciò che muta radicalmente la situazione è il senso del tatto (inteso come
includente in sé anche quello del movimento), che trasforma di colpo il caos
delle altre percezioni in un mondo ordinato e consistente: « Apro gli occhi alla
luce e non vedo dapprima se non una nube luminosa e colorata. Tocco, mi faccio più innanzi, tocco ancora: un caos viene a poco a poco risolvendosi sotto i
miei sguardi. Il tatto scompone, si può dire, la luce: separa i colori, li distribuisce
sugli oggetti, distingue uno spazio illuminato, e in esso grandezze e figure;
poi guida i miei occhi sino a una certa distanza, apre il cammino ch'essi debbono
percorrere per portarsi lontano ed elevarsi dalla terra sino ai cieli: davanti a essi,
in una parola, dispiega l 'universo intero. »
Né basta; il tatto non si limita a localizzare e ordinare le altre percezioni.
Esso fa qualcosa di molto più importante: suscita nella statua la convinzione dell'esistenza di un mondo esterno, proprio quella convinzione cioè intorno a cui
i filosofi - dimentichi della sua origine - hanno artificialmente creato tanti
inutili problemi: «Dacché il tatto istruì gli stessi sensi, io vedo fuori di me oggetti che attirano la mia attenzione con i piaceri e i dolori che mi cagionano:
li confronto, ne giudico, sento il bisogno di cercarli o fuggirli: li desidero, li
amo, li odio, li temo. »
Si è molto discusso se il nostro autore abbia attribuito al tatto la capacità
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Condillac e Helvétius
di porci effettivamente in rapporto con una realtà altra da noi, o solo quella di
farci percepire il sensibile come qualcosa di esterno al soggetto percipiente. È
chiaro che accettare la prima o la seconda tesi equivale ad interpretare il suo
sensismo in chiave realistica o idealistica. Ci limiteremo a far presente che proprio
le parole di Condillac rivelano, su questo punto, non poche oscillazioni; una
cosa è comunque certa, che l'impostazione stessa del Trattato del I754 sembra
suggerire un'interpretazione realistica in quanto indica nel reciproco rapporto
fra l'attività dell'organismo umano e gli oggetti del mondo esterno la condizione
necessaria per il sorgere delle varie sensazioni.
Quanto poco sopra accennato non significa tuttavia che, secondo Condillac,
il tatto ci faccia cogliere negli oggetti esterni qualcosa di effettivamente (o metafisicamente) reale, nel significato in cui i meccanicisti- e in primo luogo Cartesio - parlavano di «effettiva realtà» delle qualità primarie. Esso ci pone
in presenza di qualcosa che possiamo chiamare la « corporeità », ma non ce ne
fornisce una definizione «intelligibile», ossia una definizione che ci porti direttamente all'essenza di tale corporeità senza fare riferimento ai processi sensoriali
per mezzo di cui riusciamo concretamente a percepirla: « Allorché affermo che
non conosciamo l'essenza del corpo, intendo dire che non vediamo questa essenza nella proprietà più semplice e originaria. » In altri termini: estensione e
impenetrabilità sono senza dubbio, per Condillac, le prime qualità che percepiamo nei corpi; ma il fatto di essere le prime non comporta che siano di natura
diversa dalle restanti qualità conosciute attraverso i sensi; non comporta che ci
svelino «il corpo in generale e nella sua interezza ».
Non è il caso di fermarsi a illustrare le molte difficoltà che emergono immediatamente in questa posizione; l'importante è comprendere la complessa
esigenza da cui essa scaturisce: cioè l'esigenza di conciliare una gnoseologia a
impostazione sensistica con una concezione del mondo che non rinneghi il realismo dell'uomo comune.
IV
· IL LINGUAGGIO
Nel costituirsi dell'attività spirituale uno dei momenti di maggiore importanza è rappresentato, secondo Condillac, dal linguaggio. A suo parere, infatti,
i segni linguistici -. adoperati a indicare sia idee semplici sia idee composte, a
volte molto astratte e complesse - non solo agevolano la memoria, ma permettono il trapasso dalla sensazione alla riflessione e ci pongono in grado di
operare su nozioni (come ad esempio i numeri) altrimenti non dominabili.
Ma qual è la genesi dei segni? Condillac non ha difficoltà ad ammettere che
una parte di essi vengano direttamente suggeriti all'individuo da eventi naturali
o accidentali: il singolo vi farà quindi ricorso anche se vive in totale solitudine.
Per la maggior parte, però, occorre fare riferimento al commercio fra individuo
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Condillac e Helvétius
e individuo, in quanto è solo esso che fornisce l'occasione di crearli. Se ne conclude che la vera matrice del linguaggio va proprio cercata nelle operazioni,
eseguite in comune da più individui, nelle passioni che questo diuturno contatto
fa sorgere nei loro animi. Il nostro autore introduce l'espressione molto felice
«linguaggio d'azione» per indicare l'insieme assai vario di gesti, di movimenti,
di grida usati per esprimere in modo non riflesso i sentimenti e i bisogni scaturiti
da quell'operare in comune.
La trattazione della formazione naturale del linguaggio è fatta da Condillac
con qualche precauzione di tipo teologico. Io non mi riferisco, dice l'autore, ad
Adamo ed Eva, giacché essi « uscendo dalle mani di Dio, con un soccorso straordinario furono in grado di riflettere e di comunicarsi i loro pensieri». Suppongo
invece, prosegue, che «dopo il diluvio due fanciulli, dell'uno e dell'altro sesso,
si siano smarriti in terre deserte, prima di conoscere l'uso di alcun segno».
Dapprima i due fanciulli vissero senza incontrarsi, e quindi l 'uso delle loro
facoltà era molto limitato: ogni volta che una percezione li colpiva in modo particolarmente vivido, eccitava la loro attenzione, ed inoltre avevano reminiscenze
delle percezioni più importanti; ma l'uso dell'immaginazione era molto limitato,
perché dipendeva del tutto dalle circostanze esterne: « Un giorno il sentimento
della farrie ricordava a questi fanciulli un albero carico di frutti, che avevano visto
la vigilia; il giorno dopo questo albero era dimenticato, e lo stesso sentimento
ricordava loro un altro oggetto. Così l'esercizio dalla immaginazione non era
affatto in loro potere; non era che l'effetto delle circostanze in cui si trovavano.»
Quando si incontrarono e cominciarono a convivere, queste prime operazioni divennero più frequenti, dando luogo, appunto, al linguaggio d'azione.
« Il loro commercio reciproco fece loro annettere alle grida di ogni passione le
percezioni di cui erano i segni naturali. Li accompagnavano ordinariamente
con qualche movimento, con qualche gesto o qualche azione, la cui espressione
era ancora più evidente. » Le loro forme di espressione erano inizialmente ancora dovute all'istinto, non alla riflessione.
Ma con il frequente ripetersi delle percezioni, delle passioni, delle grida e
dei movimenti, «si familiarizzarono con questi segni», finché« furono in grado di
ricordarseli a loro piacimento ».L'uso acutizzò la memoria, l'immaginazione si
rese indipendente dalle circostanze esterne, finché la riflessione subentrò all'istinto e nacque il linguaggio d'azione, «linguaggio che, nei suoi inizi, per essere proporzionato alla poca intelligenza di questa coppia, non consisteva verosimilmente che in contorsioni e in agitazioni violente ».
Il linguaggio d'azione divenne il punto di partenza del «linguaggio d'istituzione », nel quale la scelta dei segni assunse un carattere convenzionale. Le
grida naturali furono il modello con cui elaborare grida e segni nuovi, già convenzionali: « Articolarono nuovi suoni e, ripetendoli più volte e accompagnandoli con qualche gesto che indicasse gli oggetti che volevano far notare, si ahi-
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Condillac e Helvéthis
tuarono a dare nomi alle cose.» Ma uscire dal linguaggio d'azione era molto
difficile: i figli della coppia disponevano certo, nei primi anni di vita, di una maggiore scioltezza, nell'articolazione dei suoni, tuttavia dai genitori imparavano solo
il linguaggio d'azione, per cui l'arricchimento del vocabolario era lentissimo.
Ma con il moltiplicarsi degli uomini discendenti dalla famiglia originaria, anche
le parole nuove si moltiplicarono sempre più rapidamente. Certo inizialmente
«il linguaggio d'azione, allora così naturale, era un grande ostacolo da sormontare », ma « man mano che il linguaggio dei suoni articolati divenne più abbondante, fu più adatto ad esercitare per tempo (nei fanciulli) l'uso della voce, e a
conservargli la sua prima flessibilità. Parve allora tanto comodo quanto il linguaggio d'azione; ci si servì ugualmente dell'uno e dell'altro; infine, l'uso dei
suoni articolati divenne così facile che prevalse ».
Per un lato questi suoni articolati manterranno alcune funzioni fondamentali
del linguaggio d'azione (sono le funzioni emotivo-espressive, che si realizzano
soprattutto nello stile poetico); per l 'altro, si riveleranno in grado di assolvere
nuove funzioni, legate all'attività conoscitiva. Trattasi essenzialmente, secondo il
nostro autore, di funzioni analitiche che - legando segni diversi a idee diverse
- ci permettono di precisare i nostri pensieri, di scomporli nei loro elementi,
di determinarne i nessi logici.
Non è più possibile, per ovvi motivi di spazio, riferire in dettaglio le considerazioni di Condillac sul graduale formarsi dei linguaggi di istituzione, sul loro
differenziarsi da popolo a popolo, sui perfezionamenti ad essi arrecati dall'azione
degli uomini di cultura e in particolare dai grandi geni (la cui opera peraltro risulta, secondo il nostro autore, direttamente condizionata dal livello del linguaggio che essi trovano innanzi a sé). Basti notare che si tratta di considerazioni per
lo più molto pertinenti, nelle quali Condillac rivela una notevolissima apertura
di interessi e offre non di rado spunti di eccezionale modernità. Degna di particolare menzione è la stretta analogia che spesso si riscontra, malgrado la diversità fra le loro filosofie generali, tra la concezione del linguaggio di Condillac
e quella di Vico.
Dal punto di vista dei rapporti tra filosofia e scienza, va soprattutto sottolineata la piena consapevolezza che il nostro autore possiede del condizionamento
reciproco fra progresso scientifico e progresso linguistico. Egli giunge ad affermare, nella Langue des calculs, che «una scienza ben trattata non è altro che una
lingua ben costruita ». Di qui la sua ammirazione per il linguaggio algebrico e
il suo vagheggiamento (in cui è forse riscontrabile l 'influenza di Hobbes) di estenderlo a tutte le scienze. Accenneremo nel capitolo vm ai numerosi spunti che il
chimico Lavoisier ricaverà da Condillac, sia per quanto riguarda il problema generale della conoscenza, sia in particolare per l'importanza attribuita al linguaggio
e per la tendenza a interpretare la matematica essenzialmente come un linguaggio
(molto preciso e proprio perciò molto utile a tutte le scienze).
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Condillac e Helvétius
Come chiarisce assai bene Giovanni Solinas, il matematismo logico di Condillac- che a uno sguardo superficiale può apparire incompatibile col suo sensismo - trova una convincente spiegazione proprio nella sua filosofia del linguaggio: « Lo spirito umano è in grado di dissipare i pregiudizi e gli errori ove
esso giunga ad esplicare la pienezza della propria funzione, ad esercitare cioè una
assidua ed ostinata opera di discriminazione tra idee mal determinate, causa prima
dell'errore, e idee adeguatamente determinate. Di questo procedimento discriminatorio sono modello esemplare le matematiche, in cui la riflessione sul modo in
cui i numeri si sono generati, permette in ogni istante di controllare il grado di
esattezza dei rapporti istituiti, e di calcolare con crescente rigore il grado di
applicabilità delle regole che si sono scoperte. » Secondo Solinas, in questo
matematismo andrebbe cercata la radice ultima di quello stesso metodo compositivo e scompositivo di Condillac, che abbiamo cercato di spiegare all'inizio
del paragrafo m.
V
· IL PROBLEMA PEDAGOGICO
Già sappiamo che Condillac trascorse circa nove anni a Parma quale precettore dell'erede di quel ducato e poi raccolse nei Cours d'études gli insegnamenti
a lui impartiti. Dato il notevole impegno dedicato dal nostro autore a questo
compito, sembra doveroso - prima di concludere la nostra esposizione del suo
pensiero - aggiungere qualche parola sul modo con cui egli impostò la propria
opera di educatore e sui legami tra tale impostazione e le linee generali della filosofia condillachiana.
Condillac parte dalla tesi che i risultati raggiunti in sede di analisi filosofico-psicologica del costituirsi dello spirito forniscano, in ultima istanza, l'unica
solida base della pedagogia. Secondo lui, infatti, la psiche umana non può far a
meno di seguire lo sviluppo posto in luce da tale analisi, cosicché questa ci aiuterà pure a capire la formazione del singolo individuo. E poiché il cammino naturale dell'umanità nello svolgimento delle arti e delle scienze costituisce la spontanea realizzazione dello sviluppo anzidetto, ne segue che il fanciullo dovrà ripercorrere per proprio conto - sia pure con 'ritmo più rapido - tutte le singole
tappe di quel cammino. È una conclusione assai importante, analoga a quella
cui era pervenuto - partendo da tutt'altre concezioni - l'italiano Gian Battista Vico. Ma il filosofo francese ne ricava delle regole pedagogiche completamente diverse da quelle che esporremo parlando di Vico.
Il punto centrale della pedagogia di Condillac può venire così riassunto:
poiché tutte le attività dello spirito non sono che sensazioni trasformate, ne segue
che chiunque abbia l'uso dei sensi dovrà anche essere capace di ragionare. Pertanto, se si vuole aiutare efficacemente il fanciullo a ripercorrere per proprio conto
le tappe attraversate dalle arti e dalle scienze (notiamo, per inciso, l 'affiorare qui
di una visione storica della civiltà, presente - sia pure con varie sfumature -
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Condillac e Helvétius
in parecchi illuministi), e se si vuole che egli sia in grado di percorrerle rapidamente, occorrerà abituarlo quanto prima ai ragionamenti, senza aver timore che
non sappia seguirli.
In conformità a questa concezione, egli propone al suo alunno, fin dai
primi anni, alcuni temi di riflessione filosofica e psicologica, ritenendo che speculazioni siffatte costituiscano una propedeutica indispensabile al corso ordinario degli studi: quanto meglio il fanciullo conoscerà le facoltà di cui dispone,
tanto più sentirà il bisogno di servirsene. Per ciò che riguarda in concreto il
programma scolastico, ecco alcune delle più interessanti direttive impartite da
Condillac: occorre guardarsi dall'abusare del grammaticismo; la lettura dei poeti
dovrà precedere lo studio sistematico della morfologia e della sintassi; le prime
letture dovranno avere per oggetto opere scritte in una lingua viva (nel caso
specifico, il francese) il che comporta che venga ritardato lo studio del latino
(Condillac giunge a proporre l'eliminazione di quello del greco); dovrà venire
attribuita grande importanza alle discipline storiche, intese però come un'analisi critico-filosofica degli avvenimenti assai più che non come una semplice
narrazione degli stessi.
Se la critica moderna condannerà nel modo più deciso l'impostazione genera]~ - a carattere razionalistico astratto - della pedagogia di Condillac, non
potrà tuttavia fare a meno di riconoscere il valore delle regole didattiche testé
riferite. Esse contengono suggerimenti molto preziosi per liberare la scuola da
ogni mnemonismo e verbalismo, stimolando il ragazzo alla riflessione e al giudizio personale. Questi suggerimenti valgono a dimostrare che, anche nel
campo educativo, la filosofia di Condillac era in grado di promuovere un vigoroso rinnovamento. Molto significativa, da questo punto di vista, è la tesi condillachiana che assai più efficace dell'educazione ricevuta da altri è quella che ciascuno di noi riesce a dare a se stesso.
Quanto all'educazione religiosa, il nostro autore afferma che, «se la devozione non è illuminata », essa finirà per distrarci dai nostri doveri e per assorbirci soltanto nelle piccole pratiche. « La vera devozione, » egli scrive, « consiste prima di
tutto nell'adempiere i propri doveri »: il bigottismo « guasta i ministri della
chiesa» e dà «cattivi ministri allo stato». L'atteggiamento moderato, ma inequivocabilmente moderno, di Condillac di fronte alle vecchie istituzioni ecclesiastiche trova qui una chiara conferma.
VI
· VITA E OPERE DI HELVÉTIUS
Claude-Adrien Helvétius nacque nel I 715 da famiglia di elevata condizione sociale (suo padre era medico di corte). Sin da fanciullo manifestò un vivo
interesse per la poesia; questo interesse durerà in lui per tutta la vita, e lo caratterizzerà come letterato-filosofo.
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Condillac e Helvétius
Frequentò per vari anni il collegio Louis-le-Grand, retto dai gesllltl, ma
provò ben presto una profonda ripugnanza per il tipo di insegnamento ivi impartito, che si accentrava sulle lingue morte e sulla teologia. Intensificò invece
le sue letture di opere poetiche (in ispecie dei capolavori del grande teatro francese), integrandolo con lo studio dei più celebri moralisti francesi come Montaigne e La Rochefoucauld.
Uscito dal collegio, il padre gli procurò una redditizia sistemazione finanziaria a Caen come appaltatore delle imposte. Vi rimase solo tre anni ( 17 3 5-3 8),
ma furono tre anni the gli permisero di acquisire una preziosa conoscenza diretta dell'autentica situazione della provincia francese. Intanto proseguiva gli
studi di carattere letterario (in tale periodo scrisse pure un dramma, che però
è andato perduto), ampliando a poco a poco i suoi interessi anche verso la filosofia. Tornato a Parigi, approfondì la propria preparazione leggendo opere di
Buffon, di Fontenelle, di Voltaire, di Locke, di Newton, ecc. Gli indirizzi di
pensiero che più influirono su di lui furono il libertinismo, il meccanicismo, e
l'empirismo.
La sua cultura e l'elevata posizione sociale gli permisero di entrare facilmente in contatto con la migliore società parigina, ove si accattivò la simpatia
e la stima degli spiriti più avanzati. Tra il 1738 e il 1742 scrisse alcune composizioni poetiche di argomento morale, le Epitres (Epistole), che inviò in lettura a Voltaire, di cui si dichiarava discepolo. Tra loro sorgerà una viva amicizia durata vari
anni. Le tesi ivi sostenute erano di marca nettamente illuministica: lotta contro
i pregiudizi, negazione dei miracoli, riconoscimento della scienza come unica
garanzia di verità, difesa di un'etica ispirata all'epicureismo, contrapposizione
di una religiosità deistica alle religioni confessionali.
Nel 1740 iniziò pure a scrivere un poema in sei canti, Le bonheur (La felicità), sempre ispirato ai medesimi temi; esso verrà pubblicato nel 1772, un
anno dopo la morte dell'autore.
Assai importante per seguire la formazione di Helvétius è anche un diario
(Notes de la main), che egli tenne dal 1738 fino al 1749; da esso apprendiamo le
letture che veniva via via compiendo e le riflessioni che queste suscitavano in lui.
Di particolare significato fu la sua amicizia con Montesquieu. Questi giunse
a sottoporre al giudizio dell'amico, prima ancora di pubblicarla, gran parte
della sua famosa opera L'esprit des lois. Ne nacque una discussione franca e approfondita, che valse a porre in luce le differenze fra le loro posizioni. Il nostro
autore scriverà sull'argomento un Examen critique de l'Esprit des lois par l' auteur de
l'Esprit, che però non darà alle stampe.
Intanto veniva preparando la sua opera principale, De l'esprit (Lo spirito), che
uscirà nel I 7 58 ; essa suscitò immediatamente un vero scandalo fra i benpensanti,
fomentati nella loro aspra reazione dai gesuiti. Fu condannato dall'arcivescovo di
Parigi, dal papa e dal parlamento francese. Helvétius fu costretto ad allontanarsi
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Condillac e Helvétius
per qualche tempo dalla Francia, trovando buona accoglienza presso Federico n
di Prussia. I philosophes stessi ne furono preoccupati, temendo che l'indignazione
suscitata dal libro di Helvétius finisse per coinvolgere anche l' Encyclopédie; dovettero quindi prenderne le difese (soprattutto per suggerimento di Voltaire,
che intuì immediatamente il vero scopo della grande offensiva dei gesuiti), anche
se non ne condividevano tutte le tesi.
Per rispondere alle numerose accuse dei suoi avversari e per completare
l'esposizione del proprio pensiero Helvétius si accinse a scrivere una seconda
grande opera, L'homme (L'uomo), di argomento etico-pedagogico, che uscirà postuma nel 177 3.
Trascorse gli ultimi anni, d'inverno a Parigi, d'estate in alcuni possedimenti
di campagna (a Voré e a Lumigny), ricevendo amici e uomini illustri coadiuvato dalla bellissima e intelligente moglie Anne Catherine de Ligneville. Questa
continuerà a tenere un vivace salotto letterario anche dopo la scomparsa del marito; durante gli anni della rivoluzione francese esso diventerà il centro dei così
detti « ideologi ».
Morì nel 1771.
VII
· DALLA GNOSEOLOGIA SENSISTICA
ALL'ETICA FONDATA SULL'UTILITÀ
Helvétius non porta contributi sostanzialmente nuovi al problema della
conoscenza, ma ricava- dalle risposte che gli empiristi e in particolare Condillac
avevano dato a tale problema - una nuova, coraggiosa e coerente visione del
mondo morale.
Che l'impostazione empiristico-sensistica costituisca l'unica via seria per
spiegare i processi della vita psichica, è per lui un fatto acquisito. Non esiste
alcun salto metafisica fra il sensibile e l'intelligibile: tutte le operazioni dello
spirito possono venire ricondotte alla mera sensibilità. « La sensibilità fisica e
la memoria,» scrive nel volume De l'esprit, «cioè, per parlare più esattamente,
la sola sensibilità produce tutte le nostre idee. Infatti la memoria non può essere
altro che uno degli organi della sensibilità fisica ... Tutte le operazioni dello spirito consistono nella capacità di percepire le somiglianze o le differenze, i rapporti
di convenienza o di difformità che sussistono fra vari oggeti. Ma questa capacità
non è nient'altro che la stessa sensibilità fisica: ogni cosa si riduce dunque al
sentire.»
Anche il giudicare è soltanto un sentire; e precisamente è quel sentire che
ha luogo quando ci troviamo innanzi a due oggetti, o immediatamente percepiti
o richiamati in noi dalla memoria: « Perché dunque si dovrebbe ammettere in
noi una facoltà di giudicare distinta dalla facoltà di sentire? ... L'operazione di
comparare non è altro che prestare attenzione alle diverse impressioni suscitate
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Condillac e Helvétius
in noi dagli oggetti, o attualmente presenti ai nostri occhi, oppure presenti alla
nostra memoria. Di conseguenza, ogni giudizio non è altro che l'enunciazione
delle sensazioni provate. » La conoscenza dei rapporti degli oggetti, fra loro e
con noi, è ciò che Helvétius chiama spirito.
Ma, come sappiamo dal paragrafo III, al primum della sensazione si accompagna sempre - secondo la concezione sensistica - anche una percezione di piacere o di dispiacere, che si traduce in sforzo onde ripetere oppure evitare tale sensazione. Di qui si sviluppano il bisogno, l'istinto e in genere l'azione. È proprio
su questo punto, cioè sul collegamento fra i due aspetti testé menzionati del percepire, che si sofferma con particolare cura il nostro autore, ricavandone la conclusione che ogni sentimento, ogni affetto, ogni impulso è sempre determinato
da una sensazione o da un gruppo di sensazioni; è in altri termini una determinazione inscindibilmente connessa all'utilità di tali sensazioni, all'interesse che suscitano in chi le prova. Bisognerà dunque ammettere se si vuole essere coerenti,
che tutt'intera la nostra vita sentimentale ed attiva risulta basata sull'interesse.
Nemmeno la morale sfugge, secondo Helvétius, a questo principio generalissimo. Quando riconosciamo che un'azione è buona o cattiva, tale nostro riconoscimento è condizionato da un interesse; se non è in gioco alcun interesse,
non si sviluppa alcuna valutazione. Ciò non vale solo per gli individui, ma anche
per le varie collettività; le valutazioni da esse accolte e propagandate circa l'onestà, la disonestà, la grandezza, l'eroismo sono tutte e unicamente determinate
dalla considerazione dell'utile nei riguardi della singola collettività che le accoglie.
« In ogni tempo e in ogni luogo, sia in materia di morale che in materia di spirito,
è l'interesse personale che determina il giudizio dei privati, e l'interesse generale
che determina il giudizio delle nazioni: in questo modo da parte della collettività come da parte dei privati, è sempre l'amore o la riconoscenza ad essere fonte
di lode, ed è l'odio o la vendetta ad essere fonte di disprezzo.» In parecchi casi
l'uomo non sarà forse consapevole della base utilitaristica dei propri giudizi,
ma se noi analizziamo con rigore il suo comportamento vediamo che, sotto le
più nobili parole, si ritrova sempre un ben preciso interesse.
Partendo dalla constatazione che è l'ambiente esterno (cioè il complesso
delle esperienze effettivamente vissute dagli uomini) a esercitare un'influenza
determinante sul modo di agire e di pensare dei singoli - sicché questo modo di
agire e di pensare non dipende affatto, come alcuni pretenderebbero, da doti
più o meno misteriose innate nell'animo e diverse da un individuo all'altroHelvétius perviene ad una conclusione di autentica portata rivoluzionaria: tutti
gli uomini sono per natura fra loro eguali; le diversità fra gli uni e gli altri derivano esclusivamente dalle differenti abitudini che l'ambiente esterno ha sviluppato in essi. Tutti gli individui tendono alla propria felicità, come tutti i popoli
tendono in origine alla felicità generale; ma la corruzione dell'ambiente in cui
gli uomini sono costretti a vivere, la struttura dei governi in cui pochi individui
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Condillac e Helvétius
sfruttano a loro personale vantaggio l'ignoranza altrui, provocano le storture
morali, i vizi, la decadenza dei costumi. Per combattere efficacemente questi
mali non esiste dunque che una via: quella di migliorare le società in cui gli uomini vivono e a tal fine trasformare radicalmente l'organizzazione degli istituti
su cui tali società si reggono.
Helvétius non nominava in modo esplicito la situazione francese; ma nessuno ebbe dubbi in proposito. Ed infatti le sue vere intenzioni furono subito
comprese ben chiaramente dalle autorità civili e religiose di Parigi, che si affrettarono a lanciare i loro fulmini contro l'opera e l'autore. Né era soltanto il contenuto del volume De l'esprit a ferire tali autorità (soprattutto quelle religiose),
bensì anche il tono con cui esso era scritto: pacato ma tagliente, obbiettivo ma
pieno di amarezza. Se, in particolare, nell'ambito dei problemi religiosi il nostro
autore non andava al di là delle posizioni genericamente deistiche di molti contemporanei, il suo era però un deismo vivacemente polemico, non disposto a fare
alcuna concessione ai pregiudizi tradizionali.
VIII
· L 'ONNIPOTENZA DELL'EDUCAZIONE
Già sappiamo che l'opera De l'homme uscì un anno circa dopo la morte di
Helvétius. Essa era un poderoso trattato di pedagogia, che sviluppava ampiamente la tesi - già enunciata nell'opera del 17 58 - che le disposizioni dei singoli uomini dipendono in modo essenziale dall'ambiente in cui essi nascono e
crescono, cosicché le differenze fra gli uni e gli altri sono esclusivamente l'effetto
della loro diversa educazione: « La diseguaglianza di spirito che si riscontra tra
gli uomini dipende unicamente dalla diversa educazione che essi ricevono, e
dalla ignota e differente concatenazione delle circostanze in cui si trovano collocati. »
Per eliminare queste differenze, e ottenere che tutti gli uomini risultino
davvero virtuosi, bisognerà dunque trasformare radicalmente la loro educazione,
trasformando - come già si è detto - la società in cui essi si trovano a vivere.
Proprio perché l'uomo non possiede virtù o vizi innati, non esistono in lui ostacoli che possano limitare o annullare gli effetti dell'educazione: questa, purché
intesa nel suo significato « più autentico e più esteso », è in grado di orientare
con sicurezza gli impulsi del singolo sulla via della probità.
Se, invece, sono così pochi oggi gli uomini che imboccano seriamente la
via della probità, ciò è dovuto al fatto che la formazione delle menti e dei caratteri è in larghissima misura abbandonata al caso. Ma il caso, in realtà, non è
altro che un confluire di fattori diversi, dei quali non riusciamo a cogliere l'effettiva concatenazione. È la nostra considerazione superficiale che ce lo fa ritenere misterioso e inspiegabile; un esame più attento ci dimostrerebbe che anche
il suo operare obbedisce a ben precise regole e quindi può venire spiegato.
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Condillac e Helvétius
Quando la gente si rammarica che attualmente nascono così pochi eroi e
così pochi geni, non è quindi lecito incolpare di ciò il caso, trincerandosi dietro
di esso per nascondere le colpe della nostra società. Occorre invece sforzarsi di
scoprire, coll'osservazione ripetuta, quali sono i mezzi che il così detto caso adopera per produrre uomini superiori; una volta che li avremo scoperti, sarà possibile servirsi artificialmente di essi per ottenere - con ben maggiore frequenza
- i medesimi effetti che la natura ottiene solo in via eccezionale.
Orbene la filosofia ci insegna, secondo Helvétius, che tali mezzi consistono
essenzialmente nel costituire intorno ai fanciulli un nuovo ambiente sociale,
regolato da leggi che sviluppino al massimo le capacità degli individui orientando
i loro interessi verso la felicità di tutti. Si abbia dunque il coraggio di operare
queste trasformazioni, e l'umanità non avrà più a lagnarsi della rarità dei geni.
Sarebbe ovviamente fin troppo facile accusare questa teoria di astrattezza
e di ingenuo utopismo. La cosa certa è che nel Settecento essa riuscì a rinvigorire in larghi strati la fiducia nella potenza umana (cioè la fiducia nella capacità
dell'uomo non solo di dominare, con la ragione, la natura, ma anche di migliorare se stesso): era una fiducia indispensabile a chi si accingeva al difficilissimo
compito di rinnovare a fondo la società.
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CAPITOLO QUINTO
Hume*
I
· VITA E OPERE
David Hume, il maggior filosofo del Settecento inglese ed uno dei più lucidi ingegni della storia del pensiero, nacque ad Edimburgo il z.6 aprile 1711,
terzogenito di una famiglia di nobiltà di toga (magistrati). La Scozia era stata
unita appena allora (17o6) al regno d'Inghilterra, ma restava molto più arretrata
della parte meridionale dell'isola. Il latifondo nobiliare e la servitù della gleba
erano ancora diffusissimi, ed il controllo della chiesa presbiteriana sul costume
e sulla cultura pesantissimo. Il paese aveva beneficiato solo marginalmente del
rinnovamento portato dalle due rivoluzioni inglesi. Eppure esso diede un grande
contributo alla fioritura della cultura britannica; basti ricordare, accanto a quello
di Hume, i nomi di Butler, Hutcheson e soprattutto Smith.
Trascorsa l'adolescenza nella proprietà di campagna di Ninewells, nel 172.I
Hume si trasferì ad Edimburgo per frequentare un college. Dotato di una intelligenza vivace e precocissima, in breve si impadronì di una solida cultura umanistica, ·basata soprattutto sui classici latini. L'insegnamento filosofico impartitogli
al college fu molto modesto, mentre ottimo fu quello di filosofia naturale grazie
a Robert Stewart, che era stato discepolo di Newton. A quattordici anni, quando
lasciava il college per tornare a Ninewells, Hume aveva già una spiccata vocazione
per gli studi, che coltivò dedicandosi ad una lettura sistematica dei classici e dei
maggiori autori della letteratura moderna. Su pressione della famiglia, si iscrisse
di malavoglia alla facoltà di giurisprudenza di Edimburgo.
Decisivi, per la sua formazione, furono gli anni tra il 172.7 ed il 1734, durante i quali integrò la lettura dei classici con quella di grandi filosofi moderni
(Bacone, Locke, Berkeley, i moralisti inglesi, Bayle - attraverso il cui Dizionario
si impadronì anche delle dottrine di Spinoza, Malebranche ecc. - Montaigne e
altri). A soli diciotto anni, avvertì con chiarezza la necessità di un rinnovamento
radicale del metodo d'indagine filosofica. Colpito dall'innegabile circostanza che
le dottrine filosofiche avessero sempre recato con sé un alone di incertezza, che
dava luogo ad interminabili diatribe, decise che a questo stato di cose si po-
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All'elaborazione del capitolo ha direttamente contribuito Enrico Rambaldi.
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H urne
tesse porre rimedio solo fissando un punto fermo - il metodo sperimentale
- dal quale non discostarsi più. Fu preda, in quegli anni, anche di crisi religiose
e professionali; dopo un fallito tentativo di dedicarsi al commercio, all'età di
ventitré anni decideva di lasciare la Scozia e sbarcava in Francia, ove si trattenne per circa tre anni, due dei quali passati a la Flèche, sede del famoso collegio dei gesuiti ove, poco più di un secolo prima, aveva studiato Cartesio.
Fu in Francia che, con sconcertante rapidità, compose ancora giovanissimo il suo
capolavoro: A treatise of human nature, being an attempt to introduce the experimental method of reasoning into moral suijects (Trattato sulla natura umana, costituente un tentativo di introdurre il metodo sperimentale di ragionamento negli argomenti
morali). L'opera comprendeva tre libri: Of the understanding (Sull'intelletto), Of the
passions (Sulle passioni), Of morals (Sulla morale). L'ordine di composizione e quello
di pubblicazione sono diversi: il primo libro venne composto per ultimo.
L'opera venne pubblicata anonima; i primi due libri apparvero nel I739, ed il
terzo (anche per interessamento di Hutcheson), nel I740. Ma il Trattato, che può
essere considerata una delle opere più rivoluziç>Qll,t:Ì~ ..9:~!1~ .W>~i:a-...~1 . pensie;Q,
non ebbe quasi nessuna eco, sicché fu soprattutto per richiamare su di esso l'attenzione del pubblico che nel I74o Hume pubblicò, anonima, una recensione
di se stesso, con il titolo An abstract of a treatise of human nature (Compendio di
un trattato sulla natura umana).
Riflettendo sull'insuccesso dell'opera, Hume si convinse più tardi che esso
fosse dovuto non ad errori di ragionamento, ma alla forma letteraria spesso
pesante, propria di un trattato sistematico; scelse dunque, per le sue opere successive, la forma più agile e brillante del saggio. Nel I74I usciva la raccolta
Essf!YS moral and politica/ (Saggi morali e politici), che ebbe immediato successo
e venne ristampata, accresciuta da uno a due volumi, l'anno dopo. Il filosofo
era frattanto rientrato nella natia Scozia, ove studiava e componeva alacremente.
Nel I744 concorse invano ad una cattedra di psicologia all'università di Glasgow:
gli ambienti religiosi e lo stesso Hutcheson si opposero alla chiamata dell'ormai
più che trentenne filosofo. Questi decise allora di entrare al seguito del generale
Saint Clair, ed intraprese lunghi viaggi sul continente, visitando tra l'altro anche
l'Italia. Nel I748 uscì una riduzione e rielaborazione in forma saggistica del
primo libro del Trattato: Philosophical essf!YS concerning human understanding (Saggi
filosofici sull'intelletto umano). Da allora in poi, disconobbe quello che oggi noi
consideriamo il suo capolavoro, il Trattato, ed indicò nei Saggi (che ebbero
molte edizioni) la sola fonte per conoscere e giudicare il suo vero pensiero.
Nel I749, chiusa questa prima parentesi diplomatica e tornato nella pace
di Ninewells, Hume riprese a studiare ed a produrre: nel I 7 5I pubblicava una
rielaborazione in forma saggistica del terzo libro del Trattato: Enquiry concerning
the principles of morals (Ricerca sui principi della morale); l'anno dopo pubblicò i
Politica/ discourses (Discorsi politici). Dal I75 I si era trasferito a Edimburgo, ove
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H urne
compose i celebri Dialogues concerning natura/ religion (Dialoghi sulla religione naturale), in risposta agli attacchi di Warburton contro il proprio scetticismo deistico. Gli amici (soprattutto Adam Smith) gliene sconsigliarono la pubblicazione,
sicché l'opera vide la luce solo postuma (I779)· Divenuto conservatore della biblioteca di Edimburgo (I75z), Hume si dedicò appassionatamente a studi storici;
nel I754 uscì il primo volume di una vasta History of Great Britain (Storia della
Gran Bretagna): The reigns ofJames 1 and Charles 1 (I regni di Giacomo I e Carlo 1).
L'opera, alla quale Hume teneva molto, suscitò aspre critiche sia da parte dei
liberali, sia da parte dei conservatori, sia da parte degli ambienti religiosi. Il
secondo volume (1756) ebbe invece accoglienza più favorevole: The reigns of
Charles II and james II (I regni di Carlo II e Giacomo II).
Nel I 7 56 egli approntò anche una raccolta di saggi che conteneva i seguenti
scritti: Of the passions (Delle passioni; rielaborazione del secondo libro del Trattato); The natura/ history of religion (Storia naturale della religione); uno scritto di estetica, OJ tragec!J (Della tragedia) e due di argomento etico-religioso: OJ the immortality of the soul (Dell'immortalità dell'anima) e Of suicide (Del suicidio). Quando ebbe
tra le mani il volume ormai stampato, Hume si rese conto che soprattutto i due
ultimi scritti avrebbero favorito gli attacchi dei religiosi contro di sé, e quindi
lo ritirò dal commercio, pubblicando nel I757 un volume di saggi intitolato
Four dissertations (Quattro dissertazioni), nel quale i due ultimi scritti del volume
ritirato erano sostituiti da un saggio di estetica: Of the standard of !aste (Della
regola delgusto). Gli attacchi previsti, cui venne sottoposto, furono tuttavia violenti.
Dimessosi dalla carica di conservatore della biblioteca, nel I 7 59 Hume pubblicò The history of England under the house of Tudors (Storia d'Inghilterra sotto la
dinastia dei Tudor), e due anni dopo completò l'opera con The history of England
from Julius Caesar to 148J (Storia d'Inghilterra dall'invasione di Giulio Cesare al I 48;).
Tra il I763 al I766 Hume risiedette a Parigi, quale addetto d'ambasciata.
Furono anni sereni e densi di amicizie ed incontri importanti: frequentò i più
noti salotti letterari e scientifici, conobbe d'Alembert, Buffon, Diderot, Helvétius, Holbach e altri philosophes. Tornato in Inghilterra, vi invitò Jean-Jacques
Rousseau, sempre inquieto ed alla ricerca di una serenità che in continente gli
sembrava negata. Ma tra i due pensatori vi fu una clamorosa rottura, seguita
dal ritorno di Rousseau in continente e da sue ingiustificate accuse a Hume di
averlo perseguitato e danneggiato.
Dopo un soggiorno a Londra, ancora denso di impegni politico-diplomatici,
nel I 769 Hume tornò ad Edimburgo continuando a studiare, a tivedere ed a
rifinire successive edizioni delle proprie opere. Nel I776 gli venne diagnosticato
un tumore intestinale. Da quel grande e nobile intelletto ed animo che era, reagì
con serenità alla notizia: riordinò le proprie carte, diede disposizioni testamentarie per la pubblicazione postuma dei Dialoghi sulla religione naturale e di uno
scritto, My own /ife (La mia vita) che compose quando seppe che stava morendo.
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H urne
Fino all'ultima ora continuò ad essere amabile ed arguto conversatore ed amico.
Morì il 2 5 agosto del I n6.
II
· IL RINNOVAMENTO DEL METODO FILOSOFICO
Come ha rilevato uno dei più autorevoli studiosi di Hume, Norman Kemp
Smith, nel filosofo si possono rintracciare i filoni di quattro influenze fondamentali: quella dell'emp_it:~!!l:QJngles~_(Locke, Bacone e, mediatamente, Berkeley);
quella dello scettici~o (Bayle e Montaigne, oltre allo scetticismo antico); quella
dei gJ.Qgl_i_s!!_iggksi e quella di !'i~~tc:>n.
In una lettera Hume ebbe una volta occasione di scrivere che, ancora giovanissimo, ebbe una sorta di illuminazione interiore sul rinnovamento da operarsi
nel metodo filosofico: «Dopo molto studio e riflessione( ... ), mi parve infine di
giungere, verso l'età di diciotto anni, all'aprirsi di una nu_Qy~ ~C~f1a__ delpensiero
di fronte a me. » Fino ad allora, egli si era occupato soprattutto, ma non esclusivamente, di filosofia morale in senso specifico (cioè di etica); tuttavia come rileva il maggior studioso italiano dello scetticismo, Mario Dal Pra, quando gli
si aprì dinnanzi la « nuova scena del pensiero », essa investiva il metodo filosofico
in generale, non solo il campo etico.
Il rinnovamento metodologico di Hume muove dalla constatazione che esistono due modi di filosofare: uno «facile ed ovvio», basato più sull'eloquenza
che non su analisi accurate, ed uno «astruso ed approfondito», che si affida
all'acutezza dell'analisi razionale. Perché, si chiede l'autore, la filosofia facile
ed ovvia, ad esempio quella di Cicerone, gode di maggior popolarità che non la
filosofia profonda, ad esempio quella di Locke? Certo ciò è dovuto anche al fatto
che una filosofia superficiale ed eloquente è più facile e meno faticosa da apprendere, ma d'altra parte è innegabile che la maggior popolarità della filosofia superficiale è dovuta anche ad un difetto proprio di grandissima parte delle filosofie profonde, che troppo spesso sono zeppe di astruserie metafisiche, cagionate
dalla vana ambizione di affrontare problemi che, per l 'intelletto umano, sono
insolubili, come ad esempio la natura di dio, della sostanza, l'esistenza di un piano
provvidenziale, di una armonia prestabilita, ecc. Una volta addentratisi in questi
labirinti, i filosofi profondi sono costretti a mascherare la propria impotenza di
fronte ad essi trincerandosi dietro un linguaggio astruso e incomprensibile.
Per riscattare la fecondità e la validità della filosofia profonda, occorre dunque
in primo luogo combattere la metafisica « malata », ed il bisturi sarà costituito
da un attento esame delle reali possibilità di conoscenza dell'intelletto umano,
con la duplice meta da un lato di sfruttare al massimo queste possibilità, e dall'altro di non avventurarsi in problemi ai quali il nostro intelletto non può trovare risposta alcuna.
Per metafisica « sana», cioè filosofia profonda accurata ed esatta, Hume in102
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Hurne
tende lo studio della natura umana condotto secondo il metodo newtoniano:
risalire dai fenomeni al loro principio comune; risalire poi da questi principi ad
altri principi meno numerosi e più generali, sino a giungere a pochissimi principi semplici e certi, dai quali poter infine dedurre in modo rigoroso sia i fenomeni sia le loro leggi; « in poche parole, [per lui] il sapere scientifico è caratterizzato dalla evidenza dei principi e dalla rigorosa deduzione delle conseguenze »
(Dal Pra). Come Newton, anche Hume non ha la pretesa di scoprire le cause
ultime; l'analisi critica delle facoltà dell'intelletto gli serve proprio per mettere
in guardia dalla pretesa di arrivare a scoprire e definire cause ultime come dio,
sostanza, res cogitans, res extensa. Egli insiste però con forza sulla rilevantissima
importanza scientifica del metodo da lui proposto: « Sebbene non ci sia possibile arrivare ai principi ultimi, è pur soddisfazione andare avanti sino a quel
punto a cui ci possono condurre le nostre facoltà. »
La rottura di Hume con i grandi pensatori del Seicento è quindi radicale,
in quanto i sistemi di Cartesio, Hobbes, Spinoza, ecc. sono, per Hume, metafisiche «malate». Anziché ai meccanicisti, egli si richiama alla tradizione empiristica e sperimentale di Francesco Bacone, di Locke, e soprattutto al celeberrimo
« hypotheses non fingo» di Newton. Nel Compendio, Hume descrive così il nocciolo
del proprio metodo filosofico: «L 'autore del Trattato si propone di compiere l'anatomia della natura umana in maniera regolare, e promette di non tirare conclusioni se non dove l'esperienza lo autorizza a farlo. Egli parla con disprezzo delle
ipotesi. » La riduzione dei fenomeni ai loro principi esplicativi non va quindi
fatta con il solo pensiero astratto, ma sempre mantenendo un fecondo contatto
tra pensiero ed esperienza; si tratta di analizzare criticamente quest'ultima, senza
staccarsene mai.
Nonostante l'esplicito richiamo a Bacone, Locke, Newton, ai moralisti
inglesi, Hume ha un altissimo senso dell'originalità della « nuova scena del pensiero » da lui scoperta: egli è convinto di essere, nel campo filosofico, più rigoroso, più profondo e più sistematico dei suoi precursori, e pensa che la sua opera
darà inizio ad una nuova sistemazione di tutto il sapere umano, non escluso quello
della filosofia naturale. È ovvio infatti che qualora si dia una esatta analisi dell'intelletto umano (sul quale ogni scienza riposa), tutte le discipline, anche la
matematica e la geometria, ne trarranno vantaggio. Il nuovo sistema del sapere,
annuncia H urne, sarà così articolato: logicf!, come scienza del ragionare (che investe quindi anche il metodo della scienza naturale) e della natura delle nostre
idee; _mortlf§, come scienza del sentimento; estetica, come scienza del gusto; politica, come scienza dell'uomo sociale. «In queste quattro scienze, logica, morale,
estetica, politica, è compreso press'a poco tutto quello che, in una qualunque maniera, può importarci di conoscere. »
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III
· LA LOGICA
Anche se Hume compose prima le parti del Trattatò riguardanti le passioni
e la morale, nella nostra esposizione seguiremo l'ordine sistematico dell'opera,
confortati in questo dal fatto che non solo Hume ha, di fatto, anteposto la trattazione dell'intelletto alle altre due, ma anche ha esplicitamente affermato che la
logica (intesa come gnoseologia generale) è la base delle altre forme fondamentali
del sapere (morale, estetica, politica) poco sopra menzionate.
a) Origine e connessione delle idee
La logica humiana inizia con un'accuratissima analisi dell'origine delle
nostre idee, che egli riconduce, insieme alle impressioni, sotto il nome comune
di percezioni: « lo chiamolpercez1o~ tutto ciò che può essere presente al nostro
spirito, sia che usiamo dei sensi, sia che o siamo animati da passioni o esercitiamo
il nostro pensiero e la riflessione. » Le percezioni si suddividono quindi in due
categorie: quelle che sono immediatamente presenti ai nostri sensi o al nostro
spirito (sensazioni o passiQtl.Ì), e che Hume chiama impressioni, e quelle che sono
presenti ad esso solo mediatamente (i ricordi di quelle sensazioni e quelle passioni), che Hume chiama idee. La sensazione del dolore provocato dal contatto
della mia mano con un corpo incandescente è una impressione; il ricordo di
quel dolore, in forza del quale so che un corpo incandescente provoca dolore,
è un'idea. Impressioni ed idee sono quindi della stessa natura, solo che le prime, in quanto immediate, sono vivide e forti, e le seconde, mediate, sono più
deboli e scialbe. L'idea di una scottatura è sempre più scialba di una scottatura
in atto.
Hume ha così già delimitato un empirismo radicale, in forza del quale
si è costretti ad ammettere che l'uomo, in ultima analisi, non può uscire dall'ambito dell'esperienza. Che non possa avere altre impressioni da quelle che di fatto,
empiricamente, ha, è evidente. Si tratta ora di dimostrare che anche nell'ambito
delle idee non può mai staccarsi dalle impressioni che a quelle idee danno origine.
Esaminando le nostre idee, osserva il filosofo, vediamo che esse sono o
semplici o composte. L'idea di ippogrifo, ad esempio, è un'idea composta che
risulta dalla sintesi delle idee semplici di cavallo e di aquila; quella di centauro,
risulta dalle idee semplici di cavallo e di uomo. Ogni idea composta risulta
sempre scomponibile in idee semplici, le quali a loro volta possono essere dcondotte ad originarie impressioni di cavallo, uomo, aquila ecc. Tutte le idee
quindi, sia semplici sia composte, sono solo copie, « riflessi » di impressioni,
tanto che possiamo concluderne « che le impressioni sono la causa delle idee,
e non viceversa».
L'esistenza di idee composte dimostra però l:~si_s!_enza di una libertà del104
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Hurne
l 'immaginazione nel comporre e scomporre le idet:, e quindi una certa autonomia di queste ultime rispetto alle impressioni. Fino a che punto si spinge questa
libertà? Essa- risponde Hume- non esce dall'ambito dell'esperienza, giacché
si limita alla facoltà qella nostra immaginazione di operare sintesi (composizioni) ed analisi (scomposizioni) sulle idee «copie>> di impressioni. Questa libertà risulta dunque molto relativa, in primo luogo perché può operare solo
mediante materiale fornito da impressioni; in secondo luogo, perché possiamo
osservare che essa procede sempre secondo una certa regolarità, rispettando alcune regole di connessione: «Anche nelle fantasticherie più sfrenate e vagabonde,
anzi negli stessi sogni, troveremo, se riflettiamo, che l 'immaginazione non corre
del tutto a caso, ma che viene sempre mantenuta una connessione fra le diverse
idee, che si succedono l'una all'altra. Se fossero trascritte le conversazioni più
sciolte e libere, vi si osserverebbe subito qualche cosa che le connette in tutti i
loro passaggi. »
Si tratta quindi di esaminare questo « qualche cosa », di individuare i principi che regolano la connessione o associazione tra le idee. E dovrà trattarsi
di principi tanto elastici da garantire quella libertà, seppur relativa, dell'immaginazione nella sintesi e nella analisi delle idee, e nello stesso tempo tanto universali da valere per la natura del pensiero nel suo complesso. Questo « qualche
cosa» - spiega Hume - è una « forza » (paragonabile alla forza newtoniana
di attrazione universale): quanto più siamo vicini al livello dell'impressione,
tanto più la forza che spinge le idee ad associarsi è violenta (l'idea del fuoco, quando abbiamo appena patito un'ustione, si associa immediatamente a
quella del dolore); quanto più siamo distanti, tanto più è lieve, cioè tanto maggiore è il margine di libertà (tuttavia mai assoluto) di cui gode la nostra immaginazione.
Orbene, afferma Hume, questi principi generali che danno origine a tutte
le possibili associazioni di idee sono tre: « la somiglianza: un ritratto ci fa naturalmente pensare alla persona per la quale fu dipinto. La contiguità: quando
ricordiamo Saint-Denis [un sobborgo di Parigi], si affaccia naturalmente l'idea
di Parigi. La causalità: quando pensiamo al figlio, portiamo facilmente la nostra attenzione sul padre.» Questi tre principi, afferma Hume con una suggestiva
immagine, «sono per noi effettivamente il cemento dell'universo e tutte le operazioni dello spirito ne devono dipendere in larga misura». Come si vede, Hume
sta concretamente applicando alla natura umana l'esigenza metodologica newtoniana di giungere, in base all'esperienza, a pochi principi, dai quali far dipendere
il complesso e variatissimo mondo dei fenomeni.
«L'effetto più rilevante dell'associazione delle idee sono le idee complesse;
esse nascono in genere dall'uno o dall'altro dei principi che colleganç> le nostre
idee semplici. Le idee complesse possono dividersi in _idee di re!~~!qne, gl__~Qili
e di ~-~_!?_!:~_!1~~· » Le più importanti sono le idee complesse di relazioni, di cui quelle
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H urne
di modi e di sostanze sono solo forme particolari. Che cosa è, ad esempio quell'idea di sostanza sulla quale tanto si sono affaticati i metafisici? L'idea della sostanza «uomo», risponde Hume, non può mai essere «distinta da quella di una
collezione di qualità particolari» che gli uomini hanno. Analogamente l'idea del
modo « colore » altro non è che una raccolta delle idee particolari di colori sparsi
nei vari oggetti delle sensazioni. Sia le sostanze sia i modi altro non sono quindi che forme specifiche (in quanto collezioni e raffronti di idee particolari)
dell'idea di relazione, cioè «di quella proprietà per cui due idee sono connesse nell'immaginazione in modo tale, che l'una introduce naturalmente
l'altra».
Alla luce di questa analisi, Hume dà ragione a quanto aveva detto Berkeley
sugli iuniyi.f_ii[i.!: essi sono solo col~ezi~_t11__s_i!!~.f!~~-_psi~Q.!c:!J:~A~}~~(! partic_ol~r1 A
chiarimento di questa tesi, Hume fa tre limpidissime osservazioni: la prima rileva come si possa bensì parlare della « linea » in astratto, ma come in verità
non si possa mai concepire una linea priva di dimensioni, di misure particolari:
« La precisa lunghezza di una linea non è né differente né distinguibile dalla linea
stessa ( ... ) ; perciò l 'idea generale di una linea, nonostante tutte le astrazioni, ha,
quando si presenta alla mente, un preciso grado di quantità e qualità,· anche se
viene assunta a rappresentare altre linee che abbiano gradi diversi di qualità e
quantità. >> Seconda osservazione: «Nessuna impressione può essere presente
allo spirito senza essere determinata sia per qualità sia per quantità. Ora tutte
le idee sono derivate dalle impressioni e sono copie e rappresentazioni di esse;
l'idea è un'impressione più debole; ora, poiché un'impressione forte deve avere
necessariamente una quantità e qualità determinate, anche per la copia sarà lo
stesso.» Terza osservazione: «In natura ogni cosa è individuale; è quindi assurdo supporre un triangolo veramente esistente che non abbia proporzione
precisa di lati e di angoli. Se ciò è assurdo nel fatto, sarà assurdo anche nell'idea.»
La conclusione è di una semplicità magistrale: «f::,e idee__ astratte sono qu_!!l_t/_i'- !n.._s.e
stesse?_!!!tJ.ivi!!__l!_ali, per quanto possa_!l_q__.flive~_!are__g~!_!E!/....P~!_qtt.4Jo_ !..k!__!.t:!P..PI:~!..~f_ll!Jf!O.. »
La loro funzione è semplicissima: quando usiamo il termine generale di « uomo »,
non richiamiamo alla memoria una per una tutte le idee particolari di uomo che,
correlate tra loro, danno l 'idea della sostanza astratta « uomo »; tuttavia, per
esperienza ed abitudine sappiamo che sotto quella idea astratta di uomo possiamo
ricondurre tutte le idee particolari degli uomini che abbiamo conosciuto, conosciamo e potremmo conoscere. Così accade che « alcune idee sono particolari per
loro natura, ma generali per quello che rappresentano ».
b) Scienza matematica e scienza sperimentale. Le diverse specie di certezza
Dall'analisi che Hume ha fatto dell'origine e delle connessioni tra le idee,
discende la possibilità di distinguere due tipi fondamentali di conoscenze: quelle
concernenti le «relazioni tra idee» e quelle concernenti le «materie di fatto».
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Hume
Che il quadrato costruito sull'ipotenusa di un triangolo rettangolo sia pari alla
somma dei quadrati costruiti sui cateti è una relazione tra idee: non ho alcun
bisogno, per dimostrare questa verità, di far ricorso all'esperienza. Il teorema
può essere dimostrato studiando le relazioni intrinseche all'idea di triangolo.
A questa specie di conoscenza « appartengono le scienze della geometria, dell'algebra e dell'aritmetica».
Di diverso tipo è la conoscenza delle « materie di fatto ». Che domattina
sorgerà il sole, non è verità che io possa dedurre dallo studio delle relazioni intrinseche all'idea, derivata dall'impressione sensibile, che oggi ed in passato il
sole è sorto. La verifica di una proposizione come « domani sorgerà il sole » è
demandata all'esperienza, che sola può certificarla. Mentre infatti mi è inconcepibile ammettere che il teorema di Pitagora sia falso, o che 2
2 non dia 4,
« il contrario di ogni materia di fatto è sempre possibile, perché non può mai
implicare contraddizione e viene concepito dalla mente con la stessa facilità e
distinzione che se fosse del pari conforme alla realtà. Che il sole non sorgerà
domani è una proposizione non meno intellegibile e che non implica più contraddizione dell'affermazione che esso sorgerà».
Le scienze matematiche hanno quindi tre caratteristiche fondamentali che
le distinguono dalle conoscenze concernenti materie di fatto: sono .~i...Q!i
necessarie, _s_~9.,!_eti~he. A priori perché possono essere escogitate con una pura
operazione di pensiero, tanto che « anche se non esistessero in natura circoli o
triangoli, le verità dimostrate da Euclide conserverebbero sempre la loro certezza ed evidenza ». Necessarie perché il contrario di una verità matematica implica una contraddizione che non può essere accettata dalla mente. Sintetiche
perché accrescono le conoscenze umane, consentendo di scoprire proprietà,
teoremi ecc. prima ignoti.
Nel campo delle «materie di fatto», invece, secondo Hume sono possibili
tre forme di relazioni assai diverse: quella diicf..e_'!!..ità (una cosa è identica a se stessa);
quella di contigui!~ spazio-temporale (una cosa è vicina o lontana - nello spazio
o nel tempo - ad un'altra); quella di ç_ausalit_à (una cosa è causa di un'altra).
Esaminando approfonditamente queste tre relazioni, Hume dimostra poi che le
prime due possono essere ridotte alla terza, giacché quando, ad esempio, percepiamo del fumo, e ne inferiamo che poco distante (contiguità spaziale) deve
esserci del fuoco, in ultima analisi ci basiamo sulla relazione causale che il fumo
è un effetto del fuoco; quando oggi vediamo un amico, e rivedendo lo domani gli
applichiamo la relazione di identità per cui pensiamo che sia la stessa persona,
ci basiamo ancora una volta, in ultima analisi, sulla relazione di causalità. In
conclusione « tutti i ragionamenti riguardanti le materie di fatto sembra che siano
fondati sulla relazione di causa ed effetto. Solo per mezzo di questa relazione si
può andare al di là di ciò che risulta evidente per la testimonianza della memoria
e dei sensi ».
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H urne
Per studiare questa relazione fondamentale, Hume fa il famoso esempio
delle palle di biliardo: noi vediamo (impressione di sensazione) che la palla A,
spinta da noi, colpisce la palla B, mettendola in movimento. Analizzando questa
impressione visiva, constatiamo che: I) la palla B si è messa in moto nel preciso
istante in cui è entrata in contatto con la A, quindi quando ha avuto luogo una
contiguità; z) il movimento della palla A precede quello della B; 3) ogni volta che
la palla A colpisce la B, quest'ultima si mette in moto; tra i due fenomeni ha quindi
luogo una connessione costante. « Oltre a queste tre circostanze, della contiguità,
della priorità e della connessione costante, io non posso scoprire nulla di questa
causa. La prima palla è in movimento; tocca la seconda palla; immediatamente
la seconda palla è in movimento; e quando io tento l'esperimento con la stessa
palla o con palle simili, nelle stesse circostanze, o in circostanze simili, trovo che
dopo il movimento e l'impatto di una palla, il movimento segue sempre nell'altra. In qualunque senso io rovescio questo fatto e per quanto lo esamini, non riesco a
trovare in esso nulla di più. »
Fin qui, l'analisi è stata condotta allivello dell'impressione, cioè supponendo
di vedere le due palle di biliardo in quiete o in movimento. Ma se ci portiamo a
livello delle idee, diviene evidente una circostanza di capitale importanza: vedo
la palla A che muove verso la B, e prima ancora che abbia avuto luogo l'urto, inferisco
che certamente la palla A metterà in moto la B. Si tratta evidentemente di una inferenza ideale, in quanto ha luogo prima che io abbia l 'impressione visiva del
moto della palla B. Una simile inferenza vien fatta per tutti i fenomeni naturali:
sono certo, prima di vederlo sorgere, che domattina sorgerà il sole; sono certo
che il mio amico è mortale prima di vederlo morire, ecc. Si pone dunque il seguente problema: la relazione di inferenza causale è forse, in quanto sembra preceder/a,
indipendente dall'esperienza? La risposta di Hume è tassativa: « Oserò affermare,
come proposizione generale che non ammette eccezioni, che la conoscenza di
questa relazione non si consegue in alcun caso mediante ragionamenti a priori,
ma nasce interamente dall'esperienza quando troviamo che certi particolari oggetti sono stati costantemente connessi tra di loro. » Supponiamo che Adamo
avesse, appena creato, una ragione as~olutamente perfetta, e supponiamo che gli
si presenti per la prima volta alla vista uno specchio d'acqua: dalla semplice
impressione visiva dell'acqua egli non potrà mai inferire a priori che essa può
soffocare un essere animato terrestre. Analogamente, egli non potrà inferire
dalla prima impressione visiva del fuoco che esso lo può ustionare. Se prescindiamo dal controllo sperimentale, le due affermazioni: « il fuoco ustiona » ed
« il fuoco non ustiona », sono ugualmente concepibili per l 'intelletto umano,
come possiamo constatare nei bambini che, privi di esperienza, spesso non temono di toccare la fiamma. «Invano, dunque, pretenderemmo di determinare
qualche singolo fatto, o di inferire qualche causa o qualche effetto, senza l'aiuto
dell'osservazione dell'esperienza. »
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H urne
Pretendere di dare una dimostrazione razionale del princ1p10 di causalità
è quindi impossibile. Pure, resta vero che io so che la palla di biliardo A metterà
certamente in moto, colpendola, la palla B. Come spiegare dunque che io conosca
una « materia di fatto » prima che essa avvenga, prima dell'impressione del moto
di B? In base all'esperienza passata, risponde Hume; in passato ho sempre visto
che A metteva in moto, colpendola, B, ed in forza di ciò inferisco che anche in
futuro accadrà così. Questa inferenza si basa su di un p.s>stulato_,_naturale a tut~­
gl!_uoiJ1il!J_,___g,~!l'uniformità della natur~. L'inferenza causale, anche quando riguarda il futuro, è dunque frutto dell'esperienza passata; è a posteriori. «Sarebbe dunque necessario per Adamo (... ) aver avuto esperienza dell'effetto che
tien dietro all'urto delle due palle. Egli avrebbe dovuto vedere, in parecchi casi,
che quando una palla urtava l'altra, la seconda si metteva sempre in movimento.
Se avesse visto un numero sufficiente di esèmpi di questo genere, ogni volta che
avesse visto la prima palla muoversi verso l'altra, avrebbe sempre concluso senza
esitazione che la seconda palla avrebbe acquistato movimento. Il suo intelletto
avrebbe prevenuto la sua vista, e avrebbe formato una conclusione in accordo
con l'esperienza passata. Ne segue dunque che !._utti i ragionaf!1en_!f._çk__~.J.jgf!_q!:__4_a!!_qJçz
causa _!._}'effe!.!._q___s_o_f1o]ont/atj su_lf'~sperienza e che tutti i ragionamenti desunti dall'esperienza sono a loro volta fondati sulla supposizione che il corso della natura continuerà uni_(ormemente lo stesso. Noi concludiamo allora che cause simili, in circostanze simili, produrranno sempre effetti simili. »
Questo postulato dell'uniformità del corso della natura è evidentemente
indimostrabile per la ragione, trattandosi di mate~ia di fatto. La sua origine non
è la ragione, ma l'esperienza: «Soltanto! l'abitudine/ci induce a Sl!QE~!"_!"_~)!f:t:J.!~~
confQrm~--~Lp~~~tQ. »
Ma vedendo la palla di biliardo A che si muove verso la palla B, non solo
prevedo che la B si metterà in moto a seguito dell'impatto, ma anche credo che
essa si metterà in moto; e ci credo tanto profondamente, che mi è impossibile
credere il contrario, anche se lo posso concepire. « Quando vedo una palla di
biliardo che si muove verso un'altra, la mia mente viene immediatamente trasportata dall'abitudine all'effetto usuale, ed anticipa la mia vista concependo la
seconda palla in movimento. Ma questo è forse tutto? Mi limito a concepire il
movimento della seconda palla? Oltre a concepire il movimento della palla, credo
che essa si muoverà. Che cosa è allora questa " credenza "? » Evidentemente
non è una idea come le altre, perché precede l'impressione del moto di B; un'altra
prova che non sia una idea come le altre è che non può essere scomposta o composta. D'altra parte la credenza non è nemmeno un'impressione, giacché non
la sperimentiamo mai coi sensi. Hume risolve il dilemma dicendo che si tratta
di un'idea di natura particolare, che ha la vivacità dell'impressione senza averne
la base sperimentale; è un 'idea istintiva: « Si può quindi definire la credenza come
un'idea vivaceL!!!~'-~'!~_'! _a_ssociata q__'!n'impressione presente~» L'interpretazione che
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H urne
della filosofia di Hume dà Dal Pra ci sembra quindi del tutto corretta: in ultima
analisi, il criterio di verità del sapere umano in generale è, per Hume, una tensione pratico-istintiva connaturata nell'uomo: da questa scaturisce la credenza.
Quanto all'origine ultima, al principio esplicativo assoluto della causa della credenza, H urne applica ancora una volta l'« hypotheses non fingo» di Newton:
« Quanto alla causa di queste cause generali, invano ci sforzeremmo di scoprirle;
né riusciremmo mai a rimanere soddisfatti di qualche spiegazione che le riguardi. Queste sorgenti ultime ed i principi sono del tutto preclusi all'attenzione ed alla ricerca umane.»
Ma se non possiamo indicare la causa ultima della credenza possiamo descriverne l'origine; osserviamo infatti che: r) a seguito dell'impressione di A che
mette in moto B; z) a seguito della ripetizione di questa impressione e, 3) a seguito della frequenza e della regolarità di questa ripetizione, in noi, secondo meccanismi che ci sono ignoti, scatta la credenza: « L'esperienza può produrre la
credenza con un'operazione segreta senza che sia stata prima pensata. »La credenza
è quindi un qualche cosa che nasce, misteriosamente, in noi; è qualche cosa di
soggettivo; non è la copia di una proprietà oggettiva degli oggetti, dato che di
questa proprietà non abbiamo impressione; « la necessità [in materia di fatto]
è perciò un'impressione della mente( ... ), è qualche cosa che esiste nello spirito e non negli
oggetti ... ; non è altro che la propensione del pensiero a passare dalle cause agli effetti
e dagli effetti alle cause, secondo la loro unione sperimentata. »
In base ai risultati dell'analisi svolta, la suddivisione dei diversi tipi di conoscenza subisce un notevole approfondimento. Le conoscenze umane si suddividono in quelle concernenti relazioni tra idee (conoscenze matematiche, certe e
necessarie in quanto dimostrabili a priori) e quelle concernenti materie di fatto;
queste ultime si suddividono a loro volta in certe (in quanto provate dall'esperienza al punto da essere rese soggettivamente certe e necessarie dalla credenza)
ed in probabili. Conoscenza di materia di fatto certa è l'alba di domattina; conoscenza di materia di fatto probabile è che nel mese di luglio in genere non piove
e fa molto caldo. Ma questo fenomeno meteorologico non si ripete con una regolarità assoluta, sicché non dà luogo ad una credenza stabile, ed io posso ritenerla una conoscenza probabile, ma non certa.
Avremo varie occasioni di riprendere in esame l'analisi humiana della causalità, che continuerà ad esercitare un'influenza decisiva anche su parecchi fra
i più significativi pensatori della nostra epoca (per esempio su Einstein e sui
neopositivisti). Qui basti sottolineare l'estrema importanza della conclusione
testé riferita, che afferma il carattere meramente soggettivo della necessità tradizionalmente attribuita al legame fra causa ed effetto. È una conclusione che,
per un lato, metterà in crisi la pretesa dei metafisici di fare appello allegarne causale per risalire dal mondo dell'esperienza a una realtà assoluta non esperibile;
per l'altro, autorizzerà epistemologi e scienziati a tentare nuove formulazioni di
IlO
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I-lume
quel nesso fra
scientifica.
fenomeni, che costituisce l'oggetto principale di ogni ricerca
c) I problemi dell'esistenza del mondo esterno, dell'io e di dio
Una volta stabilita la natura soggettiva della credenza, possiamo ancora affermare l'esistenza del mondo esterno? Dal punto di vista pratico, osserva il filosofo, siamo tutti profondamente convinti che esista: «Noi possiamo chiedere
quali siano le cause che ci persuadano a credere nell'esistenza dei corpi; ma è inutile che domandiamo se i corpi esistono o no; infatti questo è un punto che dobbiamo presupporre in tutti i nostri ragionamenti. La nostra ricerca riguarderà
pertanto le cause che ci spingono a credere all'esistenza dei corpi.»
L'indagine presenterà un duplice aspetto: I) «perché si attribuisce agli oggetti un'esistenza continua anche quando non viene percepita dai sensi?»; z) «perché si ritiene che gli oggetti abbiano un'esistenza distinta dalle percezioni?».
Esaminiamo in primo luogo se abbiamo una impressione della esistenza continuata del mondo esterno. Evidentemente no: nemmeno quella del nostro proprio corpo, giacché l'abbiamo solo durante la veglia, e non durante il sonno.
Analogamente, le impressioni non ci testimoniano mai dell'esistenza di corpi distinti da noi; per percepire questa distinzione, dovremmo ad un tempo da un
lato percepire gli oggetti, e dall'altro percepire la nostra impressione di essi, il
che è manifestamente impossibile.
Esaminando le nostre impressioni di sensazione in generale, osserva Hume,
possiamo suddividerle in tre categorie: I) le impressioni di figura, volume, moto
e massa (quelle che Galileo ed i meccanicisti avevano denominato qualità primarie
dei corpi); n) le impressioni di colore, sapore, odore, ecc. (qualità secondarie);
m) quelle del dolore o del piacere provocato in noi dal contatto con i corpi del
mondo esterno.
Che quelle della III e della n classe siano soggettive, osserva Hume, è universalmente ammesso dai filosofi moderni. Inoltre, sulle orme di Bayle e di
Berkeley, egli afferma che anche quelle della I classe lo sono, in quanto non possono, in realtà, essere distinte da quelle della n: « È evidente che i colori, i suoni,
il caldo e il freddo, in quanto si manifestano ai sensi, esistono nello stesso modo
del movimento e della solidità; la differenza che, sotto questo riguardo, facciamo
tra loro non proviene certo dalla percezione. È anche evidente che i colori, i
suoni, ecc. esistono in origine allo stesso modo del dolore e del piacere; e che la
differenza tra loro non deriva né dalla percezione, né dalla ragione, ma dalla immaginazione. Possiamo pertanto concludere che, stando al giudizio dei seg_:;_i,
tutte le percezi9ni __~qno l~-~~~e neUo~g_mqdo _di esist~~· »
Non provenendo in modo immediato da una impressione, la credenza nell'esistenza del mondo esterno proviene forse dalla ragione? È ciò che ha sostenuto, ad esempio Cartesio, deducendo il mondo esterno a partire dal « cogito » e
III
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Hume
passando attraverso la garanzia antologica di dio. Senza entrare qui nel merito
del valore di questa dimostrazione, possiamo, con molta semplicità, chiederci:
quante persone conoscono questa dimostrazione? Pochissime; quante ci credono? Ancora meno. Eppure tutti gli uomini credono all'esistenza del mondo esterno; quindi questa credenza non può discendere da una dimostrazione
razionale.
Alla luce del problema dell'esistenza del mondo esterno, Hume intraprende
un ulteriore esame delle impressioni e rileva che hanno la qualità della costanza.
In questo momento non vedo ad esempio il monte Bianco, ma so che se andassi
in Val d'Aosta lo vedrei; e se anche, rivedendolo, vi trovassi dei cambiamenti
rispetto all'ultima volta che l'ho visto (se ad esempio avendolo visto d'estate,
ora, d'inverno, lo trovassi molto più innevato), non mi stupirei, perché sono abituato ai mutamenti stagionali della natura. « Tutti gli oggetti ai quali si attribuisce
una esistenza continuata hanno una costanza particolare che li differenzia dalle
impressioni la cui esistenza consideriamo come dipendente dalle nostre percezioni.
Quelle montagne, quelle case, quegli alberi che vedo adesso, mi si sono presentati sempre nello stesso ordine; se chiudo gli occhi o volgo la testa, poco dopo
mi si ripresentano senza alcun cambiamento( ... ). Così per tutte le impressioni i cui
oggetti si ritiene che abbiano un'esistenza esterna. Anche nei mutamenti poi si
verifica una regolarità; essi conservano una coerenza che serve di fondamento
ad una sorta di ragionamento di causalità che produce l 'idea della loro esistenza
continuata. »
Questa sorta di ragionamento è una supposizione basata sulla credenza e l'abitudine; essa ci permette di colmare le lacune dell'impressione sensibile. Se io,
ad esempio, sono abituato, quando entro in una stanza, a vedere l'uscio che,
spinto da me, si apre, e ad udire un cigolio dei suoi cardini, e se, una volta che
mi trovo in quella stanza e volgo le spalle all'uscio, odo quel cigolio e poi vedo
una persona accanto a me, sono del tutto naturalmente indotto a supporre che
quella persona sia entrata dall'uscio e non scesa dalla cappa del camino, anche se
non ho visto l'uscio aprirsi; suppongo e credo che l'uscio continui ad esistere
anche quando non lo percepisco.
Questa credenza-supposizione vale per tutte le impressioni concernenti il
mondo esterno, giacché nessuna di queste, per quanto frequente e regolare, può
essere continuata. Questa credenza si basa sull'abitudine, ma con l'ausilio dell'immaginazione (che, come sappiamo, in ultima analisi ha anch'essa una base empirica, sperimentale), la travalica, sicché sono forzato a credere all'esistenza continuata di tutti gli oggetti costituenti il mondo esterno, superando la discontinuità, la frammentarietà ed anche la differenza tra le impressioni sensibili che a
quegli oggetti si riferiscono. Anche se il monte Bianco è ora innevato, ora verdeggiante, ora incappucciato da nubi, l'immaginazione, spinta dall'abitudine ad
una seppur imperfetta costanza impressionale, supera queste differenze, e mi fa
IIZ
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H urne
passare dalla loro somiglianza ad affermare l'identità, nonché ad affermare l'esistenza esterna del Monte Bianco. Questa tendenza a supporre l 'identità di percezioni simili spiega anche l'origine degli errori, dovuti alla identificazione di due
impressioni somiglianti ma diverse: ad esempio quando scambiamo il monte
Bianco con il monte Rosa.
Sulle ragioni ultime di questa supposizione-credenza, Hume applica ancora
l'« hypotheses non fingo » : « N.2! siarp.o -~C>~!!'~_!!j__~_g_~_!!lmett~~.J.: es!~~E.~~- _4ei
~orpi, l!_Qçh~__ s_~ __ QO{l_lJQ.S..S.i_l!.f!!()__P.!:c:!~eE_c:l~re__c:l~-~-()~!~r.!_eE_~_}_~_~()!~!'~al!~.E~n alcun ~~­
gomento filosofico_: »
Una critica altrettanto lucida Hume fa del concetto di « anima » e di « io »,
che, come ogni idea complessa di sostanza, viene ridotta ad una collezione di idee
e impressioni: « Quanto più intimamente mi addentro in ciò che chiamo il mio io,
sempre m'incontro in questa o quella particolare percezione, di caldo o di freddo,
di dolore o di piacere, o di altro. Non riesco mai a cogliere il mio io senza almeno
una percezione, non posso osservare nient'altro che la percezione. » Se togliessi
tutte le percezioni, del mio io non resterebbe nulla; lFltlQtl:_~_g_l;!tl:_l:ffi~_!!h_r_()_(( eh~
un fasci()__2_~_!1_~-~C>!!5:Z.!C2_f!~._c:!L_<_!iff~!'~E~L_p~!'.<:.C:~!C>t1i, che si succedono l 'una all'altra con una inconcepibile rapidità, e sono in perpetuo flusso e movimento ». A
questo fascio di percezioni intermittenti (interrotte, ad esempio dal sonno) e
cangianti, noi attribuiamo una identità sostanziale con una forma di supposizione (basata sulla memoria) analoga a quella che facciamo a proposito del mondo esterno.
Ma allora, si dirà, donde viene il nostro pensiero, che è certo cosa immateriale? Possiamo ammettere che esso sia causato da percezioni aventi una origine
materiale, quindi che la memoria sia causa di cose non materiali? Perché no?
chiede Hume. Certo materia e pensiero sono diversi l'una dall'altro, ma anche la
fiamma e l'ustione sono diversi. Noi diciamo che la fiamma è causa dell'ustione
solo a posteriori; lo stesso vale per la materia causa del pensiero: « se non si vede
nessuna connessione [necessaria, a priori] tra il movimento e il pensiero, il caso
non è diverso da quello di tutte le altre cause ed effetti. Pensiero e movimento
sono diversi l'uno dall'altro; tuttavia per esperienza troviamo che sono costantemente uniti>>, né più né meno di come troviamo costantemente unite la fiamma
e l'ustione. Possiamo quindi concludere che la materia è la causa del nostro pensiero.
Se l'io è solo un fascio di percezioni causate dalla materia, l'anima è immortale o no? Per analogia, risponde Hume, possiamo inferire che l 'anima sia mortale: «Quando due oggetti sono uniti così intimamente che tutte le alterazioni rilevate in uno dei due sono accompagnate da alterazioni corrispondenti nell'altro
dobbiamo concludere, secondo tutte le regole dell'analogia, che, se maggiori alterazioni si producessero nel primo e lo distruggessero del tutto, ne seguirebbe
una dissoluzione totale del secondo. Ora il corpo e lo spirito sono intimamente
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Hurne
uniti; dall'infanzia alla maturità si sviluppano di pari passo ed insieme invecchiano sino alla morte; allora argomentiamo che all~!-~-.Y!_!l~_4~!-~~!.P..Q_sj_a_c:_~_Q~­
~a la rovina dell'anima.»
Essendo tale, per Hume, la natura dell'io e dell'anima, l'uomo sarà un essere libero o sottoposto alla necessità della natura? Ricordiamoci che cosa sia per
Hume, la necessità che attribuiamo al corso della natura: « La nostra idea di necessità e di causazione deriva completamente dall'uniformità che si può riscontrare nelle operazioni della natura, dove oggetti simili sono costantemente congiunti insieme e la mente è determinata dalla consuetudine ad inferire l'uno dall'apparire dell'altro.» Queste due circostanze appaiono anche a proposito dell'uomo: infatti in primo luogo possiamo constatare una grande uniformità nella
natura umana, giacché i vizi e le virtù umane descritti dai più antichi scrittori
valgono anche per l'uomo odierno; in secondo luogo, quando trattiamo con il
prossimo, ci comportiamo sempre in base ad una previsione delle sue azioni: ci
fidiamo di coloro che sappiamo per esperieilza onesti, non ci fidiamo di coloro
che sappiamo birboni; non ci stupiamo che una borsa piena d'oro lasciata in
mezzo alla strada scompaia, né che l'uomo abbia timore della morte e rispetto dei
suoi genitori. Nel comportamento gene!J..le A_c:!!_~Q_JilQ_!i_s_c:_(:lntr!:i'!l9 q~i_gQi_~il!J~­
~g!f.ormità, ....§.i.!l_J~reveclihllit~_._ <ò9_1!l~ __g_c;:!._c:_Q~P2!!a,_'!l_C:~~() --~e.ll:t ga,!~~ll: ; ergo,
l'uomo è necessitato nello stesso modo in cui lo è la natura.
Nell'ambito di questa problematica, Hume affronta decisamente anche la questione religiosa, particolarmente nei Dialoghi sulla religione naturale e nella Storia
naturale della religione. Quali sono, chiede, i fondamenti della religione? È possibile
dare una dimostrazione razionale dell'esistenza di dio? Nel contesto della secolare polemica inglese sul deismo (cfr. cap. n della presente sezione) Clarke aveva
cercato di dare una dimostrazione a priori dell'esistenza di dio, sostenendo che
l'affermazione della non esistenza dell'essere supremo avrebbe provocato una
contraddizione logica. La critica che Hume muove alla prova a priori è semplice: l'esistenza o meno di un essere, sia pure dio, concerne non la relazione tra
idee, ma la materia di fatto; è sempre possibile, altresì, pensare il contrario di
una materia di fatto senza cadere in una contraddizione logica: si può benissimo
pensare esistente una cosa che non esiste (ad esempio la chimera), ed esistente
una cosa che esiste. La pretesa forza cogente della prova a priori di Clarke viene
quindi a cadere.
Quanto alla prova a posteriori, che induce l'esistenza di dio dall'ordine del
mondo, Hume la riduce in primo luogo ad un ragionamento analogico. Questa
prova, osserva, si basa sulla constatazione che il mondo è una macchina perfettissima; noi sappiamo per esperienza che le macchine terrestri sono fatte per un
fine da esseri intelligenti, e da ciò induciamo per analogia che anche il mondo sia
fatto per un fine, e che esista una mente ordinatrice del mondo analoga, anche
se infinitamente superiore, alle menti umane. Criticando questa prova, Hume osII4
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H urne
serva: l'analogia, mancando per definizione dell'esperienza diretta, non può mai
darci la certezza, ma solo una probabilità più o meno grande. Ma la succitata
prova a posteriori è veramente basata su di una analogia almeno probabile? Possiamo veramente paragonare il mondo ad una macchina? Certamente no, per il
semplice fatto che mentre abbiamo esperienza di migliaia di macchine, non ne
abbiamo che di un mondo. Chi ci dice che, se paragonassimo questo ad altri universi, non vedremmo che esso non è affatto perfetto, ma imperfettissimo? In generale, del resto, l'analogia vale solo (pur restando in ogni caso unicamente probabile) quando il passo dal noto all'ignoto è piccolo: ad esempio quando inferiamo
la circolazione sanguigna dell'uomo da quella di un mammifero. Ma quando il
passo diviene più ampio, l'analogia perde ogni valore: come pretendere di studiare la circolazione sanguigna dell'uomo basandosi su di una analogia con quella
linfatica delle piante? E, nel caso della prova a posteriori, « come si può fare un
passo così vasto quale è quello di paragonare delle navi, delle macchine, all'universo intero ed inferire da una vaghissima somiglianza una somiglianza tra le
loro cause, cioè tra dio e l'uomo?» Non solo: la prova a posteriori è blasfema,
perché porta a conseguenze antropomorfiche: nel mondo non troviamo mai cause
infinite, ma solo finite, sicché anche dio dovrebbe essere finito; nel mondo c'è
il male, e quindi dio ne sarà la causa; l'uomo non fa le macchine da solo, ma insieme ad altri uomini; sicché non ci sarà un solo dio, ma molti dei.
Ma Hume, non dimentichiamo, è soprattutto un filosofo dell'esperienza, interessato, come Newton, alla spiegazione dei fenomeni; e che la religione esista
e sia un fenomeno macroscopico, confermato dalle conoscenze storiche e dagli
usi di tutti i popoli, è materia di fatto che non può essere ignorata da chi voglia
spiegare in modo sperimentale la natura umana. Di fronte a questo dato di fatto, rilevare che l'uomo non è in grado di dare una fondazione razionale alla religione
diviene irrilevante, dato che, come sappiamo, l'uomo non è in grado nemmeno
di dare una fondazione razionale alla relazione di causalità, della quale sarebbe
assurdo negare la grandissima importanza per la vita umana. Si tratterà quindi di
risalire ai principi esplicativi della religione, così come si è risaliti alla credenza
per quanto concerneva la causalità. Orbene, osserva Hume, l_l!_f.C::!igic:>!l~ ~jl_ll:~~t~
!l_on sulla ragionç_._!!!l!_§ul_~~l:!!i.!!!_~ntQ__g~J-~!tl1e>~e. La vita dell'uomo afflitto
da una grande moltitudine di malanni, ultimo dei quali l'inevitabile morte, che lo
incalzano e dei quali non conosce l'origine ultima - è per lo più infelice. Il timore del male lo induce a immaginare una causa - dio - delle disgrazie che lo
sopraffanno, e ad istituire dei culti per placare questa divinità minacciosa.
d) I limiti dello scetticismo.
A conclusione della propria analisi gnoseologica, Hume definisce il proprio
scetticismo ed i suoi limiti, affermando che no_n è uno scetticismo radicale, ma
« accademico » (il riferimento è al probabilismo della media e della nuova acca-
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H urne
demia, cui si è fatto cenno nel capitolo xv della sezione 1), che noi potremmo
anche definire newtoniano. Tutto l'accento è posto sulla necessità di restare sal-1
damente ancorati all'esperienza, di fare una «scienza» della natura umana, caratterizzata dalla ricerca sperimentale e dalla ricerca di principi esplicativi che non
siano « ipotesi » metafisiche. Applicando in modo critico, analitico ed empiristico
il proprio metodo, H urne ha di~~Q_l~g i __ç:~pi§.alciiclel ~-a~.i~J.:la!i~tp~ s~i~e:1:1~e-~~~: dio,
11 mondo esterno, la relazione di causalità, l'io, la differenza tra qualità primarie e
qualità secondarie, ecc. Ma pur mettendo in guardia la pretesa di dimostrare razionalmente la verità nel campo delle scienze concernenti materie di fatto, Hume
non ha mai negato che l'uomo, nell'ambito di quelle stesse scienze, viva, agisca e
preveda. H urne ha indicato che la ragione non potrà mai dimostrare che domattina
sorgerà il sole, ma non ha mai ammesso che praticamente, sperimentalmente,
l'uomo sia realmente in dubbio se domattina il sole sorgerà oppure no: anche se
non può dimostrarlo, l'uomo crede che domattina il sole sorgerà, ed anche questa
credenza è una « materia di fatto », della quale Hume tiene il massimo conto. Per
quanto quindi la scepsi humiana sia nettamente diversa dal dubbio metodico o
iperbolico cartesiano, essa persegue un intento scientifico evidente: delimitare il
campo di una scienza umana veramente feconda, praticamente, anche se non a
priori, certa ed utile.
Caratteristica è la famosa affermazione conclusiva delle Ricerche sull'intelletto
un1ano, dove Hume invita a fare del proprio scetticismo sperimentale la discriminante tra il sapere utile e reale, e quello inutile, dannoso e fittizio; l'affermazione
riecheggia ancora una volta le regulae philosophandi di Newton, e suona non sfiducia,
ma esaltazione di una forma di sapere scientifico rinnovato, esteso anche alla natura umana, fecondo ed utile per l'uomo, suscettibile di progresso di generazione
in generazione: « Quando scorriamo i libri di una biblioteca ... , che cosa dobbiamo
distruggere? Se ci capita tra le mani qualche vol urne per esempio di teologia o di
metafisica scolastica, domandiamoci: contiene qualche ragionamento astratto sulle
quantità o sui numeri? No. Contiene qualche ragionamento sperimentale su questioni di fatto o di esistenza? No. E allora, gettiamolo nel fuoco, perché non contiene che sofisticherie ed inganni. »
IV
· LA MORALE
La morale di Hume si basa in primo luogo sull'analisi delle passioni. Si ricorderà che egli aveva diviso le impressioni in due categorie: di sensazione e di riflessione; le passioni sono appunto sensazioni di riflessione, ali 'interno delle quali
H urne opera ulteriori distinzioni, di cui la prima è tra passioni violente (ad esempio il
dolore) e passioni calme (ad esempio il gusto estetico). Le passioni vanno inoltre divise in dirette ed indirette: dirette sono quelle che derivano immediatamente dalla
struttura del nostro corpo (ad esempio il dolore per una ustione); indirette quelle che
116
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Hurne
dipendono da una relazione più complessa: se, bruciandomi un dito, urlo, strepito, piango, saltello goffamente, e poi mi avvedo della presenza di una persona,
alla passione diretta del dolore per l 'ustione si accompagna quella indiretta della
vergogna per il modo in cui mi sono comportato.
Questa classificazione delle passioni (violente, calme, dirette, indirette) è stata
fatta considerando come loro origine il mondo esterno: il dolore per un'ustione,
il sentimento della bellezza di un dipinto, la vergogna per essermi comportato
goffamente, sono passioni provocate da qualche cosa di esterno a me. Esistono
però, osserva Hume, passioni più originarie, che sono esse stesse fonte di piacere
o di dolore: la gioia per la morte di una persona odiata, ad esempio nasce dalla
passione dell'odio, che precede la morte. Quale è l'origine di queste passioni originarie? Nella risposta, Hume è ancora una volta newtoniano: non si devono fingere ipotesi, bensì solo prendere atto che le cose stanno effettivamente così:
«Oltre che dal bene e dal male, ossia dal dolore e dal piacere, le passioni dirette
nascono frequentemente da un impulso naturale o da un istinto perfettamente
inesplicabile. Di questo genere sono il desiderio d'una punizione per i nostri nemici e quello della felicità per i nostri amici, la fame, la concupiscenza e altri appetiti corporei. Queste passioni, propriamente parlando, producono il bene ed il
male e non ne derivano, come le altre passioni. »
Le passioni vanno inoltre suddivise in semplici e complesse; nell'uomo, le
passioni si presentano per lo più frammiste, cioè in forma complessa: io ambisco,
per esempio a possedere una cosa, ed a questo desiderio si intreccia subito, proporzionatamente alla probabilità che ho di esaudirlo, la speranza di vederlo soddisfatto ed il timore di vederlo frustrato. Desiderio, speranza e timore si intrecciano e mescolano tra di loro, dando appunto origine ad una passione complessa.
Anche nelle passioni operano i meccanismi associazionistici che abbiamo riscontrato nelle idee: se sono triste, sono preda facilmente delle passioni dolorose
somiglianti alla tristezza (collera, ecc.); se odio una persona, sono portato ad
odiare i suoi amici (contiguità); se sono orgoglioso della mia bellezza, è evidente
che considero la mia bellezza causa del mio orgoglio (causalità):
Su questo studio analitico delle passioni, il nostro autore innesta una etica
decisamente antirazionalistica: per Hume infatti la ragione opera sulle idee, cioè
su copie sbiadite di impressioni; componente essenziale della morale è invece la
volontà, che non è un'idea, ma un'impressione di riflessione, e per di più del
novero di quelle originarie: «Per volontà io non intendo altro se non l'impressione interna che proviamo e di cui abbiamo coscienza, quando generiamo scientemente un nuovo movimento del nostro corpo o una nuova percezione del nostro
spirito. Questa impressione ... non può essere definita ed è inutile descriverla più a lungo. »
Essendo un'impressione, la volontà è più vivace di qualsivoglia idea, dal che deriva il primato della volontà sulla ragione e l'impossibilità di quest'ultima di influire sulla prima; non è la ragione a dettar legge alle passioni, ma viceversa:
II7
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Hume
«Non parliamo né rigorosamente né filosoficamente quando parliamo della lotta
tra passione e ragione. La ragione è, e non può che essere, la schiava delle passioni; non può pretendere ad altro che a servire e ad obbedire loro. »
Dovremo cercare quindi il movente delle azioni morali non nelle idee, ma
nelle impressioni; è chiaro altresì che quando lodiamo o biasimiamo un'azione,
lodiamo e biasimiamo non l'azione in sé, ma il movente di essa: un omicidio può
essere, a seconda del movente, lodevole o biasimevole. Perché un'azione sia considerata virtuosa, occorre un movente virtuoso precedente ad essa; il senso della
moralità di un'azione è posteriore all'esistenza di un movente che rende morale
quell'azione: «In breve, si può stabilire come massima indubitabile questa: che
nessuna azione può essere virtuosa o moralmente buona, se non esiste, nella natura umana, qualche movente che la produce, diverso dal senso della moralità. »
Come avviene quindi la valutazione morale? Quando valutiamo un'azione,
siamo nel campo delle impressioni o in quello delle idee? Locke, Clarke ed altri
razionalisti etici avevano sostenuto che la valutazione morale consiste nel percepire accordo o disaccordo tra idee, e cioè consiste, humianamente, in una « relazione tra idee ». Ciò, ribatte Hume, è errato: il carattere distintivo della morale è
di essere pratica e, come si è detto, alla ragione ogni incidenza pratica sulle az'ioni
umane è preclusa; ogni pretesa di dedurre razionalmente la valutazione morale va
quindi respinta.
Ma se non è una relazione tra idee, la valutazione morale sarà forse un giudizio ideale concernente materie di fatto? Se non fosse neppure così, allora dovremmo accettare, per esclusione, che la valutazione morale non è un'idea, ma
un'impressione; ecco come Hume arriva a questa conclusione: «Esaminiamo
un'azione dichiarata viziosa, per esempio un delitto volontario. Esaminatela sotto
tutti gli aspetti e vedete se riuscite a trovare quella materia di fatto, o esistenza
reale, che si chiama vizio (... ). Considerate l'oggetto finché volete, ma il vizio vi
sfugge. Non potete trovare il vizio finché non volgete la vostra attenzione all'interno dell'animo e non riscontrate in voi un sentimento di disapprovazione che
provate di fronte a questa azione.» Ma il sentimento è appunto un'impressione
di riflessione, del tutto soggettivo. La valutazione morale è quindi un'impressione.
Quale è la natura di questa impressione, e come agisce su di noi? « Dobbiamo
rispondere: le impressioni che sorgono dalla virtù sono piacevoli, le impressioni
che vengono dal vizio sono penose. L'esperienza di ogni istante ci attesta ciò. » Del
sentimento di bene e male morali possiamo solo dire che li sperimentiamo e che
sono di natura particolare: « A vere il senso della virtù vuol dire solo sentire una
soddisfazione o piacere di natura particolare nel contemplare un'azione o un carattere. Noi non andiamo più in là.»
Questa interpretazione della valutazione morale come piacere o dolore comporta, tra le altre, una notevole difficoltà: tutto ciò che mi procura dolore doII8
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Hurne
vrebbe essere considerato moralmente cattivo, e ciò che mi procura piacere, moralmente buono; per evitare questa conseguenza, occorre istituire una distinzione
qualitativa all'interno dei piaceri: «Una buona composizione musicale ed una bottiglia di buon vino producono generalmente piacere; di più, la loro bontà è definita soltanto dal piacere che suscitano. Diremo allora che il vino è armonioso
e la musica saporita? » Evidentemente no: la natura particolare del sentimento
morale è tale, che esso può esser riferito solo a persone umane; c'è di più: io
posso stimare buone anche le azioni di un nemico, il che significa che nella natura
particolare del piacere morale rientra il fatto che posso prescindere dai miei interessi particolaristici: «soltanto quando un'azione o un carattere viene considerata in generale, senza alcun riferimento al nostro interesse particolare, produce
in noi una sensazione o un sentimento che la fa considerare moralmente buona o
cattiva.»
Stabiliti questi caratteri della moralità, Hume intraprende la riduzione newtoniana della sua varietà passionale a pochi principi; «è necessario unire insieme
gli impulsi primari e trovare dei principi generali su cui sono fondate tutte le
nostre azioni morali. » Questo principio è la simpatia. Come la credenza spiega
l 'uso che noi facciamo della relazione di causalità, la simpatia spiega in qual
modo, nella valutazione morale, noi assurgiamo ad una valutazione generale,
universale, disinteressata: «La simpatia ci fa uscire da noi stessi. È essa che, di
fronte al carattere di un altro, ci fa provare lo stesso piacere o dolore, come se
esso avesse una tendenza al nostro vantaggio particolare o al nostro danrto particolare. Non occorre pertanto altra spiegazione per ciò che riguarda l'brigine
del piacere e del dolore disinteressati. »
·
V
· ESTETICA
Nell'estetica, collegandosi all'analisi delle passioni, Hume muove da una definizione strettamente empiristica del bello: « La bellezza di qua1siasi genere ci reca
rapimento e soddisfazione, come la bruttezza produce dolorej in qualunque oggetto sia posta( ... ). Il piacere ed il dolore dunque non soltanto accompagnano
necessariamente la bellezza e la bruttezza, ma ne costituiscono la stessa essenza. »
Dal che deriva, evidentemente, che la bellezza non è percepita dall'intelletto, ma
dal sentimento (il gusto), e che ha il suo fondamento nella utilità. La bellezza di
una casa, la forma di godimento che ci dà vedere un campo coltivato, un battello che solca i mari ecc., trovano il loro fondamento ultimo nell'utilità di questi
oggetti. E poiché non tutti gli oggetti utili e belli mi appartengono, è evidente
che interviene ancora una volta la simpatia, in forza della quale avverto come
bello anche ciò che non mi è immediatamente utile.
Ma il gusto estetico, allora, ha un carattere soltanto soggettivo, oppure assurge a canone generale ed universale della bellezza? L'enorme varietà dei gusti,
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Hurne
dice Hume, è un dato di fatto empiricamente verificabile, che non può essere negato. Tuttavia essa non è tale da non consentire delle convergenze: chi sosterrà,
ad esempio, che la poesia di Burchiello sia superiore a quella di Dante? Chi negherà che lo stesso Omero che più di duemila anni fa affascinava i greci, oggi
possa affascinare tutti gli uomini colti? Hume, coerentemente con i propri principi di filosofo dell'esperienza, trova la base della regola del gusto nella realtà
empirica originaria della natura umana: «Per la struttura originaria del nostro
essere interno alcune forme o qualità particolari sono da considerarsi piacevoli,
altre spiacevoli. Quando tali qualità manchino al loro effetto, ciò dipende da
qualche difetto degli organi. Uno che abbia la febbre non insisterà a dire che il
suo palato è adatto a giudicare i sapori. In tutti c'è uno stato regolare ed uno difettoso. Solo il primo si può presumere che dia una regola vera dei gusti e dei
sentimenti. Se nello stato regolare c'è notevole conformità tra i vari uomini, da
esso si potrà ricavare un'idea della bellezza perfetta.» Veramente regolare è quindi
solo il gusto di un critico raffinato, coltissimo, che sappia istituire paragoni tra
l'opera d'arte che sta esaminando ed altre opere, che ha affinato il proprio gusto
con l 'uso. Questo spiega anche perché, nonostante che « i principi del gusto
siano, se non del tutto, pressoché uguali in tutti gli uomini, tuttavia coloro che
possono ritenersi capaci di pronunciare un giudizio su qualche opera d'arte sono
pochi; e pochi sono coloro che possono prendere il proprio sentimento per regola
della bellezza. »
VI
· LA POLITICA
La politica humiana studia gli uomini nelle loro relazioni sociali, e cerca di
definire quando queste siano giuste e quando no; essa è quindi una necessaria
integrazione della morale, e ruota principalmente sullo studio della virtù della
giustizia, che viene definita da Hume una virtù artificiale. Che cosa è, si chiede
Hume, la giustizia? Essa, evidentemente, non può coincidere con l'interesse privato, ma nemmeno possiamo presumere che sia un'adesione all'interesse pubblico,
perché la nostra esperienza quotidiana ci insegna che gli uomini, nelle loro azioni,
non si richiamano affatto all'interesse pubblico, che è movente troppo remoto e
troppo sublime. L'artificialità della giustizia sta dunque nel fatto che essa nasce
«dall'educazione e dalle convenzioni tra gli uomini».
È evidente però che Hume, avendo escluso la capacità - per la ragione di agire sulle passioni e di stabilire i canoni di un comportamento virtuoso
(quindi anche di quello «giusto»), non può accettare l'impostazione giusnaturalistica e razionalistica, che fa discendere la giustizia dall'esistenza di principi razionali universali, presenti in tutti gli uomini e codificati in legge da un contratto
ed una convenzione originaria. Per un filosofo sperimentale della natura umana,
si pone ovviamente l'esigenza di ricondurre l'artificialità della giustizia alla natura originaria dell'uomo, riconduzione che Hume opera brillantemente: la giuIZO
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Hume
stizia è sì un artificio, ma un artificio assolutamente necessario per l'uomo, ed
in questo senso naturale.
Analizziamo quindi la causa naturale di questa virtù artificiale: nell'uomo, osserva Hume, vi è un perenne conflitto tra i suoi bisogni e la possibilità di soddisfarli. Ai difetti della sua debolezza, che non gli consente di soddisfare a tutte le
esigenze che avverte, l'uomo può rimediare solo nell'ambito della società.
L'uomo asociale, il selvaggio primitivo, ha pochissime possibilità di soddisfare
i suoi bisogni, ed è condannato a far tutto da solo, e quindi a non far bene nulla
(si veste male, alloggia peggio, mangia male, ecc.); vivendo solo, il selvaggio è
poi nudo ed indifeso di fronte alle calamità naturali.
La società pone rimedio a questi malanni: « Mediante l 'unione delle forze
viene aumentato il nostro potere; mediante la divisione del lavoro viene accresciuta la nostra abilità; mediante i reciproci aiuti ci troviamo meno esposti ai
colpi della fortuna. »
Ma il selvaggio asociale non può rendersi conto, prima di averli sperimentati,
di questi vantaggi. Che cosa lo costringerà quindi ad entrare nella società? Non
certo, nella filosofia di Hume, un appello alla « ragione naturale », giacché, come
sappiamo, per il nostro filosofo la ragione è del tutto incapace di spingere l 'uomo
all'azione. Occorre quindi un movente passionale, che per Hume è l'attrazione
sessuale. È sotto l'impulso originario dell'attrazione sessuale che uomo e donna
cominciano a convivere; dal loro legame nascono i figli, ed ha quindi origine una
unità familiare; figli e genitori cominciano poi ad assuefarsi al commercio sociale,
a fare esperienza dei suoi vantaggi, e quindi ad ingentilire i propri costumi. Ma
la famiglia non è ancora la società, e l'analisi filosofica del passaggio dell'una all'altra è tutt'altro che facile. Per Hume, come sappiamo, l'uomo non è né tutto
egoismo, né tutto generosità, bensì impasto dei due elementi. Certo è tuttavia
che l'uomo ha la tendenza ad amare in primo luogo se stesso ed i suoi amici e
congiunti, e solo molto alla lontana gli altri uomini in generale. Da questo amor
sui deriva ovviamente un pericolo per la vita sociale, pericolo che Hume studia
alla luce di analisi di carattere economico.
Individui e famiglie, osserva Hume, dispongono di beni materiali, che naturalmente suscitano la cupidigia altrui; questi beni materiali sono infatti scarsi,
cioè disponibili in quantità inferiore ai bisogni; è quindi naturale che essi vengano
contesi, e ciò genera evidentemente un gravissimo pericolo per la vita sociale,
perché gli uomini o le famiglie sarebbero perpetuamente in guerra tra di loro per
disporre di quei beni.
D'altra parte, una volta giunti al livello familiare, gli uomini fanno esperienza dei vantaggi della vita sociale (possibilità di accrescere, con la divisione del
lavoro, i beni di cui disporre); in loro ha quindi luogo un impulso che li spinge
ad escogitare un artificio che consenta di conservare i vantaggi della società e ad
eliminare gli svantaggi (instabilità del possesso dei beni a causa della cupidigia
IZI
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H urne
altrui). « E ciò può avvenire solo mediante una convenzione tra tutti i membri
della società, avente per scopo di rendere stabile il possesso dei beni materiali e
di lasciare ognuno nel godimento pacifico di ciò che può acquistare con il suo
lavoro e con la sua fortuna. » Osservando questa convenzione, noi non contraddiciamo alla nostra passione, ma solo ai suoi movimenti sregolati ed impulsivi,
né contraddiciamo al nostro interesse personale, ma solo lo consolidiamo.
Dalla convenzione di astenersi dai beni altrui nascono le idee di giustizia,
di proprietà, di diritto, di obbligo. «L'origine della giustizia spiega l'origine
della proprietà in quanto la stessa convenzione dà origine ad entrambe. Non esiste
in natura un diritto fisso di proprietà, finché le passioni umane non sono disciplinate da qualche convenzione. » Ma la convenzione generale sulla stabilità del possesso dei beni materiali non servirebbe a gran che, se non desse luogo a regole
ed accorgimenti concreti e determinati mediante cui distinguere quali beni particolari debbano appartenere a ciascuna persona. Come fare, però, la prima assegnazione di proprietà?« L'espediente più naturale,» risponde Hume, «è che ognuno continui a godere ciò di cui è padrone al presente e che la proprietà costante
sia unita al possesso immediato. » È evidente che in tal modo Hume rinuncia
a qualsiasi analisi critica dell'origine della proprietà e delle sue sperequazioni.
Stabilita la regola del possesso costante, Hume ne fa discendere altre quattro:
i diritti di occupazione, prescrizione, accessione e successione. Il diritto di occupazione è quello di considerare proprio ciò di cui si è entrati in possesso per
primi (è evidente il riferimento ideologico all'occupazione coloniale inglese); la
prescrizione (o lungo possesso) interviene come titolo giuridico quando il primo
possesso sia incerto, ed in forza di esso è proprietario di un bene chi di fatto ne
fruisce da lungo tempo. Il diritto di accessione consiste nella facoltà di estendere
la proprietà ad oggetti strettamente congiunti a quelli che posseggo (il padrone
di un fondo, ad esempio, è padrone anche di tutti gli stabili che sorgono sul fondo).
Il diritto di successione è il caposaldo di ogni struttura borghese della società civile: l'eredità. Lo stretto legame di queste teorizzazioni giuridico-economiche
humiane è dimostrato anche dal fatto che dalla giustizia egli fa discendere altri
due diritti: la commerciabilità della proprietà ed il rispetto delle convenzioni e
dei patti.
Ma oltre alla società civile, occorre la società politica che la regoli e la garantisca. Certo la virtù «artificiale» della giustizia è un correttivo, a livello della società civile, dello spirito individualistico e familiare, ma di per sé non offre sufficienti garanzie che gli uomini la rispettino. Certo non rispettando la l 'uomo ne ha,
alla lunga, un danno, ma si tratta di uno svantaggio molto remoto e mediato,
mentre dalla violazione della giustizia (ad esempio dal furto dei beni appartenenti
ad altri) egli può ricavare un vantaggio immediato e consistente per sé e per la
sua famiglia. Occorrono quindi altri espedienti per far sì che per gli uomini le
violazioni della giustizia divengano immediatamente, tangibilmente dannose; oc122
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Hume
corre cioè un esecutivo che reprima sollecitamente i delitti contro la proprietà
e la giustizia in generale, cioè un governo che faccia rispettare le leggi con delle
sanzioni penali.
E se il governo istituito per tutelare la giustizia diviene tirannico, e la viola
esso stesso? Hume ammette il diritto di resistenza, ma ne dà una fondazione diversa che non quella razionalistica del giusnaturalismo lockiano: il diritto di resistenza è fondato non sulla ragione, ma sulla passione del proprio interesse:
«L'interesse costituisce la sanzione immediata del governo; perciò il governo non
può avere una durata più lunga dell'interesse; se quindi il magistrato civile è talmente oppressivo da rendere la sua autorità assolutamente intollerabile, noi non
siamo più obbligati a stargli sottomessi.» Cessata la causa (interesse), cessa anche
l'effetto (legittimità del governo), e l'esperienza storica (che è parte fondamentale,
come sappiamo, dell'esperienza della natura umana) mostra che nessun governo
tirannico è stato a lungo tollerato dagli uomini, e che la resistenza alla tirannia è
sempre stata considerata giusta.
Hume non è però pensatore rivoluzionario, bensì realista incline al conservatorismo: la resistenza attiva al potere tirannico è, per lui, solo eccezione, mentre
la regola deve essere la sottomissione e la stabilità dell'esecutivo, per garantire la
quale enuncia cinque regole: a) il lungo possesso, anche quando trae origine dall'usurpazione, legittima il potere; b) in sua assenza, vale il possesso presente;
c) valido è anche il diritto di conquista, oltre naturalmente, d) al diritto ereditario
delle corone; e) infine hanno valore legittimo le leggi positive, quando queste
stabiliscono una certa forma di governo. È evidente che in queste posizioni politiche di Hume si riflette la stanchezza dell'Inghilterra dopo gli scotimenti politici del Seicento: egli è contrario sia al rigore dei rivoluzionari, sia a quello dei
lealisti integrali. D'altra parte, è intelletto troppo acuto per non avvedersi che le
cinque regole suesposte (che egli definisce frutto di una « sana filosofia ») sono
incapaci di risolvere le crisi acute degli esecutivi, ed ammette francamente che in
questi casi, come insegna la storia « la soluzione è rimessa più alla spada dei soldati che agli argomenti dei legislatori e dei filosofi ».
Più volte, nel corso della nostra esposizione, è risultata chiara la grande importanza che Hume annette alla storia, considerata il laboratorio sperimentale del
filosofo della natura umana. Nel dare un'interpretazione filosofica di questa di~ci­
plina, Hume si imbatte però in una difficoltà gnoseologica: da un lato egli afferma infatti che compito della storiografia è di individuare ed esporre nel modo
più articolato possibile la relazione di causalità che lega i vari avvenimenti storici
(e che affermi questo non ci può stupire, risultando evidente che la conoscenza
storica rientra nel novero della conoscenza di questioni di fatto, per le quali, come
sappiamo, la relazione di causalità è quella più importante). Ma, allora, come salvare nella conoscenza storica l'impressione sensibile quale ·criterio di verità?
« Prima che la conoscenza del fatto [storico, ad esempio della spedizione di Ales123
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H urne
sandra il macedone] giunga al primo storiografo, deve passare attraverso molte
bocche; e dopo che il fatto è stato affidato alla scrittura, ogni nuova copia di esso
è oggetto nuovo, la cui connessione col precedente viene conosciuta soltanto con
l'esperienza e con l'osservazione. » Ma quando ci stacchiamo dalla evidenza della
impressione iniziale (dei testimoni oculari), non perdiamo con ciò stesso ogni
evidenza e certezza?
Nonostante questa difficoltà, Hume pensa di poter salvare la storiografia come
scienza di materie di fatto. Certo, egli ammette, prima di giungere a noi il fatto
storico passa attraverso molte narrazioni e redazioni, tuttavia una caratteristica
di questi molteplici passaggi è che sono tutti uguali, sicché l'evidenza si trasferisce, intatta, dall'uno all'altro: « Il fatto storico iniziale viene trasferito da una
prima narrazione in un'altra che dipende da quella e dalla seconda passa quindi
in una terza narrazione e così di seguito fino alla narrazione che sta ora davanti a
noi nel volume che abbiamo tra le mani. Chi conosce una di tali narrazioni le
conosce tutte; infatti in questa serie di passaggi, un anello è uguale all'altro; fatto
uno di tali passaggi, non c'è più da aver scrupolo nel compiere gli altri. Solo
questa circostanza conserva l'evidenza della storia ed è in grado di conservare la
memoria dell'età presente fino alla posterità più remota.»
Il valore conoscitivo del sapere storico viene esaltato da Hume non solo
perché è dilettevole e rende colti, ma soprattutto perché è un preambolo alle altre
forme del sapere: « Se consideriamo la brevità della vita umana ed i limiti della
nostra conoscenza, anche riguardo a ciò che avviene nel tempo stesso della nostra
vita, ci rendiamo facilmente conto che saremmo destinati a rimanere sempre
bambini, nella conoscenza, se non fosse per la invenzione della storia, che estende
la nostra esperienza a tutte le età passate, fino alle nazioni più remote, consentendoci di trarre da esse profitto per il progresso della nostra cultura, come se esse
potessero essere al presente oggetto diretto della nostra osservazione. »
VII
· LA FILOSOFIA DEL SENSO COMUNE. T. REID
Dopo Hume l'attività critico-speculativa subisce in Inghilterra un evidente
declino, al quale fanno eccezione solamente i moralisti e soprattutto i geniali
fondatori dell'economia politica classica (come vedremo nel capitolo vm della
prossima sezione). Ma, per quanto concerne specificamente il problema filosoficognoseologico, la meravigliosa fecondità ed originalità del Seicento e della prima
metà del Settecento è terminata. Per circa un secolo nel pensiero inglese si ha una
vera e propria pausa, che corrisponde al sorgere, nell'Europa continentale, di
nuovi problemi ed all'affermarsi, specie in Germania, di correnti filosofiche nettamente antiempiristiche.
Questo decadimento è bene impersonato dalla reazione allo scetticismo humiano di Thomas Reid (I 7 I o-96), che portò ad un vero e proprio imbarbarìIZ4
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H urne
mento dell'empirismo inglese. Dapprima predicatore e poi professore a Glasgow,
Reid è il fondatore della scuola scozzese del senso comune, e ci ha lasciato varie
opere: An inquiry into the human mind on the principles of common sense (Ricerca sulla
mente umana condotta secondo i principi del senso comune, 1 764); Essqys on the intellectual
powers of man (Saggio sui poteri intellettuali dell'uomo, 178 5); Essqys on the active
powers of mind(Saggio sui poteri attivi della mente, 1788). Nell'Inquiry, egli narra di
essere stato seguace di Locke e di Berkeley, e di essersi reso conto delle conseguenze scettiche delle loro dottrine leggendo Hume, sicché fu questo studio a
convincerlo della necessità di combattere lo scetticismo, e cercò di farlo ponendosi sullo stesso terreno sperimentale del grande filosofo di Edimburgo.
Un esame obiettivo delle esperienze umane riuscirebbe a porre in luce- secondo Reid - che alla base di tutta la nostra vita si trova una fede saldissima in
certi presupposti (i principi del senso comune) che risultano più antichi e più autorevoli di qualunque critica filosofica. I più importanti tra essi sono: l'esistenza di
un mondo materiale esterno, l'esistenza di un nesso causale, l'esistenza dell'anima
e la validità originaria dei giudizi morali basilari. Poiché la filosofia humiana aveva
messo in luce la precarietà di questi principi, Reid pensa che per sbaragliare lo
scetticismo basti far vedere come la fede nel senso comune risulti effettivamente
insita in ogni soggetto pensante e come agisca in ognuno di essi con una irresistibile forza costrittiva, rendendo vana, nella pratica, l'analisi critica humiana.
Ma, come abbiamo visto, Hume non negava affatto che questi ed altri principi fossero presenti nella natura umana; negava solo che essi fossero fondabili
razionalmente. Reid non fa che prendere una parte del discorso di Hume, là dove
il filosofo afferma che la natura è più forte della ragione critica, e farla valere, in
modo assolutamente ingenuo ed inconsistente, contro l'altra. È assente una ricostruzione critica del potere della ragione. In sostanza, egli si limita a troncare
barbaramente l'analisi filosofica, e si fa forte di quella che Hume aveva chiamato
« filosofia facile », senza nemmeno addentrarsi nei problemi di fondo della humiana «filosofia difficile». Toccherà a Kant riprendere, con ben maggiore profondità e serietà, il problema gnoseologico, e dare una nuova strutturazione al
criticismo.
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CAPITOLO SESTO
Logica e fondamenti della matematica
DI CORRADO MANGIONE
I · CONSIDERAZIONI PRELIMINARI
Il discorso sulla logica formale nel XVIII secolo assume un aspetto del tutto
particolare: esso può essere sostanzialmente ridotto alla delineazione degli sviluppi che in tale periodo vengono maturando in questo ambito in rapporto a
quel disegno generale e ambizioso che della teoria logica aveva tracciato Leibniz.
Assunto questo pensatore come punto naturale di riferimento, si osserva infatti
che i vari autori significativi di questo secolo si rifanno praticamente tutti - pur
se con momento diverso e su basi metafisiche talora molto distanti - al pensiero
di Leibniz per guanto riguarda una loro eventuale e personale interpretazione
o elaborazione della logica.
Come si vedrà, è possibile individuare in questo secolo lo stabilirsi di due
distinti filoni di ricerca, che possiamo grosso modo ritenere rappresentati rispettivamente da Johann Heinrich Lambert e Christian Wolff, che· sviluppano le
idee logiche leibniziane in modo essenzialmente diverso. Quegli studiosi che
si possono annoverare nel primo filone infatti, pur se non tutti consapevoli
appieno della portata e della natura delle vedute logiche leibniziane, ne elaborarono per lo meno l'aspetto algoritmico, tentando la costituzione di un calcolo
logico e accentuando così l'aspetto formale (pur se in generale in senso più
propriamente e limitatamente tecnico) di quelle vedute. Gli studiosi del secondo filone invece, e segnatamente il capostipite di esso Wolff, pur nell'ambito
di un'apparente continuità con la filosofia leibniziana, non riescono a cogliere
in alcun modo la grande apertura delle idee logiche del Leibniz e riducono sostanzialmente tutta la problematica logica di quest'ultimo a una illustrazione di tipo
precettistico e propedeutico della sillogistica. Sarà proprio questo secondo filone
che permeerà di sé l'illuminismo tedesco e, riallacciandosi (o comunque riecheggiando di fondo) alla squalificante posizione cartesiana nei riguardi della logica
formale, costituirà una linea ideale che troverà il suo compimento in Kant. Nel
fare questo discorso sulla logica del Settecento, che si svolgerà in massima parte
con riferimento diretto all'ambiente svizzero-tedesco, dovremo concedere un posto a se stante a un logico italiano, il padre gesuita Giovanni Gerolamo Saccheri,
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Logica e fondamenti della matematica
in virtù soprattutto della sua opera in certo senso conclusiva della logica classica.
Anche il problema dei fondamenti della matematica assume in questo secolo
un aspetto particolare in quanto, come il lettore può constatare dal capitolo vn
di questa sezione, non si può parlare per il Settecento di un'esigenza fondamentalista nelle indagini matematiche; quella che prevale in questo periodo è soprattutto
un'esigenza di sistematicità, in generale però aliena da quell'abito di rigore e di
interesse per gli elementi ultimi delle costruzioni matematiche che siamo soliti
assumere fra le caratteristiche peculiari di una ricerca sui fondamenti in senso
moderno. Una notevole importante eccezione a questo «corso» è tuttavia costituita dalla geometria, che ormai per tradizione veniva dibattendo un problema
squisitamente fondamentalista, e cioè quello che in termini moderni possiamo
chiamare dell'indipendenza del quinto postulato degli Elementi di Euclide. Il
Settecento vedrà lo sforzo decisivo per la risoluzione dell'annoso problema, solu. zione che, ottenuta di fatto nei primi decenni del secolo successivo, annovererà
nel periodo qui considerato i suoi veri e propri precursori, e avrà enormi ripercussioni sulla matematica, sulla logica e sulla stessa filosofia.
Nel prendere in considerazione i primi- e più interessanti- tentativi settecenteschi di dimostrare il quinto postulato euclideo, ritroveremo come protagonisti autori che già avevamo incontrato nella delineazione dello sviluppo della
logica. Questa coincidenza va tuttavia ritenuta puramente casuale: non si può
parlare infatti in questo secolo di una mutua influenza diretta fra logica e matematica, almeno non nel senso di una influenza attiva di una sull'altra. In generale
prevale un atteggiamento matematizzante di tipo cartesiano, che risolve appunto
la logica nella matematica e solo sporadicamente, in particolare con Lambert,
si riconosce una dipendenza inversa di tipo leibniziano o comunque un'autonomia della ricerca logica. Queste considerazioni offrono l'estro per una «giustificazione» del titolo di questo capitolo: l'aver avvicinato temi che poi in effetti
descriviamo così distanti ed estranei fra loro potrebbe sembrare del tutto gratuito. Il fatto è che per quanto « non comunicanti » il termine di paragone per
la logica resta pur sempre, anche in questo periodo, diremmo anzi soprattutto
in questo periodo (anche se in senso «negativo») la matematica; va inoltre osservato che i germi di una convergenza che si realizzerà compiutamente solo
verso la fine dell'Ottocento restano ancora presenti in questo secolo come diretta, riconosciuta o no, eredità della tematica leibniziana. Se pure quindi non
siamo di fronte a una situazione specifica dei rapporti fra logica e fondamenti
della matematica, è opportuno, dato il carattere generale di quest'opera, confrontare fin da ora i due termini di un binomio che già nella prima metà dell'Ottocento (grazie soprattutto alla scoperta delle geometrie non euclidee e alla rinascita della logica matematica) comincerà ad assumere una più precisa e significativa fisionomia che, come poco sopra accennavamo, sarà (ed è tuttora) di piena
e totale convergenza a partire dalla fine del secolo scorso.
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Logica e fondamenti della matematica
Il presente capitolo si articola quindi come segue. Dedicato un paragrafo
all'opera logica del Saccheri, passeremo a prendere in considerazione le vedute
logiche di Christian Wolff e dei « wolfiani », per poi esaminare il filone più propriamente « leibniziano » della logica settecentesca. Seguirà un paragrafo dedicato alle vedute ·kantiane in tema di logica formale, che costituirà in certo senso
la conclusione della parte del capitolo destinata alla logica. Successivamente, in
tre paragrafi, verranno presentati una problematica generale sulle geometrie
non euclidee, una breve esposizione della struttura e del contenuto degli Elementi di Euclide, e i tentativi di dimostrazione del quinto postulato fino al Settecento; il capitolo si chiuderà con un paragrafo dedicato all'esposizione dell'evoluzione di questo problema nel xvm secolo, che ci condurrà praticamente
alle soglie della scoperta delle geometrie non euclidee.
II · GEROLAMO SACCHERI
Giovanni Gerolamo Saccheri nacque a S. Remo il 4 settembre I 667; compì
a Genova i primi studi di filosofia ma mostrò ben presto una particolare e precoce predisposizione per la matematica. Nel I685 entrò nella Compagnia di Gesù,
iniziando gli studi teologici che proseguirà accanto a quelli scientifici dopo il
suo trasferimento a Milano fra il I69o e il I691. A Milano tiene corsi digrammatica al Collegio dei gesuiti di Brera e viene in contatto con Tommaso Ceva che
lo incoraggia a proseguire nei suoi studi di matematica e geometria; nel' I 69 3
pubblica una Quaestio geometrica con la soluzione di alcuni problemi proposti
qualche anno prima da un nobile siciliano (tale Ruggero di Ventimiglia). Nel
I694 viene inviato dai superiori a Torino quale insegnante di filosofia e teologia;
si trattiene a Torino sino al I697, anno in cui pubblica la Logica demonstrativa,
di cui ci occuperemo brevemente in questo paragrafo, quindi viene inviato a
Pavia dove nel I699 viene designato alla cattedra di matematica di quella università. Nel I7o8 pubblica la Neostatica e nel I733, anno della sua morte, il celebre Euclides ab omni naevo vindicatus, di cui ci occuperemo invece nel IX paragrafo.
La Logica demonstrativa (Logica dimostrativa) è divisa in quattro parti, secondo la ripartizione dei quattro principali scritti logici di Aristotele: Analytica
prior, Analytica posterior, Topica seu dialectica, Sophistica. Nella prima parte il
Saccheri dà quella che può chiamarsi una sistemazione assiomatica (sul modello
euclideo) della logica formale scolastica (leggi: sillogistica). In questa parte, al
capitolo XI, viene discussa, in riferimento alle consequentiae leges del capitolo IX,
« alia nobilior via » secondo la quale possono venir ottenute numerose proposizioni già dimostrate nel capitolo IX. Si tratta sostanzialmente di quel tipo di ragionamento (già usato da Euclide e Cardano) in base al quale, assumendo che
ciò che si vuol dimostrare non sia vero, si ottiene la proposizione stessa che si
vuole provare, sicché quest'ultima viene ad essere ottenuta come una conseguenza
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Logica e fondamenti della matematica
della sua propria negazione; questo tipo di ragionamento va quindi tenuto distinto dal processo di riduzione all'assurdo nel quale, assunta la negazione della
proposizione da dimostrare, si giunge a contraddire una diversa proposizione già
dimostrata o comunque postulata. Il metodo « saccheriano » avrà come vedremo
una funzione fondamentale nell' Euclides vindicatus (e fornirà così un primo esempio dell'impiego rigoroso di una tecnica dimostrativa che troverà nel nostro
secolo ampia applicazione nel campo delle ricerche relative alla reciproca indipendenza o compatibilità delle proposizioni poste alla base di un sistema deduttivo); questo impiego farà intendere l'elaborazione del metodo puramente in
funzione dell'applicazione geometrica e concorrerà in modo determinante alla
quasi totale indifferenza riservata all'opera del Saccheri come logico.
La seconda parte della Logica demonstrativa presenta tra l'altro, nel capitolo v,
l'enunciazione di una netta distinzione tra « definitiones quid nominis » e «definitiones quid rei »: mentre le prime tendono a chiarire il significato di un termine, le seconde affermano anche l'esistenza della cosa definita, in altri termini
agiscono come. veri e propri postulati di esistenza. Le definizioni reali non possono quindi figurare tra le proposizioni fondamentali, indimostrate, di una
scienza deduttiva, non sono cioè, per dirla col Saccheri, « matres » bensì « filiae
plurium demonstrationum ». In proposito Saccheri distingue anche fra definizione « complexa », che cioè attribuisce alla cosa definita più di una proprietà
(aumentando quindi l'eventuale pericolo di contraddizioni a causa della possibile incompatibilità di alcune di queste proprietà) e definizione « incomplexa »
che invece, attribuendo un'unica nota alla cosa definita, riduce al minimo questo
pericolo, sicché· risulta possibile ammettere l'esistenza della cosa definita (ossia
riduce al minimo il « rischio » di una eventuale assunzione di una tale definizione
come postulato). L'originalità della trattazione del Saccheri è qui testimoniata
oltre che dal metodo rigoroso con cui imposta la questione (aristotelica) dei
rapporti fra i due tipi di definizione, anche e soprattutto dall'esigenza da lui avvertita di chiarire le connessioni fra definizione e postulazione nell'ambito di
una scienza deduttiva.
La terza parte della Logica è divisa in due sezioni, ove vengono discussi la
natura e gli scopi della dialettica, assieme alle sue principali « facultates » e vengono esaminate entrambe le specie di argomentazione dialettica.
La quarta parte infine, la Sophistica, strettamente collegata alla seconda,
prende in esame le fallacie argomentative più comuni e altre che si possono
mettere in luce grazie appunto alla rigorosa distinzione fra i due tipi di definizione sopra visti e al chiarimento del rapporto fra definizioni e assiomi di una
teoria.
Com~ sopra si accennava, a una più puntuale e obbiettiva valutazione del
Saccheri come logico ha paradossalmente nuociuto la fama da lui giustamente
acquisita per le indagini sulla indipendenza del quinto postulato di Euclide,
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Logica e fondamenti della matematica
indagini che lo pongono fra i maggiori precursori della scoperta delle geometrie
non euclidee. Lo stesso Vailati, che nel 1903 riportò alla luce una copia della
ormai dimenticata Logica demonstrativa, non ne propose una lettura autonoma come
opera di logica, ma la presentò piuttosto come una premessa (anche se di fondamentale importanza) per uno studio sulla genesi logica e metodologica dell' Euclides. Questo stato di cose veniva del resto denunciato circa quarant'anni
fa dallo Scholz, il quale affermava: «Galeno è per noi il primo logico che
pretese una rigorosa assiomatizzazione della logica e che ne pose così l'esigenza la quale fu poi soddisfatta per la prima e ultima volta, nei limiti del possibile, e quanto alla logica formale nella sua forma classica, da quella a tal proposito del tutto inestimabile e purtroppo quasi completamente dimenticata
Logica demonstrativa di Gerolamo Saccheri, già famoso nella storia delle parallele e nella preistoria delle geometrie non euclidee. »
Facendo eco, in certo senso, alle su citate parole dello Scholz, si sono di
recente sollevate anche in Italia voci di studiosi che sollecitano a una lettura
diretta dell'opera logica del Saccheri e nel contempo avanzano l'esigenza che
vengano chiariti i rapporti del Saccheri « logico » con i suoi contemporanei (in
particolare con Leibniz) in parallelo con i numerosi studi che hanno puntualizzato i rapporti e l'influenza che il Saccheri « geometra » ebbe con e su contemporanei e successori.
III · CHRISTIAN WOLFF E
I
« WOLFIANI »
Come si è detto nella premessa, a proposito della logica l'eredità leibniziana
viene assunta nel XVIII secolo secondo due direttrici, una delle quali fa capo a
Christian Wolff, l'altra, che può considerarsi iniziata sulle orme di Gottfried Ploucquet, trova in Johann Heinrich Lambert il suo maggior esponente. La direttrice
wolfiana che esamineremo brevemente in questo paragrafo, pur inquadrandosi in
un'apparente linea di continuità col pensiero leibniziano (si parla addirittura,
come noto, di filosofia leibnizio-wolfiana) ne smussa in effetti totalmente la dimensione logico-formale riducendo la logica stessa a un'affrettata trattazione della
sillogistica in senso puramente didattico e metodo logico; questo filone avrà
la preminenza per tutto l'illuminismo tedesco che « eccettuato il matematico
Lambert lasciò cadere in ombra, sulle orme del W olff, la tematica leibniziana
sull'arte caratteristica e combinatoria» (Barone). D'altra parte «l'idea della mathesis universalis, più intimamente connessa nel Leibniz con la sua speculazione filosofica, slitta negli epigoni settecenteschi su un piano esclusivamente metafisica
antologico» (Barone); e l'altro filone di eredità leibniziana si riallaccia in generale (eccezion fatta forse per l'originale figura del Lambert) in modo diretto a
Leibniz appunto sul piano della characteristica, meno immediatamente fusibile
con l'antologia, tentando di sistemare almeno a livello simbolico e algoritmico
la sillogistica tradizionale.
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Logica e fondamenti della matematica
Mentre gli effetti e le influenze della posizione logica del W olff si faranno
sentire immediatamente, determinando una linea ideale che attraverso i suoi
discepoli e continuatori giunge direttamente fino a Kant, l'influenza degli esponenti della seconda direttrice sarà in effetti praticamente nulla: la rinascita della
logica formale nell'Ottocento avverrà prima in Inghilterra, in un clima culturale
cioè che poco o nulla risente di questi avvenimenti continentali, e solo successivamente in Germania, ricollegandosi del resto direttamente a Leibniz. Solo
verso la fine del secolo scorso gli storici della logica potranno riconoscere in
alcuni autori settecenteschi di questo secondo filone, e segnatamente nel Lambert,
l'anticipazione di temi o problemi che verranno fatti propri dalla moderna logica
matematica.
Christian Wolff nacque a Breslavia nel 1679, iniziò la sua formazione indirizzandosi verso studi teologici, che abbandonò però ben presto per dedicarsi
alla matematica e alla filosofia. Studiò a Jena fino al 1703 e, addottoratosi a Lipsia,
per interessamento di Leibniz venne chiamato nel 1706 a una cattedra di matematica ad Halle. Le sue numerose pubblicazioni iniziarono praticamente nel 1710
e l'invidia di alcuni suoi colleghi- si trattava di pietisti che indicarono nel razionalismo del Wolff un pericolo per la religione - per il successo che incontrarono,
lo fece allontanare dall'incarico di docente nel 172.3, ad opera del re Federico
Guglielmo 1. Ricordiamo di questo periodo, nel quale il Wolff scrive in tedesco
quale « precettore di tutto il genere umano », i Verniinfftige Gedanken von den
Kriiften des menschlichen Verstandes und ihrem richtigen Gebrauche in Erkenntnis der
Wahrheit (Riflessioni razionali sulle forze dell'intelletto umano e sul loro retto impiego
nella conoscenza della verità, 171 z.). Si trasferì quindi a Marburgo, ove attese alla
stesura delle più impegnative (almeno da un punto di vista logico) opere latine,
delle quali ci è sufficiente qui ricordare la Philosophia rationalis sive logica, methodo
scientifica pertractata et ad usum scientiarum atque vitae aptata (Filosofia razionale o
logica, trattata con metodo scientifico e adattata per uso delle scienze e della vita, qz.S).
Salito al trono Federico n, Wolff ritornò ad Halle nella sua cattedra nel 1740
e continuò la sua attività di docente fino alla morte, avvenuta nel 1754.
« L'illuminismo tedesco, » afferma l'Ab bagnano nel suo trattato di storia
della filosofia, «deve la sua originalità rispetto a quello inglese e francese, più
che a nuovi problemi o temi speculativi, alla forma logica in cui temi e problemi
sono presentati e fatti valere. » Da ciò si potrebbe essere indotti a pensare a un
genuino interesse logico dell'illuminismo tedesco, che lo porrebbe in modo naturale come diretto erede delle idee leibniziane in tema di logica. In effetti il
Wolff, ossia il « padre » di questo illuminismo, pur conoscendo direttamente la
tematica logica leibniziana ed essendo in contatto epistolare con Leibniz stesso,
non riesce a comprendere nella sua autonoma portata la geniale concezione leibniziana della logica come scienza generale delle forme, col risultato che, proprio
e paradossalmente in nome di Leibniz, fa segnare una stasi e determina anzi un
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Logica e fondamenti della matematica
netto regresso nell'elaborazione della logica formale, riducendola a mera precettistica metodologica.
L'interesse di Wolff per la logica, secondo quanto lui stesso ci racconta, è
piuttosto tardo. Sulla base di una conoscenza limitata alla logica scolastica, egli
era giunto a una totale svalutazione della sillogistica e come ars demonstrandi e
come ars inveniendi ed era stato confermato in questa sua conclusione dalla lettura
dell'opera di von Tschirnhaus Medicina mentis sive artis /nveniendi praecepta generalia
(Medicina della mente ossia precetti generali dell'arte della scoperta, Amsterdam 1678
e Lipsia 1695) accettandone in loto lo spirito cartesiano. Egli vede così nell'algebra e nella geometria le vere artes inveniendi et demonstrandi e si dà quindi allo
studio della matematica; non ritiene infatti che possa applicarsi al di fuori di
essa lo stesso metodo di sicurezza argomentativa. Il carteggio con Leibniz, iniziato praticamente nel 1704 e protratto fino alla morte del suo corrispondente
(1716) lo portò a rivedere questa posizione nel senso di una rivalutazione del
sillogismo e più in generale della forza probante dell'argomentazione formale.
Ma in W olff il suggerimento leibniziano non dà alcun frutto al di là di questa
pedissequa rivalutazione; esso non viene cioè assunto come espressione della
affermata possibilità, o meglio, della necessità di una autonoma scienza generale
delle forme, ma nel senso ristretto di una « raccomandazione » di tipo metodologico il cui fine sia quello di «procurare uno strumento d'argomentazione esteriormente perfetto, per la cui generica utilità vengono semplicisticamente appianate o trascurate le differenze effettive dei singoli campi di ricerca» (Barone).
In particolare, i suggerimenti di Leibniz circa l'utilità dei sillogismi vengono
frettolosamente interpretati da Wolff come un'affermazione della completezza
della logica volgare, nella forma soggetto-predicato, come atta o comunque sufficiente a fornire in ogni caso adeguati criteri di verità; senza darsi la pena di
osservare che contro questa semplicistica interpretazione del discorso leibniziano
si ponevano, per lo meno, quei tipi di inferenze non sillogistiche che già lo Jungius, e sulle sue orme il Leibniz stesso, avevano considerato. In ~Itri termini,
Wolff non riesce a cogliere tutta la portata generale dell'arte caratteristico-combinatoria leibniziana, di cui il sillogismo non è che un esempio particolarissimo
e specifico.
Ne risulta che nell'elaborazione wolfiana le idee leibniziane sulla logica vengono ridotte a una mera trattazione verbalistica, mentre ciò che della logica viene
effettivamente presentato non è che l'aspetto e il contenuto manualistico, se
possibile ancora più ristretto del solito, della sillogistica tradizionale: le ampie
vedute leibniziane vengono così compresse e costrette nell'ambito e nei risultati
della più vieta logica scolastica. E si noti che Leibniz aveva esplicitamente scritto
a Wolff, nel 1710: «Non puoi avere dubbi che ci sia una scienza superiore alla
matematica e non meno certa. La parte della logica che tratta dei modi e delle
figure ne è un modesto esempio. Certamente nella stessa algebra e nei numeri
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Logica e fondamenti della matematica
l'animo astrae dalle immagini; ma la stessa algebra mostra che si possono trattare le forme e le similitudini non meno accuratamente delle quantità e delle
equazioni, dal momento che, ridotta a formule, essa appare subordinata alla
combinatoria. »
Gli stimoli e i suggerimenti leibniziani non trovano quindi in Wolff terreno
fertile; si aggiunga l'interesse didattico per la divulgazione particolarmente accentuato in W olff nei Vernunfftige Gedanken e si comprenderà come sia proprio
nel più diretto discendente del Leibniz che la problematica logica di quest'ultimo perde completamente quell'autonomia e quella larghezza di vedute che le
sono proprie. Il momento tuttavia più importante e caratteristico in questa elaborazione (possiamo ben dire negativa) che degli spunti logici leibniziani conduce Wolff, resta la suddivisione da lui operata fra logica naturale (che è l'insieme
delle « regole che Dio ha prescritto all'intelletto e la disposizione naturale che
abbiamo a seguirle »)e logica artificiale(« che insegna come si può ridurre ad abito
la disposizione che ci ha dato la natura»); è infatti proprio su questo tema, centrale nell'esposizione wolfiana, che vanno ritrovate da una parte l'insanabile frattura con le vedute leibniziane e dall'altra le qualificazioni specifiche della logica
di Wolff. Per il primo aspetto infatti basta pensare che «l'ardita concezione del
calcolo delle quantità e delle qualità come momenti di un'unica teoria dei puri
rapporti formali- concezione come sappiamo sostenuta da Leibniz-viene abban- ,
donata o, meglio, ignorata per l'assai più sbrigativa riduzione delle "forme" alle
leggi naturali del pensiero» (Barone); per quanto invece riguarda la caratterizzazione della logica wolfiana, non avendo la logica artificiale altro compito se
non quello di elaborare le forme e le leggi proprie del pensiero, dovendosi quindi
essa occupare dell'intelletto in tutte le sue attività, ne viene che la teoria logica
del Wolff non si applica allo studio di sistemi deduttivi ma è composta, e in modo
prevalente, da considerazioni di carattere metafisica e gnoseologico, del tutto
basate sullo sfondo antologico su cui sono proiettate queste forme naturali del
pensiero.
Anche se la parte «tecnica» verrà ampliata dal Wolff nella più ambiziosa
Logica latina, e anche se in questa stessa opera e in altre posteriori Wolff stesso
sembra in qualche modo avvertire le strettoie nelle quali egli ha costretto le
vedute leibniziane, tuttavia è proprio questo aspetto angusto che verrà accettato,
propagandato e istituzionalizzato dai seguaci e dai successori di W olff. E di pari
passo con la fortuna delle sue opere e del suo pensiero su tutto l'arco dell'illuminismo tedesco, si imporranno in questo periodo anche le sue vedute logiche
che, salvo rare eccezioni che considereremo in un prossimo paragrafo, verranno
accettate in blocco dai vari. esponenti di questo illuminismo. In effetti è proprio
a Wolff, e in particolare a quella sua suddivisione della logica in naturale e artificiale, che dobbiamo far risalire la vera origine del richiamo alla « naturalità »
della prima figura sillogistica e alla compiutezza e sterilità della logica formale
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Logica e fondamenti della matematica
che verrà avanzato da Kant e lo indurrà a esprimere su quest'ultima un celebre,
lapidario giudizio negativo.
È ben noto che dopo Wolff i problemi filosofici vennero trattati in Germania,
anche da parte di quegli autori che non ne davano soluzioni conformi a quelle
da lui prospettate, sempre sulla scorta del metodo che egli aveva posto in essere.
Ciò significa, dal nostro punto di vista, che veniva così istituzionalizzata la concezione logico-metodologica di Wolff, e, fatto caratteristico, questo non si verificava soltanto per tutta una schiera di manualisti che in modo più o meno felice
si accinsero alla divulgazione del suo pensiero, ma anche, se pur con rare eccezioni, per pensatori che si opposero alle conclusioni metafisiche di Wolff o comunque ne elaborarono in modo originale il sistema. Converrà, per finire, ricordare qui qualche nome dei rappresentanti delle due « correnti », per poi considerare nel paragrafo successivo le « eccezioni » cui sopra si alludeva e quindi,
in effetti, il filone più propriamente « leibniziano » della logica settecentesca.
Lo spirito didattico della produzione wolfiana dà origine a un vero e proprio
wolfianesimo nella cultura universitaria tedesca di questo periodo. Il primo a
comporre un testo completo di filosofia wolfiana fu Ludwig Philipp Thtimmig (I697-I7z8) che nel I725-z6 pubblica le Institutiones philosophiae wolftanae in
usus academicos adornatae (Istituzioni di filosofia wolftana adattate ad uso accademico),
ove pone in particolare rilievo l'uso precettistico della logica e sottolinea in
modo speciale la fusione fra logica e gnoseologia; sulla stessa linea si muovono
sostanzialmente le Institutiones philosophiae rationalis methodo Wolfti conscriptae (Istituzioni di filosofia razionale elaborate secondo il metodo di Wolff, I735),. di Friedrich
Christian Baumeister (I 708-8 5). Sempre più legati alla tematica wolfiana della
distinzione fra logica naturale e artificiale appaiono anche J ohann Peter Reusch
(morto nel I754) col suo Systema logicum antiquiorum atque recentiorum item propria
praecepta exibens (Sistema logico degli antichi e dei moderni che esibisce anche precetti
peculiari, I734) e Johann Heinrich Winkler (I703-70) che pubblica a Lipsia
nel I735 delle Institutiones philosophiae universae usibus academicos accomodatae (Istituzioni di filosofia universale elaborate ad uso accademico), ove fra l'altro cerca eventuali
aperture della logica in senso non formale.
Un'analoga accettazione delle vedute logiche di Wolff si ha peraltro, come
sopra si accennava, anche in pe,nsatori più originali di questo periodo, quali ad
esempio il professore di logica e metafisica Martin Knutzen (I7I 3-5 I) che
pur ripete pedissequamente le idee wolfiane nei suoi Elementa philosophiae rationalis seu logica cum generalis, tum specialoris mathematica methodo in usum auditorum
suorum demonstrata (Elementi di filosofia razionale o logica sia generale sia particolare,
dimostrati con metodo matematico ad uso degli uditori, I747); o il creatore dell'estetica
tedesca Alexander Gottlieb Baumgarten (I7I4-6z), che dedica alla ritenuta
definitiva logica del Wolff una Acroasis logica in Christian Wolff (Lezione di logica
secondo Christian Wolff, I 76 I) ; o ancora il discepolo di questi Georg Friedrich
I34
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Logica e fondamenti della matematica
Meier (1718-77) che pubblicò ad Halle nel 1752 un Auszug der Vernunftlehre
(Compendio della teoria della ragione). Analogamente va ricordato il professore di
ginnasio amburghese Hermann Samuel Reimarus (1694-1768) che pubblicò nel
17 56 quello che può essere considerato il più popolare testo di logica della seconda
metà del Settecento, dal titolo Vernunftlehre (Teoria della ragione) e che, per riportare uno dei soliti giudizi lapidari dello Scholz, « con le sue cinque edizioni rappresenta un interessante esempio di ciò che il pubblico filosofico già nella seconda metà del xvm secolo - 1 5o anni dopo la prima edizione della Logica hamburgensis, nel frattempo del tutto dimenticata - non richiedeva più da una buona
logica ». 1
Un ultimo accenno va fatto anche agli avversari del Wolff in campo metafisica
che tuttavia non si differenziano da lui per quanto riguarda la concezione della
logica. Ci limiteremo a ricordare la Via ad veritatem commoda auditoribus methodo
demonstrata (Via per la verità dimostrata agli uditori con metodo facile) di Joacchim
Georg Darjes (1714-91) pubblicata nel 175 5 e l'opera del più notevole fra
gli oppositori del Wolff, Christian August Crusius (1715-75) ossia il Weg
zur Gewissheit und Zuverlassigkeit der menschlichen Erkenntnis (Via per la certezza e
la sicurezza della conoscenza umana, 1747).
IV · IL FILONE
«
LEIBNIZIANO
»
Si è già detto che la problematica leibniziana connessa con la mathesis universalis tende a spostarsi negli autori settecenteschi su un piano antologico, mentre resta accessibile, a coloro che delle idee di Leibniz avevano compreso almeno
la portata formale, una applicazione nel senso della characteristica, nel senso cioè
di escogitare sistemazioni algoritmiche efficienti per la sillogistica, per sviluppare
una elaborazione del calcolo logico.
Ad esempli~care tuttavia il capovolgimento della prospettiva leibniziana
nel senso di un adeguamento a una visione che possiamo dire più specificamente
« cartesiana », con la logica risolta nella matematica, si può citare l'atteggiamento
dei fratelli Bernoulli i quali, posto il parallelismo fra algebra e logica, conclu.dono che« c'è più ingegno e giudizio nella riduzione della più semplice equazione
algebrica di qullnto non ce ne sia nei più difficili raziocinii [sillogismi] del resto
ovvi nell'uso comune della vita »; e rifacendosi direttamente a Malebranche
(ossia, in definitiva, a Cartesio) affermano inoltre esplicitamente che «l'algebra
è la vera logica utile per scoprire la verità e per dare alla mente tutta l'estensione
di cui questa è capace ».
Tralasciando di ricordare qui tentativi che muovono verso quella intel)?retazione antologizzante del pensiero leibniziano e che tendono in ultima analisi
alla costituzione di una lingua universale con validità antologica, è per noi più
I
Alla Logica hamburgensis. di Jùngius si è fatto cenno nel capitolo
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IX
della sezione
IV.
Logica e fondamenti della matematica
interessante accennare a quello che può considerarsi l'unico tentativo di tratta-
~ione simbolica della logica nella prima metà del Settecento. Si tratta dello 5pecimen logicae universaliter demonstratae (Esempio di logica dimostrata universalmente)
pubblicato nel 1740 da Johann Andreas von Segner (1704-79) dove l'autore,
pur non conservando l'ampia visione della logica come scienza delle forme in
generale, avanza tuttavia a livello della sillogistica un'esigenza genuinamente leibniziana di« assiomatica» e introduce un opportuno simbolismo per l'esposizione
succinta e rigorosa della sillogistica tradizionale.
I tentativi di ripresa della linea leibniziana si hanno nella seconda metà del
secolo e si può dire prendano tutti spunto dalle opere di Gottfried Ploucquet
(1716-9o), professore di logica e metafisica all'università di Tubinga dal 1750
al 1782. Il tardo interesse di Ploucquet per la logica matura su basi metafisiche
sostanzialmente diverse da quelle di Leibniz; e delle due grandi intuizioni leibniziane- quella della mathesis universalis e quella della characteristica- il Ploucquet
sviluppa solo la seconda, convinto com'è che la logica formale non possa costituire
strumento di conoscenza del reale e che viceversa la simbologia logica vada rettamente intesa come strumento indispensabile per la comunicazione linguistica.
Ciò comporta, come osserva il Barone, che « essendo eliminato da un lato lo
sfondo antologico della mathesis universalis leibniziana, e mancando .dall'altro
canto nel Ploucquet il senso vigoroso della pura costruzione formale che veniva
al Leibniz dal suo continuato commercio con le matematiche, l'idea del calcolo
logico si restringe nel pensatore settecentesco a una trattazione della deduzione
sillogistica che abbia la chiarezza del procedimento geometrico e la facilità meccanica del calcolo numerico: si tratta cioè di elaborare uno strumento tecnico con
una funzione squisitamente didattica » (il che permette di associare da questo
punto di vista anche il Ploucquet a quella comune atmosfera di illuminismo wolfiano che abbiamo sopra illustrato).
Questo compito viene svolto da Ploucquet nei due saggi Methodus tam demonstrandi dircele omnes syllogismorum species, quam vitia formae detegendi ope unius
regulae (Metodo per dimostrare direttamente ogni specie di sillogismo e per scoprire gli
errori di forma sulla base di un'unica regola) e Methodus calculandi in logicis (Metodo di
calcolo in logica) entrambi del 1763. Tratti fondamentali che stanno alla base della
costituzione del calcolo ploucquetiano sono il principio dell'identità di soggetto
e predicato secondo cui « nel confronto di soggetto e predicato noi intendiamo
la loro identità (giudizio affermativo) o la loro diversità (giudizio negativo)»,
principio strettamente collegato con l'interpretazione psicologica che Ploucquet
dà dell'atto del giudizio, secondo la quale « il giudizio affermativo concepito
dalla mente non è l'intellezione di due cose ma di una sola; e la proposizione affermativa altro non è che l'espressione di una medesima cosa mediante segni diversi ». Su questa base Ploucquet sviluppa un calcolo estensionale, originato dal
fatto che la teoria ploucquetiana dell'identità esige che accanto alla considerazione
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Logica e fondamenti della matematica
della quantità del soggetto si consideri anche la quantità del predicato: la quantiftcazione del predicato (che verrà ripresa dai logici inglesi nella prima metà dell'Ottocento) fa così il suo ingresso nella storia della logica. Va notato che non si
tratta di un'innovazione di portata particolarmente significativa (e che è del tutto
superata e resa superflua dall'analisi logica moderna) ma che tuttavia comporta
in modo naturale, anche se non necessariamente, un fattore molto importante,
ossia appunto il porsi sul piano dell'estensione piuttosto che su quello della comprensione. Tale quantificazione consiste infatti semplicemente nel considerare
accanto alla quantità del soggetto anche quella del predicato, sicché ad esempio
una proposizione quale « tutti gli uomini sono mortali » va correttamente intesa
« tutti gli uomini sono alcuni mortali » (considerando « alcuni » in senso « comprensivo», ossia non escludente l'universalità) ossia afferma sostanzialmente
l'identità delle estensioni del soggetto quantificato e del predicato quantificato
(o il fatto che tali estensioni si escludono mutuamente nel caso di proposizioni
negative).
Questa innovazione del Ploucquet comporta una semplificazione e una rigorizzazione nella teoria classica dell'opposizione e della conversione (ad esempio, viene a cadere la distinzione fra conversio simplex e conversio per accidens) e
rende validi alcuni modi sillogistici non validi nella teoria tradizionale. Il calcolo
ploucquetiano si svolge quindi con la convenzione di simboleggiare soggetto
e predicato con le lettere iniziali rispettive, maiuscole o minuscole a. seconda che
la rispettiva quantità sia universale o particolare, e giustapponendo semplicemente la lettera del predicato e quella del soggetto nel caso di proposizioni affermative, interponendo invece fra le due lettere il segno > nel caso di proposizioni negative. Ci si riduce così ad assumere un'unica regola di calcolo, la
seguente: scritte le premesse in simboli come sopra visto, si cancella il comune
termine medio e si rapportano i termini rimanenti con la stessa quantità con la
quale compaiono nelle premesse. Ad esempio,
Mg
Am
Ag
Pm
V> P
V> m
ogni materia è grave
ogni aria è materia
ogni aria è grave
ogni pietra è minerale
nessun vegetale è pietra
nessun vegetale è minerale
Il Barone, notato come da un punto di vista della logica formale moderna
i risultati del Ploucquet non assumano alcun particolare rilievo, ritiene che il
momento significativo dell'opera ploucquetiana vada eventualmente cercato in
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Logica e fondamenti della matematica
altra direzione e precisamente « negli spunti - più marginali che consapevolmente affermati - verso una connessione della logica con il problema della comunicazione linguistica e verso la costituzione di un "linguaggio " logico indipendente dalla struttura grammaticale della lingua quotidiana ». È così che « l'idea
della characteristica nella versione ploucquetiana subisce certo un impoverimento rispetto alla concezione leibniziana della " scienza delle forme " ma conserva
tuttavia nei motivi suddetti una notevole suggestione per l'elaborazione moderna di una tecnica deduttiva».
Le idee logiche del Ploucquet non trovarono certo un ambiente propenso
a un loro apprezzamento o comunque disposto a una loro serena discussione
critica. Esse sollevarono anzi numerose polemiche, dirette soprattutto contro
la teoria dell'identità sopra accennata, che assunsero non di rado toni accesi di
rude acredine personale. A difesa della teoria del maestro si pose tra gli altri
anche il suo discepolo G. J. Holland, che intervenne nella polemica con due
scritti, entrambi del I 764, il primo dal titolo Schreiben an einen Freund (Lettera a un
amico) e il secondo dal titolo Abhandlung uber die Mathematik, die allgemeine Zeichenkunst und die Verschiedenheit der Rechnungsarten (Trattato sulla matematica, l'arte
generale dei segni e la diversità dei modi di calcolare). Nel primo egli difende l'originalità
della teoria del maestro contro l'accusa di essere una semplice generalizzazione
di un'analoga idea dalembertiana sulle equazioni matematiche. Nell'appendice
al secondo invece l'Holland pubblica un raffronto critico fra il metodo di rappresentazione sillogistica ploucquetiano e un metodo geometrico che nello stesso
anno era stato presentato da quello che può senza dubbio venire considerato il
vero erede delle teorie logiche leibniziane nel '7oo, Johann Heinrich Lambert,
del quale parleremo dopo aver esposto brevemente le caratteristiche fondamentali di un calcolo elaborato dallo stesso Holland e da questi comunicato al Lambert in una lettera del I 76 5.
L'Holland, sotto l'indubbia influenza del maestro, istituisce a sua volta un
calcolo estensionale fondato sulla quantificazione del predicato; il calcolo hollandiano risulta tuttavia più « completo » e approfondito di quello di Ploucquet
e si sviluppa sostanzialmente come segue. Supponiamo che S rappresenti il
soggetto, P il predicato, e che p e 1t siano variabili numeriche: allora la formula
S lP = P l1t (che naturalmente vale anche per particolari valori numerici delle
variabili) significa « una parte di S è una parte di P » o « alcuni S sono alcuni P »
o infine « (almeno) un S è un P » ed è la formula generale di tutti i possibili·
giudizi, in relazione ai valori che assumono le variabili numeriche. Se, nel termine S lP, si ha p = I, questo termine viene a significare « tutti gli S » e assume
cioè il suo « massimo » logico; analoga considerazione può farsi per 1t e quindi
per P 11t. Ne consegue che p e 1t non possono diventare minori di 1 né tanto meno
annullarsi o diventare negativi. Qualora una delle due variabili (o entrambe)
venga posta uguale all'infinito (co) il concetto corrispondente si considera ne-
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Logica e fondamenti della matematica
gativo in analogia con la relazione algebrica I f oo = o. Se ora f rappresenta
un numero intero finito e maggiore di I, sono possibili le seguenti forme di
giudizio:
I) Sji = Pji
2) Sji = Plf
3) Sji = Pfoo
4) Slf= Pji
5) Slf= Plf
6) Slf = Pfoo
7)Sfoo=P/I
8) Sfoo = Plf
9) Sfoo = Pfoo
Tutti gli S sono tutti i P
Tutti gli S sono alcuni P
Tutti gli S sono non P
Alcuni S sono tutti i P
Alcuni S sono alcuni P
Alcuni S sono non P
Tutti i non S sono tutti i P
Tutti i non S sono alcuni P
Tutti i non S sono tutti i non P
che possono venir raggruppate, secondo Holland, in universali affermative
(I, 2, 9), universali negative (3, 7, 8), particolari affermative (4, 5) e particolari
negative (6).
Rappresentati i giudizi col simbolismo precedente, diventa possibile calcolare il sillogismo (impiegando lettere diverse per i divisori quando non si è
certi che i giudizi costituenti le premesse abbiano la stessa particolarità). Riportiamo due esempi dello stesso Holland:
H=Mfp
E= Hfrr:
E= Mfprr:
Tutti gli uomini sono mortali
Tutti gli europei sono uomini
Tutti gli europei sono mortali
(dove il passaggio dalle premesse alla conclusione nella colonna di sinistra è
avvenuto ricavando H = Err: dalla seconda uguaglianza e sostituendo quindi
nella prima).
P= Ofp
P= Afoo
------·
Ofp = Afoo
Tutte le piante sono organismi
Tutte le piante sono non animali
Alcuni organismi sono non animali
(dove il « calcolo » della colonna di sinistra è avvenuto semplicemente uguagliando i secondi membri delle due uguaglianze).
Ci tratterremo ora un po' più a lungo sulla figura e sull'opera di Lambert,
che come abbiamo più volte detto è senza dubbio il pensatore più originale, in
tema di logica, della seconda metà del Settecento. Johann Heinrich Lambert
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Logica e fondamenti della matematica
(172.8-77) nacque a Mulhouse da umile famiglia protestante di ongtne francese (suo padre era un semplice sarto). Ottenuta con difficoltà l'autorizzazione a
dedicarsi agli studi, dimostrò subito un'eccezionale disposizione per la matematica. Iniziò la sua carriera come istruttore privato, il che gli consentì di compiere
lunghi viaggi in Germania, Olanda, Italia settentrionale. Nel 1759 divenne membro dell'accademia di Monaco di Baviera, poi della società delle scienze di Gottinga e infine- nel 1765 -membro stipendiato dell'accademia delle scienze di
Berlino. Trasferitosi in questa città vi rimase fino alla morte. Si occupò, oltre
che di logica, di matematica (è particolarmente ricordato per lo sviluppo in serie
dell'equazione xn
px = q e per la dimostrazione, da lui data nel 1761, dell'irrazionalità di 1t), di fisica, di astronomia e di filosofia. Un posto particolare
merita inoltre nella « preistoria » delle geometrie non euclidee, come vedremo
nel paragrafo IX.
Si è visto come il Lambert fosse intervenuto nel 1764 nella polemica suscitata dalle teorie logiche ploucquetiane, appuntando in particolare la sua critica
sulla rappresentazione dei sillogismi proposta dal Ploucquet- e che a suo parere
era un mero espediente tachigrafico - cui egli opponeva una propria, più funzionale rappresentazione geometrica (che resterà uno dei pochi tentativi settecenteschi di rappresentazione geometrica del calcolo sillogistico, accanto ai
celebri « cerchi » che Eulero aveva presentato nelle Lettere a una principessa tedesca del 176o-6z.). Il Lambert interverrà ancora nella polemica, anche relativamente alla teoria dell'identità di Ploucquet, instaurando un rapporto epistolare
con lo Holland che resta uno dei documenti più preziosi come fonte di informazione delle riflessioni logiche di questi due autori in particolare, e dei pensatori
cl'èlla loro epoca in generale.
Ma l'interesse per la logica, in particolare per le vedute logiche di Leibniz,
era già operante in Lambert attorno al 175 2.-5 3 periodo in cui, come egli stesso
dichiara, fu portato a indagare « che cosa si celasse nella caratteristica leibniziana
e nell'arte combinatoria»; le riflessioni di questo periodo lo lasciarono però
insoddisfatto se, come egli stesso confesserà, scrisse «sull'argomento ciò che mi
venne in mente, ma gli scritti non mi parvero maturi per essere conosciuti ».
Sicché Lambert preferì esporre le proprie idee logiche in altre opere posterior!
e ben note, anche se di contesto più generale, ad esempio il Neues Organon (Nuovo
Organo) del 1764, la De universaliori ca/culi idea disquisitio, una cum adnexo specimine
(Discussione dell'idea di un calcolo più universale con annesso esempio) del 1767 e la Anlage
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zur Architektonik oder Theorie des Einfachen und Ersten in der philosophischen und
mathematischen Erkenntnis (Disposizione all'architettonica o teoria del semplice e del
primo nella conoscenza filosofica e matematica) del 1771.
Gli scritti «non maturi» del periodo '5 2.-5 3 verranno pubblicati postumi
nel 1782. da J. Bernoulli nella raccolta]. H. Lamberts logische und philosophische
Abhandlungen (Trattati logici e filosofici di]. H. Lambert) sotto il titolo complessivo
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Logica e fondamenti della matematica
di Sechs Versuche einer Zeichenkunst in der Vernunftlehre (Sei saggi di un'arte dei segni
nella teoria della ragione). Se tuttavia si riguarda l'opera complessiva del Lambert
dal punto di vista della logica formale moderna, è proprio in queste prime riflessioni che si trovano gli spunti più interessanti e le tracce di eventuali anticipazioni di alcuni temi che la logica da Boole in poi farà propri. Tanto il V enn
quanto il Diirr hanno infatti messo in luce numerosi elementi significativi di
anticipazione (ad esempio: discussione dei rapporti fra operazioni logiche e operazioni algebriche; enunciazione di leggi logiche; analogia di alcune formule
lambertiane con formule del calcolo proposizionale, ecc.) contenuti in queste riflessioni giovanili di Lambert; le quali d'altra parte prefigurano già in modo sostanziale quelle che saranno le caratteristiche dei saggi più maturi, in particolare
della Disquisitio del '67, tanto per quanto riguarda lo sviluppo tecnico del
calcolo logico quanto per la precisa preminenza della trattazione intensionale
su quella estensionale.
Chiedendosi allora quali possano essere stati i motivi che hanno fatto considerare non maturi al Lambert i suoi risultati poi raccolti nei Sechs Versuche, il
Barone ritiene « non arbitrario ... indicare la causa del giudizio negativo del Lambert sui propri tentativi giovanili nella mancanza di una generale concezione
filosofica in cui egli sentisse di poter inserire il progetto di un calcolo formale e
reale nello stesso tempo. Accettato il principio di un calcolo fondato su elementi
semplici, si trattava di determinare la natura di questi. Alla mente del Lambert
formatasi direttamente all'esperienza della ricerca scientifica non potevano certo
apparire soddisfacenti le indicazioni leibniziane per una interpretazione platonicopitagorica di essi. Su questo punto Lambert sentiva l'esigenza di una soluzione
personale: si doveva elaborare una metafisica e una teoria della conoscenza che
rispettassero il procedimento rigoroso e sperimentale delle scienze. Soltanto in
questa prospettiva poteva essere affrontata la questione degli " elementi semplici ".
La prospettiva mancava ancora al tempo della composizione dei Versuche; non
manca più quando Lambert pubblica la Disquisitio, che a differenza dei saggi
giovanili contiene una specifica determinazione degli elementi semplici come
"qualità". Nel quindicennio circa che intercorre tra le due opere, il Lambert aveva infatti elaborato le idee " filosofiche ~· che confluirono nel Neues Organon ».
I Versuche non hanno uno sviluppo rigorosamente continuo, né d'altra
parte sono composti di « saggi », di « tentativi », del tutto staccati e autonomi
l'uno rispetto all'altro: per quanto riguarda l'aspetto più' strettamente logico
si può trarne una linea sufficientemente organica di sviluppo. Il primo saggio
presenta un'analisi dei concetti in termini di genere e differenza con un relativo
calcolo (su cui ci soffermeremo brevemente più avanti) e un abbozzo di una teoria del calcolo sillogistico sulla base di una simbologia che verrà ripresa e ampliata nel quarto saggio (e che costituisce una precisa anticipazione del calcolo
sillogistico della Disquisitio). Il secondo e il terzo saggio riguardano il calcolo
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Logica e fondamenti della matematica
delle relazioni, il quarto la presentazione della sillogistica già accennata nel primo;
il quinto e il sesto saggio contengono infine ricerche sull'origine e le proprietà
delle operazioni logiche.
Ci soffermeremo brevemente sul calcolo dei concetti e sulla teoria del sillogismo (riferendoci per comodità, per quest'ultima, alla versione della Disquisitio). Va dapprima osservato che il mantenersi sul piano dell'intensione è per il
Lambert funzionale in modo esplicito a una concezione assai ampia e ambiziosa
della logica (concezione, per intenderei, di tipo leibniziano) in quanto solo in
questo modo si riusciva a suo parere ad ottenere l'istituzione di un calcolo logico
generale di cui il sillogismo non rappresentava che un « misero » esempio. Questa
idea, già chiaramente espressa dal Lambert nei suoi saggi giovanili, verrà successivamente;; e ulteriormente approfondita nella Disquisitio, che si muove nel pieno
spirito della characteristica e della mathesis universalis leibniziane pur fondandosi,
come prima si è visto nella citazione del Barone, su basi metafisiche diverse.
Lambert prende lo spunto da una rappresentazione simbolica dei concetti
intesi definiti o «spiegati» in base al genere prossimo e alla differenza specifica.
Ciò significa sostanzialmente che una tale definizione viene intesa come la scomposizione dell'insieme delle proprietà costituenti la comprensione (intensione,
connotazione) di un concetto nella somma delle comprensioni rispettive del termine generico e del termine simbolizzante la differenza specifica. Se, con le notazioni dello stesso Lambert, si indica con y il genere e con a la differenza, il concetto a può intendersi definito dall'espressione
a= a (y +a)
=
ay + aa
(I)
Considerando che il genere e la differenza di un concetto sono a loro volta concetti e possono quindi essere sviluppati secondo la formula precedente, è possibile ottenere numerose leggi sul genere e la differenza quali ad esempio la seguente
che si ottiene immediatamente considerando che
a y = ayy +aya
e
+
e osservando quindi che, giusta la (I), a = ay
a a. Questo mostra che il processo di « spiegazione » di un concetto non deve necessariamente fermarsi col
dare il genere e la differenza relativi a quel concetto, ma che può essere proseguito per ogni passo n, dando così origine alla celebre « formula newtoniana »
del Lambert
a = a ( y""
+ nyn-1 a +
n(n- I)
yn-2 a2
2.!
+
n(n- I)(n- z)
yn-a aa
3!
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+ ...
Logica e fondamenti della matematica
che permette di esprimere il concetto a mediante generi universalissimi. Questo
procedimento di rappresentazione ammette un inverso, nel senso che come il
genere di a è rappresentato da ay e il genere del genere di a da ay2 e così via, così
una specie di cui a è il genere può essere rappresentata da ay-1 ecc.; e in generale,
come ayn rappresenta un genere che comprende a, così una specie compresa in a
può essere rappresentata da ay-n o a Jyn, con analoga rappresentazione per quanto
riguarda le differenze. Indicata inoltre con a : b quella parte di a che è diversa
da b, vale la relazione
a :b
+ b : a + ab + ab = a + b
dove ab rappresenta le proprietà comuni ad a e b.
Su questa base il Lambert sviluppa un calcolo dei concetti che per quanto
talora ingegnoso risulta spesso complicato e di scarso se non nullo valore applicativo; in questo calcolo non vengono presentati procedimenti generali di eliminazione e soluzione, ma soltanto delle formule per la soluzione di varie equazioni di tipo particolare. Inoltre, come mette in evidenza il Lewis, Lambert fa
qui eccessivo affidamento sulle analogie fra operazioni aritmetiche e operazioni
logiche, eseguendo quindi operazioni (e in particolare inversioni di operazioni)
che in effetti non possono ricevere alcuna interpretazione logica.
Per quanto riguarda il calcolo sillogistico della Disquisitio, notiamo intanto
che in quest'opera Lambert ribadisce esplicitamente la natura intensionale del
calcolo stesso che viene inoltre immesso nella più genuina tradizione leibniziana
nella misura in cui se ne prevede una estensione a una teoria generale delle forme:
« Se si troverà un metodo per trattare le qualità delle cose, o le verità, o le idee
nello stesso modo con cui vediamo in algebra trattate le quantità, esso richiederà
per la stessa somiglianza della trattazione il nome di calculus qualitatum, tleritatum
ve/ idearum. » Viene cioè proposta, o auspicata, una caratteristica reale che va
attuata con l'esigenza che« dò che è semplice nelle cose e nelle relazioni sia reso
con segni semplici, primitivi e radicali » con lo stesso fine leibniziano che la
composizione e scomposizione dei segni corrisponda ad analoghe operazioni
sulle « cose ».
Per quanto ora riguarda la costituzione simbolica e tecnica del calcolo, premesso che egli non considera « gli individui ma le proprietà, cioè il caso in cui
un concetto è contenuto in un altro » e cioè che il suo calcolo è appunto intensionale e non estensionale, Lambert osserva che tale calcolo si fonda « sul fatto
che soggetto e predicato sono moltiplicati con proprietà sino a che diventano
identici », cosicché ad esempio l'universale affermativa sarà simbolizzata con
A = nB, dove il fattore n indica le proprietà specifiche del soggetto non pertinenti al predicato. Analogamente, simboli quali mA = nB, A jp·= B Jq, mA Jp =
= B Jq stanno rispettivamente per proposizioni particolari affermative, universali
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negative, particolari negative, sicché la forma generale della proposizione categorica è
mA/p= nBfq
(dove la « divisione » rende conto delle proposizioni negative e rappresenta forse
la più seria difficoltà di tutta l'impostazione lambertiana, quale caso particolare
del problema delle operazioni inverse).
La forma generale del sillogismo diventa allora (Lambert usa sempre A per
il termine maggiore, B per il medio e C per il minore)
mAfp = nBfq
11-C/1t =vB/p
11-nC j1tq = mvA fpp
premessa maggiore
premessa minore
conclusione
dove la conclusione viene ottenuta ricavando il termine medio B da entrambe
le premesse e quindi uguagliando le espressioni che così risultano (osservando
naturalmente le classiche regole dei sillogismi circa la « forza » e la qualità della
conclusione in dipendenza dalle analoghe proprietà delle premesse). 1
Ancora un cenno va fatto circa la ricerca degli elementi ultimi che dovrebbero servire da riferimento iniziale alla costruzione logica di Lambert; alla loro
natura in quanto concetti elementari,« qualità» semplici, abbiamo già accennato;
qui va aggiunto che in effetti Lambert non portò a compimento questa parte
pur essenziale della sua costruzione, non compì cioè in modo concreto quella
« anatomia dei concetti» che per l'appunto doveva portarlo 1 individuare le qualità semplici e ultime dalle quali tutte le altre potessero risultare per composizione.
AI di là del diverso orizzonte metafisica in cui sorgono e si esprimono gli
interessi logici di Leibniz e di Lambert, quest'ultimo può quindi indubbiamente
essere considerato il vero continuatore diretto della tematica logica leibniziana
nel XVIII secolo. Va in particolare ribadita l'esigenza leibniziana, che ritroviamo
puntualmente in Lambert, di una impostazione « assiomatica » del calcolo logico
e la concezione stessa della possibilità di un calcolo generale delle « qualità »,
ossia di un calcolo logico generale di cui la sillogistica e lo stesso calcolo algebrico non rappresentano, leibnizianamente, che pallidi simulacri.
I Balza evidente agli occhi l'analogia fra il
simbolismo hollandiano e quello qui impiegato
da Lambert. Si badi tuttavia che fra di essi esiste
una differenza fondamentale: mentre Holland è
sul piano dell'estensione, Lambert vuole rimanere su un piano intensionale; mentre nel caso
di Holland l'f che figurava nelle sue formule era
suscettibile di assumere. valori numerici finiti e
maggiori di I, qui gli m, n, p, ecc. indicano appunto proprietà e le operazioni vanno intese in
senso logico, non aritmetico, giusta ad esempio
la formula alla pagina precedente.
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V · KANT E LA LOGICA FORMALE
Parlare in poche pagine di Kant in relazione alla logica formale è certamente
compito assai arduo, specialmente se ciò dovesse essere fatto con compiutezza
di riferimenti alla enorme copia di letteratura che sull'argomento è apparsa almeno a partire dalla seconda metà dell'Ottocento, ossia in particolare da quando
si è assistito alla rinascita della logica formale stessa. In questo paragrafo ci limiteremo sostanzialmente ad alcune osservazioni sulla complessa questione, tese
soprattutto a giustificare i ripetuti richiami, fatti nelle pagine precedenti, a Kant
come a un elemento in certo modo conclusivo dello sviluppo del filone logico
wolfiano nel Settecento; faremo quindi un brevissimo cenno al problema del
rapporto fra logica formale e logica trascendentale in Kant, e infine a quello di
una possibile motivazione all'introduzione della logica trascendentale. Nostro
costante riferimento - che servirà anche a snellire, e anzi praticamente a eliminare,
la parte espositiva della logica trascendentale kantiana - sarà ovviamente il penultimo capitolo di questo volume, dedicato appunto al pensiero di Kant.
Come sopra ricordato, nel corso della nostra esposizione abbiamo più volte
avuto l'occasione di far riferimento a Kant quale termine conclusivo di una linea
di pensiero logico che a partire da Wolff si protrae per tutto l'arco dell'illuminismo tedesco attraverso i suoi discepoli e continuatori. Che Kant stesso riconoscesse implicitamente questa sua mediata discendenza da Wolff possiamo desumere dalle sue stesse parole della Logik (Logica) pubblicata nel I 8oo a cura del
suo allievo Gottlob Benjamin Jii.sche, ove si può leggere questa esplicita dichiarazione: «La logica universale di Wolff è la migliore che si abbia ... Baumgarten,
un uomo che in ciò ha molto merito, concentrò la logica wolfiana e Meier commentò di nuovo su Baumgarten »; si tenga inoltre presente che nei suoi oltre
cinquanta corsi di logica Kant commentò costantemente su una editio maior dell' Auszug del Meier citato al paragrafo rrr.
Le considerazioni fatte nel corso di questo capitolo a proposito di W olff
e del suo filone sono già chiarificatrici, a questo punto, di quello che può essere
un nostro giudizio su Kant per quanto riguarda il suo atteggiamento verso la
logica formale. Giudizio peraltro che, data la centralità dell'opera filosofica di
Kant per la storia della filosofia moderna, si trova ribadito, talora con toni assai
crudi, negli scritti di praticamente tutti gli storici moderni di logica formale.
Varrà la pena di riportare alcuni di questi giudizi a conferma di quanto è stato
detto.
Così il Venn, nella sua Symbolic logic (Logica simbolica) del I 8 8 I, chiedendosi come mai dopo il Ploucquet, l'Holland e il Lambert ci sia stato un tale
« vuoto » (blank) nella storia della logica, ritiene di dover « confessare » lo « spiacevole sospetto che, per quanto grande possa essere stata l'influenza in béne di
Kant sulla filosofia, egli abbia avuto un effetto disastroso sulla speculazione lo-
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gica ». Non meno drastico è al solito lo Scholz quando nella sua Storia della logica
(193 1, trad. it. 196z.) alludendo alla «divinazione leibniziana del calculemus! »
afferma: «Non c'è bisogno di dire quanto noi si sia ancora lontani da questa
meta grandiosa, oggi forse più remota che mai. È invece necessario chiedersi
se per caso il progresso in tal senso non sarebbe stato maggiore se avessimo dato
retta un po' di più a Leibniz e un po' meno a Kant, la cui critica all'idea di una
metafisica matematizzata in senso leibniziano divenuta quasi canonica, costituisce
uno dei più pesanti rovesci che Kant ci ha fatto subire ... »
Ancora, W. e M. K.neale, nel loro The development of logic (Lo sviluppo della
logica) del 196z., affermano che negli scritti di Kant «troviamo in apparenza un
grande interesse per la logica formale... Questa impressione è confermata dall'impiego che egli ne fa nella sua Critica della ragion pura, in particolare nel suo
tentativo di derivare una tavola delle categorie dalla classificazione delle forme
di giudizi. Ma se guardiamo più da vicino, troviamo che l'interesse di Kant è superficiale » e, aggiungeranno più avanti, in effetti Kant parla di logica formale
col solo scopo precipuo di distinguerla dalla logica trascendentale. E si potrebbe
continuare ancora per molto; ci limitiamo a un'altra, più cauta citazione dagli
Elementi di storia della matematica del Bourbaki (1960, trad. it. 196z.) ove si può
leggere che « l'influenza di K.ant a partire dalla metà del xvnr secolo è certamente, almeno in parte, causa del poco interesse suscitato dalla logica formale in
quel periodo: Kant ritiene che noi non abbiamo alcun bisogno di nuove invenzioni di
logica perché la forma data ad essa da Aristotele è sufficiente per tutte le applicazioni ... ».
In particolare le due ultime obiezioni sopra considerate possono spiegarsi
chiaramente con alcuni brevi passaggi dalla seconda edizione della Critica della
ragion pura, uno dei quali contiene il famoso giudizio kantiano sulla logica cui
si accennava verso la fine del paragrafo nr. Tale giudizio viene peraltro emesso
da Kant nell'ambito di una argomentazione in cui si sostiene la natura di scienza
della logica e mette conto riportarlo nel suo pieno contesto. Dice dunque Kant
nella prefazione all'opera citata: « Che la logica abbia seguito questo sicuro cammino [della scienza] fin dai tempi più antichi si rileva dal fatto che, a cominciare
da Aristotele, non ha dovuto fare nessun passo indietro, se non vogliamo considerare come correzione l'abbandono di qualche superflua sottigliezza o la più
chiara determinazione della sua esposizione: ciò che appartiene più all'eleganza,
che alla sicurezza di una scienza. Notevole è ancora il fatto che sin oggi la logica
non ha potuto fare un passo innanzi, di modo che, secondo ogni apparenza, essa
è da ritenersi come chiusa e completa. » Kant ritiene infatti che non siano da considerarsi come acquisizioni di questa scienza le corruzioni e i frammischiamenti
ad essa apportati da considerazioni di tipo metafisica, o psicologico o antropologico così in voga nella sua epoca; e la intende come « una scienza la quale espone
per disteso e prova rigorosamente soltanto le regole formali di tutto il pensiero,
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sia questi a priori o empirico, abbia qualsivoglia origine ed oggetto, trovi nel
nostro spirito ostacoli accidentali o naturali ». « L'intelletto non deve nella logica
occuparsi d'altro che di se stesso e della propria forma », ma proprio per questo
la logica « in quanto propedeutica non costituisce quasi altro che il vestibolo
delle scienze e, quando si parla di conoscenze, si presuppone bensì una logica
pel giudizio su di esse, ma la loro acquisizione deve cercarsi nelle scienze propriamente e oggettivamente dette ».
Accanto quindi a un apparente interesse per la logica formale, ne viene messa
in evidenza la « pochezza », ribadita allorché Kant introdurrà la propria logica
trascendentale quale scienza « dell'intelletto puro », il cui compito è quello di determinare« l'origine, l'estensione e la validità oggettive di tali conoscenze [pure]»
in quanto essa « riguarda semplicemente le leggi dell'intelletto e della ragione,
ma solo in quanto si riferisce ad oggetti a priori, e non, come la logica generale,
a conoscenze tanto empiriche quanto pure, senza distinzione ».
In questo contesto la logica generale (termine con cui Kant qualifica tecnicamente la logica formale) « è a rigore propriamente scienza, benché breve
e arida, e quale esige l'esposizione scolastica di una dottrina elementare dell'intelletto ».
A una scienza come la logica generale (formale) che nella sua brevità e aridità astrae da ogni contenuto della conoscenza limitandosi a mettere in evidenza
e elencare gli schemi logici in base ai quali l'intelletto connette l'un l'altra rappresentazioni empiriche oppure a priori, si contrappone quindi un'altra scienza,
la logica trascendentale appunto, la quale viceversa non fa astrazione da ogni
contenuto della conoscenza, ma tratta «altresì dell'origine della nostra conoscenza degli oggetti in quanto questa origine non possa essere attribuita agli
oggetti», sia cioè a priori, con lo scopo tra l'altro di determinare come abbiamo
sopra visto « la validità oggettiva » di tali conoscenze pure.
Si presenta spontaneo a questo punto un duplice problema. Da una parte
è naturale chiedersi se l'atteggiamento negativo di Kant nei riguardi della logica
formale sia frutto di una sua approfondita analisi di questa scienza, o quanto
invece in esso non giochi la derivazione wolfiana cui sopra si è accennato; in
altri termini si tratta di stabilire se nella reazione kantiana al razionalismo dogmatico di Wolff sia stato effettivamente inglobato anche l'aspetto più propriamente
riguardante la logica, ossia se Kant si sia di fatto liberato in modo critico dei
presupposti wolfiani che stavano alla base della presunta immediata trascrizione
antologica delle leggi logiche, presupposti fra i quali, importantissima, spicca
come abbiamo visto la convinzione dell'esistenza di leggi naturali del pensiero
che avevano portato Wolff alla sua distinzione fra logica naturale e logica artificiale. D'altra parte si tratta di giustificare l'elaborazione kantiana di una logica
trascendentale e gli scopi di una sua introduzione in quanto scienza nella quale
« isoliamo l'intelletto ... e rileviamo, di tutta la nostra conoscenza, soltanto la
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Logica e fondamenti della matematica
parte del pensiero che ha la sua origine unicamente nell'intelletto ». Considereremo ora molto brevemente questi due punti.
Per quanto riguarda il primo osserviamo che l'« abbandono o la correzione
di qualche superflua sottigliezza ... » cui Kant si riferisce nella prima citazione
sopra riportata dalla Critica, allude con evidenza, oltre che alla sistemazione che
della logica scolastica avevano dato W olff e il wolfiani - e sulla quale ci siamo
espressi nel paragrafo m - anche a un lavoro precritico di Kant, Die jalsche 5pitzftndigkeit der vier .ryllogistischen Figuren erwiesen (La falsa sottigliezza delle quattro
figure sillogistiche, 1762) nel quale Kant non si era certamente liberato dalla succitata assunzione wolfiana. In esso infatti Kant propone e opera una « riduzione »
(nel senso di una limitazione, non in quello aristotelico di « riconduzione ») delle
quattro figure sillogistiche a una sola, alla prima figura cioè, la figura perfetta.
L'argomentazione kantiana in questo lavoro è condotta in effetti con rigore e
stringatezza esemplari ma è fondata con tutta evidenza sulla gratuita ipotesi- di
chiara origine wolfiana- dell'esistenza di un modo naturale, privilegiato di pensare, ossia di forme logiche naturali che il pensiero segue argomentando e che
si troverebbero appunto realizzate nella prima figura sillogistica: ne risulta- conclude Kant - che è superfluo e scorretto ibridare e appesantire il nostro ragionamento con l'inutile aggiunta delle ulteriori tre figure.
Il riprendere nella Critica questo argomento è forse indice non soltanto del
fatto che Kant non aveva superato la concezione «naturale» collegata da Wolff
al pensiero logico-formale; sta probabilmente a indicare il fatto ben più grave
che di fronte a una logica scolastica presentatagli dall'elaborazione illuminista
come ormai definitivamente sistemata e conclusa, valida per ogni situazione
argomentativa di tipo formale, egli ebbe un atteggiamento di pedissequa accettazione. In altri termini, Kant non intraprese un'analisi critica delle intrinseche
possibilità della logica formale ma accettando supinamente, in questo campo,
le conclusioni dell'analisi wolfiana, sancì anche per parte sua il ribaltamento definitivo della concezione leibniziana, nella misura in cui si lasciò a sua volta
« ... sfuggire il significato più schietto della ricerca formale, l'analisi della molteplicità di conseguenze ricavabili dalla posizione di rapporti qualsiansi fra enti
qualsiansi, che era stato mirabilmente colto dalla mentalità matematica del Leibniz » (Barone).
Questo risalire alle origini della posizione kantiana può in certo modo motivare la sua valutazione, sostanzialmente ed essenzialmente negativa, nei riguardi
della logica formale e consente quindi di ridimensionare da un certo punto di
vista la pretesa di far risalire a Kant il« vuoto» verificatosi per un lungo periodo
dopo di lui nelle ricerche di logica formale; ma indubbiamente pone anche in
chiaro un punto di scacto del suo pensiero, come messo in evidenza dal rinnovato vigore che lo sviluppo della logica formale ha conosciuto dalla seconda metà
del secolo scorso in poi. Va qui fatto cenno alle discussioni intorno ai mutui
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Logica e fondamenti della matematica
rapporti, in Kant, fra logica formale e logica trascendentale. È questo un problema
destinato ovviamente a rimanere aperto; noi non prenderemo certamente qui
in esame i diversi modi di approccio del problema in questione da parte dei vari
autori e ci limiteremo ad osservare che le soluzioni in proposito sono quanto mai
diverse, oscillando tra prese di posizioni estremistiche in cui le due discipline
sono viste come termini escludentisi di una disgiunzione (e si opta ovviamente
per l'uno o per l'altro dei due termini) e prese di posizione invece che tendono
a considerarle come elementi complementari di una congiunzione, entrambi parimenti necessari, con i loro specifici potenzialità e limiti, al processo conoscitivo
dell'uomo. Per un'ampia discussione di questo tema rimandiamo il lettore al
volume del Barone più volte citato in queste pagine.
Consideriamo piuttosto, brevemente, il problema, anch'esso ovviamente tuttora aperto, della motivazione all'introduzione da parte di· Kant della logica
trascendentale. Se, accettando la tesi espressa nel capitolo xvii di questo volume,
si conviene che la preoccupazione fondamentale di Kant fosse quella di procurare un'adeguata fondazione alle scienze fisiche, si può dare una suggestiva interpretazione in proposito. Infatti è allora chiaro che per garantire un fondamento
sicuro alle leggi generali della fisica non era certamente alla logica formale, quale
gli veniva presentata al suo tempo, che Kant poteva rifarsi, a una logica formale
che, oltre alle intrinseche limitazioni della sua elaborazione in quel periodo, era
praticamente ridotta, per dirla con Kant, a svolgere il ruolo di « atletica dei dotti »
nelle discussioni erudite. Egli si trova allora « costretto », una volta scartata
l'idea di un approfondimento dell'analisi della potenzialità del discorso formale
nella sua forma tradizionale, a elaborare una nuova scienza, con le caratteristiche
sopra brevemente illustrate, che gli garantisca appunto la validità oggettiva delle
conoscenze pure a priori.
Sia o meno da addebitare unicamente a Kant (e alla logica trascendentale)
il regresso successivo, per un lungo periodo, degli studi di logica formale, va
osservato che indubbiamente a lui va fatta risalire la responsabilità non solo di
aver allontanato la ricerca formale dagli studi filosofici, ma anche di aver instaurato un abito contrario ad una sua strumentalizzazione nelle indagini filosofiche,
strumentalizzazione che si è viceversa rivelata così fruttuosa in anni recenti.
Ed infatti, dopo che gli idealisti avevano sulle sue orme messo esplicitamente
al bando la logica formale stessa, questa rifiorirà non solo in seguito all'affinarsi
e l'aprirsi della ricerca matematica indirizzata nell'Ottocento verso esigenze di
rigore per l'innanzi sconosciute, ma anche quasi esclusivament ad opera di matematici. Questa situazione va oggi lentamente mutando ma permane talora radicata, in particolare in Italia, ancora ai nostri giorni.
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VI · LE GEOMETRIE NON EUCLIDEE: GENERALITÀ
Abbiamo già detto nella premessa a questo capitolo come vogliamo intendere qui (e come in effetti per la matematica di questo periodo non possa non
intendersi, in riferimento alle ricerche odierne) l'espressione «fondamenti della
matematica »: si può cioè correttamente parlarne solo in riferimento alla geometria e in questo campo si è già accennato che il problema della dimostrabilità
del quinto postulato euclideo risale praticamente all'istituzione stessa, da parte
di Euclide, della sistemazione della teoria geometrica del suo tempo. È opportuno ribadire che controversa non era la questione se il quinto postulato fosse
o no vero, bensì se fosse necessario assumerlo fra le proposizioni indimostrate
della geometria; era infatti costume comune assumere l'esistenza di chiare, semplici e fondamentali proposizioni geometriche delle quali non si dubitava minimamente, grazie all'evidenza, garantita dall'intuizione, della loro verità.
A questa concezione « intuitiva » della geometria darà una perfetta sistemazione teorica proprio Kant. Spazio e tempo sono intuizioni pure, e la geometria
euclidea, in quanto traduce correttamente ed esattamente la struttura del nostro
spazio fisico non può essere che quella che in effetti è: una costruzione assoluta,
fondata su principi altrettanto indubitabili e assoluti. Si ricordi che per Kant
la geometria costituiva un esempio paradigmatico di conoscenza sintetica a
priori: infatti essa è complessivamente certa in un modo che non richiede di essere
giustificato dall'esperienza (ossia è a priori) e d'altra parte i suoi teoremi ci dicono
pur qualcosa intorno al mondo, allo spazio fisico che ci circonda (e cioè è sintetica). Ma Kant, ripetiamolo, non farà che sistemare filosoficamente una concezione che si era tramandata fin dall'antichità greca, per quanto riguarda la natura
della geometria come interprete fedele e assoluta della struttura dello spazio
fisico. Si comprende quindi come, sulla base di questa convinzione, i tentativi
succedutisi nei secoli di risolvere il problema relativo al quinto postulato degli
Elementi fossero sostanzialmente tutti rivolti a ridurre il postulato stesso a teorema o a sostituirlo con proposizioni più evidenti.
Il vero problema, si comincia qui chiaramente a comprendere, era quello
di chiedersi se il postulato euclideo dovesse essere necessariamente vero, se il
postulato fosse dimostrabile, invece di ritenerlo assolutamente vero a priori o di
impegnarsi testardamente nel tentativo di dimostrarlo. Questa corretta impostazione del problema, per noi oggi tanto naturale, comporta in effetti tutto un ripensamento sulla natura degli assiomi e dei postulati, sul significato stesso dell'intera geometria nei rapporti con l'esperienza e richiedeva, per essere raggiunta,
un profondo mutamento di mentalità rispetto a quello dei matematici « settecenteschi». Una volta postesi le domande precedenti con disposizione, libera da
preconcetti, ad accettarne tutte le implicite conseguenze, si giungerà appunto
alla costituzione delle geometrie non euclidee, ossia si arriverà a vedere che il
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Logica e fondamenti della matematica
quinto postulato non è che una di molte possibili ipotesi, tutte coerenti con i
rimanenti postulati, che permette di edificare una corretta teoria delle parallele;
verrà così chiarito nel contempo che, lungi dal dipendere dai rimanenti postulati
una tale ipotesi è indispensabile per lo svolgimento della teoria stessa.
Sembra sia stato Gauss - come vedremo nel capitolo vn della sezione vr
- il primo a riconoscere concretamente che solo un'indagine empirica dello
spazio può farci decidere della geometria che può meglio descriverlo: una volta
realizzato che le geometrie non euclidee possono essere logicamente consistenti,
non siamo più autorizzati a decidere, senza opportuni esperimenti empirici, quale
geometria valga in natura (a questo proposito risulterà di particolare importanza
e utilità il teorema sulla somma degli angoli interni di un triangolo che incontreremo spesso nelle pagine seguenti). Gauss fu dunque il primo a «pensare», se
così si può dire, in modo non kantiano intorno al problema complessivo della
struttura dello spazio e ciò in un periodo - la fine del Settecento - nel quale
proprio sotto l'influenza della filosofia kantiana l'idea di una indagine empirica
circa la struttura dello spazio stesso veniva considerata praticamente un assurdo.
Nei paragrafi successivi non giungeremo al cuore del problema in quanto
la scoperta «ufficiale» delle geometrie non euclidee si avrà solo negli anni
trenta dell'Ottocento, ossia in un periodo di cui ci occuperemo nel prossimo
volume. Ci è parso però opportuno giustificare fin da ora l'ampio spazio dedicato al problemadell'indipendenza del quinto postulato euclideo (e alla connessa
scoperta delle geometrie non euclidee), in quanto questo problema occupa, per
i successivi sviluppi della matematica, della logica e della stessa filosofia, una
posizione centrale che può essere così brevemente illustrata.
I) Per la matematica si realizza intanto che anche la geometria è una scienza
empirica, o quanto meno che va fatta una distinzione fra geometria « matematica » e geometria « fisica ». Questo mutamento di prospettiva verrà compiutamente espresso da Hilbert nelle Grundlagen der Geometrie (Fondamenti della geometria) del I9oo, dove viene codificata l'idea che era venuta progressivamente
imponendosi delle costruzioni matematiche come sistemi ipotetico-deduttivi, le
cui proposizioni fondamentali cioè non trascrivono alcuna verità assoluta, ma
sono semplicemente ipotesi, « cominciamenti » di costruzioni formali, e non
principi indubitabili.
2.) Per quanto riguarda la logica, quella della scoperta delle geometrie non
euclidee è, a nostro parere, una delle componenti indirette della massima importanza per la sua rinascita. È infatti chiaro, in vista· anche di quanto detto al punto
I), che se i principi di una teoria perdono il carattere di verità evidente garantita
dall'intuizione, l'unica garanzia che ci resta per considerare una tale teoria come
una costruzione matematica lecita è almeno la sua non contradditorietà, ossia la
certezza, di natura puramente logica, che se i principi in questione sono non contraddittori i nostri successivi passi di derivazione dei teoremi conservino per
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Logica e fondamenti della matematica
così dire questa caratteristica, siano cioè rigorosamente sottoposti al vaglio di
una operante ed efficace logica deduttiva.
3) Per quanto infine riguarda la filosofia, come già si può desumere da quanto
sopra detto, la scoperta delle geometrie non euclidee costringe a rivedere l'idea
che il concetto di spazio sia kantianamente dato da un'intuizione pura a priori,
rendendo evidente che si possono escogitare ed eseguire esperimenti per stabilire
che tipo di spazio (euclideo o no, ed eventualmente con quali caratteristiche)
sia lo stesso spazio fisico della nostra esperienza.
Chiarita così brevemente l'importanza del problema per la scienza e la filosofia moderne, confidiamo che il lettore sia convinto dell'opportunità, prima di
prendere in esame nel paragrafo IX lo sviluppo settecentesco di questo problema, di ridare uno sguardo generale d'assieme all'opera euclidea (paragrafo vn)
e di ricapitolare i ripetuti tentativi compiuti dai vari autori antecedenti al periodo
che qui ci interessa per dimostrare il postulato delle parallele (paragrafo vm).
VII · GLI ELEMENTI DI EUCLIDE
Come risulta già noto al lettore in base a quanto fu esposto nella I sezione
della presente opera, Euclide non fu certamente il primo geometra greco che si
accingesse alla composizione di Elementi di geometria. Era per lo meno stato preceduto dal famoso Ippocrate (di poco anteriore a Platone, e quadratore delle celebri« lunule »)e da Teudio di Magnesia, contemporaneo di Aristotele. Ma con i
suoi Elementi Euclide riuscì a stabilire il modello tipico, destinato a rimanere tale
per oltre duemila anni, del rigore dimostrativo cui era giunta la matematica greca,
fornendo una ineguagliabile esemplificazione di quella che può essere chiamata
l'assiomatica antica. In tale assiomatica si riconosce la convergenza di due distinti
criteri, l'uno, quello di dimostrabilità, puramente logico, l'altro, quello di evidenza, di natura extralogica, che concorrono a costituire e caratterizzare l'insieme delle proposizioni vere di una teoria. Si tratta infatti, dopo aver stabilito
dei termini e delle proposizioni primitive la cui intelleggibilità, rispettivamente,
verità, viene garantita dall'evidenza, di ricavare ogni altra proposizione della geometria dimostrandola a partire dalle proposizioni e in base ai termini così ammessi
(in funzione dei quali deve essere definito ogni altro termine introdotto nella
teoria). Questa struttura logica di massima (sulla quale torneremo dopo aver
illustrato brevemente il. contenuto dell'opera euclidea) viene esemplificata nei
I 3 libri che costituiscono gli Elementi (un quattordicesimo e un quindicesimo
libro, un tempo considerati facenti parte dell'opera, sono sicuramente spuri).
Il libro I (che ci interesserà più da vicino nel seguito) si apre con 2 3 definizioni di nozioni elementari quali punto, retta, superficie, angolo, rette parallele,
ecc. cui segue l'elencazione dei 5 postulati e delle 5 «nozioni comuni» (assiomi)
che reggeranno l'intera costruzione euclidea. Vi vengono quindi dimostrati riI
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gorosamente 48 teoremi che costituiscono la teoria elementare dei triangoli, delle
parallele e dell'equivalenza di poligoni.
Il libro II si apre con 2 definizioni e contiene I 4 proposizioni di « algebra
geometrica »: si tratta cioè di teoremi costituenti la versione geometrica di problemi la cui soluzione in termini algebrici comporta la considerazione di equazioni di primo e secondo grado.
Il libro m inizia con I I definizioni di nozioni quali cerchi uguali, cerchi tangenti, arco di cerchio, corda, settore circolare, ecc. e contiene 37 proposizioni
ad esse relative, costituenti la teoria elementare dei cerchi.
Il libro IV, che inizia con 7 definizioni (figure circoscritte e inscritte in un
cerchio, ecc.), tratta in I 6 proposizioni la teoria dei poligoni inscritti e circoscritti
a una circonferenza.
Il libro v, il cui contenuto risale certamente a Eudosso, si apre con I8 definizioni e tratta, in 2 5 teoremi, della teoria delle proporzioni da un punto di vista
generale, ossia per grandezze qualsiasi.
Alle 4 definizioni iniziali del libro VI seguono 33 proposizioni nelle quali
viene sviluppata per figure geometriche particolari la teoria delle proporzioni
data in generale nel libro precedente.
I successivi libri VII, VIII e IX sono strettamente collegati fra loro; solo
il primo di essi si apre infatti con 22 definizioni di concetti numerici (unità,
numero, numero pari, numero dispari, numero primo, numero perfetto, ecc.)
e i teoremi dei tre libri sono tutti relativi a questi concetti. In particolare, il libro
VII tratta nelle sue 39 proposizioni della teoria della divisibilità e della teoria
delle proporzioni fra interi; i libri vm e IX, rispettivamente con 2 7 e 36 proposizioni, proseguono la trattazione della teoria delle proporzioni, con particolare riguardo alle (( proporzioni continue » ossia alle progressioni geometriche.
Vogliamo ricordare che il libro IX contiene fra gli altri alcuni famosissimi teoremi euclidei, come quello sulla unicità della scomposizione in fattori primi (proposizione 14) o quello sulla infinità dei numeri primi (proposizione 20).
Il libro x, di lettura particolarmente difficile e per la materia trattata e per
il linguaggio geometrico impiegato, si apre con 4 definizioni (grandezze commensurabili e incommensurabili, razionali e irrazionali) e svolge ben I I 5 proposizioni della teoria degli irrazionali quadratici e biquadratici.
I rimanenti libri xi, XII e XIII formano ancora un· tutto unico dedicato in
generale alla geometria solida. Solo il primo di essi si apre infatti con 28 definizioni di nozioni appunto di stereogeometria, la cui teoria viene quindi svolta
nelle 39 proposizioni di questo libro e nelle 36 dei rimanenti due (con I 8 proposizioni ciascuno).
La struttura logica degli Elementi è così venuta implicitamente chiarendosi
in questa succinta descrizione del loro contenuto: oltre ai termini che hanno funzione definitoria e che compaiono all'inizio di ogni libro, o gruppo di libri che
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trattano dello stesso argomento (ad esempio, del gruppo costituito dai libri vn,
VIII e rx), all'inizio del solo libro r compaiono gli assiomi o nozioni comuni e i postulati,l Su questi assiomi e questi postulati è fondato l'aspettt.~ più
propriamente deduttivo degli Elementi, nel senso che ogni altra proposizione
dell'opera viene accettata in forza di una rigorosa dimostrazione basata su quelle
proposizioni iniziali (o, ovviamente, su proposizioni già dimostrate); in altri
termini, la verità delle ulteriori proposizioni geometriche viene ricondotta dimostrativamente alla verità delle proposizioni iniziali assunta come evidente,
e viene da questa garantita.
In particolare, i cinque postulati che Euclide pone alla base della sua costruzione sono i seguenti:
« Si postula che :
1) da qualsiasi punto si possa condurre una retta a ogni altro punto;
z) ogni retta terminata [ossia ogni segmento] si possa prolungare continuamente, per diritto;
3) con ogni centro e ogni distanza si possa descrivere una circonferenza;
4) tutti gli angoli retti sono uguali fra loro;
5) se una retta, incentrandone altre due, forma gli angoli interni da una stessa
parte minori di due retti, le due rette prolungate all'infinito si incontrino, dalla
parte in cui sono i due angoli minori di due retti. »
/ _____
-----"77,.--b
+
Con riferimento alla situazione illustrata in figura, si richiede che se ot ~ < I 8o0 ,
allora le due rette a e b si incontrino dalla parte di ot e ~Non affrontando qui il problema di altre deficienze che la critica moderna
ha messo in luce relativamente alla costruzione assiomatica euclidea, il « neo »
per eccellenza fu considerato dagli stessi primi commentatori di Euclide appunto
quello dell'ammissione dell'ultima delle proposizioni precedenti come postulato:
essa non ha infatti le stesse peculiari caratteristiche di « evidenza » godute dalle
altre quattro; è anzi estremamente probabile che tale fosse anche la convinzione di Euclide, il quale non impiega il postulato in questione se non nella
proposizione z9 del libro r (in linguaggio moderno: due rette parallele tagliate
in volta applicate (ad esempio « il tutto è magdella parte» che è il quinto assioma euclideo);
i postulati invece sonO proposizioni primitive la
cui verità è sì assunta come evidente, ma la cui
validità è per così dire limitata al campo speci- ·
fico della scienza che li assume.
1 Secondo una distinzione oggi in generale
non più riconosciuta dalla logica moderna, gli
assiomi sono quelle proposizioni primitive che
enunciano affermazioni che si ritengono evidentemente vere in generale, indipendentemente cioè
dal campo particolare cui vengono di volta in
l
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da una trasversale tormano angoli alterni uguali, angoli corrispondenti uguali,
angoli coniugati supplementari) dopo di che esso diventa anche operativamente
una delle basi fondamentali per l'intero sistema. Va notato che nella definizione 23
del libro I Euclide aveva definito « parallele » due rette che prolungate indefinitamente in entrambe le direzioni non si incontrano mai; si osservi infine
che il quinto postulato viene spesso presentato (oltre che come « postulato delle
parallele» o semplicemente « postulato di Euclide») come « postulato dell'unicità della parallela » in quanto la proposizione che, per un piano, a una retta data
possa condursi una, e una sola, parallela per un punto fuori di essa, si ricava
dalla proposizione 30 del libro I (rette parallele a una stessa retta sono parallele fra loro) e può dimostrarsi logicamente equivalente al quinto postulato.
Questa equivalenza può aiutare a meglio comprendere il difetto di evidenza
lamentato nella proposizione euclidea: è chiaro infatti che in una regione piana,
per quanto grande ma comunque accessibile ai nostri sensi o alla nostra intuizione
diretta, dati una retta e un punto fuori di essa noi possiamo realmente pensare
a infinite rette che passano per quel punto e non incontrano la retta data; ora,
affermare che al di fuori del campo della nostra possibile esperienza (campo che,
per quanto grande, è pur sempre limitato) tutte quelle rette meno una incontrino
la retta data è indubbiamente una impegnativa estrapolazione che ci porta ben
al di là dei dati dell'osservazione e dell'intuizione.
VIII · LA CRITICA AL QUINTO POSTULATO FINO AL SACCHERI
Come si è poco sopra accennato già i primi commentatori degli Elementi
cercarono di eliminare dalla sistemazione euclidea il « neo » rappresentato dall'assunzione del quinto postulato (costituendo una relativa teoria rigorosa delle
parallele) dando così origine a tutta una serie di tentativi in questo senso che,
succedutisi nel corso dei secoli, portarono infine alla scoperta delle geometrie
non euclidee nei primi decenni del XIX secolo. Per quanto talora estremamente
diversi fra loro, tutti questi vari tentativi possono sostanzialmente farsi rientrare in
uno dei seguenti tre tipi, non necessariamente escludentisi fra loro: I) assunzione
di una definizione di rette parallele diversa da quella euclidea; z) sostituzione del
quinto postulato con un'altra proposizione più intuitiva, ossia la cui verità risultasse più «evidente», e quindi di più facile accettazione; 3) dimostrazione del
postulato come teorema, deducendolo dai quattro postulati rimanenti. In questo
paragrafo accenneremo brevemente ai più importanti tentativi nelle varie direzioni che si possono riscontrare fino al XVIII secolo.
Per quanto riguarda l'antichità, la nostra migliore fonte d'informazi9ne in
proposito è Proclo (410~485) che prima di presentare una propria personale
proposta di soluzione riferisce su vari tentativi di predecessori, a cominciare da
quello di Posidonio (I secolo a. C.). Questi tenta di sup~rare la questione dando
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una diversa definizione di parallelismo: due rette sono parallele quando sono
complanari ed equidistanti. Con un tale artificio però non si fa che spostare la
questione, non la si risolve: in tal caso infatti si rende necessario o dimostrare
che il luogo dei punti equidistanti da una retta e giacenti da una parte di essa è
a sua volta una retta (e questa dimostrazione richiede l'impiego del postulato
euclideo) oppure si deve postulare l'esistenza di coppie di rette che godano di
queste proprietà e quindi assumere un nuovo postulato certamente non più
evidente di quello euclideo. Altro tentativo riferito da Proclo è quello di Tolomeo
(n secolo d. C.) il quale tenta di dimostrare il quinto postulato deducendolo dalla
proposizione che la somma degli angoli interni di un triangolo è uguale a due
retti. Da questa proposizione il postulato euclideo si ottiene in effetti facilmente,
ma Tolomeo, per dimostrare la proposizione da cui prende le mosse, fa l'ipotesi
che se quel caso si verifica per un triangolo lo stesso si verifica per tutti, la quale
ipotesi è per lo meno così poco evidente quanto lo stesso postulato euclideo.
Nel prospettare la propria proposta di soluzione del problema, Proclo dichiara che si rifiuta di assumere come postulato una proposizione (la proposizione euclidea, appunto) la cui inversa è un teorema. Egli osserva infatti che la
proposizione inversa del postulato euclideo è nient'altro che la diciassettesima
del libro I degli Elementi, la quale afferma che la somma di due angoli interni di un triangolo è minore di due angoli retti. Proclo assume quindi come
nuovo postulato il fatto che la distanza fra due punti presi su rette intersecantesi
può essere resa grande a piacere prolungando sufficientemente le due rette, donde
deduce il lemma secondo il quale una retta che incontri una di due rette parallele
deve incontrare anche l'altra. In questa dimostrazione tuttavia Proclo introduce
l'ipotesi che la distanza fra le due parallele rimane finita; e da questa ipotesi si
può dedurre logicamente il postulato euclideo (senza contare il fatto che già l'assunzione del nuovo postulato, che Proclo ricava da un passo di Aristotele,
non risulta di certo più « evidente » di quello euclideo).
Altre critiche e vari tentativi di emendare gli Elementi vennero successivamente avanzati anche dai commentatori arabi, che introdussero ipotesi o adottarono procedimenti dimostrativi talora geniali. Qui ci limitiamo a ricordare l'opera
di Anarizio (Al Narizi, IX secolo) tradotta in latino da Gherardo da Cremona
(xn secolo) Euclidis Elementa ex interpretatione Al Hadschdschadschii cum commentariis Al Narizii (Gli Elementi di Euclide nell'interpretazione di Al Hadschdschadsch
commentati da Anarizio) che segue sostanzialmente il procedimento di Posidonio,
fondando la sua presunta dimostrazione del quinto postulato sulla assunzione che
esistono rette equidistanti, e l'originale tentativo di Nasir ed Din (12o1-74)
il quale si fonda su un'ipotesi (a sua volta ben poco «evidente») dalla quale è
possibile derivare immediatamente che la somma degli angoli interni di un triangolo è uguale a due retti e quindi, da questo risultato, ottenere subito il postulato
euclideo (che gli è equivalente).
q6
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Logica e fondamenti della matematica
Durante il rinascimento e il xvn secolo, le critiche al postulato euclideo
vennero iniziandosi soltanto dopo che fu possibile disporre della versione latina
dei commentari di Proclo (che vennero stampati a Basilea nel I 533 in originale
e quindi in latino a Padova nel I 5Go) e comunque praticamente nella seconda
metà del secolo. Di questo periodo ricorderemo per lo più solo dei nomi, soffermandoci brevemente su quegli autori che appaiono più significativi per eventuali
spunti originali nelle loro critiche. Così F. Commandino (I 509-7 5) negli Elementorum libri xv (I quindici libri degli Elementi) stampati a Pesaro nel I 57 2 segue
la dimostrazione di Proclo per il quinto postulato, dopo aver aggiunto l'idea di
equidistanza nella definizione euclidea di parallele; R. S. Clavio (I 537-I612)
negli Euclidis elementorum libri xv (I quindici libri degli Elementi di Euclide) stampati
a Roma nel I574, si rifà a sua volta a Proclo criticandolo, quindi tenta di dare
una propria dimostrazione del postulato euclideo fondata sull'ipotesi che la linea
equidistante da una retta è a sua volta una retta seguendo sostanzialmente la
dimostrazione di Nasir ed Din. La prima opera esclusivamente dedicata al problema delle parallele è l'Operetta delle linee rette equidistanti et non equidistanti (Bologna I6o3) di P. A. Cataldi (I 552-I6z6) ove però l'autore, per la dimostrazione
del quinto postulato, si fonda su un'ipotesi già avanzata da Nasir ed Din. Giovanni
Alfonso Barelli (I 6o8-79) fa intervenire il concetto di movimento nella sua trattazione del problema e definisce le parallele come rette equidistanti nel celebre Euclide
restitutus che pubblica a Pisa nel I658. Degna di nota è l'opera di Giordano Vitale
(I633-I7I I) che nel suo Euclide restituto overo gli antichi elementi geometrici ristaurati,
efacilitati. Libri xv stampato a Roma nel I68o, ritorna all'idea di Posidonio riconoscendo però la necessità di escludere che rette parallele in senso euclideo
siano asintotiche (ossia si avvicinino indefinitamente senza tuttavia incontrarsi);
tenta quindi di dimostrare che il luogo dei punti equidistanti da una retta è ancora una retta. Nell'opera di Vitale si possono riscontrare notevoli spunti originali,
alcuni dei quali verranno ripresi dal Saccheri.
Uno dei più notevoli tentativi compiuti nel xvn secolo per dimostrare il
quinto postulato euclideo è quello di John Wallis (I6I6-17o3) il quale, considerata l'infruttuosità della via battuta da molti suoi predecessori e fondata sul
concetto di equidistanza, pone alla base della propria dimostrazione del postulato
(e quindi della ricostruzione della teoria delle parallele) l'assioma secondo il
quale, data una figura, ne esiste un'altra ad essa simile e di dimensioni arbitrarie.
In effetti il Wallis si serve di questa postulazione solo per il caso dei triangoli e
il Saccheri dimostrerà che l'assumere questo postulato è equivalente ad assumere
l'ipotesi dell'angolo retto, ossia il postulato euclideo; senza contare d'altra parte
che il concetto di « forma » cui implicitamente rimanda in modo immediato la
nozione di« similarità »che compare nel postulato del Wallis, è fra i più complessi
di tutta la geometria e abbisognerebbe comunque a sua volta di una estremamente
difficile chiarificazione preliminare.
I
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IX · I PRECURSORI DELLE GEOMETRIE NON EUCLIDEE
Siamo così giunti al XVIII secolo, ossia al secolo dei veri e propri precursori
delle geometrie non euclidee. Si è già accennato infatti che i tentativi secolari di
dimostrazione del quinto postulato di Euclide sfoceranno nei primi decenni del
XIX secolo nella costituzione di geometrie che assumono fra i loro postulati la
negazione del postulato euclideo e che cionondimeno risultano logicamente
coerenti.
I nomi che qui incontreremo saranno, oltre a quelli di Saccheri e Lambert
che abbiamo già visto nell'esporre lo sviluppo delh logica di questo periodo,
quelli di numerosi altri studiosi - in particolare di Adrien Marie Legendre che pur essendo fioriti già nei primi decenni del XIX secolo, possono tuttavia
senza forzature essere associati ai precedenti per quanto riguarda la convinzione
della verità assoluta del postulato euclideo, caratteristica appunto di· tutta la
schiera di precursori, anche in senso stretto, delle geometrie non euclidee.
Si è già detto che Saccheri entra in modo del tutto originale nella preistoria
delle geometrie non euclidee col suo Euclides ab omni naevo vindicatus: sive conatu.r
geometricus quo stabiliuntur prima ipsa universae Geometria Principia (Euclide emendato
da ogni neo, ossia tentativo geometrico col quale si stabiliscono gli stessi primi principi di
geometria universale) stampato a Milano nel 1733, anno stesso della morte del suo
autore. Oltre al neo fondamentale dal quale Saccheri vuole emendare l'opera di
Euclide, la questione del postulato delle parallele, egli ne prospetta un altro,
relativo alla teoria delle proporzioni (del libro v degli Elementi) di cui però non
ci occuperemo qui dato anche che il Saccheri non dimostra, nella trattazione di
questo secondo problema, un'originalità e un rigore paragonabili a quelli esibiti
nella trattazione del primo. I motivi dell'originalità del Saccheri rispetto ai suoi
predecessori (e sostanzialmente anche rispetto ai contemporanei e successori)
sono essenzialmente due:
1) egli affronta la questione da logico, in relazione alle ricerche della Logica
demonstrativa del 1697, ossia non cerca di sostituire il postulato con una diversa
ipotesi o di variare opportunamente la definizione di rette parallele, ma applica
il metodo di ragionamento già elaborato nella sua precedente opera per dimostrare
che il quinto postulato è una conseguenza logica dei rimanenti quattro. Si tratta
di negare (con un'ardita ipotesi) il postulato delle parallele, e di ricavare da questa
negazione tutte le conseguenze logiche necessarie fino a incontrarne una (sulla
cui esistenza il Saccheri non nutre alcun dubbio) che risulti incompatibile col
sistema dei primi quattro postulati di Euclide.
2.) Proprio per questo suo tipo di approccio generale, Saccheri è il primo
a prendere in esame tutte le possibilità che una negazione del postulato in questione comporta e in tal modo egli può considerarsi come precursore di entrambe
le geometrie non euclidee successivamente scoperte, ossia tanto della geometria
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ellittica quanto di quella iperbolica; si pensi che gli stessi fondatori delle geometrie
non euclidee presero in esame il solo caso iperbolico.
Secondo lo Heath, Saccheri « fu vittima della preconcetta convinzione del
suo tempo che la sola geometria possibile fosse quella euclidea, ed egli presenta
lo spettacolo curioso di un uomo che erige a fatica una struttura su nuove fondamenta con l'effettivo proposito di demolirla in seguito; egli cercò contraddizioni nel cuore del sistema che egli stesso aveva costruito, per dimostrare così
la falsità delle sue ipotesi ». Il Saccheri infatti assume come dati (oltre ai primi
quattro postulati euclidei) le prime ventotto proposizioni del libro I (che
sono indipendenti dal quinto postulato) e fa inoltre l'ipotesi che il postulato delle
parallele sia falso: giusto il metodo di ragionamento da lui adottato, cerca fra
le conseguenze di queste ipotesi una proposizione che lo autorizzi ad affermare
la verità del quinto postulato stesso.
Saccheri prende le mosse dalla considerazione di una figura fondamentale,
il quadrilatero birettangolo isoscele
t
B
A
ottenuto innalzando dagli estremi A e B della base AB due lati AD e BC uguali
fra loro e perpendicolari alla base, e dimostra innanzitutto che i due angoli in
C e in D sono uguali (y = ~). Nel caso che questi angoli siano a loro volta angoli retti, siamo nell'ipotesi euclidea, sicché se assumiamo che essi siano o entrambi acuti o entrambi ottusi neghiamo implicitamente, in entrambi i casi, il
quinto postulato di Euclide. Saccheri prende quindi in esame le tre seguenti
ipotesi relative agli angoli y e ~:
I) Ipotesi dell'angolo retto: y
2) Ipotesi dell'angolo ottuso: y
3) Ipotesi dell'angolo acuto: y
=
~ =
=
=
~
~
>
<
900
900
900.
Fra le prime interessanti proposizioni che ricava dalla sua analisi è quella secondo cui, se si può dimostrare vera in un caso singolo rispettivamente l'ipotesi I)
o 2) o 3), allora quella ipotesi vale in ogni caso (proposizioni v, VI, vn). Va quindi
citata la proposizione IX, secondo la quale, a seconda che si assuma l'ipotesi
dell'angolo retto o dell'angolo ottuso o dell'angolo acuto, la somma degli angoli
interni di un triangolo risulta rispettivamente uguale, maggiore, minore di due
angoli retti.
I
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Un primo risultato, riguardante l'insostenibilità dell'ipotesi dell'angolo ottuso, viene ottenuto dal Saccheri nella proposizione XIV. Egli aveva infatti dimostrato (proposizione xm) che il quinto postulato è vero nel caso dell'ipotesi dell'angolo retto e in quella dell'angolo ottuso; e allora basta considerare che valgono anche tutti i teoremi deducibili da quel postulato, in particolare quello
affermante che la somma degli angoli del quadrilatero fondamentale è di quattro
angoli retti; viene quindi a cadere l'ipotesi z) che richiederebbe ovviamente che
questa somma fosse maggiore di quattro retti, donde si ricava che è vera l'ipotesi
dell'angolo retto; in altri termini, afferma il Saccheri, l'ipotesi dell'angolo ottuso «distrugge se stessa». In effetti il procedimento del Saccheri (e quindi la
sua stessa conclusione) è sbagliato. La sua dimostrazione infatti prova semplicemente che l'ipotesi dell'angolo ottuso non è compatibile col sistema complessivo delle altre premesse della geometria che egli ha assunto e richiede quindi
che almeno una di esse - diversa naturalmente dal quinto postulato - venga
abbandonata. In particolare il Saccheri nella dimostrazione della citata proposizione xm fa intervenire le proposizioni I,6 e I 8 del libro I degli Elementi, che
valgono solo sotto l'assunzione che la retta sia infinita, e tale assunzione appunto
non è valida sotto l'ipotesi dell'angolo ottuso.
Comunque sia, conclusa la confutazione della seconda ipotesi senza difficoltà
particolari, si tratta ora per Saccheri di stabilire la falsità della terza ipotesi, quella
dell'angolo acuto. Il problema si presenta qui subito più complesso, tanto che
egli parla di « diuturnum proelium contra hypotesim anguli acuti »; e sarà proprio in occasione di questa dimostrazione che il Saccheri verrà meno a quel sottile rigore logico che aveva sin qui contraddistinto la sua opera. Senza seguire
dettagliatamente i vari passi della complessa confutazione della terza ipotesi, ci
limitiamo a riassumerli come segue.
Nelle proposizioni xxm e xxv Saccheri dimostra che, nella ipotesi dell'angolo acuto, due rette complanari o si incontrano, o ammettono una perpendicolare
comune o infine, da una determinata banda, esse vanno sempre più avvicinandosi
l'una all'altra in modo che la loro distanza diventa minore di qualsiasi segmento
piccolo a piacere. In altri termini, in quest'ultimo caso le due rette si comportano
asintoticamente.
Stabilita l'esistenza di rette asintotiche (si potrebbe dire di «parallele non
euclidee ») nelle proposizioni xxx, xxxi e xxxn giunge a risultati che complessivamente possono essere presentati come segue: nell'ipotesi dell'angolo acuto,
nel fascio di rette per un punto esistono due rette asintotiche ad una retta data
che dividono le rette del fascio in due classi; alla prima classe appartengono quelle
rette del fascio che incontrano la retta data, alla seconda quelle che hanno con
essa una perpendicolare comune. Questa proposizione è illustrata dalla figura
seguente, dove A è il centro del fascio, a la retta data e p e q sono le due rette
asintotiche.
r6o
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-Stabiliti questi teoremi (che verranno « riscoperti », ovviamente in modo
indipendente, dai fondatori della geometria iperbolica) Saccheri ha urgenza di
concludere: il suo ragionamento, finora assai rigoroso, slitta su un piano intuitiv o
e di puro convincimento psicologico quando trasferisce all'infinito concetti e
considerazioni validi per enti posti a distanza finita (cadendo nei facili equivoci
che questo trasferimento comporta) per dimostrare, nella proposizione xxxnr,
che l'ipotesi dell'angolo acuto è assolutamente falsa «perché ripugna alla natura
della retta ». Le considerazioni a questo scopo sono contorte e spesso oscure, ma
nel complesso equivalgono all'affermazione che se l'ipotesi dell'angolo acuto
fosse vera allora le rette a e p della figura precedente avrebbero una perpendicolare
comune nel loro punto comune all'infinito, il che appunto - a suo parere - è
contrario alla natura della retta.
Il Saccheri stesso non fu soddisfatto di questa conclusione, tanto è vero
che cercò di dimostrare di nuovo l'insostenibilità della terza ipotesi ricorrendo
a una argomentazione fondata sul vecchio concetto di equidistanza; ma in questo
suo secondo approccio non ottenne ovviamente alcun risultato che possa qui
interessarci e che comunque aggiunga qualcosa ai meriti, peraltro grandissimi,
del Saccheri.
L'opera del Saccheri suscitò indubbiamente larga eco fra i suoi contemporanei, anche se cadde ben presto nella dimenticanza più assoluta. Essa ad esempio
viene citata nella storia della matematica di J. C. Heilbronner, edita a Lip sia nel
1742, come pure nella notissima storia della matematica del Montucla, pubblicata a Parigi nel I 7 58. Va menzionata però in particolare la citazione che ne fa
G. S. Kliigel nel suo esame di una trentina di « dimostrazioni» del quinto postulato euclideo.
Il lavoro di Kliigel è rimarchevole soprattutto per la sua conclusione che
sembra per la prima volta avanzare qualche dubbio sulla dimostrabilità del quinto
postulato, sostenendo che la certezza della sua verità è più frutto di osservazioni
sperimentali che non di rigorosa dimostrazione; si tratta del noto Conatum praecipuorum theoriam parallelarum demonstrandi recensio, quam publico examini submittent
A. G. Kaestner et auctor respondens G. S. Kliigel (Rassegna dei principali tentativi di
dimostrare la teoria delle parallele, che viene sottoposta al pubblico esame da A. G. Kaestner
e dall'autore responsabile G. S. Kliigel), pubblicato a Gottinga nel 1763 e molto
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citato da Lambert nella sua Theorie der Parallellinien (Teoria delle parallele) composta
nel 1766 ma pubblicata postuma solo nel 1782 da Bernoulli e Hindenburg. Si
può dunque senz'altro affermare che Lambert conoscesse l'opera di Saccheri
e la cosa sarebbe anche confermata - come vedremo - dall'analogia della
figura fondamentale che Lambert stesso pone alla base della sua indagine. Resta
comunque il fatto che Lambert riuscì ad andare molto più al di là di Saccheri
nello sviluppare le conseguenze delle due ultime ipotesi; probabilmente il non
aver pubblicato le proprie r.iflessioni sull'argomento sta a significare per l'appunto
che Lambert nutriva un ragionevole dubbio circa la validità incondizionata del
postulato euclideo: ma tanto su questa ipotesi quanto sulla precisazione di una
eventuale effettiva influenza dell'opera di Saccheri su Lambert siamo costretti
ancora oggi nell'ambito delle congetture.
L'opera sopra citata di Lambert è composta di tre parti, nella prima delle
quali viene discussa la possibilità che il quinto postulato sia dimostrabile dai
primi quattro o se invece occorra assumere, allo scopo, qualche altra ipotesi;
nella seconda vengono presi in esame vari tentativi di ridurre il postulato in
questione ad altre proposizioni semplici che richiedono tuttavia a loro volta di
essere dimostrate; la terza infine, che è quella sulla quale riferiremo brevemente,
contiene una ricerca analoga a quella condotta da Saccheri.
Lambert assume come figura fondamentale il quadrilatero trirettangolo, ossia
con tre angoli retti, e le analoghe ipotesi del Saccheri vengono fatte sulla natura
del quarto angolo.
D
../3
,.
c
.,'-...
~,
~
B
Le tre ipotesi di Lambert (che noi riferiremo anche, come al solito, quale prima,
seconda, terza ipotesi rispettivamente) sono:
I) Ipotesi dell'angolo retto: y = 9oo
z) Ipotesi dell'angolo ottuso: y > 9oo
3) Ipotesi dell'angolo acuto: y < 9oo
Dimostra anch'egli la validità generale di ognuna di queste ipotesi qualora sia
possibile dimostrarla per un caso, e procede quindi a escludere l'ipotesi dell'angolo ottuso (è chiaro che la prima ipotesi dà luogo al sistema euclideo) dimo1strando facilmente come a partire da essa possa derivarsi una contraddizione.
····Per quanto riguarda la terza ipotesi, egli trova intanto che in questo caso la
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somma degli angoli interni di un triangolo è minore di due retti e generalizzando
il ragionamento di Saccheri introduce il concetto di difetto di un poligono, che è
dato appunto dalla differenza fra z (n- z) angoli retti e la somma degli angoli
interni del poligono stesso, dove n è il numero dei suoi lati. Dimostra quindi
che questo difetto è proporzionale all'area del poligono.
Altra considerazione notevole di Lambert connessa a questo risultato e sulla
quale si baserà la refutazione dell'ipotesi dell'angolo acuto, consiste nella scoperta che in una geometria fondata su questa ipotesi è possibile assegnare una
unità assoluta di lunghezza cosicché ogni misura di lunghezza verrebbe appunto
ad avere un valore assoluto a differenza di quanto avviene nell'ordinaria geometria dove, come noto, la misura ad esempio di un segmento è relativa all'unità di
misura scelta. Lambert scopre che a ogni segmento può essere associato un angolo definito e facilmente costruibile (si ricordi che per un angolo è facile dare
una misura assoluta, basta esprimerlo per esempio in radianti). Ad esempio,
dato un segmento, si può pensare di costruire su di esso un triangolo equilatero
e quindi di assegnare al segmento l'angolo di tale triangolo (si ricordi che siamo
nell'ipotesi dell'angolo acuto e che sostanzialmente affermare l'esistenza di una
unità di misura assoluta significa che non possono esistere figure simili e non
uguali). Si ottiene così una corrispondenza biunivoca fra angoli e segmenti che
può condursi ad avere tutte le usuali proprietà della ordinaria misura, anche se
a prezzo di certe, del resto elementari, complicazioni.
In definitiva, la possibilità di costruire l'unità assoluta di misura dipende
dalla possibilità di costruire (sempre nell'ipotesi dell'angolo acuto l) un triangolo
equilatero di dato difetto. D'altra parte possiamo generalizzare, assegnando una
misura assoluta anche all'area di un poligono (semplicemente: il suo difetto)
come pure al volume di un poliedro; ma, osserva Lambert, tutto ciò non si
accorda con l'ordinaria intuizione dello spazio, sicché va rigettata la possibilità
di stabilire misure assolute per lunghezze, aree e volumi: ne viene di conseguenza che va refutata l'ipotesi dell'angolo acuto di cui questa possibilità è conseguenza (tralasciamo qui di prendere in esame il problema se analoghe considerazioni non possano farsi anche sotto l'ipotesi dell'angolo ottuso).
Lambert mette per primo in evidenza la stretta analogia fra geometria su
una sfera e geometria piana sotto l'ipotesi dell'angolo ottuso e osserva che la
geometria sferica è indipendente dal postulato delle parallele. Citiamo ancora la
sua acuta, si potrebbe dire « profetica », osservazione che l'ipotesi dell'angolo
acuto dovrebbe essere verificata nel caso di una« sfera immaginaria». Un suggerimento per questa sua osservazione può essergli venuto dal momento più propriamente« tecnico» delle sue riflessioni: egli dà infatti, per l'area~ di un triangolo piano nell'ipotesi dell'angolo acuto, la seguente formula
~ =
k(1t- A - B - C)
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e in quella dell'angolo ottuso
!::.
= k (A
+ B + C- re)
dove k è una costante. Se nella (2) si pone k = r 2 si ottiene l'area del triangolo
sferico (su una sfera di raggio r) e se ora si opera la sostituzione r = r
I
(ossia se ci si pone su una sfera di raggio immaginario) e si pone quindi r 2 = k,
si ottiene proprio la (I).
Come già abbiamo accennato, ricorderemo ora alcuni autori che sebbene
da un punto di vista cronologico non appartengono tutti, a rigore, al periodo da
noi preso in esame, sono tuttavia « settecenteschi » per quanto riguarda il loro
approccio al problema qui esaminato. Va detto intanto che nel xvm secolo il
discorso sui fondamenti della geometria, oltre che in Italia dove il Saccheri appare peraltro come isolato, si sviluppa essenzialmente in Germania, in particolare verso la fine del secolo e segnatamente sotto l'influenza di Gauss, che incontreremo fra i fondatori delle geometrie non euclidee. Ma il problema era sentito
in tutta Europa. In Francia ad esempio, oltre al Legendre al quale va dedicato
un discorso a parte, altri numerosi e noti scienziati non mancano di pronunciarsi
sull'annosa questione. Così ad esempio J. le Rond d'Alembert (I7I7-83) il
quale riteneva che « la definizione e le proprietà della retta così come delle parallele sono lo scoglio e per così dire lo scandalo degli elementi della geometria ».
Egli propone di definire la parallela a una retta come l'altra retta ad essa complanare che unisca due punti dalla stessa parte e alla stessa distanza della retta data,
e lascia in certo senso come compito ai contemporanei di dimostrare che le rette
così ottenute sono equidistanti. J. L. Lagrange (I736-I813) scrisse addirittura
una memoria sulla teoria delle parallele, che però ritirò al momento di darne
lettura in una seduta dell'accademia delle scienze; L. N. M. Carnot (1753-1823)
e P. S. Laplace (I749-I827) studiano il problema partendo entrambi da nozioni
di similarità analoghe a quelle del Wallis che vengono tuttavia giustificate, in
particolare da Laplace, con considerazioni di carattere analogico meccanico.
Notevole ancora la posizione di J. B. Fourier (I768-I83o) per una sua discussione
sull'argomento avuta con G. Monge, nella quale sembra assumere un atteggiamento che sarà successivamente peculiare dei fondatori delle geometrie non
euclidee.
Mentre, verso la fine del secolo, gli studi per la costituzione di una rigorosa
teoria « emendata » delle parallele erano orientati in Germania verso ricerche
che almeno in via ipotetica si concretassero in risultati geometrici ottenuti sotto
assunzioni diverse da quella euclidea, ossia in senso che preludeva direttamente la
scoperta delle geometrie non euclidee, in Francia (come del resto in Inghilterra)
malgrado come si è visto l'argomento fosse di piena attualità, l'indirizzo delle
ricerche era in generale di tipo tradizionale: i vari autori erano cioè impegnati
V-
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nel tentativo di dimostrare il quinto postulato. In questo senso si muovono anche
le ricerche del più noto studioso francese della questione, cui abbiamo avuto occasione di accennare più volte: Adrien Marie Legendre (I7F-I8H)· Questi
compì una serie di indagini che venne via via esponendo nelle I z successive edizioni, dal I794 al I8z3, dei suoi fortunati Elements de géometrie (Elementi di geometria) e raccolse inoltre i contributi specifici al problema del quinto postulato
in una memoria presentata nel I 8 33 all'accademia delle scienze di Parigi, dal
titolo Rejléxions sur différentes manières de démontrer la théorie des parai/è/es ou le théorème sur la somme des trois angles du triangle (Riflessioni su differenti maniere di dimostrare la teoria delle parallele o il teorema sulla somma dei tre angoli del triangolo).
Suo punto fermo di partenza è dunque la riduzione del postulato delle parallele a teorema, ossia la dimostrazione del quinto postulato. Le sue diverse
dimostrazioni si differenziano, oltre che naturalmente a livello puramente « tecnico », per le ipotesi diverse che, come vedremo, egli assume di volta in volta;
esse tuttavia hanno tutte in comune il punto di approccio in quanto Legendre
vuoi giungere a provare il postulato ricavandolo dalla proposizione, che quindi
deve preliminarmente dimostrare, che la somma degli angoli interni di un triangolo è uguale a due angoli retti.
Egli intanto comincia col refutare l'ipotesi dell'angolo ottuso dimostrando
che la somma degli angoli interni di un triangolo è non maggiore (ossia minore
o uguale) a due angoli retti. Sappiamo che questa proposizione era già stata
dimostrata da Saccheri nella propria refutazione dell'ipotesi dell'angolo ottuso,
ma è passata nella letteratura come primo teorema di Legendre; del resto è nota
nella letteratura come secondo teorema di Legendre un'altra proposizione che
sappiamo già dimostrata da Saccheri, e che potremmo dire della generalizzazione, in quanto afferma che se uno dei due casi (somma minore o uguale a
I 8o 0 ) si verifica per un solo triangolo, allora lo stesso caso si verifica per tutti i
triangoli.
Dimostrati questi teoremi, Legendre refuta l'ipotesi dell'angolo acuto, vale
a dire dimostra che la somma degli angoli interni di un triangolo è proprio uguale
a due retti, con un'argomentazione affine a quella .usata per lo stesso scopo da
Lambert, basata cioè sull'impossibilità dell'esistenza di un'unità assoluta di lunghezza. Stabilita quindi la validità dell'ipotesi dell'angolo retto, Legendre deriva
il postulato delle parallele nella forma dell'unicità, ossia dimostra la seguente
proposizione: se la somma dei tre angoli interni di un triangolo è uguale a due
retti, per ogni punto di un piano può condursi una e una sola parallela a una
retta data.
Alcune delle ipotesi cui Legendre fa di volta in volta ricorso nelle sue varie
dimostrazioni sono le seguenti:
I) Da un punto preso arbitrariamente nella porzione di piano determinata
da un angolo è possibile tracciare una retta che taglia entrambi i lati dell'angolo;
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z) La scelta dell'unità di lunghezza non influenza la verità di ciò che viene
dimostrato (analoga all'ipotesi di Wallis: esistono figure simili di dimensione
arbitraria);
3) Dati tre punti non collineari esiste sempre un cerchio che passa per essi.
Come si vede dunque Legendre per « dimostrare » il postulato euclideo è
costretto a far intervenire assunzioni che o sono equivalenti alla proposizione di
Euclide o non ne sono certamente più « evidenti ». È indubbio che Legendre
abbia svolto un'importantissima funzione e per aver diffuso l'argomento, anche
a livello scolastico, e per aver ottenuto tutta una serie di risultati indipendenti
dalla teoria euclidea delle parallele; va anche detto però che egli non ha contribuito in senso effettivo alla successiva scoperta delle geometrie non euclidee.
Eppure verso la fine del xvnr secolo e l'inizio del xrx, questa scoperta è,
per così dire, nell'aria. Ricordiamo per finire due autori, l'uno ungherese, l'altro tedesco, entrambi in contatto con Gauss, che sia pure in maniera diversa
possono confermarci questa impressione. Il primo di essi è Wolfgang Bolyai
(1775-1856) il quale studia a Gottinga nel periodo 1796-99 e vi è compagno di
Gauss. Non ci è noto con sicurezza quando egli inizia ad interessarsi del problema delle parallele; sta di fatto che tale problema lo affanna per lungo tempo
e che egli giunge a intravedere, pur se vagamente, la possibilità che il postulato
euclideo sia falso. Nel 1 8o4 fa pervenire a Gauss una sua Theoria parallelarum
(Teoria delle parallele) nella quale ritiene di aver dimostrato l'esistenza di rette
equidistanti. Gauss scopre l'errore nella dimostrazione, ma Bolyai prosegue testardamente nei suoi studi giungendo però solo a sostituire la proposizione euclidea con altre più o meno evidenti (e che naturalmente richiedono a loro volta
di essere dimostrate); una delle ipotesi più interessanti dalla quale egli vuol derivare il quinto postulato è espressa dalla proposizione: quattro punti non complanari giacciono sempre su una sfera, che equivale alla terza ipotesi su ricordata
del Legendre che per tre punti non collineari passi sempre un cerchio.
Tanto accanita perseveranza di Wolfgang Bolyai verrà in certo senso compensata dal fatto che toccherà a suo figlio Janos legare il proprio nome alla
scoperta della geometria non euclidea (iperbolica). Quando, nel r8z3, questi
comunica al padre la propria scoperta, Wolfgang lo esorta a pubblicare al più
presto i suoi risultati « primo perché le idee corrono facilmente dall'uno all'altro
che può anticiparne la pubblicazione e, secondo, perché mi sembra vero che
molte cose hanno un'epoca nella quale esse sono trovate nello stesso tempo da
molte parti, proprio come le violette nascono dappertutto in primavera ». Purtroppo passeranno circa dieci anni prima che il lavoro di Janos veda la luce,
sicché la paternità della scoperta verrà assunta, nel r8z9 dal russo Lobacevski.
Le riflessioni di Janos Bolyai verranno infatti pubblicate nel 1832-33 come
appendice di un'opera in due volumi nella quale il padre raccoglie i propri lavori matematici e in particolare i propri tentativi attorno al problema delle par66
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rallele: Tentamen juventutem studiosam in elementa matheseos purae, elementaris ac sublimioris, methodo intuitiva, evidentiaque huic propria, introducendi. Cum appendice
triplici. (Tentativo di introdurre la gioventù studiosa agli elementi della matematica pura,
elementare e superiore, secondo un metodo intuitivo, e con l'evidenza ad esso propria. Con
tre appendici. )1
Il secondo autore cui alludevamo è Friedrich Ludwig W:!.chter (1792-1817).
Visto che, secondo Bolyai, il postulato euclideo dipendeva dal fatto che fosse
possibile tracciare una circonferenza per tre punti non collineari, Wachter ritiene che occorra preliminarmente, per poter stabilire una teoria delle parallele,
tentare di dimostrare questa esistenza. Egli infatti dà alle stampe nel I 8 I 7 una
memoria dal titolo Demonstratio axiomatis geometrici in Euclideis undecimi (Dimostrazione dell'undicesimo assioma geometrico di Euclide),2 dopo che l'anno precedente
ne aveva comunicato il contenuto a Gauss del quale era stato allievo a Gottinga,
ove ritiene di aver dimostrato l'assunto a partire dal postulato seguente: quattro
punti qualsiasi nello spazio determinano completamente una superficie (la superficie dei quattro punti) e due di queste superfici si intersecano in una linea
singola, determinata completamente da tre punti. In effetti in questa sua presunta dimostrazione Wachter non va al di là di elementari considerazioni puramente intuitive, ma fa un'interessantissima osservazione nella succitata lettera
a Gauss. Egli afferma infatti che se il quinto postulato fosse falso ci sarebbe una
geometria sulla superficie cui tenderebbe una sfera quando il suo raggio tende
all'infinito (superficie che nel caso euclideo è appunto un piano) identica a quella
dello spazio ordinario. Wachter e Gauss chiamano antieuclidea questa geometria
e il Sommerville giunge ad affermare che Wachter sarebbe certamente giunto
per primo alla scoperta delle geometrie non euclidee se non fosse morto prematuramente.
I Si osservi che il lavoro di Janos Bolyai non
è, come erroneamente di solito si scrive, una delle
tre appendici cui si riferisce il titolo. Queste sono
inserite regolarmente alla fine del secondo volume,
me.."ltre la memoria del nostro autore venne inserita dal padre alla fine del primo volume, con numerazione separata delle pagine (da I a 26).
2 Il diverso numero d'ordine con cui qui ci
si richiama al postulato euclideo delle parallele
(che viene presentato come undicesimo assioma)
deriva dalle varie interpretazioni che si davano
alla distinzione fra postulato e assioma. Oltre a
quella da noi riportata nella nota I a p. I54,
Proclo dà almeno altre due interpretazioni diverse di tale distinzione e precisamente: I) un postulato differisce da un assioma come un problema
differisce da un teorema (sicché un postulato affermerebbe la possibilità di una costruzione);
u) un assioma è diremmo noi oggi « analitico»,
un postulato è invece una proposizione che pur
non essendo un assioma nel senso precedente
viene accettato senza dimostrazione (questa distinzione risale ad Aristotele). A seconda quindi
del criterio scelto per la distinzione si avrà ovviamente una diversa nùmerazione delle proposizioni primitive di Euclide. Si noti infine che un'analisi più moderna del postulato euclideo delle parallele ha messo in luce che, sulla base dei precedenti criteri, esso risulta una proposizione di tipo
intermedio fra postulati e assiomi, piuttosto che
appartenere definitivamente agli uni o agli altri.
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CAPITOLO SETTIMO
LJesigenza di sistematicità
nella matematica e nella meccanica
I
· CONSIDERAZIONI GENERALI
Per comprendere lo sviluppo delle ricerche fisiche nel Settecento occorre
senza dubbio collegarle alla grande eredità scientifica lasciata da Newton. Come
già abbiamo visto nei capitoli precedenti, la diffusione del newtonianesimo nell'Europa continentale è uno dei fatti più rilevanti della cultura dell'epoca, ricco
di riflessi in tutti i campi del sapere (i vi incluso quello propriamente filosofico);
vi contribuirono insignì filosofi come Voltaire ed eminenti scienziati che, sia
pur distaccandosi talvolta dalle dottrine newtoniane su questo o quel punto
particolare, si posero decisamente sulla via da esse aperta dimostrandone la
straordinaria fecondità. Vi contribuì perfino il padre gesuita Ruggero Giuseppe
Boscovich che- come ha scritto nel 1962. D.J.K. Connell- «fu uno dei primi
a diffondere le teorie newtoniane nel continente europeo» (anche se ne vide alcuni difetti e cercò di correggerli con notevole originalità).
Va subito aggiunto, però, che l'adesione al newtonianesimo assunse -nel
campo specifico degli scienziati - due significati alquanto diversi secondo che
nel far proprie (onde svilupparle e perfezionarle) le teorie del sommo pensatore
inglese, si intendeva porre in primo piano l'una o l'altra delle due fondamentali
esigenze metodologiche presenti nella sua opera: l'esigenza di inquadrare i fenomeni naturali entro costruzioni generalissime rigorosamente elaborate in precise formule matematiche, o quella di fondare le nostre conoscenze fisiche su di
una scrupolosa sperimentazione, evitando il ricorso a gratuite ipotesi esplicative.
Come abbiamo cercato di spiegare nell'ultimo capitolo della sezione IV, Newton
era riuscito ad armonizzare con indubbia maestria queste due esigenze, scrivendo
opere che potevano venire considerate come esemplari da entrambi i punti di vista. È incontestabile però, che tali istanze indicavano due direttrici di ricerca tutt'altro che coincidenti fra loro. Non deve pertanto stupirei se, nel Settecento, si
delineano fra gli stessi scienziati di origine newtoniana tendenze diverse, una
delle quali accentua soprattutto la necessità di sistemare il sapere scientifico in
astratte teorie di carattere matematico, mentre l'altra sottolinea principalmente la
necessità di basare la fisica sopra un'esatta descrizione dei fenomeni.
x68
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L'esigenza di sistematicità nella matematica e nella meccanica
Tenuto conto di ciò, abbiamo ritenuto opportuno -per dare ordine alla nostra
esposizione - scindere le brevi riflessioni che ci accingiamo a fare sul pensiero
fisico del Settecento 1n due capitoli diversi: soffermandod in primo luogo sulla
parte più teorica di esso -la cosiddetta meccanica razionale - che affiancheremo
sia allo sviluppo dell'analisi infinitesimale, cui la meccanica era già inscindibilmente legata nelle stesse opere di Newton, sia al calcolo delle probabilità che
da Laplace in poi diventerà uno degli strumenti fondamentali di tutta la fisica
matematica; e dedicando invece il prossimo capitolo alla fisica sperimentale, che
collegheremo, oltreché - come è ovvio - allo sviluppo della chimica, anche
a quello importantissimo della tecnologia (in particolare al perfezionamento degli
strumenti scientifici). Va naturalmente sottolineato che questa suddivisione ha
soltanto una giustificazione pratica, e non va quindi intesa come rivolta a sostenere
che le due direttrici della ricerca siano state prive di influenze l'una sull'altra.
È tuttavia innegabile che essa accenna, sia pure in forma ancora imprecisa, ad
una differenza assai significativa anche per il filosofo, nel modo di interpretare
il concetto di scienza; trattasi della differenza, che emergerà per esempio in Kant,
quando egli, cercando di delineare i fondamenti di una fisica autenticamente razionale, affermerà- nel 1786 - che ogni disciplina rivolta ad oggetti determinati
contiene «tanta scienza propriamente detta quanta è la matematica che in essa
può venire applicata » e negherà di conseguenza la qualifica di vera e propria
scienza alla chimica, malgrado i notevolissimi progressi da essa compiuti proprio
in quegli anni soprattutto per merito di Lavoisier.
L'obiezione principale che potrebbe venir sollevata contro la nostra distinzione si connette al fatto, storicamente innegabile, che parecchi autorevoli scienziati e filosofi del xvm secolo concepivano la matematica stessa come disciplina
di origine empirica, sicché non parrebbe avere alcun senso fare riferimento ad
essa per differenziare le scienze a prevalente carattere matematico da quelle a
prevalente carattere sperimentale. A questa obiezione si potrebbe in primo luogo
rispondere che, accanto alla concezione della matematica come disciplina di origine empirica, cominciò ad affiorarne anche un'altra, proprio nell'epoca in esame
e proprio in alcuni pensatori strettamente legati all'empirismo (intendiamo qui
riferirei in particolare a d'Alembert, nei cui ultimi scritti alcuni recenti studiosi,
come ad esempio Paolo Casini, hanno creduto di poter ravvisare una interpretazione convenzionalistica, e non meramente empiristica, delle teorie matematiche).
Una seconda risposta sembra comunque ancora più risolutiva: molti fra i maggiori matematici del Settecento compirono notevolissimi sforzi per riuscir a dare
un assetto strettamente analitico a tutta la meccanica e ritennero che il riportarla
per intero a principi formulabili in termini esclusivamente matematici costituisse
di per sé una garanzia della sua autentica razionalità a prescindere dalla natura
della matematica stessa. Come spiegheremo nei prossimi paragrafi la tesi, sostenuta da alcuni di essi, che - così rielaborata - la meccanica venisse ad acqui-
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L'esigenza di sistematicità nella matematica e nella meccanica
stare un'evidenza razionale ineccepibile, non può venire oggi accettata (è possibile
infatti sollevare parecchi dubbi, cui già accennammo nel capitolo I, sul significato
allora attribuito al termine razionalità); è innegabile tuttavia che gli autori
dell'epoca riconoscevano di fatto una grandissima importanza a quest'opera di
« razionalizzazione », vero segno che ai loro occhi essa era in grado di fornire
alle proposizioni scientifiche una validità assai superiore al puro e semplice accordo con i dati dell'esperienza.
Dobbiamo d'altra parte prendere atto che gli sforzi testé accennati, anche
se inidonei a fornire la garanzia cercata, risultarono tutt'altro che inutili: essi
riuscirono infatti a porre in luce i legami logici più profondi esistenti fra le varie
proposizioni della meccanica, dando all'intera disciplina un carattere sistematico
unitario che prima non possedeva. Costituirono in altri termini il necessario
punto di partenza per la ben più rigorosa razionalizzazione di vari capitoli della
fisica-matematica gradualmente operata dagli scienziati del secolo successivo.
I dubbi che oggi possiamo - e dobbiamo - sollevare contro l'evidenza
razionale dei principi, che nel Settecento vennero posti a base della meccanica,
sono d'altra parte estensibili a pressoché tutti gli &trumenti matematici allora
usati al fine in questione. Avremo infatti occasione di spiegare, nel seguito della
presente opera, che l'attento riesame critico - operato dai matematici e dai
logici dell'Ottocento - dei più celebri trattati della matematica settecentesca
(in particolare di quelli dell'analisi infinitesimale) giunse a scoprirvi un gran
numero di lacune, di inesattezze, e perfino di veri e propri errori. Eppure va
riconosciuto che tali trattati compirono una funzione storica della massima
importanza, su cui sarebbe insensato voler pronunciare giudizi di sommaria condanna. Un'attenta riflessione sulle grandi opere scientifiche del passato - e
sulle stesse illusioni che si celavano al di sotto di esse - è estremamente utile per
comprendere gli ostacoli di fondo che la ragione umana ha dovuto faticosamente
superare per raggiungere il livello di consapevolezza critica che caratterizza la
scienza odierna.
II
· I PRINCIPALI PROTAGONISTI
Le discipline al cui sviluppo intendiamo dedicare il presente capitolo cioè l'analisi infinitesimale e l'algebra, la meccanica razionale e l'idrodinamica,
il calcolo delle probabilità - ebbero nell'epoca in esame legami assai stretti
una con l'altra, anche perché furono spesso le medesime persone a portarvi i
più notevoli contributi. Sembra pertanto opportuno fornire fin dall'inizio qualche
rapidissima notizia su tali persone, sia per richiamare immediatamente l'at'tenzione
del lettore sui loro nomi, sia per dargli una visione schematica ma globale dell'elevata posizione che occupavano la matematica e la meccanica nella più avanzata
cultura europea del secolo. I ricercatori che ora elencheremo non esauriscono ovviamente l'ampio quadro della scienza settecentesca, ma ne illustrano alcuni
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L'esigenza d i sistematicità nella matematica e nella meccanica
aspetti di speciale rilievo, perché pongono in luce il significato che aveva in
tale secolo la fede nella potenza della ragione. Mentre molti vecchi storici dell'illuminismo si soffermarono prevalentemente sui filosofi letterati che ne diressero
le lotte ideologiche, è bene ribadire che l'appello alla ragione non avrebbe avuto
il peso che di fatto ebbe, se la scienza non avesse contemporaneamente dimostrato
con le sue scoperte la superiorità del metodo razionale rispetto a quello dogmatico.
Poiché nel secolo in esame la Svizzera fu forse il paese che diede i natali al
numero percentualmente maggiore di valentissimi scienziati, sembra opportuno
iniziare proprio da essa la nostra schematica rassegna. Anche se non vissero
sempre nel loro paese nativo, i Bernoulli, Eulero e Lambert (del quale si è a
lungo parlato nel capitolo precedente) ci forniscono una testimonianza sicura
dell'alta civiltà raggiunta da quel piccolo stato.
I fratelli Jacques Bernoulli (1654-1705) e Jean Bernoulli (1667-1748), entrambi
nativi di Basilea e insegnanti di matematica nello studio universitario della loro
città (Giovanni venne chiamato a coprire la cattedra del fratello, subito dopo la
morte di lui), furono vivamente legati a Leibniz e contribuirono in misura notevolissima alla diffusione e allo sviluppo del suo pensiero matematico. Merita,
fra l'altro, di venire ricordato che Giacomo fu il primo ad usare l'espressione
- divenuta poi classica - di «calcolo integrale». Pubblicarono parecchie importanti memorie sugli Acta eruditorum e su altri periodici scientifici dell'epoca.
Si occuparono soprattutto di analisi infinitesimale, applicandola con successo
alla risoluzione di molti problemi geometrici. Nel 1713 uscì, postumo, un importante trattato di Giacomo Bernoulli sul calcolo delle probabilità, dal titolo
Ars conjectandi. Anche il fratello si interessò vivamente di questa nuova branca
della scienza, e inoltre di algebra, di meccanica, ecc. rivelando ovunque straordinarie capacità inventive. Alla sua morte, Voltaire scrisse alcuni versi in elogio
di lui chiamandolo « onore della Svizzera e dell'umanità ».
La famiglia Bernoulli fornì un esempio, pressoché unico nella storia, di una
vera e propria dinastia di matematici. Nella generazione successiva a quella di
Giacomo e Giovanni merita una particolare menzione il secondogenito di quest'ultimo, Daniel Bernoulli (17oo-8z), noto per vari lavori di analisi, di algebra,
di calcolo delle probabilità, di meccanica, ma soprattutto per un trattato dal titolo
Hydrodynamica, pubblicato nel 1738, cui si può far risalire la fondazione dell'idrodinamica teorica. Daniele visse a lungo in Russia - ove era stato chiamato insieme col fratello Nicola, egli pure valente matematico - dando un serio contributo all'elevazione della cultura scientifica di tale paese. Anche la terza generazione annoverò vari egregi cultori di matematica pura e applicata; ci limiteremo
a ricordare un nuovo Giovanni Bernoulli (1744-1807), figlio di un fratello di
Daniele che si occupò soprattutto di astronomia e fu autorevole membro dell'accademia delle scienze di Prussia.
Leonard Euler - latinizzato in Eulerus - (1707-83) nacque nelle vici171
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L'esigenza di ·sistematicità nella matematica e nella meccanica
nanze di Basilea, studiò con Giovanni Bernoulli, visse dal 1727 al 1740 in Russia
ove fu professore di fisica, ufficiale di marina, membro dell'accademia di Pietroburga; nel 1740 passò a Berlino, chiamatovi da Federico n, ove diresse la classe
di scienze dell'accademia di Prussia, e come uomo di corte ebbe modo di stringere rapporti di amicizia con influenti personalità politiche nonché con i massimi
rappresentanti della cultura europea. Nel 1766 ritornò, colmo di onori, a Pietro burga, con l'altissima carica di direttore dell'accademia di tale città. Poco dopo
però divenne completamente cieco, il che non gli impedì di proseguire con tenacia i propri lavori scientifici. La sua morte suscitò unanimi rimpianti in tutto
il mondo culturale dell'epoca. Fu matematico, fisico, astronomo e filosofo;
scrittore fecondissimo (le sue memorie occupano decine e decine di volumi),
può senz'altro venire considerato il più grande scienziato della generazione
immediatamente posteriore a quella di Newton, nonché una delle figure più
caratteristiche del secolo dei lumi. Scrisse pure una celebre opera di divulgazione
scientifica, Lettres à une princesse d' Allemagne (Lettere a una principessa tedesca, in
tre volumi, 1768-72) che raccoglie 234 lettere su argomenti di astronomia,
di fisica e di filosofia, da lui inviate alla figlia del Margravio di BrandenburgSchwedt, della quale gli era stata affidata l'educazione scientifica. Sul carattere
politicamente moderato del suo illuminismo ritorneremo nel capitolo xv.
Passando ora dalla Svizzera alla Francia, dobbiamo subito far presente che
uno dei massimi matematici e meccanici dell'epoca, Jean Le Rond d' Alembert
( 171 7-8 3) occupa una posizione così centrale nella storia della filosofia oltreché
della scienza (essendo stato con Diderot uno degli iniziatori della famosa Enciclopedia), che risulterebbe impossibile delinearne la figura senza fare diretto
riferimento anche alla sua vivacissima attività filosofica e genericamente culturale.
Preferiamo quindi !imitarci a ricordare qui il titolo della sua opera scientifica
più importante (Traité de cfynamique, 1a ed. 1744, 2a ed. 1758), rinviando ad altri
capitoli l'esame approfondito della sua complessa personalità.
All'incirca alla medesima generazione di d' Alembert appartennero l'analista
Alexis Clairaut e due fra i maggiori algebristi del secolo: Etienne Bézout (173083) e Alexandre Vandermonde (1735-97). Data la personalità di Clairaut,
sembra opportuno soffermarci sia pur molto brevemente sulla sua figura. Prima
però occorre fornire qualche notizia su di un altro assai celebre - e nel contempo
assai discusso - rappresentante della scienza francese dell'epoca: Pierre-Louis
Moreau de Maupertuis (1698-1759).
Egli nacque a St. Malo, studiò per un anno a Basilea con Giovanni Bernoulli
e nel 1731 fu nominato membro dell'accademia delle scienze di Parigi. Pensatore
di vasti interessi scientifici e filosofici, scrisse importanti lavori di meccanica, di
geodesia, di fisica, di biologia. Nel 1732 pubblicò un celebre Discours sur la figure
des astres avec une exposition des Systèmes de Descartes et de Newton (Discorso sulla
figura degli astri con una esposizione dei Sistemi di Descartes e. di Newton), che fu la
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L'esigenza di sistematicità nella matematica e nella meccanica
prima opera in cui uno studioso francese osasse stabilire un parallelo fra il sistema
cartesiano e quello newtoniano. Nel I736 venne incaricato di dirigere una spedizione in Lapponia per misurarvi la lunghezza di un grado di meridiano; le osservazioni da essa accuratamente eseguite confermarono la teoria di Newton, secondo cui la Terra ha la forma di sferoide schiacciato ai poli, e ~on quella dei cartesiani, secondo i quali tale sferoide dovrebbe risultare allungato.
Dal momento in cui rese pubblici questi risultati con l'opera La figure de la terre
(La figura della terra, I739), anche la Francia abbracciò il newtonianesimo e Maupertuis divenne una delle personalità più influenti della cultura europea. Nel
I745 pubblicò anonimo all'Aja la Vénus physique, contenant deux dissertations, l'une
sur l'origine de l'homme et desanimaux, et l'autre sur l'origine des noirs (Venere fisica, contenente due dissertazioni, l'una sull'origine dell'uomo e degli animali e l'altra sull'origine dei
negri). In questo breve ma importante scritto polemizza contro la teoria della
generazione sostenuta da quasi tutti i contemporanei, apponendovi, anche in
base a sue originali osservazioni sull'ereditarietà, la teoria epigenetica delle molecole organiche. Nel medesimo anno fu invitato a Berlino da Federico n, che nel
I746 lo nominò presidente dell'accademia delle scienze di tale città. Nel I744 e
nel I747 scrisse due famose memorie 1 - delle quali parleremo nel paragrafo rvsul principio di minima azione, principio che diede luogo ad alcune penetranti
critiche da parte del matematico tedesco Samuel Koenig (1712-57). La polemica
che ne seguì fu una delle più significative del secolo. Nel I75 I pubblicò il Système
de la nature: essai sur la formations des corps organisés (Sistema della natura: saggio sulla
formazione dei corpi organizzati), in cui giunge ad una delle prime formulazioni
della teoria della trasformazione della specie riconducendola alla variazione casuale delle molecole organiche (teoria che verrà ampiamente esaminata nel capitolo rx). Lasciata nel I753 la presidenza dell'accademia di Berlino, tornò dopo
qualche tempo ad abitare in Francia. Morì a Basilea.
Alexis Clairaut ( 17 I 3-6 5) nacque a Parigi, ove suo padre era insegnante di
matematica. Ingegno precocissimo, divenne a soli diciotto anni membro dell'accademia delle scienze di tale città per avervi presentatù un'importante memoria
sulle curve gobbe. Come parecchi altri scienziati del suo tempo fu uomo di mondo,
e intrattenne frequenti relazioni con le maggiori personalità della cultura francese
dell'epoca. La sua vivacità intellettuale e la sua difesa del newtonianesimo ne
fanno una delle più caratteristiche figure dell'illuminismo scientifico. Partecipò ai
lavori della commissione diretta da Maupertuis che fu inviata - come sappiamo
-in Lapponia per il controllo della teoria newtoniana. Al ritorno, scrisse un'importante opera, Théorie de la figure de la terre (Teoria della figura della terra), che
pubblicò nel I743· Oltreché di geodesia, si occupò di geometria, di analisi in1 La prima, dal titolo Accord de différentes
lois de la nature qui avaient jusqu'ici paru incompatibles
(Accordo di differenti leggi della natura che erano parse
finora incompatibili), venne presentata all'accademia
delle scienze di Parigi; la seconda, dal titolo D es
lois du mouvement et du repos (Leggi del movimento e
della quiete) venne invece presentata all'accademia
di Berlino.
I73
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L'esigenza di sistematicità nella matematica e nella meccanica
finitesimale, di algebra mostrando sempre una notevole chiarezza di idee. Insegnò
matematica alla famosa marchesa di Chàtelet, amica di Voltaire, rivedendo la
traduzione da lei preparata dei Principia di Newton.
Se la Germania partecipò vivamente allo sviluppo della matematica e della
meccanica settecentesche per avere ospitato nei suoi grandi istituti culturali (in
particolare nell'accademia di Berlino) parecchi dei più celebri scienziati dell'epoca,
non può invece venire ricordata per avere dato i natali a studiosi di fama paragonabile a quelli finora da noi elencati.
Quanto all'Italia, già si ricordò nel capitolo precedente la figura veramente
notevole di Gerolamo Saccheri. Accanto a lui possono venire menzionati, sebbene di livello alquanto inferiore: Guido Grandi (I67I-I742) professore dell'università di Pisa e poi matematico del Granduca di Toscana, particolarmente noto
per l 'interessantissima serie ancora oggi nota col suo nome; 1 i due fratelli Eustachio (I674-I739) e Gabriele Manfredi (I68I-I76I); Jacopo Riccati (I676-I754)
che godette di larga fama nel più qualificato ambiente scientifico europeo; Maria
Gaetana Agnesi (I7I8-99), una delle prime donne che raggiunse una certa
celebrità nelle ricerche matematiche. Fra gli studiosi dell'epoca che maggiormente
contribuirono alla diffusione delle teorie di Newton in Italia merita una particolare
menzione il barnabita Paolo Frisi (I7z8-84), matematico, fisico, filosofo, amico
dei più avanzati circoli illuministici lombardi. La sua Disquisitio mathematica in
causam physicam figurae et magnitudinis telluris nostrae (Disquisizione matematica sulla
causa fisica della figura e della grandezza della nostra terra) del I 7 5o (da lui pubblicata
malgrado il divieto dei superiori, che lo rimproveravano di non « premettere
alcuna protesta per il moto che attribuisce alla terra » !), vari altri saggi da lui
scritti sul moto diurno della terra, sull'elettricità, sulla gravità, sui fiumi, e infine
due interessanti volumi di Cosmographia (usciti nel I774-75) gli procurarono una
grande notorietà in tutta l'Europa onde venne associato alle più celebri accademie
italiane e straniere (l'accademia di Roma, quella di Napoli, la Royal Society,
l'accademia di Parigi, ecc.). Sui suoi scritti politico-filosofici ritorneremo nel
capitolo XIV.
Alla cultura italiana va pure collegata la figura e l'opera del già nominato
padre gesuita Ruggero Giuseppe Boscovich (I7II-87), nato a Dubrovnick
da padre jugoslavo e madre italiana, vissuto a lungo a Roma e Milano (ove fu
1 Trattasi della somma di infiniti termini
(o serie)
a-a+ a - ...
ovviamente caratterizzata dalla seguente singolare
proprietà: se addizioniamo un numero finito n
dei termini di tale serie (a partire dal primo), otterremo una somma eguale ad a qualora il numero n
dei termini addizionati sia dispari, e otterremo invece una somma eguale a zero qualora il numero n
dei termini addizionati sia pari. Ci si chiedeva:
che somma otterremo se addizioniamo tutti gli
infiniti termini della serie? In realtà essa rappresenta uno dei primi esempi di serie oscillante,
che - proprio per essere oscillante - non converge ad alcun limite. Di qui la sua stranezza per
i matematici dell'epoca, i quali non conoscevano
ancora il concetto di serie oscillante. Grandi ritenne, erroneamente, che tale serie convergesse
al valore ...!!..._ •
2
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L'esigenza di sistematicità nella matematica e nella meccanica
uno dei fondatori dell'osservatorio astronomico di Brera). I suoi numerosi viaggi
in Francia, Germania, Inghilterra, Olanda, Polonia e perfino in Turchia ne fecero
un caratteristico rappresentante della cultura dell'epoca, non circoscrivibile entro
i confini di un solo paese. Profondo conoscitore di Newton, ma non pedissequo
seguace delle sue teorie ( ché anzi egli tentò strade nuove, capaci di conciliare
temi newtoniani con temi leibnizianP), studioso di problemi ottici oltreché di
meccanica celeste e di geodesia, attento sperimentatore e ottimo conoscitore degli
strumenti astronomici, egli contribuì più di ogni altro contemporaneo a mantenere alta la fama scientifica del suo ordine, in un momento in cui questo attraversava una gravissima crisi politico-organizzativa. La sua apertura mentale è
confermata dalla propaganda che egli fece alle vedute astronomiche moderne,
al di là di ogni preoccupazione circa l'ortodossia o meno della scienza newtoniana.
Tra le opere principali _di Boscovich ricordiamo: De lumine (Intorno alla radiazione
luminosa, I748), De materiae divisibilitate et de principiis corporum (Intorno alla divisibilità della materia e ai principi dei corpi, I757), Philosophiae naturaliJ theoria redacta
ad unicam legem virium existentium (Teoria della .filosofia naturale ricondotta all'unica
legge delle forze esistenti, I 7 58).
Il più illustre studioso italiano di matematica e di meccanica, Giuseppe Luigi
Lagrange (I 7 36- I 8 I 3), appartenne alla generazione immediatamente successiva
e fu- come tutti i grandi scienziati dell'epoca- un uomo di cultura in largb
senso europeo al quale non ha molto senso attribuire l'una o l'altra nazionalità.
Nato a Torino, visse in questa città fino al I769, ove fu nominato- ancora giovanissimo - professore alla scuola di artiglieria; partecipò pure alla fondazione
di quella che doveva diventare l'accademia reale delle scienze di Torino. Nel I769
si recò a Berlino, invitato dall'accademia delle scienze di tale città ad assumervi
il posto lasciato libero qualche anno prima da Eulero; vi rimarrà fino al I787.
La prodigiosa attività da lui svolta come direttore della classe delle scienze dell'accademia di Berlino lo inserl definitivamente nel mondo internazionale
degli studi. Nel I787 si trasferì a Parigi, su invito di Luigi xvr, come pensionato
d'onore dell'accademia di tale città. L'anno seguente diede alle stampe la sua
celebre Mécanique ana(jtique (Meccanica analitica, I788). Scoppiata la rivoluzione,
il nuovo governo, che aveva deliberato l'espulsione di tutti gli stranieri, decretò
che il bando non venisse applicato a Lagrange, da considerarsi come uno degli
scienziati più benemeriti verso il movimento rivoluzionario.,Così la sua influenza
andò crescendo: divenne professore autorevolissimo, fu eletto primo presidente
dell'Istituto di Francia, e durante l'impero venne nominato da Napoleone conte
e senatore. Oltreché di meccanica, si occupò di analisi e di algebra recando
1 Ci riferiamo qui in particolare alla teoria
« dinamista » della realtà che Boscovich contrappone alla concezione atomistica largamente diffusa tra i newtoniani. Ad essa si richiameranno
qualche decennio più tardi Kant e i fisici romantici; ma continuerà ad esercitare una profonda infiuenza anche sugli scienziati della seconda metà
dell'Ottocento, per esempio su Lord Kelvin.
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L'esigenza di sistematicità nella matematica e nella meccanica
ovunque contributi di fondamentale importanza. È solitamente considerato con
Eulero il maggiore matematico del XVIII secolo.
Passando infine all'Inghilterra, occorre anzitutto notare che essa rimase per
quasi tutto il secolo pressoché isolata dalla grande cultura matemattca europea,
a causa della diffidenza nutrita dagli inglesi verso i lavori degli analisti continentali
che si valevano del simbolismo leibniziano anziché di quello newtoniano. Fu
uno degli effetti più deleteri della penosa polemica di cui parlammo nel capitolo
XIV della sezione IV, nella quale si era scioccamente mescolato, a un problema di
priorità scientifica, il gretto orgoglio nazionale.
Malgrado questo relativo isolamento, è doveroso riconoscere che nella prima
metà del secolo operarono anche nella cultura inglese alcuni matematici di indiscutibile valore (seppure di statura non confrontabile a quella di Eulero e di
d' Alembert).
Fra i migliori analisti vanno ricordati Brook Taylor (1685-1731) nato a
Edmonton che dai contemporanei fu giudicato l 'unico matematico paragonabile
ai Bernoulli, e Colin Maclaurin (1698-1746) nato a Kilmodan, professore dal 1725
all'università di Edimburgo. Su entrambi fu assai profonda l'influenza di Newton, della cui opera matematica possono considerarsi i migliori continuatori.
Alla cultura inglese appartiene a buon diritto anche Abraham de Moivre
(1667-1754) pur essendo nato in Francia, a Vitry, perché visse quasi sempre in
Inghilterra avendo dovuto la sua famiglia - di fede protestante - emigrare
dalla Francia dopo la revoca dell'editto di Nantes (1685). Egli si occupò con
intelligenza di analisi (sotto la diretta influenza di Newton), di algebra, di trigonometria; ma la sua fama è soprattutto dovuta ai suoi lavori sul calcolo delle probabilità che furono senza dubbio tra i migliori dell'epoca. Legato da viva amicizia con de Moivre, sebbene alquanto più giovane di lui, fu James Stirling
(1692-1770) nato a Garden (Scozia), che fu uno dei migliori continuatori dell'opera di Newton non solo in analisi ma più ancora in geometria. A lui si deve una
celebre formula per il calcolo approssimato della funzione fattoriale, che venne
poi perfezionata da de Moivre.
Se, come appare chiaro dalle brevi notizie testé riferite, l'influenza di Newton
fu senza dubbio determinante per tutta la generazione dei matematici inglesi
della prima metà del secolo, non va tuttavia dimenticato che, proprio nei medesimi
anni, l'opera del sommo scienziato suscitò nella stessa Inghilterra alcune vivacissime e sottili critiche da parte del filosofo Berkeley: esse non erano dirette a
esaltare Leibniz contro Newton, ma a colpire i concetti basilari usati concordemente dall'uno e dall'altro. Poiché di tali critiche si è già parlato nel capitolo II,
non intendiamo qui ritornare sull'argomento. Ci limiteremo a ripetere che la
polemica fra Berkeley e i newtoniani si protrasse a lungo e che - malgrado l'incompetenza matematica del filosofo·- non fu del tutto inutile allo sviluppo della
scienza: essa costrinse infatti i difensori di Newton a iniziare sia pure con molta
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L'esigenza di sistematicità nella matematica e nella meccanica
cautela, ma comunque con notevole anticipo rispetto agli analisti continentali,
quell'opera di revisione dei concetti di infinito e di infinitesimo che giungerà
a piena maturazione solo nell'Ottocento.
III
· ANALISI INFINITESIMALE E ALGEBRA
Si ricorderà che nel Cinquecento e nel Seicento il pensiero matematico aveva
aperto nuove importantissime vie alla scienza, dando inizio all'algebra simbolica,
alla geometria analitica e all'analisi infinitesimale. Il xvm secolo non può dirsi
altrettanto creativo, ma compie cionondimeno un'opera straordinariamente preziosa dando una prima sistemazione alle discipline di recente creazione e arricchendole di nuovi strumenti tecnici.
Prima di accingerci a caratterizzare il significato profondo dell'opera testé
accennata, occorrerà ricapitolarne brevemente i punti più salienti.
Va detto anzitutto che i maggiori successi toccarono senz'altro all'analisi
infinitesimale, non solo per l'importanza dei nuovi concetti e capitoli da essa
elaborati (ad esempio il concetto di derivata parziale e il capitolo delle equazioni
differenziali), ma anche per la ricchezza delle applicazioni cui i metodi infinitesimali diedero luogo, sia- come vedremo nel prossimo paragrafo - nell'ambito
della meccanica, sia nei più diversi rami della matematica pura: dalla geometria
analitica, ove già nel Seicento tali metodi avevano dato prova della loro fecondità,
fino all'algebra delle grandezze finite che pur poteva sembrare ad essi inaccessibile
per la natura stessa del suo oggetto (uno dei fatti giudicati più singolari e più
anomali sarà proprio il ricorso a metodi infinitesimali compiuto da d' Alembert
nella prima dimostrazione del teorema fondamentale dell'algebra, 1 da lui ideata
nel I746).
I più significativi progressi conseguiti dall'analisi infinitesimale riguardarono
i seguenti campi:
1) studio degli algoritmi infiniti (serie ovvero somme di infiniti termini,
prodotti di infiniti fattori) e sviluppo delle funzioni in serie di potenze; su questi
argomenti si distinsero in modo particolare le ricerche di Giovanni Bernoulli,
di Taylor, di Maclaurin, di Eulero e più tardi di Lagrange;
2) studio delle equazioni differenziali alle derivate ordinarie, ove meritano
una speciale menzione i lavori di Giovanni Bernoulli - il quale scoperse che
un'equazione del genere ammette infinite curve integrali e comprese l'importanza del metodo di separazione delle variabili- del francese Clairaut e dell'italiano Ricca ti che legarono i propri nomi a tipi particolari di queste equazioni;
di Eulero che ideò la via per integrare una qualsiasi equazione differenziale li1 Tale teorema afferma che ogni equazione
algebrica ammette sempre una radice, reale o complessa, onde può venire abbassata di un grado con
riferimento a questa radice. Ne segue che un'equazione algebrica di grado n ha n e solo n radici
(non necessariamente tutte distinte fr::'- loro).
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L'esigenza di sistematicità nella matematica e nella meccanica
neare omogenea a coefficienti costanti e infine di Lagrange che insegnò a ricondurre l'integrazione di un'equazione lineare non omogenea a quella della corrispondente equazione omogenea con il cosiddetto metodo di variazione delle
costanti arbitrarie;
3) studio delle equazioni differenziali alle derivate parziali (il primo matematico che comprese con chiarezza la diversità esistente fra derivate ordinarie
e derivate parziali fu Eulero, il quale scoperse - a proposito di queste ultimeil fondamentale teorema di inversione) : tale argomento non tardò a rivelarsi
uno dei più fecondi di tutta l'analisi, in particolare per le sue applicazioni alla
dinamica, che fornì l'occasione di studiare alcuni tipi fondamentali di queste
equazioni (per esempio l'equazione di d' Alembert o delle corde vibranti);
4) studio delle più interessanti proprietà delle funzioni fino allora incontrate
dalla geometria, nonché delle relazioni intercorrenti fra esse, e definizione di
nuove funzioni: qui vanno in particolare menzionati i lavori di Giacomo Bernoulli sulle funzioni corrispondenti alla curva isocrona, alla catenaria, alla spirale
logaritmica, ecc., quelle di Maupertuis sui punti singolari delle curve piane,
quelli di Eulero sulle relazioni fra la funzione esponenziale e le funzioni trigonometriche (al grande matematico svizzero si devono pure l'introduzione delle due
famose funzioni trascendenti cui i posteri attribuiranno il nome di « integrali
euleriani di prima e di seconda specie », e i primi studi sulle funzioni di variabile
complessa);
5) studio sistematico dei problemi isoperimetrici e successivo inserimento
di essi nel ben più generale calcolo delle variazioni: al primo diedero notevoli
contributi vari matematici dell'epoca, in particolare Giacomo Bernoulli ed Eulero, mentre il secondo fu creato da Lagrange e suole - a ragione - venir considerato come uno dei suoi maggiori titoli di gloria.
Pur se con risultati minori di quelli conseguiti dall'analisi infinitesimale,
anche i lavori di algebra proseguirono intensamente nel secolo in esame; le
ricerche di geometria analitica risultarono essenzialmente assorbite da quelle
delle due discipline testé menzionate. I più significativi progressi delle indagini
algebriche riguardarono i seguenti campi:
1) studio dei sistemi di equazioni algebriche: qui vanno particolarmente
ricordati i contributi di Vandermonde, cui si deve la prima sistemazione della
teoria dei determinanti, e quelli di Bézout che legò il proprio nome al seguente
importante teorema « due equazioni algebriche di gradi m ed n hanno, nel caso
più generale, m.n soluzioni comuni» (interpretato in termini geometrici esso
afferma che due curve algebriche irriducibili di ordine m ed n hanno, in generale,
m.n punti in comune);
2.) studi rivolti a trovare una dimostrazione prettamente algebrica del teorema fondamentale dell'algebra, poco sopra citato (la ricerca di questa dimostrazione era dettata dall'esigenza di rendere autonoma l'algebra nei confronti del-
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L'esigenza di sistematicità nella matematica e nella meccanica
l 'analisi): spetta ad Eulero il merito di averne proposta una, soddisfacente a tale
requisito (1751), che presentava però varie lacune, e, tra l'altro, faceva largo uso
di un teorema sulle funzioni razionali delle radici di un'equazione algebrica che
verrà dimostrato solo vent'anni più tardi da Lagrange;
3) studi rivolti a trovare, per l'equazione algebrica generale di quinto grado,
una formula risolutiva analoga a quella scoperta nel Cinquecento per l'equazione
di quarto grado: questi studi non portarono - né potevano portare - ad alcun
risultato positivo, ma prepararono il terreno alla dimostrazione del teorema di
Ruffini-Abel (che al principio dell'Ottocento segnerà l'inizio di una nuova fase
delle ricerche algebriche) affermante l'inesistenza della formula cercata; merita
di venire segnalato che, mentre Bézout, Vandermonde, Eulero e gli altri maggiori
algebristi dell'epoca erano ancora fermamente convinti della possibilità di trovarla, il primo ad esprimere seri dubbi in proposito fu Lagrange (proprio a lui
spetta il merito di avere impostato le indagini che costituiranno la base per la
dimostrazione del risultato negativo di Ruffini-Abel).
Ovvi motivi di spazio ci impediscono di accennare ad altre pur interessanti
ricerche, come ad esempio quelle di Eulero e d' Alembert sulle serie trigonometriche, quelle di Eulero e Lagrange sull'analisi indeterminata di secondo grado,
di Eulero e Lambert sulle frazioni continue, ecc. Trattasi di ricerche che possono
senza dubbio arricchire il quadro sommariamente abbozzato nelle pagine precedenti ma non sono tali da variarne i lineamenti essenziali, mentre è proprio
su questi che dobbiamo soffermarci se vogliamo che le nostre brevi considerazioni sui progressi della matematica ci aiutino a cogliere i caratteri più significativi del pensiero scientifico generale dell'epoca in esame.
I lineamenti anzidetti si possono riassumere - a nostro parere - in due
punti basilari: ricerca di una visione sistematica degli enormi sviluppi cui possono
dar luogo sia l'analisi sia l'algebra; preoccupazione di estendere al massimo tali
sviluppi senza sottoporre a rigorosa critica né i loro fondamenti né i metodi
adoperati per la dimostrazione dei sempre nuovi e più affascinanti teoremi. È
una situazione che venne efficacemente descritta da alcuni storici paragonando
questo periodo della matematica all'epoca delle grandi scoperte geografiche:
come nota Friedrich Waismann «i matematici del xvm secolo avevano infatti
l'impressione di internarsi in un nuovo mondo dello spirito, ed erano bramosi di
delimitarne subito i confini».
Questa brama di scoprire al più presto i confini del nuovo « continente
matematico» non va però intesa come dettata dall'esigenza critica di stabilire a
priori una linea oltre la quale tale scienza non avrebbe mai potuto spingersi;
proviene invece dal desiderio di giungere a una visione di insieme di tutte le più
profonde relazioni esistenti fra i concetti trattati, nella ferma convinzione che
esse potranno illuminarsi a vicenda e così accrescere il dominio della ragione
sull'intera materia considerata (non v'ha dubbio per esempio che le formule
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L'esigenza di sistematicità nella matematica e nella 'meccanica
di Eulero, le quali stabiliscono una ben precisa relazione fra la funzione esponenziale e quelle trigonometriche, gettano effettivamente nuova luce su entrambe,
o che lo sviluppo di una funzione in serie di altre funzioni di tipo determinato
- poniamo in serie di potenze - è davvero in grado di farcene scoprire alcune
proprietà molto recondite, che uno studio isolato di essa non avrebbe mai potuto
afferrare). Sono questi i motivi che spingono a un'esposizione sistematica delle
discipline recentemente scoperte: discipline che rischierebbero di frantumarsi
in tante indagini parziali e disorganiche, se la ragione non fosse in grado di collegarne i vari sviluppi, di dominarli nel loro complesso, di inquadrarli in un grande
piano strategico.
La fiducia nella potenza della ragione sorregge l'intera ricerca; e se qualche
dubbio affiora qua e là circa l'esattezza dei fondamenti del grandioso edificio (ciò
accade in particolare per l'analisi infinitesimale), esso vien messo a tacere osservando che l'ampiezza e compattezza delle conseguenze ricavate è largamente
sufficiente a giustificare l'accettazione delle premesse. Questo atteggiamento
risulta chiaramente espresso dal celebre motto attribuito a d' Alembert: « andate
avanti e la fede vi verrà »; mettetevi cioè al corrente dei grandi successi del nuovo
tipo di calcolo: la loro imponenza dissolverà ogni vostro dubbio.
È manifesto che un tal modo di procedere non poteva sviluppare un'autentica esigenza di rigore. In effetti, non pochi teoremi di Eulero, d' Alembert,
ecc. erano - nella loro primitiva formulazione - inesatti, per l 'incompleta
elencazione delle ipotesi indispensabili alla loro validità, e non poche dimostrazioni di teoremi- anche esatti - erano lacunose e logicamente scorrette (ad
esempio le due dimostrazioni poco fa accennate del teorema fondamentale dell'algebra, ideate da d'Alembert e da Eulero, si trovavano entrambe in questa
situazione). In taluni casi, poi, venivano enunciati come teoremi delle proposizioni manifestamente assurde; tale per esempio la formula seguente (che Eulero
crede di aver dimostrata!):
1
1
+3+9+···=-z
La presunta dimostrazione di questo e altri analoghi risultati si fonda, per lo più,
sull'uso indiscriminato delle serie senza alcuna cautela circa la loro convergenza.
Quando si rifletta sullo scarso rigore dei processi dimostrativi adoperati
dai grandi matematici del SettecentQ, vi è da rimanere stupiti non tanto dei
risultati assurdi da essi in tal modo raggiunti, quanto dei numerosi autentici
teoremi che, sia pure con qualche inesattezza di formulazione, essi riuscirono di
fatto a scoprire. Di fronte a tali mirabili scoperte, bisogna ammettere che quei
matematici erano senza dubbio forniti di eccezionali capacità intuitive, in base
alle quali riuscivano a farsi un'idea notevolmente esatta della struttura complessiva del « continente » esplorato, sì da collocarne al posto giusto (o quasi giusto)
i più alti monti e i più grandi fiumi. Fuori di metafora, la visione globale della
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L'esigenza di sistematicità nella matematica e nella mecc:anica
materia trattata - per lo meno nelle sue grandi linee - permetteva loro di cogliere i punti nodali del sistema, malgrado le inesattezze e, talvolta, gli autentici
errori compiuti nello svolgimento delle argomentazioni particolari. Chiaro è,
però, che un tal modo di procedere non avrebbe potuto proseguire a lungo senza
dar luogo a disastrosi inconvenienti: è ciò di cui ci si comincerà ad accorgere alla
fine del secolo 1 e che verrà in piena luce verso il 1 8zo-3o dando luogo a una
delle più radicali svolte nella storia del pensiero matematico.
Qui basti ribadire che l'entusiastica fiducia nella potenza della matematica,
e in particolare in quella della sua più moderna creazione, l'analisi infinitesimale,
ben si inquadrava - come già accennammo all'inizio del capitolo - entro la
fiducia generale nella ragione umana. Lo « spirito » matematico poteva venir
considerato come la più elevata estrinsecazione dello « spirito razionale », e i
suoi successi - nei problemi puramente teorici come nelle sempre più numerose
applicazioni - assumevano l'aspetto di incontestabili conferme della validità
filosofica delle grandi tesi illuministiche.
Anche se non era ben chiara l'origine, e quindi la natura, delle nozioni matematiche, e se non era stata esattamente precisata la struttura logica di taluni
processi dimostrativi, la matematica sembrava imporsi a tutti con le sue mirabili
realizzazioni. Era lo stesso clima culturale dell'epoca a far passare sotto silenzio
le non poche e non lievi ombre di cui erano frammezzate tali realizzazioni, per
fermarsi esclusivamente su ciò che esse rappresentavano di positivo, sia in se
stesse sia nel quadro generale del progresso dell'umanità.
IV
· LA MECCANICA RAZIONALE
Durante il XVIII secolo la meccanica moderna, nata con Galileo, Huygens
e Newton, subisce ulteriori notevolissimi sviluppi soprattutto dal punto di vista
analitico, assumendo un assetto ali 'incirca identico a quello ancora oggi riscontrabile nei corsi istituzionali delle facoltà scientifiche: assetto che giustifica appieno
il titolo solitamente attribuitole di « meccanica razionale ». Tali sviluppi furono
resi possibili dai progressi parallelamente conseguiti dall'analisi infinitesimale,
che fornì gli strumenti indispensabili a un'impostazione soddisfacente dei problemi trattati (importante più di ogni altro lo strumento costituito dalle equazioni
differenziali alle derivate parziali). Non senza motivo gli studiosi che diedero
maggiori contributi alla meccanica furono proprio, nell'epoca in esame, quelli
stessi che abbiamo ricordato nelle pagine dedicate alla storia del pensiero mateI Un merito particolare a questo riguardo
va riconosciuto a Lazare Carnot (I753-IS22),
sulla cui importante figura ritorneremo nel capitolo v della sezione VI, che, in un celebre
saggio dal titolo Réjlexions sur la métaph;•sique du
colo infinitesima/e, 1797) cerca di porre in chiaro i
principi generali di questo calcolo, sulla base di
un accurato raffronto di esso con i vecchi metodi
di esaustione, degli indivisibili, delle prime e ultime ragioni, ecc.
ca/eu/ infinitésimal (Riflessioni sulla metafisica del ca/-
181
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L'esigenza di sistematicità nella matematica e nella meccanica
matico; il risultato conclusivo cui essi pervennero fu l'inclusione della meccanica
nella matematica, come vero e proprio ramo dell'analisi infinitesimale.
La prima metà del secolo è caratterizzata da due celebri querelles, peraltro
strettamente connesse fra loro: la polemica fra leibniziani e cartesiani alla quale abbiamo già fatto cenno nel capitolo xrv della sezione rv, e quella che
si accese verso il 1750 intorno al cosiddetto principio di minima azione di
Maupertuis.
La prima riguardava il problema della misura delle forze, cioè se tale misura
andasse cercata nella quantità di moto m v prodotta dalla forza considerata o
I
invece nella così detta «forza viva» (o energia cinetica) - m v2 , ove è chiara
2
la differenza fra le due espressioni in una delle quali la velocità v compare alla
prima potenza mentre nell'altra compare alla seconda. Cartesiani e newtoniani,
tra loro concordi su questo punto, erano favorevoli alla prima soluzione; i
leibniziani invece optavano per la seconda (che i contemporanei solevano chiamare «nuova definizione» della forza). In corrispondenza alle due definizioni,
gli uni sostenevano che nei processi naturali si conserva immutata la somma delle
quantità di moto; gli altri che si conserva immutata la somma delle forze vive.
Il dibattito in proposito, già assai vivo verso la fine del Seicento, si era
attenuato all'inizio del Settecento; la conversione del famoso fisico olandese
's Gravesande (del quale parleremo nel prossimo capitolo) dal fronte cartesianonewtoniano a quello leibniziano lo riaccese improvvisamente nel I 7 2 5. Vi intervennero quasi tutti gli scienziati dell'epoca e la polemica fu così aspra da porre
in imbarazzo chi non voleva compromettersi apertamente a favore dell'uno o
dell'altro indirizzo.
Attraverso i numerosi esempi (generalmente ricavati dallo studio dei fenomeni d 'urto) addotti dai leibniziani contro i cartesiano-newtoniani o da questi
contro quelli, venne a poco a poco in chiaro che, negli effettivi processi di natura
non si conservano costanti né la somma delle quantità di moto né quella delle
forze vive. Risultò evidente tuttavia che, per lo meno da un punto di vista operativo (cioè per la sua possibilità di fungere da fondamento di numerose formule della
meccanica), il principio di conservazione delle forze vive si rivela assai più fecondo dell'altro: se è vero infatti che non vale per l'intero campo dell'esperienza,
vero è però che può venire assunto a caratterizzare, in termini molto generali,
alcuni gruppi di fenomeni di specialissima importanza per la meccanica. A riprova
di questa fecondità, basti ricordare che Daniele Bernoulli lo pose a fondamento
della stessa trattazione dei fenomeni idrodinamici nella sua famosa l:(.ydrodynamica, sive de viribus et tnotibus fluidorum commentarii (Idrodinamica, ovvero commentari
intorno alle forze e ai moti dei fluidi) del I738. Né vanno dimenticate le numerose
suggestioni che il concetto di forza viva offrì a fisici e a biologi per una conce18z
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L'esigenza di sistematicità nella matematica e nella meccanica
zione « dinamista »del reale, cioè per una concezione che scorge nella forza l'elemento ultimo della realtà; ma su tali suggestioni si ritornerà varie volte io questo
e nei prossimi volumi.
Il principio di minima azione fu enunciato in forma esplicita da Maupertuis
nella memoria sopra citata del 1744 e successivamente ampliato e sviluppato in
quella del 1747· Prendendo le mosse dalle obiezioni che i cartesiani e poi Leibniz
avevano sollevato contro il principio di minimo utilizzato da Fermat per ricavarne le leggi di riflessione e di rifrazione della luce (secondo Fermat la natura
agirebbe sempre lungo le vie che permettono alla luce di trasmettersi nel più
breve tempo possibile), Maupertuis ritenne di poterlo sostituire con quest'altro:
«il cammino seguito dalla luce è quello che rende minima la quantità d'azione»
caso particolare di un nuovo principio generalissimo - cui egli dava appunto il
nome di principio di minima azione - così enunciabile: « quando in natura ha
luogo qualche mutamento, la quantità d'azione di questo mutamento è la più
piccola possibile», ove per «quantità d'azione» di un corpo si deve intendere
il prodotto delle quantità di moto del corpo considerato per lo spazio da esso
percorso (cioè m.v.s ). Effettivamente il nostro autore riusciva a dimostrare
senza eccessive difficoltà che il principio testé riferito conduce, ·nel caso particolare dei raggi luminosi, al risultato voluto; dimostrava inoltre che esso ci permette pure di ricavare le leggi generali dell'urto, sia fra i corpi elastici sia fra i
corpi non elastici. Con un'ardita generalizzazione egli ne concluderà che su tale
principio sono fondate « tutte le leggi del movimento », cioè che proprio da
esso « dipendono i movimenti di tutte le sostanze corporee», onde risulterebbe lecito pensare che sia stato direttamente il «Creatore e l'Ordinatore delle
cose » a imporla al mondo dei fenomeni.
Nel 1751 il matematico tedesco Samuele Koenig pubblicava però un lavoro,
in cui sosteneva che il principio di minima azione era già stato enunciato da
Leibniz, 1 e anzi precisava che nei moti regolati dalle ordinarie leggi della meccanica la quantità d'azione non assume sempre un valore minimo ma può anche
assumere un valore massimo. Maupertuis reagì astiosamente e non del tutto a
torto, poiché in realtà Koenig non fu in grado di esibire la lettera ove - a sua
detta - Leibniz avrebbe enunciato il principio in questione. Ne nacque una
polemica in cui furono coinvolte parecchie fra le maggiori personalità scientificofilosofiche dell'epoca, in primo luogo Eulero e Voltaire. Al saggio vivacemente
satirico scritto nell'occasione da quest'ultimo abbiamo già fatto cenno nel capitolo nr; per quanto riguarda Eulero, basti menzionare che egli, pur non tacendo
di essere stato il primo a compiere la scoperta, riconobbe -- con parole ove
non manca una cauta ironia - che Maupertuis « non solo ha stabilito il principio
I Egli non ricordò invece che fin dal 1744
Euler aveva esposto un principio equivalente a
quello di Maupertuis, presentandolo tuttavia come
una semplice verità a posteriori, da accettarsi solo
in quanto verificata dalle leggi già antecedentemente stabilite dalla dinamica.
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L'esigenza di sistematicità nella matematica e nella meccanica
più solidamente di quanto l'avessi fatto io, ma la sua vista, più estesa e più penetrante della mia, vi ha scoperto delle conseguenze che io non ne avrei mai ricavate» (trattasi, come è palese, delle conseguenze teologico-metafisiche).
Dal punto di vista matematico il principio di Maupertuis rivela senza dubbio
una notevole utilità, in quanto riesce a presentare in forma unitaria parecchie
leggi della dinamica solitamente dimostrate per vie del tutto indipendenti (già
ricordammo a proposito dell'urto, che esso ha il notevole merito di offrirei un
fondamento unico da cui poter dedurre le leggi valide per i due casi antitetici
dei corpi elastici e di quelli anelastici). Ma il nostro autore non si accontentava
di questo aspetto matematico della propria scoperta; come già abbiamo accennato
egli voleva vedervi qualcosa di più, cioè la prova dell'esistenza di un essere
onnipotente e onnisciente il quale darebbe prova della sua potenza e saggezza
nel far sì che i fenomeni non siano regolati da leggi qualsiasi, ma proprio da
leggi strutturate in modo da economizzare al massimo la quantità d'azione.
Orbene è precisamente questo intento ciò che viene rifiutato dagli avversari di
Maupertuis; esso costituisce il vero sottinteso dei loro dibattiti, appena velato
dalle questioni di priorità della scoperta. 1
È interessante riferire le parole con cui d' Alembert, nell'introduzione alla
seconda edizione del suo Traité de tjynamique (1758), prende posizione sul delicato
argomento pur senza fare nomi e senza intromettersi personalmente nella querelle:
un metafisico - egli nota - cercherebbe di provare la necessità che le leggi della
meccanica abbiano la forma che di fatto riscontriamo in esse « dicendo che
rientrava nella saggezza del Creatore e nella semplicità delle sue vedute, il non
stabilire altre leggi dell'equilibrio e del movimento ... ; ma noi abbiamo creduto
doverci astenere da questo modo di ragionare, perché ci è parso che esso si baserebbe su di un principio troppo vago; la natura dell'essere supremo ci è troppo
nascosta perché possiamo conoscere direttamente ciò che è o non è conforme
alla sua saggezza ».
Queste parole sono molto istruttive non solo perché sottolineano il desiderio
di d' Alembert di separare in modo definitivo la meccanica dalla metafisica, ma
anche perché pongono in chiara luce il serio problema metodologico che affiorava
nel principio di Maupertuis.
Le indagini scientifiche di Galileo, di Huygens e di Newton avevano potuto stabilire le grandi leggi che regolano con rigorosa necessità il prodursi dei
fenomeni meccanici; ma qual è il motivo per cui valgono proprio queste e non
altre leggi? Si noti che trattasi di un problema tutt'altro che inconsistente, il
quale ricompare, sia pure in termini diversi, negli stessi più recenti dibattiti
dell'odierna epistemologia. Questa suole infatti distinguere due significati, netI Si vedrà nel capitolo IX (paragrafo m)
come Maupertuis creda di poter conciliare questo
intervento diretto e continuo di dio nelle leggi
più generali della natura con l'ammissione che
una parte dell'ordine dei fenomeni sia effetto del
caso.
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L'esigenza di sistematicità nella matematica e nella meccanica
tamente diversi, collegabili alla richiesta di una spiegazione: il primo riguarda il
perché di un fatto (e ad esso si suole rispondere invocando una legge scientifica)
l'altro invece il perché di una legge scientifica, ossia - per usare la parole di
Richard Bevan Braithwaite 1 - la « ragione per cui tale legge scientifica è come
è» (e qui la risposta si fa straordinariamente più complessa).
Maupertuis ebbe il torto di cercare questa ragione in qualcosa di troppo vago
e a noi troppo nascosto come la saggezza divina; i maggiori scienziati del suo
tempo respinsero tale spiegazione per sostituirla con un'altra, che forse a noi
moderni può apparire altrettanto vaga, ma che certo era più conforme alle esigenze
della cultura illuministica. Essi sostennero che le leggi della meccanica sono
«verità necessarie». Questa è la tesi esplicitamente affermata da d' Alembert
nell'introduzione poco sopra citata; e questa è la tesi già sostenuta da Euler
nel suo trattato Mechanica sive motus scientia ana(ytice exposita (Meccanica ossia la
scienza del moto esposta analiticamente, 1736), ove leggiamo per esempio che la
legge fondamentale della proporzionalità fra incremento della quantità di moto
e incremento dell'impulso è non solo vera ma fornita di verità necessaria. In
una famosa memoria del 17 55, dal titolo Principes généraux de l' état d' équilibre des
ftuides (Principi generali dello stato d'equilibrio dei fluidi), il medesimo Eulero asserirà
(tesi peraltro non condivisa da d' Alembert) che anche l'impianto teorico dell'idrostatica e dell'idrodinamica è puramente razionale come quello degli altri capitoli
della meccanica.
La ricerca, perseguita da pressoché tutti i grandi matematici e meccanici
del Settecento, di principi generalissimi dai quali poter dedurre tutte le leggi
della meccanica si inquadra per l'appunto nel programma testé accennato: cioè
nel programma di fornire a questa disciplina una validità scientifica indipendente
dalle mere osservazioni empiriche.
Tale ricerca li condusse senza dubbio alla scoperta di formule giudicate
ancor oggi della massima importanza per la loro incontestabile efficacia unificatrice, sia rispetto ai concetti della meccanica, sia rispetto ai metodi per impostarne
e risolverne i principali problemi; ma- come si è detto- i loro autori scorgevano in tali formule anche qualcosa d'altro che oggi noi non siamo più disposti
ad ammettere: vi scorgevano delle verità necessarie, cioè delle verità capaci di
fornire un carattere di razionalità assoluta a tutta intera la disciplina in esame
sì da elevarla allo stesso livello della geometria.
Poiché non intendiamo qui delineare una vera e propria storia della meccanica, non ci fermeremo ad esporre le formule testé accennate. Occorre comunque
ricordare che un posto di specialissimo rilievo spetta, senza dubbio, al così
detto principio di d' Alembert, che ricava le equazioni del moto da quelle dell'equilibrio col sostituire, al posto di ogni forza attiva Ft, la così detta forza
perduta Ft - mt at (o al posto delle componenti di quella le corrispondenti comI
Nell'opera Scientific explanation,
Ia
ed. 195 3; traduzione italiana 1966.
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L'esigenza di sistematicità nella matematica e nella meccanica
ponenti di questa), e in tal modo riesce a ridurre ogni questione di dinamica ad
una di statica. Non minore importanza spetta pure alle equazioni di Lagrange
(strettamente collegate, peraltro, al principio di d' Alembert), che pervengono
a dare alle equazioni della dinamica una forma generalissima, la quale si presta
particolarmente bene - almeno per un largo settore di problemi del moto ad una rigorosa trattazione analitica. (Per maggiori notizie sull'argomento non
abbiamo che da rinviare a un qualunque trattato moderno di meccanica razionale.)
La Mécanique ana!Jtique (1788) di Lagrange si caratterizza rispetto alle precedenti perché sostituisce, alla ricerca di principi sempre più generali della meccanica,
quella di metodi atti « alla risoluzione di ogni problema ». Con ciò essa viene in
certo modo a chiudere la fase settecentesca di questa disciplina (dominata dalla
preoccupazione di fornire alla meccanica una garanzia razionale assoluta) per
aprirne un'altra, in cui prevale invece l'interesse operativo. Va sottolineato che
la stessa preoccupazione di giungere ad un unico principio capace di fondare
tutta la meccanica assume in Lagrange un significato nuovo: quello di ricavarne
un unico tipo di equazioni atto ad uniformare lo studio dei più diversi problemi,
e cioè di « riunire e presentare sotto un medesimo punto di vista i diversi principi finora trovati per facilitare la soluzione delle questioni di meccanica, mostrarne
la mutua dipendenza e metterei in grado di giudicare la loro giustezza e la loro
estensione ».
Il nostro autore si vanta di non fare ricorso, per raggiungere il fine testé
accennato, « né a costruzioni né a ragionamenti geometrici o meccanici, ma soltanto ad operazioni assoggettate a uno svolgimento regolare e uniforme ». Con
ciò l'accento si sposta dal dibattito sui principi e sulla loro giustificazione razionale (che Lagrange dà per scontata) alla ricerca di una sistemazione formalmente
perfetta di tutta la scienza del moto.
Senza disconoscere il grande valore di questa sistemazione, va tuttavia fin
d'ora osservato che essa non riuscì certo a spegnere definitivamente le indagini
sui fondamenti della meccanica. Al contrario, queste rinasceranno con rinnovato
vigore nella seconda metà dell'Ottocento, e sgretolando il mito della verità
assoluta e necessaria della meccanica galileiana-newtoniana, apriranno la via alla
teoria einsteiniana della relatività. Comunque, l'opera di Lagrange verrà a lungo
considerata quale esempio insuperabile di trattazione puramente matematica dei
fenomeni del moto, esempio cui si ispireranno non pochi scienziati della generazioné successiva nel tentativo di tradurre in formule altrettanto perfette altri
rami della scienza fisica (si veda in proposito il capitolo xvi della sezione vi).
r86
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V
· IL CALCOLO DELLE PROBABILITÀ
Già accennammo nella sezione precedente che il calcolo delle probabilità
nacque nel Seicento, ad opera di due grandi matematici: Pascal e Fermat. Essi
però si limitarono a studiarne alcune applicazioni particolari, e anche il breve
trattato scritto sull'argomento da Huygens non era altro, in realtà, che una raccolta di problemi in parte già risolti e in parte nuovi. Il fatto stesso che il
nuovo calcolo risultasse prevalentemente legato ai giochi d'azzardo, non stimolava certo a considerarlo come un'autentica disciplina scientifica. I primi trattati generali sull'argomento risalgono al Settecento onde solo in questo secolo
l'importante capitolo della matematica comincia ad acquistare una fisionomia ben
determinata. Tra essi ci limitiamo per ora a ricordare: l'Essai d' ana(yse sur /es jeux
de hazard (Saggio di analisi sui giochi d'azzardo, ra ed. 1708, za ed. ampliata 1714) di
Pierre Raymond Montmort (1678-1719); l'Ars conjectandi di Giacomo Bernoulli,
pubblicata postuma dal nipote Nicola nel 1713 (nella forma incompleta in cui l'autore l'aveva lasciata); e il volume The doctrine of chance (La dottrina del caso) di
Abraham De Moivre pubblicato nel 1718 (za ed. 1738, 3a ed. 1756).
L'interesse per il calcolo delle probabilità si diffonde ormai rapidamente
in tutti i più avanzati ambienti scientifici: se ne occupano con impegno Daniele
Bernoulli e s' Gravesande, Buffon, d'Alembert, Eulero, Hume, Lambert, ecc.
Il fatto notevole è, però, che lo si vede in una luce tutta particolare: non più
-ben inteso- come puramente legato ai giochi d'azzardo, ma nemmeno come
fornito di dignità pari a quella degli altri capitoli della matematica. È un calcolo
di cui si riconosce l'indubbia utilità nelle «scienze morali o umane», ma proprio
per la relativa inesattezza di queste, nessuno pensa seriamente di applicarlo alla
fisica, in quanto lo si ritiene inidoneo a fornirle il rigore che tale disciplina può
ricavare da una vera e propria trattazione matematica. Lo si applica invece largamente nell'elaborazione delle tavole di mortalità e di sopravvivenza e nella loro
utilizzazione da parte delle società assicuratrici, nella valutazione dell'attendibilità delle testimonianze, e perfino nella previsione delle deliberazioni delle assemblee, nella stima dei possibili errori compiuti dai tribunali, ecc.
Pur senza voler esporre la storia del calcolo in esame, non possiamo esimerci
dal ricordare che parecchi teoremi fondamentali di esso risalgono appunto al
xvm secolo. Per esempio il famoso teorema di Bernoulli (che stabilisce un rapporto probabilistico fra la frequenza di un evento entro una successione di prove
ripetute, in cui esso abbia sempre la medesima probabilità p, e il valore di questa
p) compare per la prima volta nell'Ars conjectandi poco sopra menzionata; la
non meno famosa formula di Bayes, riguardante la così detta probabilità delle
cause, compare per la prima volta in una memoria di Thomas Bayes (1671-1746),
dal titolo An essqy toward solving a problem in the doctrine of chances (Un saggio per risolvere un problema nella dottrina delle probabilità) pubblicata, postuma, nel 1764; la così
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L'esigenza di sistematicità nella matematica e nella meccanica
detta formula di De Moivre-Stirling, che ci permette di calcolare con un'approssimazione crescente al crescere dell'intero n il valore della funzione fattoriale
n mediante le funzioni n", e",y'n (formula di larga applicazione nel calcolo delle
probabilità) compare nei Miscellanea ana(ytica di De Moivre (r73o) e, notevolmente precisata, nel Methodus differentialis (esso pure del r 7 30) di Stirling.
L'esemplificazione, che potrebbe venire ulteriormente proseguita, conferma
in modo incontestabile il rapido diffondersi dell'interesse per il calcolo delle probabilità; non deve però trar ci in inganno sulla consistenza teorica da esso assunta.
In realtà questa risulta ancora molto scarsa, per il carattere incompleto e poco preciso delle sistemazioni che ne vengono tentate (ricordammo poco sopra quelle
operate da Montmort, da Giacomo Bernoulli e da Abraham De Moivre). Il primo lavoro davvero soddisfacente da tale punto di vista sarà compiuto-- come
vedremo nella sezione vr- da Laplace nei primi anni dell'Ottocento; la sua trattazione potrà in tal modo iniziare una nuova fase della storia di questo ramo
della matematica.
Ciò che mancava nel Settecento non era soltanto un assetto rigoroso degli
assiomi posti a base del calcolo delle probabilità, ma perfino una definizione
un po' chiara dei suoi concetti fondamentali (che potesse venire accolta concordemente da tutti i cultori dell'argomento e che potesse poi, in un secondo tempo,
venire sottoposta all'accurata analisi dei logici). Che per calcolare la probabilità
di un evento, nel caso in cui si riesca a stabilire il numero dei casi ad esso favorevoli
e quello dei casi possibili, si dovesse dividere il primo numero per il secondo,
era noto fin dal secolo precedente; ma i dubbi sorgevano appena si trattava di
decidere il significato attribuibile a tale rapporto, nonché alle espressioni « casi
favorevoli» e «casi possibili». All'interno del calcolo si veniva così delineando
una netta distinzione fra una parte algebrica, su cui sembrava abbastanza facile
ottenere una certa unanimità, e una parte concettuale ove regnava la massima
confusione.
Giacomo Bernoulli definisce la probabilità come grado di certezza: « probabilitas est gradus certitudinis, et ab hac differt ut pars a toto »; ma questa definizione crea più confusione che chiarezza, sia per il riferimento a qualcosa di
eminentemente soggettivo come la « certitudo », sia per l'oscurità del termine
« gradus »(a rigore i gradi di certezza vengono definiti proprio attraverso i valori
della probabilità, e non viceversa come pretenderebbe l'autore della definizione).
A proposito della regola poco fa riferita, consistente nell'assumere come misura
della probabilità il rapporto fra numero dei casi favorevoli e numero dei casi
possibili, egli afferma che essa risulta applicabile quando non vi è motivo di ritenere che le cose vadano piuttosto in un modo che nell'altro. In manifesta
analogia col principio leibniziano di ragion sufficiente il nostro autore lo indica
come principio di «ragione non sufficiente»; in seguito verrà chiamato « principio di indifferenza » così enunciato: in mancanza di ragioni che permettano di
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L'esigenza di sistematicità nella matematica e nella meccanica
assegnare probabilità diverse a ciascuno di più eventi alternativi ed esaustivi,
essi devono venire considerati come equiprobabili.
Il riferimento alla « certitudo », interpretata come qualcosa di essenzialmente soggettivo, è ancora presente nella voce Probabilité della Enryclopédie (voce
dovuta a d' Alembert), ave è compiuta una classificazione che vale la pena citare
(come esempio di manifesta equivocità) : secondo tale classificazione un evento
sarebbe probabile se ha più di un mezzo di certezza, sarebbe v~risimile se ha
molto più di un mezzo di certezza, moralmente certo se ha una certezza quasi
completa, incerto se ha un mezzo di certezza, dubbio se ha meno di un mezzo di
certezza, ecc.
Il problema è reso ulteriormente complicato dalla distinzione - assai diffusa
nel Settecento - tra evidentia mathematica ed evidentia moralis e dall'incertezza
se far rientrare la probabilità nell'una o nell'altra. In genere si tende a collegarla
alla seconda, non alla prima (perché la matematica è un scire mentre il calcolo delle
probabilità è solo un conjectare); ma allora, d si chiede, che cosa ci autorizza ad
esprimere la probabilità in numeri e perché mai si fa ricorso all'algebra per determinare una probabilità a partire da altre? Né manca chi sostiene (come accennammo nella classificazione testé citata) che l'evidentia moralis avrebbe a che
tà.re con la probabilità solo quando questa risulta molto prossima alla certezza,
e cioè quando la frazione che la esprime ha un valore molto prossimo all'unità.
Stando così le cose, non dobbiamo stupirei che il calcolo delle probabilità
venga dai più considerato- come già accennammo - applicabile solo alle scienze
umane non a quelle fisiche; e che nello stesso ambito delle prime la sua applicazione dia luogo a parecchi dissensi, anche fra studiosi dotati di pari serietà. Se
- come spiega molto bene Orietta Cambursano Pesenti - « esso si presenta
come guida all'azione più che come una vera e propria conoscenza», chiaro è
però che la guida da esso fornita diventa sommamente incerta quando l'interesse
di chi agisce sia diretto al singolo evento e non a un insieme di gran numero di
eventi (questo ultimo caso accade per le case assicuratrici, che infatti si avvalgono
con grande vantaggio dei calcoli probabilistid).
La questione emerse con un carattere di autentica drammaticità, quando cominciò a diffondersi in Europa l'uso (proveniente dai paesi orientali) di inoculare
nei fanciulli il vaiolo - in forma non virulenta - onde immunizzarli per tutta
la vita dalla grave malattia. Il metodo presentava però il gravissimo inconveniente di non poter garantire la certezza, ma solo una forte probabilità, di condurre ad un esito positivo; sull'opportunità o meno di ricorrere ad esso in queste
condizioni si accesero pertanto appassionate discussioni fra i maggiori scienziati
dell'epoca (tanto più appasdonate in quanto vi si mescolavano confusamente
problemi matematici e problemi di coscienza). Vale la pena riferire un breve
rt:soconto di esse fattone da Laplace nel 1814.
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L'esigenza d i sistematicità nella matematica e nella meccanica
« Il vaiolo ha questa caratteristica: non colpisce mai due volte lo stesso
individuo o per lo meno ciò avviene così raramente che se ne può fare del tutto
astrazione nel calcolo. Prima della scoperta del vaccino, ben pochi sfuggivano
a quella malattia che spesso è mortale ed uccide circa un settimo di coloro che ne
sono colpiti. Talvolta però è benigna, e l'esperienza ha dimostrato che le si poteva
dare questo carattere, inoculandola su persone sane, preparate con un buon regime, e in una stagione adatta. Allora il rapporto tra gli individui che uccide e
quelli vaccinati, non è che un trecentesimo. Questo enorme vantaggio dell'inoculazione, unito a quello di non alterare l'estetica e di preservare dalle conseguenze
spiacevoli che il vaiolo naturale spesso porta con sé, ha fatto adottare da moltissime persone l'inoculazione. La sua pratica fu vivamente raccomandata, ma,
come quasi sempre avviene per le cose che sono soggette ad inconvenienti, fu
anche vivamente combattuta. Mentre ardeva la disputa, Daniele Bernoulli si
propose di sottoporre al calcolo delle probabilità l'influenza dell'inoculazione
sulla durata media della vita. Mancando di dati precisi sulla mortalità causata
dal vaiolo nelle diverse età della vita, suppose che il pericolo di essere colpiti
da questa malattia e quello di perirne fossero uguali a qualsiasi età. Partendo da
tali ipotesi, giunse, attraverso un'analisi acuta, a trasformare una tavola ordinaria
di mortalità, in quelle che si potrebbero fare se il vaiolo non esistesse o se per lo
meno non facesse perire che un piccolissimo numero di malati; ne concluse che
l'inoculazione aumenterebbe di almeno tre anni la durata media della vita, il
che, a parere dello scienziato, indicherebbe chiaramente il vantaggio dell'inoculazione. D' Alembert polemizzò contro l'analisi di Bernoulli, dapprima a proposito
dell'incertezza delle sue due ipotesi, poi per l'incompletezza dell'analisi, perché
non vi era stato fatto rientrare il confronto tra il pericolo prossimo, sia pure
minimo, di perire per l'inoculazione, ed il pericolo ben più grande ma anche
più lontano di soccombere al vaiolo naturale. Questa considerazione non ha
senso quando si considera un numero grandissimo di individui, ed è appunto
per questo un'argomentazione di nessuna importanza per i governi, per i quali i
vantaggi dell'inoculazione sussistono; ma ha un gran peso su un padre di famiglia
che, facendo inoculare la malattia nei suoi bambini, teme di veder ben presto
perire ciò che di più caro ha al mondo e di esserne la causa. Molti genitori rifiutavano di adottare l'inoculazione proprio per questo timore, che è stato fortunatamente dissipato dalla scoperta del vaccino. »1
Si tratta, come ognun vede, di difficoltà strettamente collegate alla definizione poco sopra riferita della probabilità come grado di certezza; era proprio
I Anche il fatto che l'inoculazione in un organismo umano di vaiolo vaccino gli procurasse
una certa immunità rispetto al vaiolo umano era
noto da tempo ai popoli orientali; ma lo studio
scientifico di questo fenomeno e la sua piena valorizzazione per l'immunizzazione degli uomini ri-
sale solo al 1798. Il merito della «scoperta» spetta
al medico inglese Edward Jenner (1749-182.3) che
in tale anno pubblicò una memoria fondamentale
sugli accuratissimi esperimenti da lui eseguiti in
proposito.
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L'esigenza d i sistematicità nella matematica e nella meccanica
la presentazione soggettivistico-psicologica di essa che conduceva a confondere
i problemi concreti - connessi a una grave decisione del singolo individuo con i problemi teorici, riguardanti il significato scientifico del nuovo calcolo.
V ed remo nell'ultima sezione che l 'interpretazione della nozione di probabilità dà
effettivamente luogo ancor oggi a gravi dibattiti fra soggettivisti, logicisti e frequentisti, ma sono dibattiti esattamente circoscritti, che non scaturiscono più
-come nel Settecento- da una inconsapevole sovrapposizione di sfere diverse.
È chiaro comunque che un'impostazione rigorosa di essi esige un'accuratissima
critica dei fondamenti: critica che non poteva nemmeno venire abbozzata quando
il calcolo delle probabilità non aveva ancora raggiunto un primo assetto sistematico. Essa potrà sorgere solo dopo l'elaborazione di Laplace, per l'appunto, quale
approfondimento logico ed epistemologico delle nozioni cui fanno riferimento
le ipotesi ivi emerse come essenziali.
Senza insistere oltre sull'argomento, ci limiteremo a sottolineare ancora una
volta quanto sia tipico della mentalità illuministica lo stadio raggiunto nel Settecento dal calcolo delle probabilità: caratterizzato per un lato da un notevolissimo fervore di ricerche, quasi sempre svolte con incontestabile abilità tecnica,
per l'altro da una non meno notevole imprecisione di concetti e da gravi manchevolezze nella sistemazione della materia. Imprecisione e manchevolezze che, pur
rendendo difficile un'esatta collocazione del calcolo nel quadro delle nostre
conoscenze, non diminuivano però la fiducia in esso, poiché tutti vi scorgevano
un nuovo strumento - forse non ancora ben chiaro, ma comunque fornito di
una certa efficacia - per allargare il dominio della ragione a campi che erano
parsi sfuggire, fino a quel momento, ad ogni seria indagine scientifica.
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CAPITOLO OTTAVO
L'esigenza di una più ampia sperimentazione
nelle scienze della natura
I
· CONSIDERAZIONI GENERALI
Se un notevole settore della scienza fisica (intesa nel senso più generale del
termine, cioè come scienza della natura inorganica) fu senza dubbio caratterizzato nel Settecento da una crescente esigenza di sistematicità, da attuarsi mediante l'applicazione sempre più estesa della matematica, altri settori però quelli dei quali intendiamo occuparci nel presente capitolo - furono invece
caratterizzati dall'acquisizione di nuovi risultati sperimentali, spesso inquadrabili senza grandi difficoltà in leggi empiriche abbastanza precise ma non in teorie
generali soddisfacenti. Questo ampliamento di dati, strettamente connesso ai
rapidi e sorprendenti progressi della tecnica, costituirà nel giro di qualche decennio una delle molle più importanti per la graduale elaborazione di nuove categorie scientifiche.
Mentre i problemi connessi all'esigenza di sistematicità, di cui parlammo
nel capitolo precedente, avevano un manifesto rilievo filosofico - in quanto
concernevano il significato stesso e i limiti della « razionalità », attribuita nel
Settecento alle due discipline, la matematica e la meccanica, più concordemente
riconosciute come autentiche scienze - i problemi relativi al settore di ricerche
prese in esame nel presente capitolo hanno soprattutto un rilievo metodologico,
che riguarda solo indirettamente la filosofia. Essi sono, comunque, assai importanti al fine di comprendere la complessità dei fattori intervenuti nella laboriosa
costituzione della scienza moderna.
A titolo puramente indicativo, diremo fin d'ora che tali problemi possono
venire incentrati sui tre seguenti temi fondamentali:
1) simbiosi fra scienza e tecnica, che nel xvm secolo si risolve spesso
in un contributo della seconda alla prima maggiore che non quello della prima
alla seconda (a causa dell'inadeguatezzza degli strumenti teorici posseduti dalla
scienza dell'epoca onde teorizzare i nuovi campi fenomenici di cui la tecnica
stava scoprendo l'enorme importanza, per esempio il campo concernente gli
scambi tra lavoro e calore);
2) scarsa rispondenza tra fatti e teoria negli stessi settori ove la teoria sem-
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L'esigenza di una più ampia sperimentazione nelle scienze della natura
brava garantita da più solide basi razionali, quale appunto il settore della meceanica (possiamo citare a titolo d'esempio le parole scritte dall'ingegnere militare Charles Borda [I 7 33-99], in una celebre memoria del I 766 dedicata allo
studio del moto dei fluidi, ove egli prende in esame l'utilizzabilità dell'idrodinamica teorica a fini pratici: « La teoria ordinaria dell'urto dei fluidi non fornisce
che dei rapporti assolutamente falsi e, per conseguenza, sarebbe inutile e perfino pericoloso applicare questa teoria all'arte della costruzione dei vascelli. »);
3) difficoltà di giustificare le leggi della natura, unicamente ricavate dalla
generalizzazione dei dati osservativi.
Per dare un certo ordine alla nostra esposizione, cominceremo a ricapitolare brevemente alcuni dei principali progressi conseguiti, durante il Settecento,
nel campo della fabbricazione degli strumenti scientifici, passando poi a delineare, nel paragrafo successivo, un quadro generale - di necessità schematico - dei nuovi sviluppi della tecnica più difficilmente collegabili con le vedute
scientifiche del secolo. Dopo un rapido esame delle conquiste realizzate dalle
più significative ricerche sperimentali di fisica e di chimica, ci soffermeremo
infine a discutere la portata delle prime istanze critiche affioranti in alcuni scienziati dell'epoca (in particolare nel fisico olandese 's Gravesande). Dato il gran
numero di autori considerati, pochi dei quali ebbero una personalità scientifica
di autentico rilievo culturale, ci limiteremo a fornire pochissimi dati biografici
su ciascuno di essi - via via che avremo occasione di nominarlo - aggiungendo
qualche ulteriore notizia solo sulle figure di primissimo piano.
II
· RAPIDI PROGRESSI NELLA COSTRUZIONE
DEGLI STRUMENTI
SCIENTIFICI
Ci si è soffermati, nel capitolo XI della sezione IV, sul nuovo e significativo
interesse diffusosi tra gli scienziati del Seicento per gli strumenti scientifici, e si
sono elencati alcuni fra i più importanti di essi che in tale arco di tempo vennero
a potenziare le indagini sulla natura. Come è agevole comprendere, i successi
così ottenuti riuscirono a vincere quasi completamente (non però in tutte le
discipline) le primitive riserve contro il nuovo metodo di osservare la natura,
spingendo tecnici e scienziati a compiere ogni sforzo per migliorare gli apparecchi da poco costruiti e per fabbricarne dei nuovi. Non potendo dare un panorama completo dei progressi conseguiti lungo tale via, ci limiteremo a ricordare i campi in cui si realizzarono passi più rapidi e più ricchi di conseguenze in
vista dello sviluppo generale della ricerca scientifica.
In primo luogo va menzionato il settore della misura del tempo, importantissimo sia dal punto di vista della scienza pura sia per le sue applicazioni pratiche. Il difficile problema, che fu necessario risolvere per migliorare in modo
significativo gli orologi del Seicento, riguardava la costruzione di bilancieri
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L'esigenza di una più ampia sperimentazione nelle scienze della natura
che garantissero l'isocronismo delle oscillazioni, compensando le variazioni
dovute ai mutamenti di temperatura. Il merito maggiore in questo campo spetta
al meccanico inglese John Harrison (I693-I776) che nel 1726 ideò il pendolo
compensato a struttura bimetallica e nel I 7 3 5 riuscì a fabbricare un primo soddisfacente cronometro marino (controllato da due bilancieri oscillanti in verso
opposto, capaci di controbilanciare i movimenti della nave) da utilizzarsi per la
determinazione della longitudine. Dopo avergli recato ulteriori perfezionamenti
attraverso lunghi anni di paziente lavoro, si decise a presentarlo al governo britannico che aveva decretato un cospicuo premio a chi fosse riuscito a costruire
un apparecchio atto a risolvere l'annoso problema della longitudine. Eseguite
le debite prove, il premio gli venne riconosciuto nel I772. I cronometri di Harrison furono adoperati dal capitano Cook 1 per i suoi viaggi attorno al mondo.
Quanto ai perfezionamenti conseguiti nella costruzione degli apparecchi
elettrici, la loro storia è così intimamente legata a quella di tutta l'elettrologia
dell'epoca, che preferiamo attendere a farne parola quando prenderemo in rapido esame lo sviluppo dell'intera disciplina.
Un altro settore in cui furono realizzati notevolissimi progressi è quello
degli apparecchi ottici: basti ricordare che nel I 7 57 l'inglese J ohn Dollond
(I7o6-6I) riuscì a costruire un obiettivo acromatico, il che rappresentò una
vera e propria svolta in tale campo della tecnica. L'acromatismo era già stato
fatto oggetto alcuni anni prima di approfonditi studi da parte del matematico
Eulero (di cui parlammo a lungo nel capitolo precedente) che aveva sostenuto
contro l'opinione di Newton la possibilità di costruire lenti acromatiche, senza
però passare all'effettiva realizzazione di esse. Alcuni importanti perfezionamenti
vennero pure introdotti, nella costruzione dei microscopi, dal fisico tedesco Aepinus, su cui ritorneremo nel paragrafo v, e dall'ufficiale olandese François Gerardzoon Beeldsnyder (I7jj-I8o8). Anche la fabbricazione di telescopi a riflessione, già iniziata nel S.eicento (come si ricordò nel capitolo poco sopra citato
della sezione Iv) subì importanti miglioramenti soprattutto verso la fine del XVIII
secolo ad opera del grande astronomo William Herschel (su cui ritorneremo
nel paragrafo IV) che compì le sue famose scoperte astronomiche per l'appunto
con un apparecchio di tale tipo (fornito di un tubo di m. I 2 di lunghezza e I .4 7
di larghezza).
Passando ora dall'ottica alla termologia, va ricordato che proprio al Settecento risale l'introduzione delle scale termometriche ancora oggi in uso, dovute
all'olandese Gabriel Daniel Fahrenheit (I686-I736), al francese René Antoine
1 James Cook (1728-79) fu il maggiore esploratore inglese del Settecento. Nel 1768 egli venne inviato dalla Royal Society di Londra nel Pacifico meridionale, per osservare da Tahiti un determinato passaggio di Venere sul sole. Il fatto che la
più illustre accademia inglese abbia affidato a Cook
questa missione dimostra quanta importanza fosse
ormai attribuita, anche in sede ufficiale, alle esplorazioni geografiche. In questo ed in altri viaggi,
Cook diede un contributo fondamentale allo studio della geografia dell'Australia, della Nuova Zelanda e dell'Oceano Pacifico. Non riuscì tuttavia
nell'impresa che più gli stava a cuore: scoprire il
continente Antartico.
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L'esigenza di una più ampia sperimentazione nelle scienze della natura
Ferchault de Réaumur (1683-1757), e allo svedese Anders Celsius (1701-44)·
Tale introduzione fu resa possibile dalla scoperta - dovuta al fisico Guillaume
Amontons (1663-1705)- che la temperatura di ebollizione dell'acqua è costante
se resta costante la pressione atmosferica: chiaro esempio, come ognuno vede,
di stretta e feconda collaborazione fra ricerca scientifica e abilità tecnica (una
notevole abilità era ad esempio richiesta per dividere l'intervallo fra i due punti
fissi della scala termometrica in trattini esattamente uguali). Assai vantaggioso si
rivelò pure l'impiego - operato per la prima volta in forma sistematica, da
Fahrenheit -- del mercurio in luogo dell'alcool come liquido termometrico;
esso permise la costruzione di termometri più piccoli e più maneggevoli, con i
quali fu possibile determinare con maggiore esattezza di prima il decorso dei
fenomeni (per esempio lo stesso Fahrenheit riuscì a scoprire con i nuovi apparecchi l'importante fenomeno della soprafusione). Tra i molti altri apparecchi ideati
per lo studio sperimentale della termologia, ci limiteremo a ricordare i primi
calorimetri costruiti verso il 1750 dal chimico Joseph Black (1728-99), professore all'università di Glasgow, per misurare la quantità di calore assorbita nei
mutamenti di stato, e i dilatometri costruiti per determinare le dilatazioni delle
aste metalliche da utilizzarsi nella costruzione degli orologi. Il primo dilatometro
fu progettato, verso il 1 7 3o, dal fisico e meccanico inglese George Graham
(1673-1751); esso subirà in pochi decenni notevoli perfezionamenti e permetterà
così uno studio accurato delle leggi di dilatazione.
Al medesimo Harrison poco fa ricordato spetta pure il merito di aver costruito la prima bilancia di precisione. Altre bilance ancora più sensibili ed esatte
verranno costruite dall'ingegnere meccanico francese Pierre Bernard Mégnié
(1751-I8o7) su ordinazione di Lavoisier, e costituiranno lo strumento fondamentale con cui questi opererà le sue rivoluzionarie scoperte. Oltre alla bilancia,
anche altri apparecchi di uso comune nelle ricerche chimiche (a base di recipienti
di vetro variamente conformati) subirono ingegnosi perfezionamenti; degno
di nota è pure l 'uso delle lenti per concentrare i raggi del sole su una ben determinata porzione di spazio onde produrvi opportune reazioni. Particolarmente
studiata fu la chimica dei gas, che condusse a molte scoperte ricche di applicazioni tecniche, talune delle quali atte a suscitare l'entusiasmo delle stesse folle.
Basti ricordare l'ammirazione generale per il primo volo che Joseph Michel
Montgolfier (1740-I8IO) riuscì a far compiere il 20 settembre 1783 a un pallone
aerostatico da lui costruito; in questo volo la navicella del pallone era ancora senza passeggeri, ma un mese più tardi esso veniva ripetuto con pari successo, e
questa volta erano saliti a bordo due coraggiosi pionieri: il fisico François
Pila tre de Rozier (I 7 54-8 5) e il marchese François Laurent Arlandes de Salton
(1742-I8o9). Nel gennaio 1785 Jean-Pierre Blanchard (1753-18o9) attraversava la
Manica su di un pallone aerostatico.
A parte l'accresciuta fiducia nelle possibilità umane che questi ed altri sue-
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L'esigenza di una più ampia sperimentazione nelle scknze della natura
cessi diffusero rapidamente tra i più larghi strati di persone, non è difficile comprendere che i progressi poco sopra accennati della strumentologia scientifica
ebbero profonde ripercussioni nell'impostazione stessa dei problemi conoscitivi. Essi confermavano la giustezza e la fecondità dell'insegnamento impartito
all'inizio del Seicento dai creatori della scienza moderna (e in particolare da
Bacone): l'uomo può scoprire i segreti della natura - e quindi imparare a dominarla - quando sappia interrogarla in forme opportune; cioè quando non si
limiti a una contemplazione passiva dei fenomeni, ma si costruisca con le proprie
mani sempre nuovi strumenti di indagine, capaci di allargare il campo dell'esperienza, di precisare i dati che essa ci fornisce, di provocarne il decorso in condizioni esattamente controllate.
III
· I COMPLESSI RAPPORTI TRA TECNICA E SCIENZA
Non è il caso di sottolineare gli stimoli e i suggerimenti che pressoché tutti
i campi della produzione ricavarono in breve tempo dai perfezionamenti conseguiti nella costruzione degli strumenti scientifici. Taluni di questi strumenti
- come già ricordammo - trovarono diretta applicazione nell'attività pratica
(per esempio nella navigazione); altri servirono da modelli per introdurre miglioramenti nelle macchine di uso ordinario, rendendole più efficienti anche se
più costose. Saranno come è ovvio le imprese economicamente più solide a
perfezionare i propri macchinari, acquistando in tal modo nuove possibilità di
imporsi sui mercati.
Particolari applicazioni trovarono le innovazioni della tecnologia chimica,
sia nell'ambito della lavorazione dei metalli sia in quello della produzione degli
esplosivi, onde si cominciarono a costruire armi più potenti e più precise. Furono
rinnovati i metodi per la costruzione delle massicciate delle strade, con notevole
vantaggio delle comunicazioni terrestri, nonché quelli per la costruzione degli
edifici di abitazione, delle fortificazioni, ecc. I perfezionamenti apportati agli
strumenti ottici permisero un più preciso rilevamento topografico, il che rese
possibile un notevole miglioramento della cartografia. Furono scavati nuovi
canali, sia per l'irrigazione sia per la navigazione interna. E così via.
Si formò perfino un nuovo mercato per la costruzione di strumenti scientifici a uso dimostrativo. Come scrive Derek J. Price « gli artigiani più in vista
cominciarono ora a vendere attraenti cassette contenenti serie di apparecchi
per la dimostrazione delle leggi della meccanica o del magnetismo, scatole di
modelli per illustrare la geometria solida, serie di lastre e oggetti per il microscopio del principiante, globi e complicati congegni istruttivi come il planetario ...
Questa tendenza si accentuò man mano che il secolo s'inoltrava».
Eppure, malgrado questo fecondo interscambio fra scienza e tecnica (stimolato - come si è detto - dai perfezionamenti conseguiti dalla strumentolo-
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L'esigenza di una più ampia sperimentazione nelle scienze della natura
gia scientifica), vi fu un vastissimo settore della tecnologia nel quale per tutto
il XVIII secolo le influenze della scienza rimasero pressoché nulle; e fu proprio
il settore in cui si produsse la svolta più radicale, destinata ad avere le maggiori
ripercussioni sullo sviluppo della società. Intendiamo riferirei alla svolta determinata dall'invenzione delle macchine a vapore. Data la sua enorme importanza,
riteniamo doveroso fornire in proposito qualche notizia più dettagliata. 1
Nel 1698 il meccanico inglese Thomas Savary (1650-171 5) aveva brevettato una «pompa a fuoco» per l'estrazione dell'acqua dalle miniere. Si trattava
di inviare con un opportuno congegno di valvole del vapore acqueo ad alta
temperatura entro un robusto recipiente, raffreddandolo poi rapidamente col
bagnarne dall'esterno le pareti; il vapore si condensava producendo nel recipiente un vuoto abbastanza spinto, onde questo (cioè la camera di condensazione)
poteva funzionare come pompa aspirante, capace di sollevare fino a sé un certo
quantitativo d'acqua. In un secondo tempo entrava- nella camera così riempita
- del nuovo vapore sotto pressione, che ne esp~lleva con forza l 'acqua ivi contenuta, funzionando questa volta come pompa premente. Il rudimentale apparecchio, che aveva un rendimento assai scarso e che tra fase aspirante e fase premente riusciva appena a sollevare l'acqua di 17-18 metri, incontrò tuttavia un
certo successo venendo utilmente applicato sia per il prosciugamento delle miniere dall'acqua di infiltrazione, sia per l'approvvigionamento idrico di grandi
fabbricati.
Dal punto di vista teorico esso rappresentava una importante novità perché
interessava - come sottolinea Cesare Codegone a proposito di questo genere di
macchine--« due ordini di fatti fin'allora ritenuti eterogenei: il sollevamento di
pesi e il riscaldamento di corpi, considerati rispettivamente dalla meccanica e dalla
termologia ». Il ponte gettato da Savary fra tali due scienze, che nel Settecento
apparivano tanto lontane una dall'altra sia nei loro concetti sia nei loro metodi,
fu ben presto rafforzato dagli inventori di nuove macchine a fuoco: col trascorrere del tempo esso si rivelerà una delle idee più feconde di tutto il pensiero scientifico moderno.
Il progetto di sfruttare il vapore acqueo, portato ad alta temperatura, per
la produzione di lavoro meccanico, fu pure avanzato- all'incirca nel medesimo
tempo- da un valente fisico francese, Denis Papin (1647-1714), inventore della
famosa « pentola » che porta appunto il suo nome; ma rimase allo stato di semplice progetto per le difficoltà incontrate nella realizzazione.
Esso venne comunque a conoscenza del meccanico inglese Thomas NewI Rinunceremo invece, perché trattasi di argomento che interessa più la storia dell'economia
che non quella del pensiero scientifico, a soffermarci sui notevoli sviluppi conseguiti, durante
l'epoca in esame, dalla costruzione dei telai (navetta volante, filatrice automatica, ecc.) e dalla la-
vorazione dei metalli (sostituzione dei forni a
coke in luogo dei forni a carbone di legna, per realizzare la fusione prima del rame poi della ghisa;
produzione del così detto « acciaio al crogiolo »
che suole venir considerato il primo acciaio moderno, ecc.).
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L'esigenzq di una più ampia sperimentazione nelle scienze della natura
comen (I663-I7z9), il quale, prendendo le mosse dall'idea di Papin e dalla pompa
a fuoco di Savary, riuscì a costruire nel I 7I z una ingegnosa macchina, pratica
e sicura, per trasformare il calore in lavoro. Essa era costituita da un grande cilindro in posizione verticale, entro cui poteva scorrere uno stantuffo; questo
veniva fatto salire principalmente per l'azione di un peso opportunamente collocato all'estremità di una leva, e durante la salita, la parte inferiore del cilindro si
riempiva di vapore prodotto (ad una pressione poco superiore a quella atmosferica) da una caldaia sottostante; giunto lo stantuffo all'estremo superiore del
cilindro, il vapore veniva fatto rapidamente condensare da un getto d'acqua
fredda, producendo entro la parte inferiore del cilindro un vuoto abbastanza
spinto: allora la pressione atmosferica spingeva con forza lo stantuffo dall' estremo superiore a quello inferiore del cilindro. Inizialmente la macchina era in grado
di battere sei colpi al minuto; col tempo, però, venne migliorata sì da batterne
dodici o anche quindici. Con un opportuno sistema di ingranaggi, questi colpi
riuscivano a mettere in moto delle pompe per il sollevamento dell'acqua; così
la macchina poteva venire utilizzata sia per prosciugare i pozzi delle miniere,
sia per portare acqua in serbatoi opportunamente elevati dai quali essa veniva poi
fatta scendere mettendo in moto una ruota idraulica. Il rendimento, sebbene notevolmente superiore a quello delle «pompe a fuoco» di Savary, era ancora assai
basso; esso verrà quasi raddoppiato nel I 77 5, a causa dei perfezionamenti introdotti nei vari congegni dall'ingegnere inglese John Smeaton (I7z4-9z).
Malgrado il basso rendimento, l'uso della nuova macchina si diffuse rapidamente
non solo in Inghilterra ma anche sul continente, tanta era la « fame di energia »
provocata dal grande sviluppo della produzione in pressoché tutti i paesi civili
d'Europa.
Va subito sottolineato però che il dispositivo ideato da Newcomen non costituiva ancora una innovazione autenticamente « rivoluzionaria » nella tecnologia dell'epoca; ai più essa appariva infatti come null'altro che un ingegnoso
accessorio, sia pure molto utile, della ruota idraulica. Per dare inizio alla vera e
propria sostituzione dell'energia termica all'energia idraulica, era necessario un
ulteriore passo.
Tale passo fu compiuto da James Watt (I736-I8I9). Questi era un abilissimo tecnico che lavorava presso l'istituto di fisica dell'università di Glasgow.
Nel 1763, invitato a riparare una macchina di Newcomen in dotazione di tale
università, ebbe modo di studiarla in tutti i particolari, esaminandone in dettaglio il funzionamento. Ebbe quindi l'idea di introdurvi alcune modifiche per
accrescere il rendimento (la principale fu costituita dall'aggiunta del condensatore); pervenne così alla costruzione di una nuova macchina, che fece brevettare
nel I769. Successivi perfezionamenti la resero straordinariame.nte più vantaggiosa di tutte le macchine precedenti; di particolare importanza fu l 'introduzione
dei « rotismi epicicloidali» e del « parallelogramma », capaci di trasformare il
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L'esigenza di una più ampia sperimentazione nelle scienze della natura
movimento oscillatorio di un'asta (collegata allo stantuffo che scorre avanti e
indietro nel cilindro) in movimento rota torio. Ormai la macchina a vapore non
era più un semplice accessorio della ruota idraulica: era uno strumento capace
di produrre direttamente il tipo di movimento di cui tutte le officine .avevano
bisogno. Lo stesso Watt, associatosi con un abile e ricco imprenditore (Matthew
Boulton), ne iniziò a Soho la produzione su vasta scala. Il successo da essi ottenuto fu rapido ed enorme. Ecco le parole con cui ce lo descrive Umberto Forti
nella sua affascinante opera, qui largamente usata, Tecnica e Progresso umano: « Nel
1780, quaranta macchine a vapore erano già usate in Inghilterra, e la prima si
imbarcava per il continente. L'anno appresso, una fu inviata negli Stati Uniti
e un'altra fu installata a Parigi per sollevare le acque della Senna, e alimentare
numerose fontane. Il successo di curiosità era pari a quello industriale. Dalle
officine di Soho - che fornivano tutto il mondo - uscirono centinaia di esemplari (la produzione segnava un crescendo geometrico) nel ventennio che corre
fra il I 780 e il I 8oo: macchine per miniere o per opere di prosciugamento, per
mulini, per i recenti congegni tessili di Crompton e di Arkwright (che ormai
abbandonavano la forza idraulica), per altiforni e industrie metallurgiche, per birrerie, segherie, e presse, per azionare il nuovo maglio nelle officine di Wilkinson
(I783). » La macchina a vapore era ormai divenuta uno dei principali strumenti
della rivoluzione industriale.
Le notizie qui riferite sono sufficienti pur nella loro brevità, a farci comprendere il tipo di rapporti che legarono la più grande innovazione tecnica del
XVIII secolo con l'autentico patrimonio scientifico dell'epoca: rapporti estremamente tenui, del tutto diversi da quelli che incontreremo nell'Ottocento e nel
Novecento, quando lo sviluppo della scienza e quello della tecnica diventeranno
pressoché inscindibili. Con ciò non vogliamo certo negare che l'invenzione della
macchina a vapore sia stata in qualche modo influenzata dai contemporanei
progressi della termologia (soprattutto dai nuovi apparecchi scientifici da questa
ideati per l'esatta descrizione dei fenomeni termici); ma fu un'influenza indiretta,
marginale, non determinante. Il fatto è che un vero e proprio studio scientifico
delle trasformazioni del calore in lavoro sorgerà soltanto nel XIX secolo e sarà
in gran parte determinato proprio dai progressi delle macchine a vapore: sarà
cioè il progresso della tecnica a stimolare la scienza, e non viceversa. Come
è stato giustamente scritto « fino al I 8 5o la macchina a vapore fece per la scienza
più di quanto la scienza non abbia potuto fare per essa» (L.J. Henderson).
È un fatto di cui bisogna tener conto, se si vogliono comprendere sul serio i
tratti più caratteristici di questa importante fase del pensiero moderno.
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IV
· ASTRONOMIA, GEODESIA, GEOLOGIA
Le ricerche di astronomia si svilupparono, dopo Newton, lungo due direttrici principali: la prima tendente a dedurre, per mezzo dell'analisi infinitesimale,
sempre nuove conseguenze a partire dalla legge di gravitazione, atte a spiegare
con rigore via via crescente tutti i fenomeni celesti; la seconda invece a scoprire
dati d'osservazione sempre più precisi, da utilizzarsi per ulteriori verifiche (che
diedero ogni volta risultati positivi) del grande sistema newtoniano. Proseguirono pure per un certo tempo i dibattiti sulla causa della gravitazione stessa,
ma poi finì per prevalere, anche su questo punto, la tesi di Newton, secondo
cui la nostra ragione deve accontentarsi (H riconoscere la validità scientifica della
legge accogliendola come « fatto generale », senza perdersi alla ricerca di ipotesi -più o meno metafisiche - mediante le quali tentare di spiegarla.
La complessa ed esaltante situazione - in cui la cultura del Settecento vedeva mirabilmente confermata la potenza della mente umana, fatta forte dall'analisi infinitesimale - è stata, nel 1796, efficacemente riassunta da Laplace in alcune bellissime pagine da cui vale la pena stralciare qualche brano: « Egli [Newton] ha ben stabilito l'esistenza del principio che ha scoperto; ma lo sviluppo
delle conseguenze e dei vantaggi che se ne traggono è stato opera dei suoi successori. L'imperfezione del calcolo infinitesimale, allora appena iniziato, non gli
ha permesso di risolvere completamente i difficili problemi che presenta la teoria
del sistema del mondo, ed è stato spesso costretto a dare soltanto delle indicazioni sempre incerte sin quando non siano verificate da un'analisi rigorosa ... Dopo
che fu riconosciuta la vanità delle spiegazioni cartesiane, si considerò l'attrazione
come Newton l'aveva presentata, vale a dire come un fatto generale al quale
era giunto attraverso una serie di induzioni, e dal quale era ridisceso per spiegare
i fenomeni celesti... I geometri rettificando e generalizzando le sue dimostrazioni,
avendo trovato il più perfetto accordo tra le osservazioni ed i risultati dell'analisi,
hanno adottato unanimemente la sua teoria del sistema del mondo, divenuta per
merito delle loro ricerche, la base di tutta l'astronomia ... Passarono circa cinquant'anni dalla scoperta dell'attrazione, senza che si aggiungesse ad essa niente
di notevole. Ci volle tutto quel tempo perché una verità così grande fosse generalmente capita e potesse superare gli ostacoli che le opponeva sul continente
l'idea che, sull'esempio di Descartes, si dovesse spiegare meccanicamente la gravitazione ... Bisogna però osservare che per i contemporanei di Newton come per
Newton stesso la gravitazione universale non aveva quella certezza che i progressi
delle scienze matematiche e le osservazioni le hanno dato. Eulero e Clairaut che,
con d' Alembert, applicarono per primi l'analisi alle perturbazioni dei movimenti
celesti, giudicarono la gravitazione universale non sufficientemente fondata per
attribuire all'inesattezza delle approssimazioni o del calcolo le differenze che notarono tra l'osservazione e i loro risultati sui movimenti di Saturno e del perigeo
zoo
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L'esigenza di una più ampia sperimentazione nelle scienze della natura
lunare. Ma quegli stessi illustri geometri e i loro successori, dopo avere rettificato
quei risultati, perfezionato i metodi e portato le approssimazioni ad ·un grado
sufficiente, sono alla fine giunti a spiegare, mediante la sola legge di gravitazione,
tutti i fenomeni del sistema del mondo e a dare alle teorie e alle tavole astronomiche una precisione insperata... Il geometra ha così saputo estrarre dalle osservazioni, come da una miniera feconda, gli elementi più importanti dell'astronomia, che, senza l'analisi, vi resterebbero eternamente nascosti. Egli ha determinato i valori rispettivi delle masse del Sole, dei pianeti e dei satelliti, tenendo conto delle rivoluzioni dei vari corpi e dello sviluppo delle loro ineguaglianze periodiche e secolari; la velocità della luce e l'ellitticità di Giove gli san
state date dalle eclissi dei satelliti, con maggior precisione che dalla osservazione
diretta; ha ricavato la rotazione di Urano, di Saturno e del suo anello e l'appiattimento dei due pianeti dalla posizione rispettiva delle orbite dei loro satelliti;
le parallassi del Sole e della Luna e l'ellitticità stessa dello sferoide terrestre si
sono rivelate nelle ineguaglianze lunari; s'è visto infatti, che la Luna mediante
il suo movimento rivela all'astronomia perfezionata l'appiattimento della Terra
come ne aveva palesato ai primi astronomi mediante le eclissi la rotondità. Infine, mediante una felice combinazione dell'analisi e delle osservazioni, la Luna,
che sembra essere stata data alla Terra per illuminarla durante le notti, è diventata la guida più sicura del navigante, il quale è garantito da essa dai pericoli ai
quali fu esposto per lungo tempo, dati gli errori di calcolo. La perfezione della
teoria lunare, alla quale egli deve questo prezioso vantaggio e quello di fissare
con esattezza la posizione dei luoghi in cui approda, è il frutto degli studi dei
geometri a partire da cinquanta anni fa, e, in un così breve intervallo, la geografia,
resa più precisa dall'uso delle tavole lunari e degli orologi marini, ha fatto progressi maggiori che in tutti i secoli precedenti. Queste sublimi teorie riuniscono
così tutto ciò che può dar valore alle scoperte: la grandezza e l'utilità dell'oggetto,
la fecondità dei risultati e il merito della difficoltà superata.» (trad. di Orietta
Cambursano Pesenti)
Dopo le parole testé riferite di Laplace non sembra il caso di aggiungere
altro né sull'importanza degli sviluppi analitici del sistema newtoniano né sul
fatto, estremamente significativo, che la gravitazione universale finì per trasformarsi, in base ai rapidi e innumerevoli successi ottenuti, da legge che gli avversari di Newton ritenevano inaccettabile perché rimasta senza spiegazione, in
principio generalissimo, non solo in se stesso valido ma da utilizzarsi per la spiegazione di tutte le altre leggi del cosmo.
Occorrerà invece tornare brevemente sulla seconda delle due direttrici,
lungo cui si avviò la ricerca astronomica nel secolo in esame. Come accennammo
all'inizio del paragrafo, è una direttrice che fece assumere all'astronomia il carattere di scienza altrettanto osservativa quanto teorica, cioè di scienza diretta a
raccogliere sempre nuovi e più precisi dati da inserire nel perfetto quadro del
2.01
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L'esigenza di una più ampia sperimentazione nelle scienze della natura
sistema newtoniano. Trattasi di dati che fu possibile scoprire - lungo anni di
pazienti e accuratissime osservazioni- ~ia per l'accresciuta potenza dei telescopi
sia per l 'uso sistematico dei micrometri (i cui primi esemplari cominciarono a
venir costruiti nella seconda metà del Seicento, come si è già ricordato). Furono proprio essi a rendere possibile il rifacimento, con precisione allora ignota, dei
cataloghi stellari sia del nostro emisfero sia di quello australe: questi cataloghi
costituiranno la base di ogni ulteriore progresso delle ricerche astronomiche.
Di particolare interesse, anche per i loro riflessi generali sulla cultura, furono
gli studi sulle comete; essi riuscirono ad eliminare ogni carattere di mistero
alla comparsa di questi singolari corpi celesti, svelandone l'effettiva - se pur
recondita - regolarità e quindi sfatando le inveterate superstizioni sorte presso
i vari popoli intorno a tale fenomeno. Merita particolare menzione l'opera di
Edmund Halley (I65 6-I742.) il quale riuscì a scoprire l'identità della cometa
comparsa nel cielo d'Europa nel I68z. con quella osservata da Kepler nel I6o7
ed a prevedere il suo ritorno nel I 7 58. I calcoli di Halley furono poi corretti dal
matematico Clairaut che ne stabilì la ricomparsa nei primi mesi del I759 anziché nel '58. Allorché essa venne effettivamente osservata nel marzo I 7 59, il
fatto suscitò un enorme entusiasmo e lo spirito scientifico conseguì una delle sue
più notevoli vittorie. Alla cometa verrà ben giustamente attribuito il nome di
« cometa di Halley ».
Altra scoperta della massima importanza fu quella dell'aberrazione della
luce proveniente dalle stelle fisse; essa venne compiuta da James Bradley (I6931 762. ), che partendo dalle osservazioni su tale aberrazione riuscì a misurare la
velocità della luce. A lui si deve pure l'esatta determinazione della parallasse
della stella Draconis e la scoperta di una valida prova del moto della terra attorno
al sole.
Va infine ricordata l'opera del grande astronomo Friedrich Wilhelm Herschel
(I738-I82.2.), tedesco di nascita ma vissuto quasi sempre in Inghilterra, che eseguì
importantissime osservazioni sui corpi celesti non appartenenti al sistema solare:
a lui si devono i primi importanti studi sulla nostra galassia, sulle stelle doppie,
sullo spostamento del sistema solare verso un punto della costellazione di Ercole, ecc. Nel I 78 I scoperse il pianeta Urano, che inizialmente interpretò come
una cometa. Le osservazioni di Herschel erano state in parte precedute da quelle
del francese Charles Messier (I730-I8J7), che ebbe il merito di scoprire ben quattordici nuove comete e di pubblicare nel I77I un catalogo assai preciso di centotré di quei singolari « oggetti » cui noi attribuiamo il nome di « nebulose ».
Parallelamente agli studi sulla sfera celeste si ebbe pure nel XVIII secolo
un notevole sviluppo di quelli sullo sferoide terrestre, anch'essi resi possibili
dal grande progresso degli apparecchi ottici (in particolare del teodolite). Venne
eseguita una precisa triangolazione di tutta la Francia (iniziata nel I744 da Cesare
Francesco Cassini, essa richiese un lavoro di circa quarant'anni), poi del sud del2.02.
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L'esigenza di una più ampia sperimentazione nelle scienze della natura
l'Inghilterra, e in seguito di altre parti dell'Europa: tale triangolazione permise
di compiere notevoli miglioramenti nella cartografia. La ricerca di carte geografiche sempre più perfette era in primo luogo dettata da esigenze pratiche- militari (soprattutto per ciò che riguarda le carte terrestri) e commerciali (per le
carte marine)- ma anche dal naturale desiderio di acquisire una conoscenza via
via più completa del nostro pianeta, in tutta la sua complessa struttura.
A proposito della forma dello sferoide terrestre va ricordato ancora una volta
che la prima metà del secolo fu agitata da una grande polemica cui già abbiamo
fatto cenno nel capitolo vn fra sostenitori dell'allungamento e sostenitori dello
schiacciamento della terra ai poli. La tesi che la terra dovesse risultare allungata
ai poli era stata avanzata da Gian Domenico Cassini (nonno del Cesare Francesco testé citato) cui già si accennò nel capitolo XI della sezione IV, mentte
la tesi contraria era sostenuta dai seguaci di Newton (questi aveva infatti trovato,
in base a considerazioni teoriche, che lo sferoide terrestre doveva essere schiacciato
ai poli). Fu proprio per dirimere il complesso dibattito, che l'accademia delle
scienze di Parigi organizzò - come sappiamo -- la spedizione in Lapponia
(1736-37) guidata da Maupertuis, e nel contempo un'altra in Perù, durata fino
al 1744. Entrambe confermarono la tesi di Newton, dando un contributo decisivo alla conversione della Francia al newtonianesimo.
I lavori delle due spedizioni testé accennate ebbero un notevolissimo rilievo
storico anche da un altro punto di vista: prepararono infatti la misurazione del
meridiano terrestre, operazione di alta precisione (per l'epoca) che servirà a
fissare l 'unità di lunghezza del sistema metrico-decimale.
Agli studi di geodesia possono infine venire collegati quelli di geologia,
tendenti a dare una raffigurazione della crosta terrestre, basata su rigorose osservazioni dei materiali che la compongono e delle forze naturali che agiscono
su di essi. Tali studi subirono una significativa rinascita nella seconda metà del
xvrrr secolo, anche per il parallelo grande sviluppo delle ricerche di mineralogia
e di chimica. Riservandoci di tornare in altri capitoli sui problemi generali dell'evoluzione della terra, ricchi di significato per la biologia e per la stessa filosofia,
ci limitiamo qui a ricordare i nomi di tre scienziati che diedero contributi di
particolare rilievo all'aspetto empirico della geologia e della mineralogia: il
francese Jean Baptiste Louis Romé de l'lsle (1736-9o) autore di una fondamentale opera che segnò una vera e propria svolta nelle ricerche mineralogiche: Essai
de cristallographie (Saggio di cristallografia, 177z); l'inglese James Hutton (1726-97),
valente studioso di rocce e fossili, autore di un libro dal titolo Theory of Earth
(Teoria della Terra, 1785); il tedesco Abraham Gottlob Werner (1749-1817), professore di mineralogia e di geologia all'accademia delle miniere di Friburgo.
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V
· LE RICERCHE FISICHE
Come già accennammo nel paragrafo n, le ricerche di fisica del Settecento
furono intimamente collegate alla costruzione di nuovi strumenti scientifici,
onde i progressi conseguiti in un campo risultano inscindibili da quelli conseguiti
nell'altro.
Ciò va detto ad esempio per la termologia ove la scoperta fondamentale del
secolo - consistente nella distinzione fra temperatura e calore - si sviluppò
e consolidò parallelamente alla costruzione di termometri sempre più perfetti
e di calorimetri.
Lo stesso si può ripetere per l'ottica, ove la scoperta dell'inesattezza dei
risultati osservati da Newton circa il fenomeno della dispersione provocò i
primi tentativi di costruire un obiettivo acromatico e la riuscita di questi tentativi valse da efficace conferma alla scoperta anzidetta. Anche l'importante
distinzione fra la «chiarezza» della luce dalla sorgente luminosa e l'intensità
di illuminazione dei corpi colpiti dalla luce fu parallela alla costruzione e ai successivi perfezionamenti dei fotometri: l'opera principale sull'argomento, P batometria sive de mensura et gradibus colorum et umbrae (Fotometria, ovvero della misura e
dei gradi dei colori e dell'ombra) fu scritta nel I76o dal matematico e logico Lambert
di cui si è parlato nei capitoli precedenti.
Mentre la parte sperimentale compiva sicuri progressi, la spiegazione teorica dei fenomeni osservati incontrava non di rado forti difficoltà e dava luogo a
vive discussioni. Queste furono particolarmente accese intorno al problema della
natura dei raggi luminosi: parecchi erano infatti i fisici che non osando ribellarsi
all'autorità di Newton continuavano a restare fedeli alla concezione corpuscolare della luce sia pure introducendovi ingegnose modificazioni per adeguarla
ai nuovi dati dell'esperienza; mentre altri, come ad esempio Eulero, tentavano
di contrapporle la vecchia concezione ondulatoria di Huygens. Le critiche sollevate da Eulero contro «il sistema dell'emanazione» di Newton erano certo
calzanti, ma la teoria che intendeva sostituire a tale sistema (basata sull'asserto
che « la luce altro non è se non un'agitazione o vibrazione prodottasi nelle particelle dell'etere») andava essa pure incontro a gravissime difficoltà, connesse alla
definizione stessa di quella singolare sostanza « estremamente sottile » e « perfettamente elastica» - l'etere - che secondo lui avrebbe dovuto «riempire
tutti gli spazi dei cieli compresi fra i corpi celesti » senza opporre alcuna « sensibile resistenza » ai loro moti. I dibattiti fra i sostenitori delle due antitetiche
interpretazioni si protrassero a lungo, finché nell'Ottocento la teoria ondulatoria
finì per ottenere - come vedremo nel volume IV - una vittoria che parve
definitiva.
Molti studi vennero pure compiuti intorno alla natura del calore, che la
gran maggioranza dei fisici settecenteschi concepì come un'autentica sostanza:
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L'esigenza di una più ampia sperimentazione nelle scienze della natura
il calorico. 1 Non mancò tuttavia chi ebbe il coraggio di sostenere- come Daniele Bernoulli nella sua H_ydrodynamica del 1738 e l'anno successivo Eulero in
una memoria sulla natura del calore - che i fenomeni termici potevano invece
venire spiegati quali effetti di moti molecolari. Questa teoria verrà ripresa nell'Ottocento in seguito alla dimostrata insostenibilità dell'interpretazione sostanzialistica del calore.
Dal punto di vista metodologico che qui particolarmente interessa, gli accesi dibattiti testé accennati sono soprattutto importanti perché fecero sorgere
i primi dubbi circa la funzione dei modelii nell'elaborazione scientifica dei fenomeni. Dovremo ritornare varie volte, nel seguito della nostra esposizione,
su tale problema, dato che modelli antitetici si presentarono alla scienza, non
solo nel Settecento, ma anche in fasi assai più recenti della sua storia. Vedremo
che non mancheranno alcuni studiosi i quali - richiamandosi al canone newtoniano dell'hypotheses non fingo- vorranno respingerli completamente dalla fisica; altri però -richiamandosi invece all'esempio dato dal medesimo Newton
con la sua teoria corpuscolare della luce - sosterranno tenacemente che solo
la scoperta di un modello soddisfacente può fornirci la « vera » spiegazione dei
fenomeni. Bisognerà giungere a tempi molto recenti per comprendere che nella
scienza i modelli possono tutt'al più avere un valore strumentale, e che comunque essi vanno usati con la massima cautela tenendo ben presente che un qualsiasi modello, anche quando sembra spiegare in modo soddisfacente un gruppo
di fenomeni, non ne rappresenta affatto la realtà. 2
Un discorso alquanto più diffuso va fatto per le indagini di elettrologia.
Anche qui, naturalmente, l'impulso determinante per la ricerca di nuove concezioni provenne senza dubbio dalla maggiore ricchezza dei dati sperimentali.
Basti per ora ricordarne alcuni: la scoperta dovuta all'inglese Stephen Gray
(1670-1736) che certi corpi sono buoni conduttori dell'elettricità mentre altri
non lo sono, e quella, dovuta al medesimo Gray, dell'induzione elettrostatica;
la dimostrazione pratica, compiuta dal francese Charles Du Fay de Cisternay
(r698-r739) che esistono due specie di elettricità, da lui chiamate vitrea e resinosa,
e che tutti i corpi ad eccezione - così almeno egli credeva - dei metalli e dei
corpi umidi sono elettrizzabili per strofinio (sull'elettrizzazione per strofinio è
fondato il funzionamento delle prime macchine elettrostatiche); le numerose
I Chi diede il maggiore impulso alla diffusione di questa teoria fu J oseph Black; il calorimetro, cui si è fatto cenno nel paragrafo n, da
lui ingegnosamente costruito verso il 176o, doveva appunto servire alla misura del calorico necessario per aumentare di un grado la temperatura delle varie sostanze. Chi fornì una esposizione completa della teoria fu, nel q8o, Jean Pau!
Marat (1743-93) che assumerà poi una posizione
di primo piano nella rivoluzione francese.
2 Scrive sull'argomento R.B. Braithwaitc,
riferendosi a uno dei più noti modelli introdotti
dalla fisica del nostro secolo: «Gli atomi di idrogeno si comportano, sotto certi aspetti, come se
fossero sistemi solari ciascuno con un elettrone
come pianeta che compie delle rivoluzioni attorno
a un protone come sole. Ma gli atomi di idrogeno
non sono sistemi solari; sarà utile pensarli come
se fossero sistemi siffatti soltanto se ci si ricorda
continuamente che non lo sono. »
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L'esigenza di una più ampia sperimentazione nelle scienze della natura
osservazioni eseguite con la così detta bottiglia di Leida, costruita - indipendentemente uno dall'altro- dal tedesco Ewald Jiirgen von Kleist (qoo-48)
e dall'olandese Peter van Musschenbroek (1692-176I); la scoperta dovuta all'americano Benjamin Franklin (17o6-9o) 1 del «potere delle punte» che lo
condusse alla dimostrazione dell'identità di natura fra il fenomeno della scintilla
elettrica e quello del fulmine; le osservazioni assai precise del tedesco Franz
Ulrich Theodor Aepinus (1724-18oz) sull'induzione elettrostatica da lui eseguite mediante i suoi famosi « due piatti »; gli esperimenti dell'italiano padre
Giambattista Beccaria ( 17 I 6-8 I) sulla resistenza elettrica di vari corpi e sull'elettricità atmoferica; le esperienze dell'inglese Henry Cavendish (1731-I8IO)
e poi del francese Charles Coulomb (1736-18o6) sull'azione esercitata da due
cariche una sull'altra (servendosi delle proprie ricerche sulla tensione dei fili
Coulomb riuscì a stabilire, in alcune fondamentali memorie pubblicate fra il 1784
e il 1789, le famose leggi ancora oggi note col suo nome).
Una messe così ampia di dati sperimentali non poteva non provocare alcuni
ingegnosi tentativi di spiegazione del nuovo campo di fenomeni, che stava assumendo un'importanza sempre maggiore. Le teorie a tal fine ideate furono essenzialmente di due tipi: teorie che ammettevano due specie diverse di fluido
elettrico, e teorie che ne ammettevano invece una sola, presente in giusta misura
in ogni corpo (l'aggiunta o la sottrazione di quest'unico fluido ad un corpo provocherebbe i fenomeni che ce lo fanno apparire carico di un segno o dell'altro).
Il primo sostenitore di una teoria dualistica fu Du Fay, seguito poi dall'abate
francese Jean Antoine Nollet (qoo-7o), e più tardi dall'inglese Robert Symmer (m. 1763), mentre l'iniziatore delle teorie unitarie fu Franklin, seguito da
Aepinus, Beccaria, ecc. Non è qui il caso di analizzare i ritocchi, le correzioni,
le trasformazioni a volte anche profonde, che sia l'una sia l'altra concezione subirono lungo i decenni per effetto delle critiche della controparte e soprattutto
per riuscire a dar ragione dei nuovi risultati sperimentali via via scoperti. Né è
il caso di esporre i tentativi qua e là abbozzati di stabilire una qualche connessione fra questo nascente ramo della fisica e il grande tronco della meccanica
razionale; malgrado gli sforzi di introdurre una certa esattezza nelle nozioni usate
e nella descrizione dei fenomeni, si era ancora ben lungi dal poter elaborare
matematicamente la nuova disciplina, sicché essa non appariva interamente degna
del titolo di scienza.
Chi diede un contributo decisivo a provare l 'autentica scientificità dell 'elettrologia fu Coulomb, con la sua dimostrazione (di tipo sperimentale, sì, ma condotta con tutto il rigore che si potesse allora esigere dalla più accurata sperimentazione) che le azioni esercitate, una sull'altra, da due cariche puntiformi r Non è il caso di ricordare, tanto la cosa è
nota, che Franklin prese parte assai attiva alla
lotta per l'indipendenza degli Stati Uniti. Qui
basti aggiungere che con lui ha inizio la partecipazione del!' America del Nord alla storia del pensiero scientifico moderno.
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L'esigenza di una più ampia sperimentazione nelle scienze della natura
o analogamente da due masse magnetiche - sono forze di tipo newtoniano,
cioè forze agenti lungo la retta che congiunge i due punti considerati, e inversamente proporzionali al quadrato della distanza fra i punti in questione. È bensì
vero che le azioni elettriche o magnetiche presentavano una profonda differenza
rispetto all'azione gravitazionale che due masse esercitano una sull'altra (essendo
questa, in ogni caso, un'azione attrattiva, e quella invece potendo essere attrattiva o repulsiva); vero è però che l'analogia formale fra la legge di Newton e
le leggi di Coulomb rappresentava comunque una conquista di incontestabile valore.
Come spiega molto bene Mario Gliozzi, « le forze elettriche, inquadrandosi
nel tipo di forze newtoniane, venivano di colpo a godere di tutte le proprietà
che la meccanica razionale aveva trovato per i campi newtoniani »; da quel
momento in poi l'elettrostatica (e, in modo analogo, la magnetostatica) riuscirà
a compiere rapidissimi progressi, resi possibili proprio dal conquistato legame
con la meccanica. L'elettrologia non avrà più l'aspetto di disciplina meramente
empirica, staccata dal grande albero della vera e propria scienza, e, per converso,
la concezione newtoniana sembrerà trovare in essa la riconferma della propria
validità universale.
All'incirca nei medesimi anni in cui Coulomb stabiliva le sue importantissime leggi, l'abate Luigi Galvani (1737-98) scopriva - con le famose esperienze sulla rana - un tipo di fenomeni elettrici completamente nuovo, da
lui interpretati come la prova incontestabile dell'esistenza di una vera e propria
« elettricità animale». Un altro grande scienziato italiano, Alessandro Volta
(1745-I827), studiando i risultati di Galvani riteneva di poterli spiegare in modo
più fisico, senza dover fare appello alla nozione, che gli pareva alquanto misteriosa, di elettricità animale. Nello sviluppare le proprie argomentazioni scopriva
le leggi del contatto e giungeva a costruire la sua celeberrima pila (di cui darà
notizia in una lettera del marzo 1 8oo a Joseph Banks, presidente della Royal
Society).
Giudicando dal punto di vista odierno la polemica Galvani-Volta, dobbiamo riconoscere che sia l'uno sia l'altro avevano ragione nella pars construens e
torto nella pars destruens. Come hanno ampiamente dimostrato le ricerche dei
secoli successivi, esiste infatti sia un'elettricità animale (seppure da intendersi
in modo alquanto diverso da come la intendeva Galvani) sia un'elettricità originata dal contatto di metalli eterogenei. Certo è però che tanto l'una scoperta
quanto l'altra fuoruscivano completamente dal quadro concettuale del Settecento: esse aprivano la via a un tipo nuovo di indagini, che darà grandi frutti
nelle fasi successive della scienza, e che i fisico-filosofi romantici cercheranno di
sfruttare nella loro polemica generale contro il newtonianesimo.
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VI
· LA CHIMICA
Il Settecento rappresenta uno dei secoli più importanti per lo sviluppo della
chimica sia sotto l'aspetto sperimentale sia sotto quello teorico. Le ricerche sperimentali - che si accentrano particolarmente sui gas - portano ad alcune
scoperte di fondamentale importanza; basti ricordare quella dell'idrogeno e
dell'ossigeno. Le ricerche teoriche danno luogo, in un primo momento, alla
ideazione della cosiddetta teoria del flogisto (elemento ipotetico che costituirebbe
il componente essenziale di tutti i corpi combustibili) 1 : è una teoria che si trova
in netta antitesi con le idee dominanti nella medesima epoca entro la meccanica
e la fisica - basti pensare che essa attribuisce al flogisto un «peso negativo»
ossia una « leggerezza positiva » - ma che riesce ciò malgrado a compiere una
funzione unificatrice delle varie ricerche chimiche, di notevole utilità per lo
sviluppo della scienza in esame. La teoria del flogisto verrà combattuta efficacemente da Lavoisier, il quale darà inizio con la sua polemica a una nuova fase
della storia della chimica. Non va però dimenticato che fino alla fine del secolo
molti fra i maggiori chimici europei (soprattutto inglesi) continueranno ad accettarla, senza che questo grave errore teorico danneggi in alcun modo le loro
precise e fortunate ricerche sperimentali. Ecco le parole con cui Michele Giua
tenta di riassumere e caratterizzare la singolarissima situazione: « Sarà compito
principale dei chimici del xvm secolo di tentare di isolare l'ipotetico flogisto, ma
dalla sua inesistenza si giungerà nello stesso secolo, col genio di Lavoisier, a
creare la chimica moderna. »
Già nel Seicento il chimico tedesco Joachim Becker (I635-82) - prendendo le mosse da alcune tesi, allora assai diffuse, dell'indirizzo iatrochimico aveva sostenuto che i corpi sarebbero costituiti da una mescolanza di tre elementi
fondamentali: la terra lapidea, presente in tutti i solidi, la terra mercurialis, essenzialmente fluida, e la terra pinguis o elemento combustibile; le proprietà dei diversi corpi dipenderebbero dalla diversa proporzione in cui stanno, in ciascuno
di essi, queste tre « terre ». La combustione di un corpo non consisterebbe in
altro che nella perdita della terra pinguis ivi contenuta.
Ma fu nel Settecento, come abbiamo detto, che questa concezione riuscì
ad affermarsi in larghi ambienti scientifici; il suo massimo sostenitore fu il celebre medico e chimico tedesco Ernst Stahl (I66o-1734), uomo fornito di affascinante personalità e di indubbio ingegno. Flogisto è il nuovo nome che Stahl
attribuisce alla terra pinguis: esso verrebbe liberato non solo in ogni processo di
combustione (i corpi combustibili ne conterrebbero una quantità maggiore o
minore a seconda del calore che riescono ad emanare, bruciando), ma anche nel
processo di calcinazione dei metalli (onde risulterebbe « provato » che questi
1
Il termine « flogisto » deriva dal greco
flogisttin che Aristotele usava nel senso di
mabile».
2.08
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<{
infiam-
L'esigenza di una più ampia sperimentazione nelle scienze della natura
non sono sostanze semplici, risultando composti di calce e di flogisto). Poiché
nella calcinazione accade che i residui ottenuti sono più pesanti delle sostanze
originarie, Stahl e i suoi seguaci ne conclusero che il flogisto doveva avere come già ricordammo - un « peso negativo ». Con questa teoria pareva possibile fornire una spiegazione - sia pure soltanto qualitativa - di varie reazioni (per esempio dell'ossidazione concepita come perdita di flogisto e della
riduzione Ct>ncepita invece come aggiunta di flogisto), inoltre del fenomeno della
respirazione, ecc. I successi ottenuti dalla teoria del flogisto contribuirono pure,
fra l'altro, a favorire la diffusione della concezione sostanzialistica del calore.
Fra i maggiori chimici dell'epoca che accettarono le idee di Stahl ci limitiamo a ricordare: l 'inglese Joseph Black, 1 di cui abbiamo già fatto menzione
nel paragrafo II, abilissimo sperimentatore, soprattutto celebre per i suoi studi
sull'anidride carbonica, alla quale diede il nome di aria .fissata (o aria .fissa) onde
distinguerla dall'aria atmosferica; l'inglese Henry Cavendish, alle cui ricerche
di elettrologia abbiamo già fatto cenno nel paragrafo v, il quale riuscì per primo
a dimostrare che l'acqua non è un elemento semplice bensì una sostanza composta
e riuscì a determinare con precisione parecchie proprietà dell'idrogeno da lui
chiamato « aria infiammabile »; 2 l'inglese Joseph Priestley (I 7 33- I 8o4), teologo, filosofo e chimico, già ricordato alla fine del capitolo II, giustamente
famoso per essere giunto nel 1774 alla preparazione dell'ossigeno, cui diede
il nome di «aria deflogisticata » (egli espose direttamente le proprie esperienze
a Lavoisier, che seppe darne un nuova, ben più rigorosa, interpretazione); lo
svedese Carl Wilhelm Scheele (1742-86), che scoprì l'ossigeno qualche anno
prima di Priestley ma pubblicò i risultati delle proprie ricerche solo nel 177 5,
cioè contemporaneamente al lavoro dell'inglese su tale argomento (entrambi
sottolinearono la capacità, posseduta dall'ossigeno, di mantenere meglio dell'aria la combustione e la respirazione). L'indirizzo di studi da essi perseguito è
noto col nome di « chimica pneumatica » perché particolarmente rivolto allo studio dei vari tipi di «aria» (gas).
Non mancò, è vero, qualche chimico che osava dichiararsi poco soddisfatto
della teoria del flogisto - così per esempio il grande chimico e mineralologo
russo Michail V. Lomonossov (I 7 I I -6 5) scopritore della costanza degli angoli diedri del diamante e di altri minerali - ma si trattava di autori in un certo senso
isolati, che non potevano competere, in autorevolezza, con gli studiosi or ora citati. La gloria di avere debellato la teoria in questione spetta soprattutto al
francese Antoine Laurent de Lavoisier (I743-94).
1 Pare però che, negli ultimi anni della sua
vita, Black abbia abbandonato la teoria del flogisto, in seguito alle critiche mosse contro di essa
da Lavoisier.
z Un altro contributo, assai importante, di
Cavendish fu il calcolo della costante gravitazio-
naie cioè della costante di proporzionalità che figura nella formula newtoniana della forza interagente fra due masse; egli riuscì a determinarla misurando con notevole abilità - mediante una bilancia di torsione - la forza di attrazione che due
masse pesanti esercitano una sull'altra.
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L'esigenza di una più ampia sperimentazione nelle scienze della natura
Nato da famiglia assai agiata, egli dimostrò fin da giovane una notevole attitudine per le ricerche scientifico-tecniche, tanto che a soli venticinque anni
venne nominato membro dell'accademia delle scienze di Parigi. Intraprese tuttavia una carriera completamente diversa da quella scientifica, entrando nel I 768
nella Ferme générale (un'organizzazione di carattere finanziario, a cui i re di Francia affidavano da secoli il compito di riscuotere le principali imposte, trattenendo
su di esse abbondanti percentuali); nel I 779 divenne fermier général, carica molto
'redditizia ma ovviamente assai invisa al popolo. Intanto era anche entrato a far
parte, nel I775, della direzione dell'arsenale di Parigi, nominatovi dal ministro
Turgot. Lavoisier tuttavia si valeva dei suoi forti redditi per attrezzare il proprio
laboratorio scientifico e acquistare i materiali necessari alle esperienze. I risultati
via via raggiunti avevano ormai fatto di lui uno dei membri più influenti dell'accademia.
Quando nel I788 il re si decise a promettere la convocazione degli Stati generali, il grande chimico partecipò sinceramente all'unanime entusiasmo dei
francesi. Dopo un anno circa venne anzi nominato a un posto di alta responsabilità nella Tesoreria nazionale, lasciando di fatto la Ferme générale. Ma ormai la
rivoluzione evolveva verso forme sempre più radicali, che non potevano trovare
consenziente un moderato come Lavoisier. Egli finì pertanto di trovarsi schierato tra gli avversari del grande moto popolare. Nel I79I venne privato del
posto che occupava da sedici anni presso l'arsenale. Alla fine del I793, essendo
stato decretato l'arresto di tutti i Jermiers généraux egli, dopo avere invano cercato di dimostrare alle autorità che l'ordine non poteva riguardarlo personalmente
in quanto aveva ormai abbandonato tale carica da circa tre anni, preferì costituirsi prigioniero. Forse sperava che la sua fama di grande scienziato potesse salvado, oppure sperava nell'appoggio di altri scienziati - già suoi collaboratori
- che godevano il favore dei più accesi rivoluzionari. Ma tali speranze si rivelarono illusorie. Processato dal tribunale rivoluzionario e condannato a morte,
fu ghigliottinato 1'8 maggio I794·
Fortemente influenzato dal sensismo di Condillac, Lavoisier attribuiva alla
scienza il compito centrale e preminente di descrivere con rigore i fenomeni.
Fu proprio questa impostazione programmaticamente empiristica a fargli provare fin dall'inizio delle sue ricerche una forte avversione per la teoria del flogisto, che faceva appello a un elemento ipotetico, non solo non riscontrabile in
alcun dato d'osservazione ma fornito - secondo i suoi sostenitori - di proprietà, come la leggerezza, interamente diverse da quelle godute da tutti gli
altri corpi.
Le prime memorie di chimica scritte dal nostro autore risalgono al 1 770;
già due anni dopo egli comincia la propria polemica contro l'ipotesi del flogisto.
Dopo accuratissimi lavori durati circa dieci anni egli potrà scrivere, in una fondamentale memoria del I 78 3, che « tutto si spiega in chimica senza il ricorso al
ZIO
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L'esigenza di una più ampia sperimentazione nelle scienze della natura
flogisto » onde risulta « infinitamente probabile » che esso costituisca una « supposizione gratuita ».
Sappiamo che la scoperta dell'idrogeno e dell'ossigeno, nonché della decomponibilità dell'acqua in questi due elementi, fu opera di alcuni grandi chimici seguaci della teoria del flogisto; sappiamo pure che Lavoisier ebbe precisa
notizia dei loro risultati e dei procedimenti da essi seguiti per giungere alla preparazione di tali gas. Ma l'essere stato preceduto da altri nelle scoperte testé accennate non diminuisce affatto la sua originalità; in primo luogo per l'estrema
esattezza con cui egli seppe descrivere il decorso dei fenomeni, servendosi con
somma maestria della bilancia di precisione, il che gli consentì di dare alla chimica
un aspetto rigorosamente quantitativo e cioè autenticamente moderno; in secondo luogo per il nuovo quadro concettuale in cui seppe inserire i fenomeni
descritti, aprendo una via che sarebbe restata fatalmente chiusa a chi non era
in grado di liberarsi dal preconcetto del flogisto.
I principali risultati raggiunti da Lavoisier si possono così riassumere:
1) spiegazione modernamente esatta dei fenomeni della respirazione e della
combustione come processi di ossidazione;
z) determinazione quantitativa dei componenti che intervengono nella costituzione dell'acqua;
3) dimostrazione (operata in collabÒrazione con Laplace) che la guantità
di calore spesa per decomporre un composto nei suoi costituenti è identica a
quella sviluppata dalla formazione dello stesso composto a partire dai suoi
componenti;
4) scoperta del principio di conservazione della materia (in base a cui la
quantità complessiva di materia - determinabile mediante la bilancia - non
varia in conseguenza delle trasformazioni chimiche);
5) nuova definizione, a carattere operativo, degli elementi e conseguente
riforma della nomenclatura chimica.
Accanto a questi risultati del tutto soddisfacenti, e ad altri che per brevità
non ci fermiamo ad elencare, si trovano naturalmente in Lavoisier alcune concezioni che il successivo sviluppo della scienza dovrà poi respingere (l'esempio
più tipico di f!SSe è costituito dalla sua concezione del calore come sostanza,
cioè come calorico); si tratta però di errori che non incidono sull'impostazione
generale della sua opera e non ne diminuiscono la fecondità.
Per i risultati raggiunti, e ancor più per le innovazioni introdotte nella metodologia della ricerca come pure nell'elaborazione teorica dei dati sperimentali,
egli può venire a buon diritto considerato come l 'iniziatore di una nuova fase
della chimica: la prima fase autenticamente scientifica della storia di questa disciplina.
2.11
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VII
· IL SORGERE DI ALCUNE ISTANZE CRITICHE
Come abbiamo sottolineato nelle pagine precedenti, gran parte delle discipline prese in esame in questo capitolo intendeva trarre direttamente dall'esperienza la prova delle conclusioni via via raggiunte; cercava cioè la garanzia
della propria scientificità, non nell'evidenza razionale dei principi, ma nella
verifica sperimentale. Quale può essere tuttavia il tipo di certezza che un numero
più o meno grande - ma in ogni caso finito - di fatti attentamente registrati è
in grado di fornire ad asserti di carattere generale, come sono le leggi scientifiche?
Questa domanda, che oggi occupa una posizione centrale nelle ricerche epistemologiche, fu notoriamente dibattuta con molta profondità da alcuni fra i
massimi filosofi del Settecento (per esempio da Hume); il fatto che ci sembra
interessante segnalare è, però, che essa cominciò ad affiorare anche nell'animo
di alcuni scienziati di tale secolo, a ciò sollecitati dalle loro stesse indagini prettamente scientifiche.
Uno dei primi ad occuparsene - con l'anticipo di qualche anno rispetto
a Hume - fu il fisico olandese Willem Jacob 's Gravesande (I688-I742) che
già abbiamo avuto occasione di ricordare nelle pagine precedenti. Nei primi
decenni del secolo godette di grande notorietà: fu professore di matematica e
di astronomia all'università di Leida a partire dal I7I7, e poi anche di filosofia
a partire dal I734· Fu in contatto con Newton che conobbe personalmente nel
I 7 I 5, con Giovanni Bernoulli, con Voltaire (negli anni I 7 3 5-3 6) e con varie
altre personalità; diede un contributo determinante alla diffusione nell'Europa
continentale delle teorie newtoniane con un grande e fortunatissimo trattato di
fisica: P~ysices elementa mathematica experimentis confirmata sive introductio ad philosophiam newtonianam (Elementi matematici di fisica, confermati da esperimenti, ossia
introduzione alla filosofia newtoniana, ra ed. I7I9-20). Come dice il titolo stesso, vi
era particolarmente sottolineato l'aspetto sperimentale della fisica; una larga parte
del trattato era infatti dedicata alla descrizione di numerosissime esperienze, con
l'esplicito rifiuto di fare ricorso ad ipotesi generali per la loro spiegazione. Fra il
I720 e il '23 's Gravesande abbandonò il punto di vista newtoniano-cartesiano
per quanto riguardava la vexata quaestio della misura della forza, convertendosi al
punto di vista leibniziano: tale mutamento - che costituiva la maggiore novità
della 2 a edizione (I 72 5) del trattato anzidetto - riaccese, come già ricordammo nel
capitolo vn, il più vivo dibattito sul delicato problema. Al I724 risale un altro
scritto molto interessante del nostro autore: precisamente un discorso dal titolo
De evidentia che si propone di fissare le differenz~ tra matematica e fisica. Nel
I736 uscirà poi un trattato di filosofia generale, che riproduce essenzialmente le
lezioni tenute su questo argomento da 's Gravesande nei due anni precedenti;
il suo titolo è lntroductio ad philosophiam, metap~ysicam et logicam continens (Introduzione alla filosofia, includente la metafisica e la logica).
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L'esigenza di una più ampia sperimentazione nelle scienze della natura
Volendo }imitarci a parlare brevemente del problema dei fondamenti della
fisica sperimentale, basterà dire che il nostro autore si rende ben conto che le
famose regulae philosophandi anteposte da Newton allibro m dei Principia non sono regole logiche, onde non si può pretendere che valgano a priori; e nemmeno
ha senso - a suo parere - volerle giustificare per via induttiva, come si giustificano i singoli risultati della fisica, in quanto costituiscono, proprio esse, il
fondamento di ogni induzione. Secondo 's Gravesande la loro validità si regge,
in ultima istanza, sul postulato che dio regge il mondo con leggi immutabili.
È il postulato cui fanno implicito appello tutti i ragionamenti analogici, ragionamenti da noi continuamente usati ogni volta che vogliamo parlare del corso
dei fenomeni ( « noi dobbiamo ragionare per analogia a proposito delle cose
naturali»).
Come potrà venire giustificato il principio ora riferito? Il nostro autore non
trova altra risposta, a questo interrogativo, se non la bontà del creatore. Dio sa
che, se la natura non avesse un andamento uniforme e se, di conseguenza, le
nostre argomentazioni analogiche risultassero prive di qualsiasi fondamento,
si perderebbe ogni possibilità di azione coordinata fra gli uomini; proprio in
vista di ciò, egli dispone la realtà in modo da evitare un simile disastro. Il ricorso
alla bontà del creatore rientra evidentemente nel grande solco della tradizione
filosofico-teologica dell'epoca; non possiamo tuttavia far a meno di notare
la nuova luce che tale appello assume nel pensiero di 's Gravesande: la preoccupazione che egli attribuisce all'essere divino non è tanto quella di fornire eleganza
e coerenza razionale al corso dei fenomeni naturali (come riteneva ad esempio
Newton) quanto quella di rendere possibile la societas umana. È proprio con
l'attribuzione di questo fine all'ordinatore dell'universo che il nostro autore può
concludere: «pro vero habendum omne quod si negetur, societas inter homines destruitur » (è da ritenersi come vera ogni cosa tale che, se la si nega, si distrugge la societas fra gli uomini).
Abbiamo detto che 's Gravesande si rende ben conto del carattere non
logico delle regole applicate nella elaborazione della fisica. Questa consapevolezza
è ciò che lo conduce a porre una netta distinzione fra conoscenza matematica
e conoscenza sperimentale: la prima concerne soltanto il mondo delle idee e
perciò non può dirci nulla sulla realtà delle cose; la seconda invece riguarda proprio il mondo dei fatti e - poiché non siamo in grado di provare che le idee
convengano alle cose -- non può fare alcun riferimento a verità a priori, valide
solo nel mondo delle idee ( « le proprietà del corpo non possono essere scoperte
a priori»). L'irriducibilità delle discipline fisiche all'ambito della matematica
pura trova la propria radice, secondo 's Gravesande, nella distinzione - cui accennammo alla fine del capitolo vn - fra evidenza matematica ed evidenza
morale: l'evidenza matematica è «il marchio della verità per se stessa», quella
morale vale soltanto sul piano pragmatico. È una distinzione che i filosofi in-
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L'esigenza di una più ampia sperimentazione nelle scienze della natura
quadrano nel problema generale dei rapporti fra verità di ragione e verità di
fatto, mentre lo scienziato 's Gravesande si limita a considerarla (cogliendone
però tutta la drammaticità) in riferimento alla struttura di due ben determinate
scienze che spesso vengono erroneamente confuse tra loro.
Ricollegandosi a questa concezione, un altro fisico olandese - Peter van
Musschenbroek, che già ricordammo nel paragrafo v - giunge a sostenere
che le leggi naturali possono venire esattamente formulate anche senza l'ausilio della matematica: l'essenziale è, che chi vuole pervenire a conoscerle, sappia
cogliere tutte le proprietà del mondo reale rivelateci dai sensi, senza trascurarne
alcuna. L'antitesi fra questa concezione della scienza e quella delineata nel capitolo vn, parlando della meccanica razionale, non potrebbe essere più netta.
È una frattura che ricomparirà, sotto forme diverse, anche nel xrx secolo, e
di cui solo l'epistemologia moderna sembra in grado di fornirci una soluzione
soddisfacente.
A proposito di questa soluzione, è bene accennare fin d'ora che essa verrà
trovata lungo una via, in certo senso aperta dal chimico Lavoisier. Già ricordammo che egli subì profondamente l'influenza di Condillac; orbene - come
ci viene chiarito nel Discours préliminaire, anteposto al suo famoso Traité élémentaire de chimie (Trattato elementare di chimica) del 1789 ·- da tale filosofo Lavoisier
non attinse soltanto la convinzione che lo scienziato debba attribuire la massima
importanza ai dati dei sensi, ma anche alcuni preziosi suggerimenti circa la funzione del linguaggio. Partendo dal postulato di provenienza condillachiana che
«noi non pensiamo se non con l'ausilio delle parole», il grande chimico comprende con str~ordinaria chiarezza che la lingua dovrà costituire uno strumento
fondamentale per la scienza: qualunque ragionamento infatti non è altro, secondo
lui, che « una lingua ben fatta ». Ma che cosa è la matematica? Essa è essenzialmente una lingua, fornita di straordinaria precisione e proprio perciò estremamente utile alla descrizione dell'esperienza. Sviluppando il suo pensiero potremmo dire: la matematica costituisce uno strumento preziosissimo per le
scienze della natura, non già perché capace di dedurre le leggi particolari da principi assoluti ed evidenti, ma perché fornita di una chiarezza ed esattezza incomparabilmente superiori a quelle del linguaggio comune.
Dobbiamo ovviamente guardarci dall'attribuire a Lavoisier una consapevolezza intorno alla natura e alla funzione del linguaggio matematico, che venne
conquistata solo assai più di recente, ad opera di metodologi ben più agguerriti
di lui in questioni logiche e linguistiche. È innegabile però che l'epistemologia
moderna può cercare i propri antecedenti assai più in lui che non nei grandi matematici del Settecento, i quali si illudevano di poter ridurre il nucleo centrale
della scienza della natura (cioè la meccanica) a mero capitolo dell'analisi infinitesimale.
Certo è, comunque, che un'impostazione sperimentalistica della fisica non
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L'esigenza di una più ampia sperimentazione nelle scienze della natura
poteva sviluppare tutte le istanze critiche, insite in essa, se non riusciva anzitutto
a liberare il linguaggio scientifico dall'uso di termini - come quello di flogisto,
di calorico e di etere - che pretendevano riferirsi ad entità empiricamente non
verificabili né in forma diretta né in forma indiretta. Come abbiamo visto nel
paragrafo precedente, Lavoisier seppe condurre una battaglia vittoriosa contro
l'ipotetico flogisto, ma continuò a credere fermamente nel calorico. Toccherà
alla fisica dell'Ottocento condurre due battaglie altrettanto importanti e altrettanto difficili contro l'ipotesi del calorico e contro quella dell'etere; la prima sarà
vittoriosamente combattuta nella prima metà del secolo, l'altra nella seconda
metà. Ed entrambe saranno condotte in nome di una radicale esigenza sperimentalistica.
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CAPITOLO NONO
Biologia e filosofia
DI FELICE MONDELLA
I
· PREFORMISMO E CREAZIONISMO
Negli ultimi decenni del xvn secolo si era aperta agli studiosi della natura la
nuova ed inattesa prospettiva del mondo microscopico. Con l'accrescersi delle osservazioni aumentava la meraviglia e l'interesse per la fine struttura degli organi e
soprattutto per quegli insetti, che la scienza aristotelica aveva considerato esseri
così vicini alla materia inorganica.
Dalle ricerche di Redi era infatti risultato che gli insetti si riproducono come
gli animali più perfetti mediante uova e che non poteva essere più sostenuta la
loro origine per generazione spontanea. La vita appariva dunque come un processo comunicantesi da organismo ad organismo e sembrava non doversi più attribuire all'azione della putrefazione o a quella di principi seminali di natura più o
meno animistica. Harvey, pur ammettendo la generazione spontanea, aveva sostenuto che tutti gli animali derivano da un ovum, inteso però come una generica materia primordiale comune ad essi. All'inizio degli anni settanta del xvn secolo,
con le ricerche anatomiche sugli organi sessuali femminili di Stenone, V an Home
e Regnier de Graaf, si precisò questa vaga formulazione affermando che anche gli
animali vivipari si riproducono mediante uova, di tipo analogo a quelle degli
ovipari.
Sorgeva in tal modo la dottrina dell'ovismo che veniva ad unificare sotto l'aspetto della generazione tutto il mondo animale. Pochi anni più tardi, nel r677, l'osservazione degli spermatozoi nel liquido seminale maschile doveva far sorgere la
contrapposta dottrina dello spermatismo, che tendeva a negare il ruolo esclusivo
o prevalente dell'uovo, ma confermava il significato fondamentale della generazione per lo studio degli animali.
Più che i lunghi dibattiti che per circa un secolo contrapposero le due opposte scuole degli ovisti e degli spermatisti, da un punto di vista filosofico interessa
soprattutto una concezione condivisa da molti sostenitori dei due indirizzi.
Si tratta della teoria preformista secondo cui nell'uovo o eventualmente nello
spermatozoo si trova già precostituito in miniatura, con tutte le sue parti, l'animale
adulto. Sostenne fra i primi questa dottrina l'olandese Jan Swammerdam nel MiZI6
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- - - =---=-:::::
A
B
D
G
Gli sp ermatozoi come furono visti nel x v n secolo:
A B C, da L eewvenhoek ( 1679) , D, da Hartsoeker ( 1694) nell'uomo, E F G , da Plantades ( r699 ) .
raculum naturae (1672) negando una vera metamorfosi degli insetti ed affermando
ad esempio che la farfalla è inclusa interamente nella crisalide e prima ancora nel
bruco, ove essa è nascosta e inviluppata con i suoi organi già distinti. Lo stesso tipo di inclusione si ha secondo lo scienziato olandese in ogni specie animale,
compreso l'uomo; egli poté così sostenere che, inscatolati l'uno dentro l'altro,
nelle ovaie di Eva si erano trovati al momento della creazione tutti gli individui
della sua discendenza, che era perciò destinata ad estinguersi dopo lo sviluppo
dell'ultimo uovo. Diveniva così comprensibile, secondo Swammerdam, come il
peccato originale avesse potuto macchiare Eva trasmettendosi a tutti i suoi discendenti.
Non si ammetteva dunque solo la semplice preformazione del vivente nel singolo germe, entro il corpo del genitore, ma si sosteneva anche la preesistenza di
tutti i germi (uova o spermatozoi) all'inizio del mondo, creati con un singolo atto e destinati a produrre tutte le forme successive di vita. Un annoso problema
della tradizione filosofica, quello cioè dell'origine delle forme, trovava in tal
modo un'inattesa soluzione nel quadro della nuova scienza meccanica della natura.
La formazione dell'animale era infatti intesa come un semplice svolgimento (evolutio) delle parti inviluppate in se stesse, come un semplice accrescimento ed allungamento per assorbimento di particelle. Per quanto l'accrescimento del germe
debba avvenire meccanicamente, la sua originaria produzione è però sottratta alle
semplici leggi materiali del movimento, per cui ciascun germe non poteva considerarsi il risultato di una casuale interazione di particelle materiali, ma doveva
essere il prodotto di uno speciale atto creativo della divinità.
Con questa concezione creazionistica e meccanicistica della formazione dei
viventi si rifiutava l'idea di un continuo intervento miracoloso di dio nella natura, si allontanavano le discusse entità metafisiche della tradizione scolastica,
rimanendo fedeli all'esigenza delle idee chiare e distinte.« Quanto ai movimenti dei
corpi celesti,» poteva affermare Leibniz, «e più ancora, quanto alla formazione
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Biologia e filosofia
delle piante e degli animali, non c'è niente di miracoloso, salvo il cominciamento
di queste cose. L'organismo degli animali è un meccanismo che suppone una preformazione divina; ciò che ne segue è puramente naturale e completamente meccamco. »
Con la preesistenza dei germi non soltanto si conciliava la negazione della
generazione spontanea, l'esigenza di uniformità degli eventi naturali e l'idea di
creazione, ma si trovava anche una conferma ad alcune importanti concezioni filosofiche formulate alla fine del Seicento. Ciò accadde per Malebranche, che sostenendo tra i primi nel 1674 la preesistenza dei germi, trovava in essa conferma
alla sua idea dell'incapacità di creare degli esseri finiti. Leibniz, che al contrario
rivendicava l'autonomia delle sostanze finite, vedeva nella preesistenza dei germi
maschili una conferma del principio che la vera unità delle sostanze non può
derivare che da una forma in qualche modo indistruttibile, la monade.
La conclusione cui giungeva Leibniz della incorruttibilità delle monadi e
quindi della immortalità sostanziale dei viventi, pur soggetti a successive trasformazioni, non appariva forse più paradossale di una delle forme che assumeva la
teoria della preesistenza dei germi, quella della panspermia, per cui si ammetteva
che tali germi fossero disseminati in tutto l'universo, e si sviluppassero dopo la
penetrazione negli organi riproduttivi degli animali. Se la panspermia incontrava
molte difficoltà, non poche erano quelle che potevano essere sollevate nei riguardi
dell'altra dottrina della preesistenza dei germi, quella dell'inscatolamento. Ci si
chiedeva in particolare come fosse possibile la disposizione l'uno dentro l'altro
di piccolissimi germi in numero indefinito; e non si poteva rispondere che rifacendosi a principi generali, ad esempio, all'assunto teorico della infinita divisibilità
della materia, assunto facilmente accettabile dai seguaci della fisica cartesiana e
reso plausibile anche dalle ricerche matematiche sul calcolo infinitesimale.
Un'idea dunque quella dell'inscatolamento che sembrava difendibile soprattutto su un piano astratto ed ideale e che, come affermava Malebranche,
non poteva « apparire impertinente e bizzarra che a coloro che misurano le meraviglie della potenza infinita di Dio con le idee del loro senso e della loro immaginazione ». Queste idee dovevano dunque fermare il loro corso di fronte al principio
della creazione, principio di razionalità e di ordine, ma anche indiscutibile verità
contenuta nelle Scritture.
Non mancavano tuttavia difficoltà quando si cercava di trovare un accordo
fra il preciso contenuto del testo sacro e le varie implicazioni della teoria della
preesistenza dei germi. Ciò accadeva ad esempio quando Antonio V allisnieri
(166I-I73o) si poneva il problema dell'origine dei vermi parassiti dell'intestino
dell'uomo. Come è possibile - egli si chiede - che Adamo il quale doveva contenere in sé almeno un esemplare di tutti questi vermi potesse essere colpito da
una simile infermità prima ancora del peccato originale? Vallisnieri pensa che
questa sventura non poteva essergli accaduta, i vermi perciò prima del peccato
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Biologia e filosofia
dovevano adempiere una funzione utile, degenerando in parassiti solo successivamente.
Questo inserimento dei risultati dell'indagine scientifico-naturale nel quadro
del racconto biblico della creazione ricorre in moltissime opere dei primi decenni
del '700. Tale inserimento non derivava tanto da un ossequio estrinseco e forzoso
all'autorità delle Scritture quanto da un'esigenza di garanzia e di legittimità per
l'interpretazione meccanica di fenomeni, che ben difficilmente poteva giustificarsi
senza postulare un sommo artefice di tutti i meccanismi.
La convinzione che con la nuova analisi scientifica specialmente microscopica
ci si stava ponendo direttamente di fronte all'opera stessa perfetta e meravigliosa
del creatore, portava molti a conciliare la più astratta postulazione teorica della
preesistenza dei germi e del meccanismo armoniosamente finalizzato dei viventi,
con l'empirismo descrittivo più accurato ed erudito rivolto specialmente al mondo
degli insetti. Per molti risultava così del tutto secondaria la ricerca delle cause
seconde, l'analisi dei processi funzionali degli organismi, i quali apparivano
quasi fissati nella statica teleologia dei loro dispositivi meccanici. Si può dire, parafrasando Fontenelle, che il mondo apparisse come uno scenario d'opera che
lo spettatore scrutava ammirato dimenticando gli apparati meccanici in movimento dietro le quinte.
La molteplice varietà delle forme animali e vegetali veniva spesso colta come
una diretta e meravigliosa manifestazione dell'onnipotenza divina e la sua accurata osservazione e descrizione poteva avere gli accenti di una celebrazione devota
che portava la scienza stessa a contatto con il creatore. Sono di questo genere le
opere scritte da Friedrich Christian Lesser (I 692- I 7 54) con i significativi titoli di
Insectotheologia, Testaceotheologia ed altre ancora numerose.
La tendenza del creazionismo a porre spesso tale atteggiamento descrittivo
e contemplativo in primo piano rispetto alla interpretazione meccanica dei fenomeni non significò tuttavia la rinuncia a ricercare un ordine razionale ed astratto.
Ci si venne anzi sempre più convincendo che tale ordine poteva essere ritrovato
nell'idea della scala naturae, che venne man mano a costituire uno dei temi più ricorrenti del pensiero filosofico-scientifico del Settecento.
Derivata dalla tradizione filosofica aristotelica e specialmente platonica, questa
concezione della scala naturale è soprattutto legata al principio di pienezza, per
il quale, come afferma Lovejoy «l'universo è un plenum formarum in cui trova
esauriente esemplificazione la serie di tutte le possibili varianti di generi di cose
viventi ». Nella scala naturale inoltre la realizzazione di tutte le possibilità si dispone secondo una serie continua di esseri e secondo una perfezione crescente.
Si trattava dunque di un'astratta formulazione antologica che tendeva a ristabilire un ordine in quella molteplicità di forme che, rispetto ai principi della meccanica, risultava indeducibile e caotica.
Tale concezione si inseriva in modo essenziale nell'idea di universo formu-
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Biologia e filosofia
lata da Leibniz. Secondo il grande filosofo tedesco infatti « tutte le diverse classi
di esseri che presi assieme costituiscono l'universo, sono, nelle idee di Dio, che
conosce distintamente le loro gradazioni essenziali, altrettante ordinate di una
sola curva, così strettamente unite che sarebbe impossibile porne altre fra l'una
e l'altra di esse, dato che ciò implicherebbe disordine ed imperfezione. Così gli
uomini sono legati agli animali, questi alle piante e le piante ai fossili, che a loro
volta si fondono con quei corpi che i nostri sensi e la nostra immaginazione ci
rappresentano come assolutamente inanimati ».
La continuità, asserita su un piano rigorosamente astratto, non appariva
però effettivamente riscontrabile nelle concrete indagini sugli oggetti naturali.
Alcuni erano quindi portati a negare questa stessa continuità, ammettendo piuttosto una successione discreta di gradini ascendenti. Altri ritenevano invece che
compito della scienza fosse innanzitutto quello di colmare, attraverso l'esplorazione delle regioni più remote della terra e dei suoi rivolgimenti più lontani nel
tempo, quei vuoti (vacua formarum) che forse erano soltanto tali per la limitata
conoscenza dell'uomo.
Nel quadro più ampio del mondo naturale alcuni rilevando l'aspetto statko
e gerarchico della scala esaltavano il distacco dell'uomo, coronamento di tutte le
creature; ad altri invece, che insistevano sulla continuità compientesi attraverso una
gradazione infinitesimale di individui, appariva più evidente l'unità e la comunità
profonda di tutti gli esseri. Alcuni indirizzi che si svilupperanno in questo senso
nella seconda metà del Settecento giungevano a sostenere che la scala naturale
non era tutta compiuta all'inizio del mondo, ma si veniva costituendo attraverso
il tempo per la successiva comparsa di nuove forme. Questa nuova prospettiva
dinamica, designata da Lovejoy come « temporalizzazione » della scala degli esseri, costituirà una sensibile spinta all'emergere di varie concezioni evoluzionistiche della natura.
Nel complesso questa concezione di una gradazione ascendente degli esseri,
per quanto fatta propria dai creazionisti e da molti sostenitori del meccanicismo
di derivazione cartesiana, presentava alcuni aspetti difficilmente riducibili all'immagine puramente geometrico-meccanica del grande orologio del mondo, e contribuirà così verso la fine del secolo alla crisi della visione strettamente meccanicistica della natura.
II
·
LINNEO
Nel xvm secolo un grande apporto allo studio dei viventi strettamente legato alla visione creazionistica della natura, fu la definizione del metodo sistematico o classificatorio compiuta da Linneo, il naturalista svedese che raccolse
l'eredità dei grandi studiosi delle forme viventi a lui precedenti, quali Cesalpino,
Ray, Tournefort, ecc.
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Biologia e filosofia
Dopo essersi interessati a individuare le piante e gli animali considerati nell'antichità classica, gli studiosi moderni di botanica e zoologia si erano man mano
cimentati nella descrizione e nella catalogazione dei nuovi esemplari che venivano
raccolti ed osservati in misura sempre crescente nel nuovo e nel vecchio continente. Abbandonate le ormai inutili elencazioni per ordine alfabetico alcuni enciclopedisti, come Aldrovandi e Gesnerus, si erano preoccupati di fornire la descrizione dei caratteri esterni e le rappresentazioni grafiche degli animali, con lo
scopo prevalentemente pratico di permettere il loro riconoscimento.
Cesalpino, rifacendosi direttamente all'opera aristotelica, aveva cercato invece di porre nell'ambito della botanica le basi di una classificazione naturale basata sull'essenza stessa della pianta, di cui i caratteri esterni dovevano essere soltanto una manifestazione. Le piante venivano così distinte secondo il tipo di
nutrizione e di accrescimento, manifestantesi nella forma delle radici, del seme e
dello stelo e secondo il tipo di moltiplicazione, manifestantesi nella forma del frutto.
L'esigenza pratica, espressa dagli enciclopedisti, e quella più propriamente
scientifica di una classificazione naturale, vengono a confluire oltre che nell'opera
dell'inglese John Ray (I627-I705), anche in quella di Linneo. Nato a Rashult nel
I 707 Linneo, dopo i primi anni di studi compiuti in Svezia, soggiornò in Olanda
dove si addottorò in medicina e compì, prima di tornare in patria, viaggi in
Inghilterra ed in Francia. In Svezia continuò gli studi di botanica, che non aveva
mai abbandonato dalla prima giovinezza, e svolse una proficua attività di insegnamento nell'università di Uppsala. Morì nel I778.
La passione smisurata di Linneo per la classificazione traspare continuamente
dalla disposizione di moltissimi suoi scritti (di cui ricorderemo Sistema naturae,
17 3 5; Fundamenta botanica, I 73 6; Philosophia botanica, I 7 5I) in cui la parte discorsiva è ridotta al minimo ed è invece prevalente la disposizione per gruppi e sottogruppi. La tipica suddivisione gerarchica che egli introduce nello studio delle
forme viventi per classi, ordini, generi, specie, individuo è collegabile alla distinzione tradizionale in filosofia tra genere sommo, intermedio, prossimo, individuo.
Il criterio stabilito da Linneo per la sua classificazione botanica deriva direttamente dall'aspetto che più interessava gli studiosi contemporanei degli organismi viventi, cioè la generazione. Piante e animali in effetti non avevano solo
in comune il processo della riproduzione ma anche la distinzione in sessi. Verso
la fine del '6oo era stata infatti sostenuta l'esistenza nei vegetali di organi sessuali
e di un processo di fecondazione, e Linneo fu fra i primi a valorizzare questa scoperta stabilendo che proprio in base agli organi della fruttificazione (fiori e frutti)
si doveva stabilire la classificazione. Egli partiva infatti dal presupposto che in tali
organi si esprime l'essenza stessa dell'organismo ed in questo senso egli faceva
propria l'idea di Cesalpino che i tessuti dello stelo si trasformano direttamente nel
fiore o meglio che il fiore è come anticipato nei tessuti della pianta; ad esempio il
pistillo, l'organo sessuale femminile, è anticipato nel midollo dello stelo in cui
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Biologia e filosofia
risiede l'essenza femminile della pianta che, per gli ovisti, era quella stessa dell'organismo.
Gli organi della fruttificazione vengono pertanto distinti in 6 categorie
fondamentali, calice e corolla, stami e pistilli, pericarpo e seme, ciascuno dei quali
può essere ulteriormente suddiviso in 4 o 5 componenti. Ne derivano complessivamente 2.6 parti che costituiscono i segni fondamentali coi quali è scritto tutto
il grande libro delle piante (litterae vegetabilium). Gli attributi numerus, figura, situs,
proportio di ciascuno di questi segni del linguaggio vegetale ci permettono di definire con uniformità e precisione le caratteristiche di ogni genere. Gli stessi attributi, qualora riguardino soltanto gli stami, ci permettono di definire le classi,
se concernono i pistilli costituiscono il criterio per fissare gli ordini appartenenti
a ciascuna classe.
Degli aggruppamenti che vengono a costituirsi con il linguaggio così definito
solo il genere può considerarsi veramente opus naturae, la classe e l'ordine sono almeno in parte delle categorie artificiali che possono anche raggruppare piante
che, per organi diversi da quelli sessuali, non presentano una stretta affinità.
Questo sistema di classificazione, per quanto sia riconosciuto da Linneo stesso
come artificiale, rappresenta una realizzazione del suo ideale di scientificità, che
mira a ricostruire in una visione d'insieme l'ordine statico e gerarchico delle forme
naturali, ma che è legato anche all'esigenza pratica di una diagnosi, cioè catalogazione e riconoscimento di esse.
Linneo ritiene tuttavia che non ci si debba limitare ad un metodo artificiale,
ma che scopo fondamentale della scienza della natura sia la definizione di un
sistema naturale, in cui con ogni aggruppamento si stabilisca un'affinità ed una
somiglianza reali fra le varie piante, tenendo presente tutti i loro organi. I suoi
tentativi in questo senso sono però del tutto incompleti e frammentari; pensa ad
esempio che tale sistema possa basarsi sulla scala naturale, disponendo in serie le
piante, da quelle senza fiore a quelle con i fiori più complessi. Si accorge però che
questa disposizione non risulta efficace; le varie specie non si collocano lungo una
linea, ma si trovano piuttosto connesse fra loro come i nodi di una rete o i territori confinanti su una carta geografica.
Un'importante semplificazione del vocabolario botanico è introdotta da Linneo adottando, per designare ogni specie, una nomenclatura binaria, costituita
dai nomi latini del genere e della specie. Avverte l'esigenza di designare la specie,
quale entità naturale, con un nome che indichi il suo carattere essenziale e implichi quindi una definizione, ma questa esigenza si dimostra irrealizzabile ed
egli finisce con l'usare nomi che indicano qualche aspetto risultante all'osservazione empirica o a volte del tutto convenzionali.
La fissità della specie, per la quale il suo nome è spesso ricordato, comporta la
stabilità di ogni forma vivente originariamente prodotta da dio al momento della
creazione. Stabilità per cui ogni organismo genera soltanto individui simili a se
22.2.
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Biologia e filosofia
stesso. Questo principio costituì un progresso fondamentale nello studio delle
forme viventi che, secondo diversi autori del passato, avrebbero potuto generare,
senza una precisa regola, anche individui molto dissimili da sé. Proprio l'assunzione di questo principio gli permise di rilevare che si producevano delle eccezioni ad esso, che cioè potevano sorgere varietà o specie nuove. Nel I762 giunse
così a supporre che l'opera di dio nella creazione poteva essersi limitata a fornire
un esemplare per ciascun genere o addirittura per ciascun ordine e che le restanti
specie si fossero prodotte col tempo per cause naturali.
L'ammissione di una possibile trasformazione della specie non intacca sostanzialmente la concezione della natura di Linneo, intesa come realizzazione di
un piano sapiente della divinità che comporta una costante armonia ed un equilibrio fra tutte le forme viventi. Nel grande regno della natura ogni pianta adempie infatti un ruolo determinato entro la gerarchia di tutti i vegetali. I muschi
svolgono le funzioni più umili paragonabili nella società a quelle dei braccianti,
le erbe invece quelle dei contadini possidenti, mentre le piante, coltivate in orti
e giardini, e gli alberi primeggiano sugli altri vegetali come la nobiltà ed i principi. Il ruolo stabilito per gli animali dal creatore è quello di mantenere, come
una sorta di polizia, l'ordine e l'equilibrio fra le piante, impedendo la crescita
eccessiva delle une, favorendo la nutrizione e la distribuzione delle altre, allontanando inoltre dal grande teatro della natura ogni cosa superflua e inutile.
Nella sua visione complessiva della natura, così come nel suo infaticabile
lavoro analitico di osservatore e classificatore, si incontrano motivi estetico-religiosi della tradizione protestante ed esigenze di un razionalismo che sa utilizzare
nel modo più efficace residui motivi della logica formale scolastica. Poco dello
spirito di Linneo poteva considerarsi consono allo spirito dell'illuminismo, alla
visione dinamica e storica che esso introduceva nello studio dei fenomeni naturali,
eppure il suo metodo ebbe un grande successo e rappresentò per molti studiosi,
durante parecchi decenni, l'ideale stesso della conoscenza scientifica delle forme
viventi.
III
· IL NATURALISMO EVOLUZIONISTICO
Per giungere al superamento sia della concezione preformista della generazione, sia del creazionismo, per cui tutte le forme viventi erano state create fon··
damentalmente immutabili all'inizio del mondo, occorreva anche abbandonare
l'idea meccanico-teleologica che considerava gli organismi dei congegni materiali
costituiti per un determinato scopo e secondo un disegno prestabilito. A partire
dalla metà del Settecento infatti all'idea meccanico-teleologica si contrappone
sempre più una concezione degli organismi che potremmo designare come dinamico-naturale, per cui essi si formano, a prescindere da ogni disegno teleologico, per effetto delle proprietà specifiche dei loro elementi costitutivi, allorché
questi sono coinvolti in un processo particolare di interazione.
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Biologia e filosofia
Per giungere a questa nuova concezione fu molto importante, dal punto di
vista teorico e filosofico, il superamento dell'idea di passività della materia. Tale
superamento appare come lo sviluppo di diversi problemi discussi nell'ambito
della meccanica e della teologia naturale tra la fine del Seicento e l'inizio del
Settecento soprattutto in Francia, ove gli occasionalisti avevano ritenuto che,
se si doveva tener ferma la definizione puramente geometrica di materia formulata da Cartesio, era necessario ammettere un intervento diretto di dio per produrre
il movimento dei corpi e la loro interazione.
Fra i motivi scientifico-filosofici che condussero a superare l'idea di passività
della materia e quindi la necessità di un intervento divino per produrre i movimenti dei corpi, si possono ricordare le dottrine epicuree e democritee sostenute
negli scritti libertini, la teoria avanzata da Leibniz di una vis viva intrinseca ai
corpi ed infine la nuova fisica newtoniana che introduceva la gravitazione come
proprietà attiva dei corpi.
Fra i numerosi autori, che si opposero all'interpretazione creazionistica e
meccanico-teleologica degli organismi aprendo la via alla loro concezione dinamico-naturale, tratteremo soltanto di alcuni che, legati all'illuminismo francese,
seppero meglio chiarire e sviluppare i motivi e le implicazioni filosofiche di questa
trasformazione.
Inizieremo ricordando la figura importante, anche per i suoi diretti contributi
al problema della generazione, del fisico e matematico francese Maupertuis, di cui
si è già trattato nel capitolo vn indicando i suoi contributi scientifici a favore della
fisica newtoniana. Egli prende posizione, specialmente nell'Essai de cosmologie
(Saggio di cosmologia, 1750), contro l'idea espressa da Newton che la regolarità
delle orbite planetarie costituisce la prova di una scelta intelligente compiuta da
una mente superiore. Secondo Maupertuis infatti non si può escludere che tali
regolarità risultino da una combinazione puramente casuale. Cercando di dimostrare questa sua affermazione egli è fra i primi ad applicare alla fisica il calcolo
delle probabilità e soprattutto ad esprimere in termini scientifici la tesi, fondamentale per la conoscenza della natura, che l'ordine apparente dei fenomeni non
indica necessariamente una finalità ma può risultare dalla combinazione casuale
di elementi.
Egli giunge inoltre a sostenere che le prove dell'esistenza di dio, sostenute da
vari autori contemporanei in base all'armonia e alla precisione microscopica
dei viventi (in base cioè alle 1/Jerveilles de la nature) sono da respingere perché
l'adattamento di tali forme potrebbe essere anch'esso effetto del caso, cioè di fortuite trasformazioni dimostratesi convenienti. Nel mondo ci si presentano poi
fenomeni di disordine, come i· mostri, che non appaiono facilmente riconducibili
ad un piano provvidenziale.
Maupertuis sembra dunque aderire alle argomentazioni materialistiche dei libertini che si ispiravano alla cosmogonia di Lucrezio. In effetti egli è lontano dal
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Biologia e filosofia
negare alla natura un piano finalistico di origine divina. Ritiene soltanto che la
mente umana è incapace di riconoscerlo, specialmente quando esso si realizza nelle
strutture fini e complesse dei viventi. L'intervento di dio nel mondo è anzi continuo, come aveva sostenuto Malebranche, ma esso ci è manifesto soltanto nelle
leggi più generali, specialmente in quel principio di minima azione, che si ispira
al principio leibniziano del meglio e che esprime la semplicità e l'economia della
natura.
Maupertuis sostiene dunque che fra le leggi, che l'essere supremo si è proposto nella formazione dell'universo, quelle che ci possono essere note sono le
più generali che emanano direttamente dalla sua azione; quanto risulta indirettamente da tali leggi ci è oscuro e può apparirci privo di finalità. f.: quindi giustificato e non contrasta con la convinzione di un disegno divino ammettere che almeno
una parte dell'ordine dei fenomeni sia prodotto del caso.
Se il ricorso al caso può svolgere un ruolo importante nella comprensione dei
viventi egli non ritiene però che la produzione ed il mantenimento della vita
possano essere spiegati adeguatamente dal geometrismo cartesiano o dall'atomismo epicureo. Non può essere infatti l'organizzazione, cioè la semplice
disposizione esterna delle parti, la causa delle proprietà vitali e specialmente
psichiche. D'altronde non è accettabile neppure una concezione animistica degli organismi che ne spieghi l'attività mediante un intervento dell'anima sul corpo. Tale intervento sarebbe infatti possibile solo per il tramite di un'azione diretta di dio, che Maupertuis ammette soltanto per le leggi più generali del
movimento.
Il processo della generazione appare anche per lui essenziale alla comprensione
dei viventi. Respinge però la teoria della preesistenza dei germi perché anch'essa
postula un illecito ricorso all'azione di dio, ma soprattutto perché risulta inconciliabile con alcuni dati importanti. In primo luogo con i fenomeni ereditari che
indicano la trasmissione ai discendenti dei caratteri di ambedue i genitori, mentre
per i preformisti dovrebbero trasmettersi a rigore solo quelli materni o solo quelli
paterni; inoltre con la ricomparsa di alcuni caratteri a distanza di una o più generazioni e con i fenomeni di ibridismo dove appaiono caratteri intermedi fra quelli
parentali. Questi dati, che sono inconciliabili col preformismo, possono invece essere interpretati, secondo Maupertuis, approfondendo la tradizionale dottrina
dell'epigenesi e quella della duplice semenza maschile e femminile già accettate da
Cartesio.
Non solo nel seme maschile, ma anche in un supposto liquido seminale femminile, vi sarebbero cioè particelle eterogenee provenienti da ogni parte del corpo
dei rispettivi genitori. Queste particelle o molecole organiche nel processo generativo si dispongono ordinatamente ricostruendo nell'embrione gli organi da cui
provengono. Nella Venus physique del 1745 sostiene che queste molecole si dispongono ordinatamente per effetto di una «affinità» reciproca analoga a quella che
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Biologia e filosofia
Per giungere a questa nuova concezione fu molto importante, dal punto di
vista teorico e filosofico, il superamento dell'idea di passività della materia. Tale
superamento appare come lo sviluppo di diversi problemi discussi nell'ambito
della meccanica e della teologia naturale tra la fine del Seicento e l'inizio del
Settecento soprattutto in Francia, ove gli occasionalisti avevano ritenuto che,
se si doveva tener ferma la definizione puramente geometrica di materia formulata da Cartesio, era necessario ammettere un intervento diretto di dio per produrre
il movimento dei corpi e la loro interazione.
Fra i motivi scientifico-filosofici che condussero a superare l'idea di passività
della materia e quindi la necessità di un intervento divino per produrre i movimenti dei corpi, si possono ricordare le dottrine epicuree e democritee sostenute
negli scritti libertini, la teoria avanzata da Leibniz di una vis viva intrinseca ai
corpi ed infine la nuova fisica newtoniana che introduceva la gravitazione come
proprietà attiva dei corpi.
Fra i numerosi autori, che si opposero all'interpretazione creazionistica e
meccanico-teleologica degli organismi aprendo la via alla loro concezione dinamico-naturale, tratteremo soltanto di alcuni che, legati all'illuminismo francese,
seppero meglio chiarire e sviluppare i motivi e le implicazioni filosofiche di questa
trasformazione.
Inizieremo ricordando la figura importante, anche per i suoi diretti contributi
al problema della generazione, del fisico e matematico francese Maupertuis, di cui
si è già trattato nel capitolo vn indicando i suoi contributi scientifici a favore della
fisica newtoniana. Egli prende posizione, specialmente nell'Essai de cosmologie
(Saggio di cosmologia, 1750), contro l'idea espressa da Newton che la regolarità
delle orbite planetarie costituisce la prova di una scelta intelligente compiuta da
una mente superiore. Secondo Maupertuis infatti non si può escludere che tali
regolarità risultino da una combinazione puramente casuale. Cercando di dimostrare questa sua affermazione egli è fra i primi ad applicare alla fisica il calcolo
delle probabilità e soprattutto ad esprimere in termini scientifici la tesi, fondamentale per la conoscenza della natura, che l'ordine apparente dei fenomeni non
indica necessariamente una finalità ma può risultare dalla combinazione casuale
di elementi.
Egli giunge inoltre a sostenere che le prove dell'esistenza di dio, sostenute da
vari autori contemporanei in base all'armonia e alla precisione microscopica
dei viventi (in base cioè alle merveilles de la nature) sono da respingere perché
l'adattamento di tali forme potrebbe essere anch'esso effetto del caso, cioè di fortuite trasformazioni dimostratesi convenienti. Nel mondo ci si presentano poi
fenomeni di disordine, come i· mostri, che non appaiono facilmente riconducibili
ad un piano provvidenziale.
Maupertuis sembra dunque aderire alle argomentazioni materialistiche dei libertini che si ispiravano alla cosmogonia di Lucrezio. In effetti egli è lontano dal
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negare alla natura un piano finalistico di origine divina. Ritiene soltanto che la
mente umana è incapace di riconoscerlo, specialmente quando esso si realizza nelle
strutture fini e complesse dei viventi. L'intervento di dio nel mondo è anzi continuo, come aveva sostenuto Malebranche, ma esso ci è manifesto soltanto nelle
leggi più generali, specialmente in quel principio di minima azione, che si ispira
al principio leibniziano del meglio e che esprime la semplicità e l'economia della
natura.
Maupertuis sostiene dunque che fra le leggi, che l'essere supremo si è proposto nella formazione dell'universo, quelle che ci possono essere note sono le
più generali che emanano direttamente dalla sua azione; quanto risulta indirettamente da tali leggi ci è oscuro e può apparirci privo di finalità. f.: quindi giustificato e non contrasta con la convinzione di un disegno divino ammettere che almeno
una parte dell'ordine dei fenomeni sia prodotto del caso.
Se il ricorso al caso può svolgere un ruolo importante nella comprensione dei
viventi egli non ritiene però che la produzione ed il mantenimento della vita
possano essere spiegati adeguatamente dal geometrismo cartesiano o dall'atomismo epicureo. Non può essere infatti l'organizzazione, cioè la semplice
disposizione esterna delle parti, la causa delle proprietà vitali e specialmente
psichiche. D'altronde non è accettabile neppure una concezione animistica degli organismi che ne spieghi l'attività mediante un intervento dell'anima sul corpo. Tale intervento sarebbe infatti possibile solo per il tramite di un'azione diretta di dio, che Maupertuis ammette soltanto per le leggi più generali del
movimento.
Il processo della generazione appare anche per lui essenziale alla comprensione
dei viventi. Respinge però la teoria della preesistenza dei germi perché anch'essa
postula un illecito ricorso all'azione di dio, ma soprattutto perché risulta inconciliabile con alcuni dati importanti. In primo luogo con i fenomeni ereditari che
indicano la trasmissione ai discendenti dei caratteri di ambedue i genitori, mentre
per i preformisti dovrebbero trasmettersi a rigore solo quelli materni o solo quelli
paterni; inoltre con la ricomparsa di alcuni caratteri a distanza di una o più generazioni e con i fenomeni di ibridismo dove appaiono caratteri intermedi fra quelli
parentali. Questi dati, che sono inconciliabili col preformismo, possono invece essere interpretati, secondo Maupertuis, approfondendo la tradizionale dottrina
dell'epigenesi e quella della duplice semenza maschile e femminile già accettate da
Cartesio.
Non solo nel seme maschile, ma anche in un supposto liquido seminale femminile, vi sarebbero cioè particelle eterogenee provenienti da ogni parte del corpo
dei rispettivi genitori. Queste particelle o molecole organiche nel processo generativo si dispongono ordinatamente ricostruendo nell'embrione gli organi da cui
provengono. Nella Venus physique del 1745 sostiene che queste molecole si dispongono ordinatamente per effetto di una «affinità» reciproca analoga a quella che
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Biologia e filosofia
alcuni chimici, estendendo l'idea di attrazione newtoniana, avevano attribuito a
diverse sostanze. Nel Système de la nature del 1751 ammette invece che l'organizzazione delle molecole organiche è l'effetto di loro peculiari proprietà psichiche,
quali desiderio, avversione e memoria. Ma come è possibile attribuire alla materia
delle qualità psichiche? Maupertuis ritiene che è lecito allargare in tal modo il concetto di materia se si rinuncia alla pretesa di conoscerne l'essenza e ci si attiene a
ciò che risulta dall'esperienza. « Se pensiero ed estensione sono soltanto qualità, » egli afferma, «possono benissimo appartenere a un soggetto, del quale ci sia
ignota la vera essenza. La loro coesistenza non è allora per nulla più inesplicabile
di quel che non sia l'unione di estensione e mobilità. Potremo, è vero, provare una
maggiore ripugnanza ad attribuire a uno stesso oggetto estensione e pensiero
che non a unire tra loro estensione e mobilità: ma ciò deriva solamente dal fatto
che l'esperienza dimostra continuamente e direttamente quest'ultima unione,
mentre possiamo afferrare la prima fusione soltanto attraverso ragionamenti e conclusioni induttive. » Se ci è dunque possibile riconoscere proprietà psichiche a
quegli ammassamenti di materia che ci si presentano come animali, perché non
potremmo attribuirle anche ad un granello di sabbia?
I fenomeni psichici più elevati risultano per Maupertuis dall'interazione delle
proprietà psichiche elementari delle molecole, ma queste non sono perciò meno
soggette a quegli accidenti materiali capaci di alterare il loro ordine e le loro caratteristiche trasmissibili ereditariamente. In tal modo diviene comprensibile come
partendo da due soli individui si sia prodotta la molteplicità delle specie più diverse. « Esse non avrebbero dovuto la loro prima origine che a qualche produzione fortuita, in cui le parti elementari non avrebbero mantenuto l'ordine che
esse possedevano negli animali padre e madre; ogni grado di errore avrebbe prodotto una nuova specie e a forza di scarti ripetuti sarebbe risultata la diversità
infinita degli animali che vediamo oggi... »
Questa limpida enunciazione della trasformazione delle specie prodotta da
casuali variazioni dei caratteri ereditari, non ebbe ampia eco presso i contemporanei. Si presentava in effetti più come una speculazione cosmologico-filosofica
sui viventi che non come risultato di un'analisi dettagliata delle strutture differenziate degli organismi.
Maggiore fortuna ebbe invece la teoria delle molecole organiche che, riprendendo in senso empirico-materialistico l'idea leibniziana delle monadi, contribuiva ad una svolta importante nella concezione della natura del Settecento;
contribuiva cioè alla crisi del meccanicismo creazionistico, che considerava i viventi come congegni tutti costruiti dal sommo artefice all'inizio del mondo, ed
all'avvio verso una nuova concezione materialistica e dinamica della natura. Con
questa nuova concezione, sotto la spinta delle correnti clandestine epicureo-cartesiane, si rivalutava da un lato l'istanza originaria del meccanicismo di ricondurre
il prodursi del tutto all'interazione delle parti, mentre dall'altro, anche per effetto
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dell'opera di Newton, si veniva a superare l'idea di passività della materia riconoscendole un'intrinseca capacità di movimento e di azione.
Tale concezione meccanicistica e dinamica della realtà naturale trovò verso
la metà del Settecento una delle sue formulazioni più ampie nel pensiero di Georges
Louis Ledere conte di Buffon (1707-88) che con i 36 volumi della Histoire nature/le (Storia naturale), da lui pubblicati nel corso di alcuni decenni a partire dal
1749, doveva realizzare una delle opere di maggior influenza sulla cultura scientifico-filosofica europea sino all'inizio dell'Ottocento. Se i naturalisti osservatori
ancora all'inizio del xvm secolo avevano prediletto l'analisi minuziosa del mondo
microscopico degli insetti egli, convinto che « una mosca non deve tenere nella
testa di un naturalista più posto di quanto tiene in natura», preferisce descrivere, in modo immediato e al di fuori di ogni rigido schema, gli animali più
vicini al mondo concreto dell'uomo, alla sua esperienza quotidiana di agricoltore
o cacciatore. Molti contemporanei anche per questo gli riconobbero dapprima
soltanto i pregi stilistici di un grande divulgatore. Ma in diverse sue pagine e
specialmente nel discorso De la 111anière d'étudier et de traiter l'histoire nature/le (Dei
modo di studiare e trattare la storia naturale) egli tracciava le linee metodiche di una
nuova scienza della natura che si trovano sviluppate, non senza oscillazioni e incertezze, in tutta la sua vasta opera.
Per Buffon modello esemplare della scienza della natura non può essere la
meccanica razionale. Questa, nella misura in cui è scienza matematica, non offre
infatti che verità di definizione, create dall'uomo stesso, e inoltre non sembra
trovare molte applicazioni al di fuori dell'astronomia e dell'ottica. I principi della
meccanica, allorché enunciano l'esistenza di determinate forze, non ci portano
a conoscere cause fondamentali, ma soltanto effetti o qualità generali che :risultano semplicemente dall'esperienza; a tali principi non è quindi possibile attribuire il privilegio di una particolare evidenza razionale, come aveva sostenuto
Cartesio. Una volta poi che si sia accettato con Newton che la materia non è
più definibile in termini solo geometrici, ma anche mediante una qualità fisica
come la gravitazione, risulta possibile attribuire alla materia stessa qualità generali
quante ce ne suggerisce l'esperienza.
All'evidenza della meccanica :razionale, dogmatizzata dai cartesiani, egli contrappone così la certezza o la probabilità di una conoscenza « fisica » della natura,
che diviene « fisica filosofica » ogni qual volta :riesca a :ricondurre i dati dell'esperienza a principi generali, che non debbono necessariamente coincidere con quelli
della meccanica.
Seguendo questi c:rite:ri, nell'interpretare i fenomeni di generazione e di nutrizione dell'organismo, egli :riprende la teoria epigenetica delle molecole organiche
formulata da Maupertuis, senza però :riconoscere ad esse alcuna proprietà psichica.
F. sufficiente infatti attribuir loro delle jòrze penetranti, analoghe a quelle del
peso, pe:r le quali le molecole sono condotte ad organizzarsi nell'embrione, dopo
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aver subito l'effetto di uno stampo interno (moule interieur), di un'impronta caratteristica di ogni organo da cui derivano.
La vita appare perciò come una qualità attiva inerente a certi corpi, come una
qualità fisica della materia che tenderebbe nella natura a prevalere completamente,
a svantaggio della materia bruta, se non fosse rallentata da continui ostacoli. Questa
tendenza della natura ad organizzarsi sempre più nella vita è resa possibile anche
dalla indistruttibilità della materia primordiale animata, cioè dalle molecole organiche, che in particolari condizioni possono essere prodotte per effetto del
calore e della luce sulla materia inerte.
Per Buffon la teoria delle molecole organiche non solo risolveva le tradizionali difficoltà del preformismo, ma permetteva di interpretare in modo soddisfacente alcune delle indagini sugli organismi che allora più avevano richiamato
l'attenzione dei contemporanei. Si trattava specialmente dei fenomeni di rigenerazione di parti amputate, descritti già all'inizio del secolo da Réaumur nei gamberi, e delle osservazioni condotte da Abraham Trembley (1700-84) sull'idra
di acqua dolce, dimostrando che questo organismo è capace di rigenerare individui completi dai vari pezzi in cui poteva essere tagliato.
Di fronte a questi fenomeni i preformisti erano costretti ad ammettere non
solo che l'organismo adulto era già completamente contenuto in un germe ma
anche che in ogni parte di tale organismo erano contenuti tanti altri germi pronti
a svilupparsi, nelle circostanze appropriate, o in un organo o in un nuovo individuo completo. Più convincente, per Buffon, appariva invece l'interpretazione
di questi fenomeni di rigenerazione ammettendo che gli organismi fossero costituiti da tante unità viventi, quali le molecole organiche, capaci di associarsi e
dissociarsi continuamente, come i piccoli elementi cubici di un cristallo di sale.
Gli organismi non appaiono dunque più al Buffon come piccole macchine
create in miniatura nel germe, ma come corpi in continua trasformazione, dotati
di una plasticità per l'associarsi ed il dissociarsi dei loro componenti, e pure capaci
di conservare una loro tipicità morfologica grazie all'ipotetico stampo interno.
L'indistruttibilità e la plasticità delle molecole organiche permettono a Buffon di affermare che la morte, analogamente a quanto aveva sostenuto Leibniz,
travolge le forme viventi ma non la vita. Le molecole organiche, dopo il dissolversi di una pianta o di un animale, permangono infatti nella loro immutata capacità di essere assimilate da un nuovo organismo o anche di riunirsi a produrre, per
generazione spontant>a, altri organismi più o meno microscopici. Riproponendo
la teoria della generazione spontanea, che aveva subito dalla fine del Seicento un
sensibile declino, soprattutto per l'opera di Redi, Vallisnieri ed altri, Buffon
trovava appoggio nelle ricerche dell'inglese John Turberville Needham (17138 1 ), che verso la metà del secolo credette di dimostrare con sicurezza la produzione di infusori in sugo di carne ove egli riteneva di aver distrutto col calore
ogni germe.
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Varie raJ!igurazioni del polipo d'acqua dolce sul quale furono condotte le famose esperienze
di rigenerazione di Trembley : tavola dai Mémoires pour servirà l'hùtoire
d'un genre de polypes d'eau douce à bras enforme de corne (Leida 1744) di Abraham Trembley.
Le conclusioni di Needham, che verranno puntualmente confutate da Lazzaro Spallanzani (1729-99) alcuni lustri più tardi, giungevano a rinnovare la
teoria della generazione spontanea in un momento in cui essa appariva in perfetto
accordo con l'idea anticreazionistica di alcuni filosofi illuministi che sostenevano
un'attività autonoma, una capacità autoorganizzativa della materia e della natura.
Facendosi anch'egli sostenitore di quest'idea, Buffon ritiene che l'ordine e le
leggi che presiedono alla realizzazione autonoma della natura non vadano attribuite ad un disegno iniziale e statico, fissato da dio per un grande orologio del
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Figure di muffe viste al microscopio :
tavola dalle N ew microscopica! discoveries (1745) di John Turberville Needham.
mondo o per una scala degli esseri, ma vadano ricercate nella stessa continuità
dei processi naturali che si svolgono nel tempo. La generazione spontanea o non
spontanea degli organismi, i loro processi nutritivi e riparativi, indicando una
plasticità ed una trasformazione costanti, suggerivano infatti un nuovo modo di
guardare alla continuità esistente fra i corpi naturali. Non si doveva cioè rilevare
solo la continuità statica delle forme, che pure Buffon ribadisce per respingere
come artificiose le distinzioni classificatorie di Linneo, ma porre attenzione alla
continuità dinamica dei processi naturali, alla continuità di quelle catene di cause
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ed effetti che possono essere seguite risalendo al· passato sin quando i fenomeni
comparabili non siano riconducibili a poche cause fondamentali.
In questo modo per Buffon la storia naturale, cioè la descrizione completa
delle singole forme, diviene storia della natura. Dall'ipotetico momento in cui la
terra si è staccata dal sole per l'urto di urta cometa, sino al raffreddarsi della sua
superficie ed al sorgere delle prime molecole organiche, si ha una continuità
dinamica di fenomeni della natura di cui occorre ricercare ordine e leggi. Così
studiando ad esempio le forme animali egli conclude che i quadrupedi possono
essere ricondotti ad un piccolo numero di specie originarie, da cui si sono gradualmente diversificati per effetto del clima e dell'addomesticamento. La continuità non è dunque soltanto quella di serie lineari di cause ed effetti ma l'azione
reciproca di ogni cosa, della natura inorganica sui viventi e di questi, ivi compreso l'uomo, su tutta la natura.
L'uomo, che risulta superiore agli altri esseri per il linguaggio e la vita sociale,
rispecchia in sé l'universo e può divenire uno dei centri del suo potenziale sviluppo: « Soltanto tardi l'uomo ha conosciuto l'ampiezza del suo potere e ancora
non è riuscito a conoscerla tutta; essa dipende completamente dall'esercizio
dell'intelligenza; così più osserverà, più coltiverà la natura, più mezzi otterrà per
sottometterla e con maggiore facilità trarrà dal suo seno nuove ricchezze senza
diminuire i tesori della sua inesauribile fecondità. E che cosa non potrebbe su se
stesso, voglio dire sulla sua specie, se la volontà fosse sempre diretta dall'intelligenza? Chi sa fino a qual punto l'uomo potrebbe perfezionare la sua natura sia
morale che fisica? »
Se l'ammirazione religiosa dei devoti naturalisti del primo Settecento cede
il passo in Buffon alla ricerca di un ordine razionale nel processo storico della
natura, non per questo dio viene allontanato dal mondo. La natura è anzi considerata da Buffon, con una nota quasi panteistica, l'ordine delle leggi stabilite dal
creatore, e viene vista nel suo complesso come una potenza attiva che comprende ed anima tutto, come la parte che si manifesta della potenza divina.
Se Buffon riconosce ed indaga la storicità dei processi naturali non giunge però
di fronte agli organismi viventi a formulare esplicitamente, come era avvenuto
in Maupertuis, la teoria evoluzionistica per cui tutta la molteplicità delle loro
forme poteva essersi prodotta per variazioni partendo da capostipiti comuni.
Egli riesce al più ad ammettere che questo processo è avvenuto in senso più degenerativo che progressivo, in gruppi limitati di organismi.
Laddove il divenire delle strutture naturali viene invece da lui riconosciuto
ed indagato ampiamente è nella geologia, con le opere J-Iistoire et theorie de la terre
(Storia e teoria della terra, 1749) e Epoques de la nature (Epoche della natura, 1778).
È qui che egli rompe decisamente con la cosmogonia mosaica ipotizzando in
circa 75 .ooo anni l'età della terra che uno dei cultori di cronologia biblica, il
matematico Whiston successore di Newton a Cambridge, riteneva fosse stata
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travolta dal diluvio il 23 novembre 2349 a.C. È sempre in queste opere che
egli si oppone alla tradizione degli studiosi di geologia biblica nei cui scritti era
caratteristico il tentativo di conciliare il creazionismo, basato sul racconto biblico,
sia con una cosmologia meccanico-razionale di derivazione cartesiana che con le
successive indagini sulle stratificazioni delle rocce e sui fossili. In tali scritti il processo fondamentale, che era chiamato a spiegare l'attuale disposizione delle strutture della terra, era in genere un unico evento catastrofico coincidente con il diluvio. Buffon sostiene invece che le trasformazioni geologiche sono l'effetto di cause
· lente, di forze naturali che continuano ad agire tuttora nell'universo.
Egli viene così a porsi sulla linea di una cosmologia naturalistica che si era
espressa, nella forma del romanzo scientifico, soprattutto con l'opera Telliamed,
pubblicata nel I748 dopo esser circolata manoscritta per diversi anni. In questo
libro, probabilmente ispirato alle correnti libertine, l'autore Benoit de Maillet
(I 6 56- I 7 38) sembra quasi opporre alle cosmogonie fondate sulla mitologia biblica
il racconto di una cosmogonia ispirata ad una mitologia laica e profana, ove i racconti fantasiosi di marinai ed esploratori su leggendarie creature marine e gli echi
letterari delle metamorfosi di Ovidio si fondono con elementi della fisica cartesiana
ed epicurea. I movimenti della terra entro i vortici dei corpi celesti la conducono
a :raffreddarsi e a ricoprirsi di acque formando quei mari ove la vita sorge, per
l'azione di semenze presenti in tutto l'universo. Il calore fa evaporare le acque e le
forme viventi passano dal mare alle terre scoperte. La metamorfosi di alcuni organi
permette a pesci nuotanti alla superficie e casualmente caduti sulle rive di trasformarsi in uccelli. Dagli esseri marini che abitano le maggiori profondità derivano
invece i mammiferi. Da leggendari esseri marini simili all'uomo sorgono poi
quelle che de Maillet ritiene le differenti specie di esseri umani che abitano i diversi continenti.
Se una continuità storica di processi poteva essere ipotizzata in modo plausibile nel tracciare una cosmogonia fisica, più difficilmente tale continuità poteva
essere ammessa fra le forme animali senza uno studio analitico e comparativo che
rilevasse una struttura comune nell'anatomia dei loro organi.
L'esistenza nei ve:rtebrati di tale struttura o piano fondamentale non era
inve:ro sfuggita ad alcuni autori ed in particolare a Buffon che aveva richiamato
su di essa l'attenzione dei naturalisti e filosofi contemporanei. «Anche nelle
parti che contribuiscono maggiormente a conferire varietà alla forma esterna
degli animali, >> egli afferma, « vi è un grado prodigioso di somiglianza che ci richiama irresistibilmente alla mente l'idea di un modello originale su cui tutti gli
animali sembrano essere stati concepiti. » Quest'idea poteva essere quella presente al creatore nella produzione dei diversi animali oppure poteva indicare la
struttura di una singola specie dalla quale differenziandosi nel tempo erano discese altre specie. Buffon pur colpito da quest'ultima possibilità evita però di
giungere ad una generale interpretazione evoluzionistica dell'origine della specie
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Tavola dalla prima edizione (Amsterdam 1761-66)
dell'opera De la nature di Jean-Baptiste-René Robinet.
Le figure I, 2, 3 rappresentano dei « zoofiti », detti « piume di mare ».
La figura 4 rappresenterebbe, secondo Robinet, un « insetto di mare».
L'autore sostiene l'esistenza di un prototipo, cioè di una forma primitiva comune a tutti i viventi.
e neppure sembra conferire particolare importanza all'unità del piano come principio d'ordine nella descrizione dei viventi.
Chi invece vede nel piano fondamentale o prototipo un tema di particolare
importanza per l'interpretazione di tutti i fenomeni naturali e non solo di quelli
viventi è il filosofo Jean-Baptiste-René Robinet (r735-r8zo) specialmente nella
sua opera De la nature (La natura, 176r-66) ove egli, ispirandosi a Leibniz e a
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Spinoza, sviluppa sino alle loro estreme conseguenze alcuni temi del pensiero
scientifico-filosofico settecentesco.
Si tratta innanzitutto della legge o del principio di continuità nella catena o
serie degli esseri, per il quale egli ritiene che in questa serie gli elementi possono
distinguersi solo per il grado maggiore o minore con cui possiedono certi caratteri comuni e mai per una assenza o presenza totale di essi, mai cioè nei termini di
negativo e positivo, fra i quali intercorre una distanza infinita. Non si può quindi
porre una netta distinzione fra organico ed inorganico, fra animato ed inanimato.
Se questi fossero contrapponibili come negativo e positivo e si dovessero ammettere dei termini intermedi fra di loro, sarebbe necessario che la costituzione
di tali esseri« partecipasse simultaneamente di due contrari reciprocamente esclusivi; per esempio, che il passaggio dall'inorganico all'organico fosse colmato
da una sorta intermedia di esseri ad un tempo organici e inorganici. Ma esseri
siffatti, » continua Robinet, « sono contraddittori. Se vogliamo mantenere la legge
del continuo, ... se vogliamo riconoscere che la natura passa insensibilmente dall'uno all'altro dei suoi prodotti, senza costringerla a fare salti, non dobbiamo ammettere l'esistenza di esseri inorganici, o inanimati o non razionali. Dove c'è
una sola qualità essenziale ... caratteristica di un certo numero di esseri ad esclusione di altri, ... la catena si spezza, la legge del continuo diventa chimera e l'idea
di un tutto assurdità. » Queste considerazioni filosofiche, che saranno riprese da
alcuni autori romantici, comportavano una concezione ilozoistica e panpsichistica
della natura. Ma il Robinet più che su questi aspetti insiste su quell'aspetto morfologico degli elementi della serie continua che è particolarmente evidente negli
animali e cioè sul piano fondamentale o prototipo. « Quando paragono la pietra
con la pianta, la pianta con l'insetto, l'insetto col rettile, il rettile col quadrupede,
attraverso tutte le differenze che caratterizzano ciascuno di essi, io colgo relazioni
di analogia che mi persuadono che essi sono stati tutti concepiti e formati in armonia con un solo modello, di cui sono variazioni graduate ad inftnitum. Essi mostrano tutti i tratti salienti di questo esemplare originario, che nel realizzarsi ha
successivamente assunto le forme infinitamente numerose in cui l'essere si manifesta ai nostri occhi. »
Il prototipo è dunque l'esemplare sempre presente nel concreto generarsi delle
forme. Queste secondo Robinet, che segue le idee di Leibniz e dei preformisti,
sono latenti nei germi o nei semi che esistono da sempre nella natura e si svolgono
in tempi successivi. Ogni germe in se stesso contiene altri germi che non possono
però essere identici al primo, né fra di loro; si devono differenziare sia pure di poco. Sono queste le differenze attraverso le quali i germi possono ciascuno a suo
modo realizzare le infinite variazioni del prototipo.
Rifiutandosi, in forza del principio di continuità, di ammettere un salto
qualitativo fra le parti ed il tutto in ogni corpo naturale composto, intende stranamente il prototipo in un modo duplice ed apparentemente contraddittorio, da
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un lato infatti il prototipo è l'elemento costitutivo, dall'altro la stessa forma compiuta dall'associazione degli elementi. Esso appare cioè da un lato come una
struttura semplice costitutiva, « un tubo allungato e vuoto, naturalmente attivo »,
un'unità semplice che si ripete associandosi in infinite combinazioni; dall'altro
rappresenta anche la forma delle strutture più complesse ed elaborate, quelle
cioè che risultano dal comporsi delle unità elementari.
Attraverso le infinite variazioni che costituiscono gli oggetti della natura
l'unico piano possibile di esistenza organica od animale giunge alla sua massima
realizzazione con l'uomo. «Nella serie prodigiosamente varia dagli animali inferiori all'uomo, >> afferma Robinet, « io vedo la natura che si affatica, che avanza
a tentoni verso quell'essere eccellente che corona la sua opera ... Tutte le varietà
intermedie fra il prototipo e l'uomo sono secondo me altrettanti saggi della natura,
tendenti alla perfezione, e tuttavia incapaci di raggiungerla se non attraverso questa innumerevole serie di abbozzi. Credo che l'insieme degli stadi preliminari possa dirsi l'apprendistato della natura che impara a fare l'uomo. »
L'uomo, come meta di perfezione cui tende la natura, diviene anche il criterio
di comprensione di tutte le forme a lui inferiori. La serie ascendente delle forme
può essere meglio compresa attraverso il suo punto di arrivo che non il suo punto
di partenza. È in tal modo che egli considera le forme di cuore, di rene, di arti o
di mano che sembrano apparire fantasiosamente in pietre, radici o conchiglie, ecc.
come variazioni o abbozzi di quel prototipo compientesi nell'uomo. È per la
stessa ragione ed in particolare per il principio di pienezza, secondo cui tutto ciò
che non è contraddittorio può realizzarsi, che Robinet dimostra quella credulità
ad accogliere i vari racconti su uomini marini, sirene, ecc., che doveva non poco
ridicolizzarlo presso i contemporanei.
Nelle successive realizzazioni del prototipo, specialmente in quelle più elevate, Robinet scorge una spontaneità di movimenti e di operazioni che rivelano
un principio attivo, il quale non si identifica con la materia ma sembra anzi frenato
e determinato da essa. Nell'uomo in particolare la materia è solo l'organo attraverso il quale il principio attivo fa entrare in azione le proprie facoltà.
Pur non abbandonando il preformismo creazionista egli sembra dunque limitare la portata di quel meccanicismo che vi era strettamente connesso e sembra
propendere verso una concezione dinamico-vitalistica della natura, ove al mondo
visibile delle forme sottostà una gradazione di forze che ne costituisce il fondamento invisibile.
In Robinet e, come si vedrà oltre, anche nel contemporaneo Bonnet, viene a
riflettersi l'idea leibniziana di un universo capace di autodifferenziazione e progresso infiniti. Egli ammette infatti una produzione nel tempo delle forme della
natura, cioè una« temporalizzazione »della catena degli esseri, pur rimanendo ancora legato al preformismo e all'idea che l'ordine e le leggi di realizzazione della
natura sono fissate al momento della creazione o sono comunque il risultato
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di una tendenza dinamica sottostante i fenomeni. Era dunque questa « temporalizzazione » di Robinet ben diversa da quella storicità della natura per cui, secondo
Buffo n, le leggi e l'ordine di realizzazione del mondo devono essere desunti empiricamente dalla continuità fenomenica dei processi causali senza riferimenti
ad un piano predisposto od agente nella natura.
Il tentativo di Robinet di conciliare l'idea di un universo capace di sviluppo
nel tempo con quella di una causa creatrice trascendente portava anche a superare
alcune difficoltà nella stessa scala naturale. Ijl primo luogo si poteva ammettere,
dal punto di vista di Robinet, che i vacua forntarum concretamente riscontrabili
in tale scala non fossero dovuti soltanto a distruzioni avvenute nel passato o a
lacune dell'attuale conoscenza, ma dovessero ascriversi all'eventualità che il programma della natura si compisse in tempi successivi.
Vi era inoltre l'esigenza di superare una concezione puramente statica della
gerarchia degli esseri, soprattutto nei suoi aspetti morali e sociali. Ammettere
che tutto al mondo avesse un suo aspetto definitivo ed immodificabile significava
negare che potesse accadere nulla di nuovo sotto il sole, significava spegnere la
speranza di ridurre il male e di perfezionare l'uomo e la società. A questo aspetto
sembrava sensibile Voltaire quando respingendo l'idea di una scala degli esseri
osservava che tale gerarchia « piace alla brava gente che si sogna di scorgervi il
Papa ed i suoi Cardinali seguiti dagli Arcivescovi e dai Vescovi; dopo i quali
vengono i Curati, i Vicari, i semplici preti, i diaconi e i suddiaconi, poi i frati;
e la fila si conclude con i cappuccini».
L'esigenza di una continua ascesa religiosa e di un perfezionamento all'infinito
delle creature non è tuttavia estranea ad un altro significativo tentativo di temporalizzazione della scala degli esseri, formulato dal ginevrino Charles Bonnet (172.093) specialmente nella Palingénésie philosophique, ou idées .rur l'état passé et sur l'état
futur des étres vivants (Palingenesi ftlosoftca, o idee sullo stato passato e futuro degli esseri
viventi, 1769). Dopo importanti ricerche condotte negli anni giovanili, specialmente sulla riproduzione asessuale di insetti e la rigenerazione dei vermi d'acqua
dolce, si dedicò ad un'ampia rielaborazione teorica e filosofica di vari problemi
scientifici, specialmente quello della generazione.
In tali studi egli si batte specialmente contro la nuova concezione epigenetica
della riproduzione avanzata da Maupertuis e Buffon e difende la teoria preformista, cercando di superare alcuni dei suoi aspetti più problematici. Non ritiene più
che nel germe sia precontenuto esattamente l'individuo adulto ma pensa che vi sia
preordinata soltanto la specie. Ciò che caratterizza l'individuo è il risultato delle
diverse fasi del processo embrionale su cui influisce anche il seme maschile e in
tal modo si può spiegare la rassomiglianza col padre. Nel germe di ogni vivente è
inoltre contenuta un'anima allo stato di mera sensibilità potenziale, che vi si sviluppa con il suo accrescimento. Quando il polipo, in cui si ha come in ogni vivente un'aggregazione di germi, si rigenera dalle sue parti divise non si ha perciò
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una divisione dell'anima, ma dai germi latenti in ogni individuo nuovo si sviluppa
un'anima dapprima assopita.
Il Bonnet, pur essendo da un lato convinto della completezza della creazione
originaria di tutti i germi, cioè della loro peesistenza, sostiene dall'altro l'idea di
una progressiva comparsa di viventi nelle successive epoche della terra. Per conciliare questi principi apparentemente antitetici ammette che in ognuna delle successive rivoluzioni, a cui è stato soggetto il nostro globo, si siano sviluppati germi
sopravvissuti alle catastrofi precedenti e contenuti nei viventi più antichi. Da
questi germi sono sorte nuove forme di vita adatte alle nuove condizioni geologiche per una sorta di armonia prestabilita o di parallelismo fra evoluzione dei
viventi e rivoluzioni del pianeta. Il successivo accrescimento dei germi creati
tutt'insieme, permette la comparsa di viventi sempre più perfetti sino ad un giorno
futuro in cui «l'uomo - che sarà stato trasportato allora ad altra dimora, più
adatta alla natura superiore delle sue facoltà- lascerà alla scimmia o all'elefante
quel primato che, attualmente, egli detiene fra gli animali del nostro pianeta. In
questa universale rinascita degli animali, si potrà trovare un Leibniz o un Newton
fra le scimmie o gli elefanti, un Perrault o un Vauban fra i castori».
In tale passaggio dell'uomo ad una dimora angelica sembra riflettersi la conciliazione di elementi mitici della tradizione cristiano-neoplatonica con l'idea illuminista di progresso. Egli giunge infatti a dubitare, ponendosi al di fuori dell'ortodossia, dell'eternità della condanna dell'uomo malvagio. Eternità che gli appare
in contrasto con la bontà del creatore e con l'idea di continuo progresso e di ascesa
di tutta la realtà.
Lontano dagli echi spinoziani che si riflettono nel pensiero di Robinet lo
studioso ginevrino conserva la netta distinzione cartesiana di corpo ed anima
estendendola come si è visto a tutti i viventi e rimane fedele ad un rigoroso meccanicismo, nell'interpretare le loro funzioni e tutti i fenomeni della natura. Il grande
orologio del mondo e la scala degli esseri naturali vengono fusi in una stretta
catena di connessioni causali, per cui anche le creature apparentemente più insignificanti non possono considerarsi grani di polvere sulle ruote dell'enorme macchina, ma piccoli ingranaggi inseriti su quelli più grandi.
Anche quando cerca di stabilire un criterio per fissare la gerarchia nella scala
degli organismi egli rimane fedele all'impostazione meccanicistica. Non si rifà come il Robinet all'idea di una progressiva realizzazione del prototipo avvicinantesi
all'uomo, ma all'idea del « grado di organizzazione ». Giunge così ad affermare
che« l'organizzazione più perfetta è quella che con un numero uguale o inferiore
di parti distinguibili raggiunge i maggiori effetti». Le macchine della natura, cioè
i viventi, vengono così valutati nella loro perfezione con lo stesso criterio di utilità
e di finalismo con cui si valutano le macchine dell'uomo. Ma l'applicazione di un
simile criterio alla definizione della scala dei viventi era praticamente irrealizzabile
e lo stesso Bonnet doveva ad esempio ammettere che il corpo umano, come il più
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perfetto dei corpi terrestri, possiede attività sensoriali e motorie del tutto inferiori
a quelle di altri animali che sono molto al di sotto nella scala dei viventi.
L'opera di Bonnet, in particolare la sua difesa del preformismo e la sua polemica contro la generazione spontanea, che egli sostenne trovando un appoggio importante nell'opera sperimentale estremamente analitica ed accurata di Lazzaro
Spallanzani, costituiscono uno degli ultimi tentativi del razionalismo e del meccanicismo creazionistico di far fronte alla concezione dinamica della natura. In questo tentativo il divenire della natura è interpretato come temporalizzazione della
scala degli esseri, come successivo dispiegamento di un ordine prefissato al momento della creazione e non già come autonomo determinarsi di un ordine attraverso l'interazione e la continuità temporale dei processi. Eppure a questa concezione dinamica della natura, che segnava una crisi dello stesso meccanicismo, si
stava giungendo attraverso l'indagine di vari fenomeni naturali. Si stava giungendo attraverso lo studio dei fenomeni dell'elettricità e del calore che ponevano serie
difficoltà ad un'interpretazione meccanicistica, richiamando l'esigenza di un atteggiamento più empirico e nello stesso tempo suggerendo speculazioni su un
fluido universale in grado di penetrare tutta la natura. Si stava giungendo anche
nel campo, che più da vicino ci interessa, della medicina e della fisiologia ove si
riconoscevano su un piano più empirico alcune proprietà degli organismi, come
la irritabilità e la sensibilità, che apparvero a molti un segno sicuro della autonomia e della potenzialità dinamica della realtà naturale.
IV
· MEDICINA E FISIOLOGIA
Nell'ambito della medicina l'indagine sulle funzioni dell'organismo si era
orientata nel xvn secolo verso l'applicazione di metodi più empirici e l'estensione
dei concetti ormai stabiliti dalla nuova meccanica oppure di quelli ancora incerti
della chimica. Era sorto in questo caso un indirizzo iatrochimico che aveva cercato, usando concetti derivati dalla fabbricazione del vino, della birra, dell'aceto,
ecc., di interpretare i fenomeni vitali, in base a processi di fermentazione o di effervescenza, più o meno legati all'interazione di sostanze acide ed alcaline. Il calore
vitale venne inoltre interpretato da alcuni autori come l'effetto di una reazione chimica analoga a quella della combustione, perdendo così quella posizione privilegiata di principio della vita, che gli era attribuito nella tradizione antica.
Una rottura ancor più netta nei riguardi delle antiche dottrine mediche si
aveva nell'indirizzo iatromeccanico che, oltre ad avvalersi del quadro teorico
della nuova scienza galileiana e cartesiana, poteva contare anche sul grande risultato della scoperta della circolazione del sangue. La stessa diffusione dell'opera
di Newton favorì, nei primi decenni del Settecento, un relativo successo dell'indirizzo iatromeccanico rispetto a quello iatrochimico, specialmente per opera del
grande medico olandese Hermann Boerhaave (r668-1738) che sviluppò dalla sua
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cattedra dell'università di Leida l'insegnamento dei grandi iatromeccanici italiani del Seicento come il Barelli ed il Baglivi.
L'uso di analogie meccaniche, derivate in special modo dall'idraulica, l'interpretazione delle funzioni dei vari organi sulla base di macine, corde, molle,
filtri, mantici, ecc. se permettevano di contrapporre un linguaggio chiaro e preciso a quello spesso oscuro e vago degli iatrochimici, non permetteva di fo;mulare un quadro teorico generale dell'organismo particolarmente utile per interpretare i suoi aspetti di autoconservazione ed i suoi fenomeni morbosi. Sorge così
all'inizio del Settecento l'esigenza di una sistemazione teorica dei crescenti risultati dell'esperienza medica, da contrapporre alle coerenti dottrine dell'antichità.
Contro la concezione meccanicistica dei processi vitali G.E. Stahl, già ricordato nel capitolo VIII per la teoria del flogisto, si fa sostenitore di un animismo che
può apparire un semplice ritorno al passato. Egli parte però da alcune implicazioni
dello stesso meccanicismo cartesiano ed in particolare dall'idea che il movimento
in quanto tale non appartiene all'essenza della materia, ma è anzi il prodotto di
una causa immateriale. Nell'uomo tale causa è, per Stahl, l'anima stessa razionale
ed immortale nettamente distinta dal corpo. Essa agisce per fini determinati servendosi dei vari organi come di semplici d,ispositivi meccanici puramente passivi.
L'indagine microscopica ed anatomica di tali organi non serve tuttavia a comprendere l'azione vitale dell'organismo. Questa si esercita infatti preservando l'integrità chimica delle parti in modo che non può essere colto direttamente. Solo
quando queste sono staccate dal corpo vivente oppure dopo la morte ci possiamo
rendere conto come siano immediatamente soggette alla decomposizione per
l'azione dissolvitrice dei corpi esterni non più contrastata da quella conservatrice
dell'anima.
Un diretto intervento dell'anima sul corpo era però del tutto inaccettabile per
quegli autori i quali, come ad esempio Leibniz, sostenevano che il movimento
di un corpo può essere modificato solo per opera di altri corpi. Leibniz osservava in particolare che la dottrina di Stahl poteva portare ad una concezione materialistica dell'anima, poiché si può pensare che questa agisca sul corpo solo se
dotata di materialità.
Altri autori tendono ad evitare questa difficoltà riprendendo la vecchia dottrina galenica degli spiriti animali e, accettando l'idea che la materia possiede
un'intrinseca capacità di movimento, fissano in essi e non nell'anima immateriale
il principio motore fondamentale dell'organismo. Fra questi vi è Friedrich Hoffmann (1660-1742), professore come Stahl nella facoltà medica di Halle. Egli sostiene che nella materia agiscono forze materiali di varia intensità come dimostra
ad esempio l'azione della polvere da sparo. Nell'animale la causa dell'attività è
dunque l'anima senziente, costituita da una sostanza materiale di particolare sottigliezza ed elasticità che è diffusa, come etere, in tutta la natura. Tale fluido etereo,
espansibile ed attivo, giunge a tutte le parti del corpo attraverso il sistema nervoso
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e ogni sua particella possiede, quasi come le monadi di Leibniz, una sorta di ~
rappresentazione della macchina dell'organismo che da esso viene mosso.
Le dottrine di Stahl e di Hoffmann pur essendo l'una animistica e l'altra meccanicistica costituiscono tipici esempi di quella tendenza a concepire secondo un
criterio monistico i processi fisiologici e patologici, che verrà accettata da molti
medici sistematici del Settecento. Ne risultava una rappresentazione monarchica
dell'organismo, mosso e regolato da un unico centro, fissato in genere nel cervello
o subordinatamente nel cuore. A questa viene però contrapponendosi nel corso
del secolo una rappresentazione pluralistica o federativa dell'organismo, le cui funzioni o disfunzioni vengono ricondotte all'interagire dei vari organi o delle varie
parti, ai quali viene attribuita una relativa autonomia oppure una serie di proprietà
specifiche e differenti.
In questo ultimo senso si muovono alcuni autori della scuola medica di
Montpellier ed in particolare Theophile Bordeu (1722-76) il medico che incontriamo come protagonista del Réve de d' Alembert scritto da Diderot nel 1769.
Bordeu studiando la secrezione ghiandolare respinge la concezione strettamente
meccanicistica che considera questa funzione come una filtrazione puramente passiva di particelle del sangue. Sostiene invece una specifica sensibilità delle ghiandole e ritiene quindi che la secrezione ne risulti come un processo attivo. La sensibilità, che egli non distingue in modo netto dalla irritabilità o contrattilità, indicanti
un'intrinseca capacità di movimento dei vari organi, esprime nel modo più caratteristico la « vita propria » di ciascuno di essi. Vita propria che non comporta
la negazione di un reciproco legame unitario fra gli organi. Questi agiscono anzi
come un tutto, allo stesso modo delle api di uno sciame che riesce a rimanere sospeso ad un albero per l'azione concorde di ciascuna.
Il riconoscimento che la sensibilità e la capacità di movimento costituiscono
intrinseche proprietà della materia vivente in quanto tale, e non solo dell'organismo nel suo complesso, costituì un momento importante nel pensiero del Settecento. Importante fu anche una netta distinzione fra sensibilità ed irr'itabilità inizialmente confuse o vagamente definite. Tale distinzione costituisce uno dei meriti
più rilevanti del grande fisiologo svizzero Albrecht Haller (1708-77). Conducendo numerose esperienze di vivisezione su animali egli giunse infatti a stabilire
che la sensibilità e l'irritabilità costituivano delle proprietà inerenti a differenti
strutture anatomiche. La sensibilità doveva essere attribuita a quelle parti che stimolate provocano una impressione soggettiva nell'uomo o una reazione di dolore o irrequietezza nell'animale, cioè ai nervi o alle parti riccamente innervate;
l'irritabilità a quelle parti che stimolate si contraggono, cioè ai muscoli. Haller
aveva affrontato il problema chiedendosi quale fosse la causa del movimento del
cuore ed era giunto a stabilire, contrariamente a quanto aveva sostenuto il suo
maestro Boerhaave, che il cuore può contrarsi indipendentemente dall'azione dei
nervi per la semplice azione delle sue stesse fibre muscolari. Il movimento poteva
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così essere attribuito ad una vis insita al muscolo e realizzarsi anche senza l'intervento della vis nervosa che giunge ad esso attraverso i nervi, cioè senza l'azione di
quel fluido nervoso che alcuni ritenevano costituire l'anima materiale sensitiva
e altri, come lo stesso Haller, consideravano piuttosto uno strumento materiale
dell'anima immateriale e pensante. Con Haller si apre inoltre la via ad una feconda indagine sperimentale delle singole proprietà fisiologiche dei tessuti, che
darà alcuni dei risultati più fecondi nel campo della elettrofisiologia con i lavori,
ad esempio di Galvani verso la fine del secolo.
La distinzione fra sensibilità ed irritabilità, in quanto separava esperienza soggettiva (almeno nell'uomo) e capacità di movimento dell'organismo o di sue
parti, veniva a toccare direttamente uno dei problemi filosofico-scientifici più discussi dalla fine del Seicento, cioè quello dei rapporti dell'anima col corpo. All'origine di tale problema si trova in particolare la distinzione cartesiana fra res
cogitans e res extensa che, ponendo l'anima in una dimensione puramente immateriale, aveva lasciato aperto il grave compito di spiegare la sua azione sul corpo.
Tale azione, modificando il movimento di particelle materiali, sembrava infatti
contrastare con il principio della costanza della quantità di moto, affermato dal
nuovo meccanicismo deterministico. Cartesio stesso aveva cercato di superare
la difficoltà sostenendo che l'anima aveva facoltà non di creare nuovo movimento,
ma soltanto di modificarne la direzione. Leibniz aveva però dimostrato che, da
un punto di vista strettamente meccanico, un cambiamento di direzione comporta necessariamente un'alterazione della quantità di moto.
Le soluzioni del problema anima corpo, che venivano formulate con l'occasionalismo di Malebranche o con la teoria dell'armonia prestabilita di Leibniz,
avevano d'altronde sollevato sul piano religioso e scientifico non poche opposizioni. Alcuni influenti ambienti ecclesiastici, specialmente quello dei gesuiti, si
erano ad esempio opposti in modo deciso ad ogni concezione dualistica difendendo la tradizionale dottrina scolastica dell'unità sostanziale di anima e corpo.
Contro l'aristotelismo ancor prima della metà del Settecento maturò tuttavia
una netta opposizione dell'autorità ecclesiastica, allorché ci si avvide che in esso si
potevano avere pericolosi punti di contatto con il materialismo, in particolare
l'idea di un'intrinseca capacità di movimento e di sensibilità dei corpi materiali.
La concezione meccanicistico-creazionistica appariva invece più sicura dal punto
di vista dell'ortodossia poiché, privando la materia di ogni potenzialità attiva,
richiedeva esplicitamente il diretto intervento di dio nei processi naturali.
Nell'idea stessa dell'animale macchina, dei meravigliosi congegni meccanici
che dovevano regolare gli istinti più perfetti di ogni animale, non pochi avevano
visto il segno sicuro dell'opera divina ed il modo più ragionevole per non attribuire alla provvidenza o all'uomo la sofferenza di creature innocenti. La netta separazione di anima e corpo sembrava inoltre garantire meglio la spiritualità ed
il particolare destino di immortalità dell'uomo.
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La teoria cartesiana dell'animale macchina era però utilizzabile in senso diametralmente opposto, cioè antireligioso. Secondo alcuni autori libertini, infatti,
se i più meravigliosi istinti degli animali potevano essere ricondotti ad un complesso meccanismo materiale, era possibile che un meccanismo ancora più perfezionato potesse spiegare tutto l'operare dell'uomo.
Il declino della filosofia cartesiana ed il diffondersi dell'empirismo inglese
sul continente favorirono però, dopo il I 7 30, l'abbandono della teoria dell'automatismo e della completa insensibilità degli animali. Voltaire giunse ad esempio
a sostenere che, se gli animali fossero macchine insensibili, dio avrebbe compiuto
opera inutile fornendoli di organi simili ai nostri. La materia organizzata può
quindi possedere la facoltà di sentire e a ciò non osta alcuna difficoltà di principio,
se si ammette con Locke che dio stesso può, volendo, aver dotato la materia della
facoltà di pensare. Il sensismo di ispirazione lockiana non portava però necessariamente a delle conclusioni materialistiche. Condillac, pur ispirandosi ad esso, sosteneva infatti che anche nell'animale le sensazioni sono le modificazioni proprie
dell'anima e gli organi sensoriali non altro che la loro causa occasionale.
A conclusioni materialistiche giungono invece alcuni sostenitori della biologia cartesiana incontrandosi con le correnti epicuree. Si delinea così una fisiologia meccanicistica in cui l'animale macchina non è più considerato un automa insensibile ma possiede un certo grado di stmsibilità, per effetto di un'anima corporea, in genere identificata con quegli spiriti animali che, secondo la tradizione
galenica, venivano distillati dal sangue nel cervello e si muovevano poi attraverso
i nervi per tutto il corpo. Già nel xvrr secolo Guillaume Lamy (I644-82) usa ad
esempio il termine spiriti animali, per indicare quella parte dell'anima contenuta nei nervi, ed il termine anima, per indicare gli spiriti animali contenuti nel
cervello.
Sia che tali spiriti animali venissero identificati con l'anima stessa, anche nell'uomo, oppure fossero considerati un suo strumento, rimaneva più in generale
aperto il problema di stabilire quale fosse la loro natura fisica. Ed a questo proposito le interpretazioni variavano secondo le diverse concezioni che si potevano
avere della materia e del movimento. Nel Seicento Gassendi ed anche il fisiologo
inglese Thomas Willis (I62I-75) vedono in essi la materia estremamente attenuata del fuoco e della luce. Willis in particolare attribuisce ad essi quelle stesse
forze motrici del fuoco che appaiono agire nella polvere da sparo. Nel Settecento
invece, Newton insiste maggiormente sull'aspetto fisico degli spiriti animali, che
sono per lui costituiti da quello stesso etere che, come fluido estremamente elastico
e rarefatto, pervade tutti i corpi. Berkeley infine, nella sua opera Siris del I 744,
concepisce questi spiriti, in senso antimeccanicistico, come una sostanza ignea e
nello stesso tempo immateriale che pervade anch'essa tutti i corpi, agendo come
la divina anima dell'universo, già sostenuta nella tradizione stoica.
L'idea che l'anima, o comunque gli spiriti animali agenti nel sistema nervoso,
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dovessero ricondursi ad un fluido universale attivo, identificabile o meno con
l'anima del mondo, ma in qualche modo affine ai vari fluidi imponderabili (magnetico, elettrico, calorico e luminoso), verrà difesa da non pochi autori nella
seconda metà del Settecento. E sulla base di tale idea si svolgeranno alcuni
tentativi, specialmente nel periodo romantico, per superare quella discontinuità
fra mondo della natura e mondo dell'uomo che il meccanicismo era incapace
di eliminare.
Il carattere speculativo di tali tentativi non si riscontra in genere nei contributi
più significativi del materialismo settecentesco e specialmente in una delle sue
opere più famose L'homme machine (L'uomo macchina) di Lamettrie, che viene
pubblicata a Leida nel I748. La tesi fondamentale di quest'opera infatti è che
nella conoscenza scientifica dell'uomo non ha più alcun senso far riferimento ad
un'anima, sia come principio motore dell'organismo sia come principio esplicativo delle sue attività psichiche, ed in tale rifiuto si coinvolge anche l'idea di
un'anima corporea e la stessa dottrina tradizionale degli spiriti animali.
Julien Offroy de Lamettrie (I 709-5 I), dopo gli studi medici compiuti a
Leida alla scuola di Boerhaave, visse a Parigi sino al 1746, donde fu costretto ad
emigrare in Olanda e successivamente a Berlino presso la corte di Federico n, ove
incontrò una morte prematura. Appare significativa nello svolgimento del suo
pensiero materialista una fase di aperto interesse per la tradizione aristotelica.
Nella sua opera Histoire nature/le de I'Jme (Storia naturale dell'anima) del I745 egli
ammette infatti che la materia eterna non può avere la sua essenza nell'estensione,
poiché da essa non si può derivare alcuna attività. Occorre quindi ammettere che
la forza motrice e sensitiva, che egli considera inerente alla materia, debba derivare da «forme sostanziali» che ne determinano la potenzialità. In quest'opera
egli aderisce ancora alla dottrina degli spiriti animali e ritiene che l'anima, costituita di una sostanza eterea materiale, abbia una precisa sede nel cervello ove produce il pensiero.
Questo monismo metafisica, ispirato ad Aristotele e a Locke, viene del tutto
abbandonato con L'ho m me machine che rappresenta una svolta in senso empiristico
del suo pensiero. In questo scritto, che si presenta come un agile e polemico libello
di propaganda scientifica ed antireligiosa nel genere della tradizione libertina,
Lamettrie afferma con decisione che le tradizionali impostazioni metafisiche si
sono dimostrate incapaci di risolvere il problema della mente. L'esperienza della
medicina apre invece la via sicura per risolvere tale problema, affrontato dalla
tradizione filosofica e religiosa postulando un'anima immortale. Gli effetti psicologici delle malattie, della fame, dei farmaci, dell'impulso sessuale, ecc. dimostrano
in modo irrefutabile la costante correlazione degli stati psichici e di quelli corporei.
Un'analoga correlazione può essere desunta dallo stretto rapporto esistente fra il
grado di complessità nella struttura cerebrale degli animali e la varietà del loro
comportamento. Tale correlazione dimostra, secondo Lamettrie, che gli eventi
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psichici non sono il prodotto di un'anima immateriale, ma il risultato delle funzioni cerebrali, una particolare modificazione delle sue peculiari strutture. « Come
una corda di violino o un tasto di clavicembalo vibra ed emette il suo suono, così
le corde del cervello, colpite dalle onde sonore, sono state stimolate ad emettere
o ripetere le parole che le colpivano. »
Concepire in tale modo l'attività del pensiero non significa tuttavia per Lamettrie identificare l'organico e lo psichico, né tantomeno dare una definizione
dell'essenza dell'uomo. La dipendenza dei fenomeni psichici da quelli organici
è una dipendenza causale di cui non ci è dato conoscere la natura profonda. L'idea
dell'uomo macchina è quindi una rappresentazione scientifica, un'ipotesi necessaria basata sull'esperienza di diversi ordini di fenomeni e sull'analogia con le
costruzioni tecniche. Ciò nonostante Lamettrie sembra convinto che l'organismo
non è identificabile con le comuni macchine costruite dall'uomo, in quanto possiede un interno principio di movimento, come appare nel fenomeno fondamentale dell'irritabilità. Questa proprietà, che Haller aveva ritenuto caratteristica dei
muscoli, si mostra del tutto indipendente dal sistema nervoso e si realizza escludendo ogni principio motore estrinseco, sia esso l'anima di Stahl o gli spiriti
animali della tradizione galenica. Lamettrie pensa che questo principio di movimento, per quanto particolarmente evidente nel cuore, capace di contrarsi
anche se staccato dal corpo dell'animale, è inerente ad ogni parte del corpo e
suppone che sia rappresentato da «un'oscillazione naturale di cui è dotata ogni
fibra». L'organismo è quindi fornito di un'autonoma capacità di movimento,
di un'autopropulsione per cui si può dire che esso «è una macchina che monta
da se stessa le sue molle: immagine vivente del moto perpetuo ».
L'animale macchina possiede inoltre un certo grado di flessibilità e di adattamento per cui può essere sì paragonato ad un orologio, ma ad un orologio così
perfettamente costruito da funzionare anche quando alcune delle sue ruote si
siano fermate. Quasi in lui riecheggiasse ancora un motivo aristotelico Lamettrie
è convinto che il principio intrinseco di movimento è in grado di spiegare tutte
le funzioni dell'organismo. «Posto il minimo principio di movimento, i corpi
animati avranno tutto ciò che loro occorre per muoversi, sentire, pensare, pentirsi;
in una parola per agire nel fisico e nel morale che ne dipende. »
Il rilievo dato da Lamettrie alle proprietà di autoconservazione e regolazione
della macchina vivente sembra distaccarlo dalla tradizione iatromeccanica ed avvicinarlo a quelle posizioni vitalistiche che si svilupperanno verso la fine del secolo. Egli ne rimane tuttavia ancora lontano, sia perché il principio motore degli
organismi non si distingue dalla- loro organizzazione sia soprattutto perché,
rimanendo per lui ignota l'essenza della materia e del movimento, risulta difficile proporre distinzioni di principio fra la vita e la non vita. Il suo relativo disinteresse per il problema della generazione, cioè per il sorgere della vita, per la
stessa questione dell'esistenza di un essere supremo, sembra comprovare che il
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Biologia e filosofia
materialismo dell' Homme machine è più legato all'esigenza etica di liberare dai
pregiudizi la conoscenza scientifica e la condotta morale dell'uomo che non ad
una speculazione cosmologica e metafisica.
Fra le opposte soluzioni filosofiche che pretendono di ricorrere a dio o al
caso per spiegare l'ordine delle cose Lamettrie ritiene semplicemente che la natura stessa possieda i requisiti per produrre necessariamente tale ordine. Il fenomeno della irritabilità, la rigenerazione del polipo di Trembley, sembrano a
Lamettrie prove sufficienti per garantire l'autonomo determinarsi della materia,
la sua capacità di creare un ordine necessario che nell'uomo stesso può essere
verificato. Se vi è nell'uomo una naturale disposizione alla felicità questa infatti si
realizzerà come una situazione psicologica individuale, che è prodotta necessariamente dalla macchina organica, benché possa trovarsi in contrasto con le convinzioni etiche e religiose della società.
V
· IL MATERIALISMO DI DIDEROT
Verso la metà del Settecento il nuovo corso che le scienze naturali avevano
preso nelle opere di Maupertuis, Buffon, Lamettrie ed altri non solo indicava la
crisi della concezione creazionistica, ma segnava il sorgere di una nuova visione
materialistica della natura. Chi seppe meglio interpretare il nuovo indirizzo di
pensiero, così strettamente legato all'illuminismo francese, fu uno dei fondatori
della grande Enryclopédie, Denis Diderot. Di cultura vasta ed eclettica, redattore di
molte delle voci tecniche della stessa opera, autore di romanzi ed opere teatrali
famose, rivolse per tutta la sua vita un interesse particolare ai problemi della
biologia, avvertendo come in essa stavano per sorgere le indicazioni più significative per una nuova visione filosofica della natura.
Nel 1746 scrivendo i Pensées philosophiques (Pensieri filosofici) sostiene ancora
quella forma di deismo sentimentale che in molti contemporanei era alimentata
dalle merveilles de la nature. L'ordine geometrico meccanico dell'universo astronomico non manifesta però in modo sicuro l'intelligenza divina. Esso- come aveva
rilevato Maupertuis - potrebbe infatti risultare casualmente da una meravigliosa
disposizione delle particelle che lo compongono. « La possibilità di generare fortuitamente l'universo è estremamente piccola, ma la difficoltà dell'avvenimento
è compensata più che sufficientemente dalla moltitudine delle probabilità. » Solo
l'ordine meraviglioso degli organismi ci conduce direttamente a concludere per
un'intelligenza divina. « Per scuotere il materialismo, » egli afferma, « le sublimi
meditazioni di Descartes e Malebranche non valevano una sola osservazione di
Malpighi », e l'idea stessa di preformazione dei germi lo conduce ad escludere che
gli organismi possano essere sorti casualmente.
Nel giro di pochi anni una svolta importante nel pensiero di Diderot lo conduce ad abbandonare il deismo. Se dapprima le scienze della vita sembravano co-
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Biologia e filosofia
stituire il fondamento sicuro del creazionismo ora in esse egli trova la prova per
abbandonare questa concezione. Nella Lettre sur les aveugles (Lettera sui ciechi) del
I 749 la nuova prospettiva gli si dischiude attraverso la querelle des monstres che aveva
interessato, nei decenni precedenti, diversi filosofi e naturalisti specialmente in
Francia. Come si poteva conciliare la disarmonia e la turpitudine dei mostri con
la saggezza e la bontà divina? E se era impossibile che il germe preformato contenesse al momento della creazione delle alterazioni mostruose, in che modo
queste si erano potute produrre successivamente? Su questi ed altri problemi si
era a lungo discusso. Ciò che conta per Diderot è che nei mostri vi è l'indicazione
di un disordine dal quale egli, attraverso le parole del matematico inglese Nicolas
Saunderson (I682.-I739), trae tutte le conseguenze ateistiche. A questi, cieco dalla
nascita, è negata la visione del meraviglioso spettacolo della natura, per lui è del
tutto certo che l'armonia e l'ordine sono in essa soltanto parziali e non garantiti.
La natura non gli può apparire come espressione della saggezza divina, perciò
se dio non è buono non può esistere.
L'armonia apparente dei fenomeni naturali, anche quelli degli organismi, è
dunque frutto del caso. Le molecole della materia in movimento hanno formato
un'infinità di combinazioni. Di queste sono perdurate quelle in cui le parti presentavano una reciproca convenienza e compatibilità. Gli animali, così come i
mondi che non presentavano questi requisiti, sono stati travolti nel divenire infinito della materia. Erano queste le idee lucreziane della spontanea capacità della
materia ad organizzarsi e del passaggio graduale dal caos all'ordine, che venivano
a trovare un preciso riscontro nelle nuove osservazioni biologiche della metà
del Settecento; in quelle della generazione spontanea, rivendicata da Needham,
così come nei fenomeni di rigenerazione del polipo.
Negli anni successivi in numerose voci dell' Enryclopédie, ma soprattutto
nello scritto De l' interpretation de la nature (Dell'interpretazione della natura) del I 7 53,
Diderot traccia le linee programmatiche di una nuova scienza che si distacchi dal
dogmatismo meccanicistico dei cartesiani, per giungere ad una visione dell'unità
dinamica della natura. Egli tende da un lato come il Buffon, a svalutare la conoscenza matematica dei fenomeni poiché con essa i corpi vengono spogliati
delle loro qualità individuali, d'altro lato sostiene che la scienza non deve limitarsi alla semplice raccolta di dati ma deve giungere, attraverso la riflessione, ad
enunciare le leggi che devono essere sottoposte al vaglio dell'esperienza. Su
questa strada Diderot rivendica la funzione indispensabile dell'ipotesi che emerge, come i prodotti dell'arte, dall'attività creativa della mente. I presentimenti,
l'intuizione ed il sogno appaiono così come vie feconde per cogliere le nuove
idee che ci conducono all'interpretazione della natura. Ad essa giungiamo attraverso la riflessione su grandi fenomeni, attraverso fatti privilegiati che costituiscono una ricchezza per la filosofia naturale, come il polipo di Trembley, la generazione spontanea, il cieco nato, ecc.
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Biologia e filosofia
L'esperimento non può tuttavia verificare in modo assoluto quelle idee o
verità più generali che ci danno« l'essenza stessa dell'ordine». Esse rappresentano
delle verità, dei principi che hanno una base nell'esperienza ma risultano dalla
riflessione filosofica e dal reciproco fecondarsi di scienza e filosofia.
L'interpretazione della natura si basa per Diderot innanzitutto sull'idea di
unità profonda del tutto. Egli esclude quindi dalla filosofia naturale ogni richiamo
a dio, che significa uscire attraverso una catena infinita di cause dalla natura stessa
e spiegare un mistero mediante un altro mistero. Occorre anche respingere ogni
assunzione di cause finali, fondata sulla presunzione di conoscere il piano dell'opera divina. La convinzione dell'unità della natura lo conduce poi ad escludere un pluralismo di sostanze e a supporre che la natura si realizzi mediante
un unico atto, che comporta la interdipendenza e la continuità fra i fenomeni.
Il progredire della ricerca potrà così ricondurre il peso, l'elettricità, il magnetismo ad un unico « fenomeno centrale », che permetta una loro visione sistematica. Come Buffon sembra anch'egli in tal modo propenso ad ammettere
che la gravitazione, come « qualità primitiva della materia », sia sufficiente ad
imporre l'ordine immediato ed immutabile all'insieme dell'universo in movimento.
Fra le congetture filosofiche che tendono a individuare il carattere di unità
della natura incontriamo in Diderot anche l'idea di un animale prototipo primitivo. Sia che lo si accetti con Maupertuis o lo si respinga con Buffon- egli afferma - bisogna riconoscere che esso è un'ipotesi essenziale tanto per la scienza
quanto per la filosofia, poiché è evidente che « la natura non ha potuto conservare
tanta somiglianza nelle parti, e far mostra di tanta varietà nelle forme, senza aver
spesso reso sensibile in un essere organizzato ciò che ha occultato in un altro ».
L'idea di prototipo tuttavia non verrà più ripresa da Diderot. Poteva costituire un principio d'ordine importante in una concezione storica delle forme della
vita. Ma egli non giunge ad una concezione evoluzionistica, analoga a quella di
Maupertuis o a quella posteriore di Lamarck. Nella successione di eventi della
natura le specie non derivano, diversificandosi, da un ceppo comune, ma sorgono
in modo indipendente dalla materia, per generazione spontanea, seguendo ciascuna
una propria parabola evolutiva.
Nell'opera De l'interpretation de la nature egli appare convinto al pari di Buffon
che la materia bruta è nettamente distinta da quella vivente, che cioè gli organismi si formano per l'aggregarsi di molecole organiche. Avverte però le difficoltà di questa distinzione, il suo contrasto con l'idea fondamentale di unità della
natura. Come è possibile - egli si chiede infatti - che la materia non sia essa o
tutta vivente o tutta morta? La materia vivente è sempre vivente? E la materia
morta non comincia mai a vivere?
Una risposta precisa a questi interrogativi venne data dopo quindici anni
nelle opere Entretien de d'Aiembert et Didero! e Réve de d'Aiembert (Colloquio fra
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Biologia e filosofia
d' Alembert e Didero t e Sogno di d' Alembert) scritte nel I 769, ma pubblicate postume
nel I 8 30. Persuaso al pari di Maupertuis che la semplice organizzazione, come
disposizione spaziale delle particelle, non può rendere conto del fenomeno della
vita, Diderot giunge ad ammettere una sensibilità universale della materia. Le
particelle che compongono i corpi, oltre alle qualità fisiche cartesiane dell'estensione e della impenetrabilità, oltre ad un'energia intrinseca di movimento, possiedono anche una sensibilità propria. Sorda e latente nei minerali essa si risveglia
gradualmente man mano che le particelle assimilate dalle piante salgono lungo
la scala degli esseri sino all'uomo. Se nel processo di nutrizione la materia inerte
diventa sensibile ciò può accadere solo se essa possiede una sensibilità latente.
Qualora infatti si attribuisca questa proprietà solo alle particelle vitali si metterebbe in dubbio il principio della continuità e dell'unità della natura, per il
quale non vi è alcuna qualità di cui ogni essere non sia in qualche grado partecipe.
Diderot fa propria la teoria sostenuta nella scuola di Montpellier, ed in particolare da Bordeu, della sensibilità e della relativa autonomia degli organi animali.
Egli ammette così che gli organismi sono composti da elementi vitali, da animaiculi che si fondono nell'unità di un individuo all'incirca come le api compongono
un tutto nello sciame già ricordato da Maupertuis. È per il principio di continuità che si crea quest'unità e questa fusione, è per lo stesso principio che la
sensibilità dei singoli animalculi o dei singoli organi si risolve nella sensibilità
unica della coscienza. Negli animali le sensazioni possono raccogliersi in un punto
del cervello a cui confluiscono le fibre nervose come le lunghe gambe di un ragno
convergono nel suo corpo. La coscienza dell'io comporta una memoria che si
produce nel cervello per il movimento di quelle fibre, che analogamente a
Lamettrie, egli paragona a corde vibranti sensibili. L'oscillazione permane a lungo
dopo che la corda è stata pizzicata ed in tal modo l'oggetto rimane presente.
«Ma le corde vibranti hanno anche un'altra proprietà, che consiste nel farne fremere altre; e così una prima idea ne richiama una seconda, queste due una terza ...
e così via senza che si possa fissare il limite delle idee risvegliate ... »
L'accentramento della sensibilità nel sistema nervoso, che condiziona l'unità
dell'animale, non cancella completamente l'autonomia e l'antagonismo reciproco
delle parti. Nei viventi più semplici l'organismo può infatti disgregarsi in altri
organismi, come nel polipo, o più in generale, con la morte, può scindersi in una
infinità di « animalculi di cui è impossibile prevedere la metamorfosi e l'organizzazione futura ed ultima». Quest'ultima asserzione sembra del tutto provata per
lui dai processi di generazione spontanea che accompagnerebbero la decomposizione di materia organica. Il sorgere della vita ed il fenomeno della morte appaiono così come processi opposti di composizione e di scomposizione. La goccia
d'acqua di Needham, pullulante di esseri microscopici in formazione, è l'immagine in piccolo del grande lavoro della natura. Altre forme potranno in tal modo
essere prodotte in futuro di cui non ci è possibile avere conoscenza.
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Tutta la successione dei processi è concatenata da una necessità causale, ma
non sembra possibile stabilire un ordine in questa successione. « Chi conosce le
razze di animali che ci hanno preceduto? Chi conosce le razze di animali che succederanno alle nostre? Tutto cambia, tutto passa, soltanto il tutto resta. Il mondo
comincia e finisce senza posa; in ogni istante esso è al suo principio e alla sua
fine; non ha mai avuto altro inizio nè altra fine. » Nell'immenso oceano della
materia rerum novus nascitur ordo. Sembra dunque impossibile il caos poiché le
qualità intrinseche delle molecole spingono queste a disporsi in un ordine necessario, e a realizzare col tempo tutto ciò che è possibile. Anche per Diderot sembra
dunque valere il principio di pienezza, ma il dispiegarsi della scala naturae non è
il risultato di un disegno, bensì la realizzazione di tutte le combinazioni probabili per cui il possibile matematico sembra confondersi o coincidere con il possibile metafisica.
L'ordine necessario che nasce continuamente tuttavia non è mai un ordine
completamente realizzato né è l'ordine definitivo che presiede alla realizzazione
della natura. Come afferma il Roger, «l'universo di Diderot è una gigantesca
partita a dadi, ove tutto è determinato, ove niente è conosciuto, ove i dadi stessi
cambiano continuamente di forma nel corso del gioco ». Per il filosofo quindi
l'illusione più pericolosa è il sofisma dell'effemeride, la convinzione cioè che il
mondo debba essere necessariamente ciò che è in questo momento; la certezza
di un essere passeggero nell'immortalità delle cose, la credenza della rosa di Fontenelle, per cui a memoria di rosa non si era mai visto morire un giardiniere.
L'insistenza nel Reve de d' Alembert sul continuo fluire delle cose rivela la contraddizione in cui, per Diderot, si trova l'uomo nella sua esigenza di conoscere la
natura. Come già aveva affermato nel De l'interpretation de la nature, «se non si
concatenano i fenomeni l'uno con l'altro non si fa filosofia. I fenomeni potrebbero essere tutti concatenati, sicché lo stato di ciascuno di essi potrebbe essere
senza permanenza. Ma se lo stato degli esseri è in una perpetua vicissitudine, se la
natura è ancora all'opera, nonostante la catena che lega i fenomeni, non vi è
filosofia. Tutta la nostra scienza naturale diventa transitoria come le parole. Ciò
che noi consideriamo storia della natura non è altro che la storia incompletissima
di un istante ».
La continua mobilità dell'universo richiede di essere espressa da un pensiero
altrettanto mobile. La forma frammentaria e dialogica di molti scritti di Diderot
sembra quindi rispondere ad un'interna coerenza del suo pensiero. Pensiero che
respinge l'ideale di una conoscenza matematica ed « astronomica » degli oggetti
della natura, che miri ad una previsione del loro regolare movimento. Pensiero
che respinge cioè la teoria del meccanicismo deistico per cui l'infinita ricchezza
dei fenomeni irriducibili ai principi della meccanica era ricondotta o al piano finalistico del grande arteficie o alla libertà della sostanza spirituale dell'uomo.
Respinto ormai il creazionismo, meglio descrivere tali fenomeni nella loro con2.49
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cretezza, ricercare la loro unità e diversità nel seno stesso della natura interpretata alla luce di congetture filosofiche.
Il divenire dell'universo potrà allora apparire a Diderot più una successione
di eventi concatenati che una storia della natura. Tale sto;ia richiede un ordine
razionale di svolgimento che per Buffon era garantito dal carattere di manifestazione divina della natura e risultava confermato dalle regolarità sia del processo cosmico che delle forme attuali di vita. Per Diderot e per altri filosofi materialisti è difficile ammettere un ordine di svolgimento senza ammettere quella
concezione deistica e finalistica della realtà che essi rifiutano.
Nella natura per Diderot è tuttavia riconoscibile una tendenza organizzativa della materia, uno sviluppo graduale della sensibilità che culmina nel pensiero dell'uomo. Questi, pur travolto nella perenne successione delle cose, è pur
sempre un'espressione della creatività della natura, la quale tuttavia sfugge alle
es1genze sistematiche del suo pensiero aprendo così una contraddizione non
risolta.
VI
· CONCLUSIONE
Diderot sviluppa in un'ampia concezione materialistica alcuni dei motivi che
erano emersi dalla riflessione filosofico-scientifica attorno alla metà del Settecento; in particolare la negazione di un ordine meccanico della generazione, prestabilito con la creazione, e l'idea di una continua creatività della natura (generazione spontanea). Il razionalismo meccanicistico che si era espresso tipicamente
tra la fine del Seicento e l'inizio del Settecento con la teoria della preformazione
e della preesistenza dei germi era stato posto in difficoltà, sia attraverso la discussione teologico-filosofica, sia per il sorgere di nuove idee scientifiche. A queste
idee si era adeguata soprattutto l'opera di Buffon, in cui tale razionalismo non
viene completamente superato ma assume una nuova forma, che appare ad esempio
nella teoria delle molecole organiche. Queste, pur soggette ad una continua trasformazione e pur essendo il prodotto di processi naturali, risultano in fondo entità
del tutto ipotetiche, formulate su un piano che non è del tutto lontano da un
astratto atomismo geometrico.
La teoria preformista, che veniva difesa con notevole impegno nella seconda
metà del secolo specialmente da Bonnet, Haller e Spallanzani, per giustificare i
fenomeni sempre meglio osservati dell'eredità e dell'ibridismo aveva richiesto
anch'essa la postulazione di entità e processi del tutto congetturali. Ma il ricorso
a queste entità veniva ormai a contrastare con quell'atteggiamento empirista
che si diffonde nella seconda metà del secolo fra i naturalisti, specialmente in
Francia, e per il quale appariva preferibile considerare gli organismi partendo
dalle proprietà elementari descritte nell'ambito della fisiologia o della medicina,
come ad esempio la sensibilità o l'irritabilità.
Con queste proprietà ci si atteneva a fenomeni osservabili, si evitavano le
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Rappresentazione di alcuni infusori (questi piccoli organismi,
secondo Needham, si formavano per generazione spontanea in infusi di vegetali o di carne.
Spallanzani, con accurate sperimentazioni, dimo strò l ' in fondatezza di questa teoria) :
tavola dagli Opuscoli di fisica animale e vegetabile (Modena I 776)
di Lazzaro Spallanzani .
congetture su ipotetiche strutture della materia, su sottili congegni meccanici
degli organi, tanto spesso escogitati dagli iatromeccanici, ma che la stessa ricerca
microscopica non aveva in genere confermato. Le indagini microscopiche per di
più avevano perso molto di quel prestigio che ancora le circondava all'inizio del
secolo (per i successi da esse conseguiti nell'osservazione del meraviglioso mondo
degli insetti). La produzione di immagini illusorie, dovute all'insufficienza della
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stessa tecnica microscopica, avevano infatti creato frequenti discordanze nei reperti
e nelle loro interpretazioni, sminuendo il valore di questo metodo d'indagine.
Meglio dunque considerare l'azione degli organismi non in base alla disposizione spaziale delle varie parti della materia ma movendo da quelle proprietà
o forze ad essa inerenti, che potevano forse considerarsi la vera causa e non
l'effetto dell'organizzazione. Al meccanicismo p:refo:rmistico ed atomistico si oppone così negli ultimi decenni del Settecento, un dinamismo che tende a :riconoscere negli organismi forze o proprietà attive quante sembrano suggeri:rne i vari
fenomeni, siano questi sensibilità, irritabilità, secrezione, sviluppo epigenetico
dell'embrione, ecc., forze riducibili secondo molti ad un'unica forza vitale. Tale
dinamismo, almeno all'inizio tendenzialmente descrittivo ed empiristico, trovava
un diretto appoggio in un dinamismo molto più astratto e teorico sviluppato
nell'ambito della meccanica. In questa disciplina alcuni autori avevano sostenuto,
ispirandosi specialmente al pensiero di Leibniz, che la forza è l'elemento ultimo
della realtà (agere est character substantiarum) e avevano quindi cercato di :ricondurre
le proprietà di attrazione ed impenetrabilità della stessa materia all'effetto di forze
contrapposte agenti su punti geometrici.
Un esempio importante del nuovo atteggiamento dinamistico nella biologia
si ha già nel 1759 con la Theoria generationis di Caspa:r F:riedrich Wolff (1733-94),
uno dei primi teorici dell'epigenesi, che si ispirava a Leibniz e a Needham. Per
Wolff la formazione dell'embrione risulta pe:r effetto di due principi, la vis essentialis e la facoltà di solidiftcazione dei fluidi. Per vis essentialis egli intende una
forza individuabile in un ordine ben determinato di fenomeni, precisamente
quella per cui nelle piante « i fluidi sono :raccolti dal terreno circostante, sono
costretti a penetrare nelle :radici, sono distribuiti in tutta la pianta, in parte
accumulati in alcuni punti, in parte di nuovo eliminati ». « Comunque questa
forza sia costituita, sia attrattiva o :repulsiva, debba essa la sua origine alla dilatazione dell'aria oppure sia composta da questi e da altri fattori in ogni caso essa
produce gli effetti accennati e deve essere assunta allorché si :riconoscono nelle
piante dei succhi nutritivi, ciò che è proprio dimostrato dall'esperienza. » La vis
essentialis, oltre che nei vegetali, agisce anche nella formazione degli embrioni
animali producendo lo specifico assorbimento di fluidi entro i pori della sostanza
gelatinosa in cui si forma l'embrione, fluidi che successivamente si solidificano
in vario modo.
Un altro naturalista tedesco Johann F:ried:rich Blumenbach (17p-r84o)
sostiene invece alcuni decenni più tardi che la formazione epigenetica dell'embrione è dovuta ad un unico principio, ad una tendenza formativa (nisus formativtts)
che agisce accanto alle altre forze vitali (contrattilità, irritabilità, sensibilità).
Anch'egli è però convinto che tale principio ha un valore prevalentemente descrittivo. «La parola nisus formativus, » egli afferma infatti, «così come la parola
attrazione, peso, ecc. non deve servire a niente più e a niente meno che a indicare
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Embrione di pollo dopo trentasei ore di incubazione:
(è visibile a destra il cranio con gli abbozzi dei bulbi oculari e del becco e,
più al centro, la colonna dorsale con l'abbozzo delle vertebre):
particolare da una tavola della Theoria generationis di C. Friedrich Wolff.
una forza, il cui effetto costante viene riconosciuto a partire dall'esperienza, ma
la cui causa, così come le cause delle forze naturali accennate, e così universalmente riconosciute, è per noi causa occulta. »
Meno legate ad un'esigenza di empirismo descrittivo di quanto non accadesse
per le forze vitali, erano nella seconda metà del Settecento le varie teorie attorno
ai fluidi vitali. Anch'esse si diffusero, spesso in contrapposizione al razionalismo
meccanicistico, soprattutto per il grande interesse nei fenomeni elettrici. Partendo
specialmente dalle esperienze con la bottiglia di Lei da e da quelle sui pesci elettrici,
non pochi fisiologi giunsero a sostenere che la sorgente dell'attività vitale si trovava diffusa nei corpi al di fuori degli organismi e che questi assorbivano più o
meno passivamente elettricità dall'esterno caricandosi di forza vitale. Si trattava di
speculazioni destinate ad avere un grande successo nella pratica medica ove a lungo
imperversò la moda delle cure elettriche; ma anche di speculazioni che si ricollegavano direttamente all'idea già sostenuta all'inizio del secolo, di un fluido etereo diffuso in tutto l'universo ed agente nello stesso sistema nervoso.
Le varie teorie sui fluidi vitali si intrecciavano con le numerose discussioni e
speculazioni sulla natura e sulla possibile convertibilità dei fluidi imponderabili
quali luce, calore, elettricità magnetismo, ecc. La convinzione che tali fluidi
imponderabili potessero costituire le varie forme assunte da una sottile sostanza
eterea capace di penetrare e muovere tutto l'universo, trovava un riscontro
nelle residue teorie neoplatoniche e specialmente stoiche su un'anima del mondo.
Tali teorie verranno riprese nel periodo romantico, specialmente in Germania, da alcune filosofie della natura che venivano a contrapporsi alla visione
ormai in crisi del razionalismo meccanicistico e anche a quella più recente dell'empirismo vitalista.
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CAPITOLO DECIMO
La critica dell'<< esprit de système >>
e l'ideale enciclopedico del sapere
DI GIANNI MICHELI
I
· CONSIDERAZIONI CRITICHE INTORNO AI SISTEMI
INTERPRETATIVI DELLA REALTÀ
La caratteristica essenziale delle prospettive filosofiche e scientifiche secentesche era, come si è rilevato nel volume precedente e particolarmente nel capitolo
VIII della sezione IV, la riduzione della realtà naturale ed umana ad elementi semplici, chiaramente determinati e pienamente controllati dalla ragione. Questa esigenza di semplificazione della realtà venne a coincidere in gran parte con l'accettazione dell'interpretazione meccanicistica dei fenomeni, e assunse un tono spiccatamente razionalistico. Il meccanicismo infatti non faceva altro che porre nella massima evidenza delle operazioni razionali, principalmente l'astrazione dai dati della
sensibilità e la disposizione ordinata di ciò che si riteneva costitutivo delle cose;
tali operazioni sono alla base di tutte le grandi sistemazioni del Seicento, anche in
quelle che al meccanicismo si ricollegano solo indirettamente, come illeibnizianesimo, per esempio. Quel che è costitutivo del razionalismo secentesco è comunque l'esigenza di porsi su di un piano superiore a quello della sensibilità, cioè in
quello della ricostruzione della realtà secondo alcuni presupposti razionali. Non
si tratta in verità di una fuga dalla realtà, ma di un cosciente abbandono dell'approccio tradizionale ai fenomeni, che appariva concreto solo in apparenza e oramai sterile, per conquistare una nuova concretezza, usando appunto la mediazione di nuovi schemi concettuali. Il richiamo alla concretezza si manifesta soprattutto nel rilievo dato al valore euristico delle teorie esplicative della realtà, tipico
della concezione di Descartes e della sua scuola. Le ipotesi meccanicistiche adempivano infatti al compito di dare una efficace esplicazione scientifica dei fenomeni,
anche indipendentemente dal valore reale che tale esplicazione poteva avere, ed
erano, in quanto tali, suscitatrici di ricerche e quindi di rinnovati contatti con la
realtà, compiuti al fine di adeguare la connessione tra ipotesi e fenomeni reali.
Comunque il problema del rapporto tra realtà ed esplicazione scientifica, pur
essendo valutato e colto in tutta la sua complessità, è completamente risolto nelle
grandi concezioni razionalistiche del Seicento, sulla base della fiducia che si nutre
nelle capacità della ragione umana di cogliere le strutture reali del mondo e delZ54
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La critica dell'« esprit de système » e l'ideale enciclopedico del sapere
l'uomo mediante l'applicazione ad essa dei propri schemi interpretativi, semplici,
chiari, evidenti, comprensibili, efficaci.
Si tratta però di un atteggiamento che comincia ad essere posto in discussione
nella seconda metà del Seicento e che verrà sempre più criticato nel corso del
secolo seguente. L'opera di Newton nel suo complesso, come si è già sottolineato,
è un indice abbastanza evidente della frattura che si è ormai operata, alla fine del
xvn secolo, tra ricerca scientifica e indagine antologica, che erano invece profondamente unite nelle grandi filosofie razionalistiche del Seicento. Il dibattito tra
cartesianesimo e newtonianesimo, certo la discussione culturale più rappresentativa della prima metà del Settecento, verte essenzialmente attorno a questo problema cruciale. Descartes era considerato il più tipico esponente di una mentalità
scientifica troppo « immaginativa » e soprattutto troppo incline a disconoscere
la realtà pur di non rompere le maglie di un tessuto sistematico che riteneva
desse una esplicazione completa delle cose. Ciò che si sottolineava non erano solo
gli« errori» di Descartes e della sua scuola (molto spesso resi più evidenti da un
contesto schematizzato), ma un più generale atteggiamento« dogmatico» (di cui
gli « errori » non erano altro che un riflesso) che sembrava connesso ad una prospettiva di ricerca di tipo astrattamente razionalistico e pertanto poco proficua.
« Le ipotesi di tali fisici, » osservava Condillac in proposito, « sono destinate a
farci penetrare nella natura dell'estensione, del movimento e di tutti i corpi; sono
opera di gente che per lo più osserva poco o che sdegna anche di istruirsi con le
osservazioni che altri hanno fati:e. Ho sentito dire che uno di questi fisici, felicitandosi di avere un principio che rendeva ragione di tutti i fenomeni della chimica,
osò comunicare le sue idee ad un abile chimico. Questi che aveva avuto la compiacenza di ascoltarlo, gli disse che gli avrebbe fatto presente una sola difficoltà, che
cioè i fatti erano diversi da come egli supponeva. Ebbene, riprese il fisico, insegnatemeli affinché li spieghi. Questa risposta svela perfettamente il carattere di
un uomo che trascura di istruirsi nei fatti perché crede di avere la ragione di tutti
i fenomeni, quali che possano essere. Non ci sono che delle ipotesi vaghe che
possano dare una fiducia così mal fondata. » La crisi delle grandi sistemazioni a
sfondo meccanicistico venne a manifestarsi quindi, come ben ha qui rilevato
Condillac, sul terreno della ricerca; la facilità con cui era possibile spiegare i
fenomeni costituiva la più vistosa conseguenza della banalizzazione, ormai acquisita, di un approccio alla realtà condotto sulla base di schemi concettuali troppo
generici, i quali ormai, di fatto, venivano assumendo una connotazione sempre
più arbitraria.
Di contro ad una simile mentalità (impersonificata dal cartesianesimo) venne
rivendicata con sempre maggiore insistenza la positività, nelle ricerche fisiche,
del continuo riferimento ai fatti; del saggio e controllato uso delle congetture,
del rifiuto di considerazioni sull'essenza delle cose: Newton costituì l'esponente
tipico del nuovo approccio alla realtà, o quello che era considerato tale dai pen-
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satori illuministi. Si considereranno in seguito i presupposti empiristici di questo
atteggiamento verso la realtà; basterà qui sottolineare che il richiamo a Newton
aveva un significato polemico nei confronti del cartesianesimo, ma non certo
contro la concezione meccanicistica del mondo, che non era messa in dubbio,
almeno in ambito strettamente scientifico. La discussione in effetti aveva un carattere più propriamente filosofico: non si trattava di una opposizione alla scienza meccanicistica acquisita, ma alla sistemazione generale della realtà in cui l'interpretazione meccanicistica dei fenomeni veniva inglobata. Come si è visto, la
meccanica rimase per tutto il secolo la scienza paradigmatica per eccellenza, essendo quella in cui la matematizzazione dei fenomeni era più completa: ciò che si intendeva colpire era la generalizzazione arbitraria dei risultati della meccanica e soprattutto la sua identificazione con la realtà. Non a caso autori come Lamettrie, che
intendevano conservare al meccanicismo valori di generalizzazione e implicazioni
strettamente materialistiche, si preoccupano di svincolarlo da ogni presupposto
antologico. Non a caso la polemica tra cartesianesimo e newtonianesimo verteva
essenzialmente sull'arbitrarietà dell'ipotesi degli elementi e dei vortici cartesiani
e sul significato antologico che si voleva dare all'attrazione newtoniana.
La grande superiorità dell'atteggiamento newtoniano veniva fatta risiedere
essenzialmente proprio nella sua consapevole rinuncia ad ogni ricerca sulle cause
prime. I due passi seguenti sono molto precisi a questo proposito. « Newton
non ha mai formulato ipotesi per spiegare la causa dell'attrazione dei pianeti e
quella della luce; ha dimostrato che questa gravitazione esiste, che un grave non
ricade sulla terra che in virtù di quella medesima forza centripeta che trattiene
gli astri nella loro orbita, che nessun vortice di materia sottile, grande o piccolo,
può essere la causa di questa forza centripeta. Ci si tenga lì e non si immagini
di poter fare con un romanzo ciò che Newton non ha potuto fare con la sua
matematica» (Voltaire, Défense du Newtonianisme). 1 «L'attrazione newtoniana è
un principio indefinito, con il quale, cioè, non si vuole designare né alcuna specie
o maniera d'azione particolare, né alcuna causa fisica di una simile azione, ma
solo una tendenza in generale, un conatus accedendi o sforzo per avvicinarsi, quale
che ne sia la causa fisica o metafisica, cioè sia che la potenza che lo produce sia
inerente ai corpi stessi, sia che essa consista nell'impulso di un agente esterno »
(d' Alembert, articolo Attraction nell'Encyclopédie).
1 È noto che Voltaire ebbe un ruolo notevole nella diffusione delle idee di Newton in
Francia (come è già stato sottolineato) ancora
pienamente cartesiana nei primi decenni del Settecento. I numerosi testi di Voltaire su questo
argomento testimoniano però che la sua adesione
al newtonianesimo è tanto entusiastica quanto
acritica: lo stile è brillante e piacevole, ma le argomentazioni addotte sono povere e inserite in un
contesto estraneo ad interessi genuinamente scientifici.
Come è stato giustamente sostenuto da uno
studioso americano, Co!m Kiernan, in un recentissimo lavoro, l'interesse di Voltaire per la scienza
e per Newton derivava infatti essenzialmente dalla
sua preoccupazione di provare l'esistenza di dio.
Il passo seguente tratto dall'opera Histoire de
]enni, è abbastanza significativo: «Tutti gli
astri innumerevoli, posti nella profondità dello
spazio, obbediscono alle leggi matematiche scoperte e dimostrate dal grande Newton; un catechista annuncia Dio e Newton lo prova ai saggi. »
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Questi due testi analoghi nella sostanza, seppur diversi nella forma, sono
molto indicativi perché rivelano la generalità dell'atteggiamento antimetafisico,
divenuto ormai, verso la metà del secolo, patrimonio comune dell'uomo di cultura, sia esso scienziato o letterato: si tratta cioè di una questione che ha travalicato l'ambito strettamente metodologico o scientifico per diventare il riflesso di
una più generale attitudine, filosofica o culturale in senso lato, di cui il rifiuto
di ogni considerazione sulle cause, l'abbandono del metodo di indagine deduttivistico, il ridimensionamento di prove indirette come quelle fondate sull'efficacia
operativa delle teorie, non sono che singoli aspetti.
Si può trovare una precisa formulazione della nuova concezione generale
della ricerca nell'opuscolo del medico olandese Hermann Boerhaave, De conJparando certo in physicis (Sul modo di stabilire la certezza in fisica, 1715) che, secondo
quanto dice P. Brunet, non tardò a diventare in qualche modo il manuale del
metodo sperimentale. L'opera è interessante in quanto Boerhaave è un deciso
assertore del meccanicismo e della concezione metodologica ad esso connessa,
ma è a un tempo ben conscio della difficoltà della deduzione dei corpi singoli
da una concezione generale della materia. In uno scritto anteriore, De usu ratiocinii mechanici in medicina (L'uso del raziocinio meccanico in medicina, 1702), aveva rivelato che occorreva assumere dei dati certi, non formulati con l'arbitrio della
mente, ma stabiliti in base all'osservazione sensibile, potenziata dai vari artifici
dell'anatomia, dalla microscopia e dalla scienza dei liquidi. La testimonianza sensibile e il giudizio razionale (che si realizza mediante l'uso del metodo geometrico)
sono gli elementi che caratterizzano la ricerca che, necessariamente, si pone come
meccanicistica: ogni altro tipo di indagine si situa, a suo giudizio, al di fuori di
una dimensione veramente scientifica. Pur tuttavia Boerhaave ritenne di dover
nettamente svincolare la prassi metodologica meccanicistica (insostituibile) da
ogni ipoteca antologica. Afferma recisamente, infatti, nell'opuscolo citato per
primo, che i principi delle cose ci sono del tutto nascosti e che la sola via di conoscenza scientifica che l'uomo abbia, consiste nell'osservazione sensibile o in ciò
che da essa si può trarre con l'ausilio del raziocinio geometrico. La certezza dell'esistenza di principi che siano a fondamento dei mutamenti che si hanno nel
mondo, si accompagna con la consapevolezza della nostra totale incapacità di
giungere alla loro conoscenza. È interessante vedere il tipo di critica che Boerhaave fa delle formulazioni speCifiche dei primi principi che erano state date:
è la critica di ordine genetico, che è indicativa di un atteggiamento che sarà
poi tradizionale. Dato che è impossibile conoscere alcunché dei primi principi,
ciò che, relativamente ad essi, si sostiene, non può che essere derivato dalla
conoscenza che si ha degli effetti. Se si ·risale perciò alla vera origine delle osservazioni « metafisiche » sulla realtà, si trovano dati empirici: così la « individualità» dell'atomo deriva da una necessità osservata nelle cose, la sua non penetrabilità dallo stato di conflitto che si osserva in ogni corpo; simili osserva257
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zioni si possono fare per la monade, l'estensione, la gravità e in genere per
ogni formulazione sui caratteri ultimi delle cose. L'attrazione stessa non sta
ad indicare altro che una causa sconosciuta.
Quella che Boerhaave prospetta come la più sicura e feconda è la ricerca che
si propone l'analisi, con l'ausilio dello strumento matematico, degli effetti noti
e che coscientemente trascura ogni discussione sulla natura o le cause dei fenomeni: si tratta di un programma che sarà condiviso, esaltato e perseguito dalla
maggior parte degli scienziati e dei filosofi del secolo. Quel che comunque appare
degno di nota nell'opuscolo di Boerhaave è che la critica ai dettami metafisici
entrati nella scienza viene fatta risolvendo geneticamente tali asserzioni, cercando
di spiegarne cioè, la formazione effettiva. Tutto ciò non è che il riflesso di un più
generale atteggiamento empiristico verso la realtà, che sarà predominante per
tutto il Settecento. Esso trae le sue origini nell'Inghilterra del tardo Seicento,
periodo in cui la corrente dell'empirismo, che era sempre stata una componente
tradizionale della cultura inglese e aveva assunto un assetto articolato in una filosofia organica e un notevole prestigio nell'ambito della scienza, si sviluppa e potenzia sul continente, e in Francia in particolare, in parte sotto il profilo della diffusione, dell'assimilazione e dell'adattamento della cultura inglese. I nomi di Locke
e di Newton sono le bandiere sotto cui in Francia viene condotta la lotta contro
la cultura filosofica e scientifica « metafisicizzante » ormai divenuta tradizionale:
gli strumenti critici forgiati all'uopo e le argomentazioni usate si ricollegano del
resto al pensiero dei grandi maestri dell'empirismo inglese, pur essendo svolti
negli aspetti più pregnanti e concreti, anche se meno rigorosi. La tendenza speculativa di fondo è la medesima: si rivolge l'attenzione più ai processi conoscitivi
che agli oggetti della conoscenza stessa e si tenta di dare una fondazione critica
di quelli che si considerano gli elementi costitutivi della conoscenza, che vengono
ricondotti alla loro matrice concreta. Ma nel contempo il filosofo settecentesco
si preoccupa di stabilire qual è il rapporto reale (o quello che appare tale) che
lega l'uomo alla natura, e se da un lato dubita di poter arrivare a conoscere la
vera natura della realtà, dall'altro si oppone ai tentativi di coartare la natura
entro schemi artificiali. Quel che gli interessa allora è di poter cogliere, mediante
l'analisi formale dei nessi conoscitivi, ciò che è proprio dell'uomo e di vedere
come si situi, sul piano delle reali acquisizioni conoscitive, il rapporto uomonatura.
Il limite estremo di tale prospettiva era costituito, ovviamente, dalla tendenza a far coincidere la costituzione della realtà stessa con l'appropriazione conoscitiva fattane dall'uomo, tendenza che si realizzò nell'opera di Berkeley. Ma fu
questo un pericolo ben presente agli stessi illuministi e da essi tenacemente combattuto: 1 per la stragrande maggioranza degli illuministi un atteggiamento idear Si cita qui un passo famoso di Euler:
« Quando il mio cervello suscita nella mia anima
la sensazione di un albero o di una casa, io dichiaro senza timore che esiste realmente fuori di
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listico sarebbe stato arbitrario e non fondato come quello metafisicizzante. La
fiducia nell'esistenza di una realtà obiettiva che l'uomo deve conoscere in quanto
tale (seguendo l'esperienza e le conseguenze che da essa si possono trarr~ non
gli venne mai meno insieme con la radicata convinzione della possibilità di un
intervento attivo sulla realtà per modificarla in relazione ai propri fini.
La situazione è ambigua solo in apparenza, in quanto la conquista di un rapporto più vero con la realtà coincideva con l'effettiva distruzione di una serie di
incrostazioni storiche e politiche, da cui occorreva liberarsi. La presen4a predominante di una componente politica nella cultura illuministica è innegabile, ma
lo è a mio parere in modo molto più netto e categorico di quanto si sia soliti sottolineare. Il filosofo illuminista mirava essenzialmente ad operare un radicale
cambiamento nelle istituzioni culturali, religiose e politiche che tendevano
a perpetuare nelle coscienze pregiudizi assurdi. Il pregiudizio che combatte
l'uomo di cultura illuminista è però ben diverso da quello contro cui lottava
il filosofo meccanicista del xvn secolo: mentre per quest'ultimo si trattava
di superare delle credenze insite costituzionalmente nella nostra natura e che
dal mondo dell'infanzia si prolungavano in un'ampia strutturazione concettuale,
per il primo il pregiudizio da combattere era una mistificazione, storicamente
determinata e mantenuta in vita da tutta una serie di condizionamenti psicologici,
sociali, culturali, politici, di strutture originarie che occorreva ricuperare nella
loro primigeneità. Gli strumenti concettuali usati sono diversi, anzi antitetici:
il filosofo razionalista secentesco persegue lo scopo di ricostituire la natura riducendola ad una sola idea centrale (materia in movimento, forza) chiaramente
comprensibile e dominabile; il philosophe illuminista si basa invece su di un mero
presupposto etico, la fiducia nella bontà della natura che occorre scoprire, liberandola da ciò che di arbitrario vi era stato messo, e non ricostruire. La posizione
del primo, che doveva portare ad una concezione del tutto nuova della scienza
e della ricerca sulla realtà, aveva bisogno di essere radicale e assoluta e di postulare una fiducia incondizionata nell'appropriazione reale del mondo per mezzo
degli strumenti astratti della ragione; quella del secondo è meno rigida e meno
dotata di audacia creativa essendo rivolta a fini essenzialmente pratici, ma è
altrettanto ferma nel rivendicare una visione razionale del mondo. Ma, l'opposizione tra i due atteggiamenti è più apparente che reale. Si passa da una critica
me un albero o una casa, di cui conosco anche la
posizione, la grandezza e altre proprietà. E non c'è
uomo o animale che dubiti di questa verità. Se a
un contadino venisse in mente di dubitarne, se
dicesse, per esempio, di non credere nell'esistenza
del suo balì quantunque si trovi innanzi a lui,
lo si prenderebbe per un matto; ma se è un filosofo
ad avanzare simili opinioni, esige che si ammiri
il suo spirito e la forza dei suoi lumi, che superano
infinitamente quelli del popolo. Per cui mi sembra
assolutamente sicuro che mai si siano sostenute
simili bizzarre opinioni se non per superbia e per
desiderio di distinguersi; Vostra Altezza converrà
facilmente che i contadini hanno a questo riguardo
più buon senso di una simile specie di dotti, che
dai loro studi non sanno trarre altro che uno spirito sviato. » Per quanto la formulazione generale
del problema della conoscenza da parte di Euler,
come risulta delineata nel brano testé riferito,
fosse, per molti aspetti, discutibile, a giudizio di
molti illuministi (d'Alembert per esempio), su
questo punto l'accordo appariva ovvio.
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in sostanza essenzialmente « teorica » (nel senso che non bada alla concretezza
storica) di strutture culturali tipiche, ormai considerate completamente inaridite,
e non più in grado di servire come strumenti di conoscenza e di azione, ad una
critica « pratica » nel senso che vuole ricondurre configurazioni dottrinali che
si ritengono erronee a stratificazioni concrete, sociali e politiche. I risultati cui
era pervenuta la ricerca scientifica secentesca, quelli conseguiti tramite un'analisi
rigorosa dell'esperienza (e l'an'alisi più rigorosa, quella fondata sulla matematica,
viene esaltata e perseguita), non vengono rinnegati, ma accolti come verità che
occorre scindere dal falso, cioè da ciò che non è conforme all'esperienza. Il
processo di rimozione delle stratifi.cazioni culturali nelle coscienze, cioè dei
pregiudizi, coincide pertanto con la ricerca di ciò che è primigenio, e perciò
vero.
La critica più generale, sul piano teorico, che gli illuministi rivolgono alla
cultura precedente, colpisce essenzialmente quel che a loro giudizio è il pregiudizio gnoseologico fondamentale che si riscontra in essa e che designano con il
termine di esprit de système.
Appare quindi del più grande interesse analizzare in dettaglio un'opera espressamente dedicata a questo problema, il Traité des systèmes di Etienne Condillac,
opera divenuta, per così dire, una sorta di manuale critico fondamentale per il
philosophe.
L'idea base, attorno alla quale è condotta tutta l'argomentazione di Condillac, è quella che si è detto essere tipica della mentalità illuministica: la presupposizione, di ordine squisitamente etico-pratico, che la natura è buona1 e che
l'uomo per restare nel vero deve adeguarsi ad essa. Ne risulta, come immediato
corollario quello strumento di indagine genetico-critico che, si è già visto, era
stato usato da Boerhaave e che Condillac utilizza nel modo più generale: esso
consiste nel far sì che ogni asserzione venga risolta e ricondotta alla sua matrice
reale per modo che sia possibile sceverare in essa ciò che è riconducibile alla natura (il suo nucleo di verità cioè) da ciò che alla natura si sovrappone artificialmente. In effetti, secondo Condillac, c'è un solo criterio di verità, quello fondato
su fatti constatati. « I sistemi sono più antichi dei filosofi: la natura ne fa fare,
e non se ne facevano di cattivi, allorché gli uomini non avevano che essa come
guida. Gli è che allora un sistema non era e non poteva essere che il frutto dell'osservazione. Non ci si proponeva ancora di rendere ragione di tutto: si avevano dei bisogni e non si cercavano che i mezzi per soddisfarvi. Solo l'osservazione poteva fare conoscere questi mezzi, e si osservava perché vi si era forzati.
Nell'ignoranza di ciò che dopo si è chiamato principio, si aveva per lo meno
il vantaggio di garantirsi da tanti errori: occorre infatti, un inizio di cono1 Qualche ulteriore cenno su questo tema
(della bontà della natura) presente in tutta quanta
la cultura illuministica, si ha nel capitolo xn; ovvia-
mente si pone qut m rilievo solo l'importanza
che il tema in esame ha avuto in ambito gnoseologico.
·
z6o
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scenze per errare e spesso sembra che i filosofi non abbiano avuto che questo
inizio. Gli uomini osservavano dunque, cioè, notavano i fatti relativi ai loro bisogni. Poiché si avevano pochi bisogni c'erano poche osservazioni da fare; e,
poiché i bisogni erano di prima necessità, era raro che ci si ingannasse; gli errori, per lo meno, non potevano essere che passeggeri; se ne era ben presto avvertiti, perché i bisogni non erano soddisfatti. L'osservazione non si faceva ancora
che a tentoni, non era dunque sempre possibile assicurarsi di un fatto, appena
si fosse creduto di percepirlo. Lo si sospettava, lo si supponeva e, in mancanza
di meglio, una supposizione teneva il luogo di una scoperta, che una nuova osservazione confermava o distruggeva. È così che la natura guidava gli uomini,
ed è così che essi si istruivano, senza notare che andavano di conoscenze in conoscenze, per mezzo di un seguito di fatti ben osservati. » Condillac, qui come
altrove, pone in evidenza che i primi passi verso la verità vennero fatti seguendo
istintivamente la natura, giacché alle origini dello sviluppo delle nostre facoltà
e di ogni nostra conoscenza, sta un fatto istintivo, un bisogno. Non c'è però
nulla di irrazionalistico in tutto ciò: il solo scopo che persegue Condillac rifacendosi alla conoscenza immune da errore, quella immediata, è di ricuperare le
strutture operative vere del processo conoscitivo per poter arrivare a liberarci
dall'errore. Non si rivendica cioè, puramente e semplicemente, di abbandonarsi
all'istinto: il richiamo è del tutto funzionale ai fini di stabilire i retti criteri di
funzionamento delle nostre facoltà conoscitive.
Da questo assunto si può dire che derivi tutta l'analisi di Condillac. Studiare
un'idea nella sua genesi reale, vuoi dire, di fatto, sottoporre tale idea ad un vaglio
critico: vuoi dire, vedere se si trova o no una illecita sovrapposizione al senso
reale di tale idea. Se non risulta una esatta corrispondenza tra significato reale
e significato presunto, si è operata la demistificazione dell'idea, si è scoperto
cioè l'errore, nel senso che si è individuata quale reale operazione concettuale
sottende all'elaborazione artificiale: tutto ciò costituisce una spiegazione e perciò
stesso un superamento dell'errore. Da un punto di vista generale, i soli principi
in cui non si nota alcuno scompenso, sono, come si è prima sottolineato, i fatti
constatati, quelli che fondano cioè i sistemi veri e legittimi. Illegittimi, pertanto,
devono intendersi, secondo la classificazione di Condillac, quei sistemi che fanno
capo a massime generali astratte, o a supposizioni. Molto evidente è l'errore che
sta alla base dell'assunzione dei principi generali astratti che si suppone siano infusi da dio nell'anima nell'atto della creazione: esso consiste nel ribaltare l'ordine
nella generazione delle idee astratte, le quali non sono altro che un modo abbreviato per designare delle osservazioni particolari e determinate. Così la massima:
il tutto è più grande della sua parte non è la fonte del giudizio particolare il mio
corpo è più grande del mio braccio; al contrario, il primo non è che l'estensione di
proposizioni particolari analoghe a quella testé indicata. Del resto l'adesione
ad un sistema piuttosto che a un altro di )nassima non è determinata da elementi
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razionali, ma dalle passioni: un bisogno tutto pratico sta inoltre all'origine di
ogni sistema astratto. Particolarmente significativa e rigorosa è l'analisi condotta
da Condillac del sistema della divinazione e di quello delle idee innate. La nascita di un sistema di divinazione è determinato dallo stato di alternanza di felicità e di infelicità in cui si trova l'uomo e che lo induce sempre, da un lato, a
sperare che i mali di cui è affiitto finiscano, e dall'altro a temere di perdere i
beni di cui gode. Tutto ciò implica il bisogno di ricondurre i mali all'odio di
certi esseri superiori, e inoltre, in via complementare, quello di immaginare esseri più favorevoli, capaci di controbilanciare la potenza maligna dei primi. Su
basi analoghe, cioè con il timore che fa rapportare gli avvenimenti ad una causa
qualunque, viene spiegata, secondo Condillac, l'origine dell'astrologia. L'argomentazione critica è comunque condotta in modo dettagliato ed ha lo scopo di
porre in rilievo come si sia giunti a formulare veri e propri sistemi di interpretazione della realtà. Il presupposto su cui si basa l'indagine è molto sottile, ed è
molto interessante chiarirlo. In sostanza al fondo delle asserzioni divinatorie sta
un bisogno di sicurezza che porta a stabilire un nesso causale qualsiasi tra dei
fenomeni, anche se immaginario. Tra i mali a cui siamo esposti, osserva Condillac, ce ne sono di quelli la cui causa è manifesta ed altri che non sappiamo a chi
attribuire. Questi furono una fonte di congetture per quegli spiriti che credono
di interrogare la natura, allorché non consultano che la loro immaginazione.
Questa maniera di soddisfare la propria curiosità, ancor oggi così ordinaria, era
la sola per degli uomini non rischiarati dall'esperienza: era allora il primo sforzo
del genio. Poco più oltre, a proposito dell'astrologia, sostiene, per spiegare
come la gente poteva accogliere asserzioni così poco credibili, che il popolo credeva « che tutte le favole che venivano spacciate ad esso, erano altrettante verità
confermate da una lunga esperienza».
Quel che qui Condillac sembra affermare è da un lato la necessità di un rapporto mistificato nei confronti della natura (primo sforzo del genio): l'estrema arbitrarietà dei dati che si formulano in simili sistemi è il risultato di una prima risposta, per forza non adeguata, all'esigenza reale e naturale (quella di interrogare
in modo verace, conforme all'esperienza, la natura) dello spirito umano per la
quale il popolo crede appunto a ciò che gli viene proposto in quanto lo ritiene
fondato sull'esperienza. Si può dire pertanto che, per Condillac, sia propria della
natura umana una esigenza di completezza e di sistematicità che in parte contrasta
con l'esigenza, altrettanto reale, di accogliere solo ciò che è conforme alla realtà
naturale, cioè ciò che è controllabile mediante l'esperienza. La necessità di una
mistificazione nei confronti della natura sarebbe sempre presente: il rapporto tra
sistemazione arbitraria e acquisizione reale (rapporto che è a sfavore della seconda in modo macroscopico nel caso della divinazione) può variare, ma permane sempre una certa mistificazione, almeno fino a quando non si è acquisita
la prospettiva di un sistema vero, basato solo sui fatti. Il pregiudizio delle idee
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innate dimostra del resto in modo esemplare ancora questo fatto, cioè la compresenza fin dalle origini, di un fattore arbitrario e di un fattore reale nello spirito
umano. Così, all'inizio, si era impazienti di acquisire nuove conoscenze e si osservava poco: ci si illudeva di poter indovinare la natura. Certo, il punto di partenza era
reale, basato sulle nozioni comuni a tutti gli uomini, e Condillac, fedele al suo metodo genetico-critico, si propone di far vedere il sorgere del pregiudizio da tale radice: il mezzo di derivazione è a suo parere il paragone, la metafora. Così, per
esempio, gli uomini, osservando che gli oggetti si dipingono nelle acque, immaginarono l'anima come una superficie su cui sono tracciate le immagini di tutte le
cose. Fu facile pertanto credere che le immagini che si formano nel nostro spirito
fossero conformi alle cose esterne. « Si concluse che si poteva in tutta sicurezza
giudicare degli oggetti dalla maniera con cui le immagini li rappresentano. Si
danno a queste immagini i nomi di idee, di nozioni, di archetipi, e parecchi altri
propri a illudere se stessi e far credere che si aveva su questo soggetto delle
conoscenze superiori. » D'altronde, per scoprire la mistificazione, per cogliere
cioè mediante quali trasformazioni le idee sensibili diventano in qualche modo
spirituali, occorreva possedere delle cognizioni che non si potevano avere a
quel grado di sviluppo delle conoscenze: la cosa era tanto più difficile, in quanto
tale errore è, a giudizio di Condillac, così profondamente radicato nello spirito
umano che, anche quando ormai la verità si era palesata, parecchi filosofi non
potevano comprenderla.
Di notevole interesse è peraltro l'analisi specifica, assai lunga e dettagliata,
dei sistemi filosofici più noti del tempo : quelli di Malebranche, di Leibniz e di
Spinoza; Condillac si sforza di esporre con la massima cura il pensiero di tali
autori e poi di smontare pezzo per pezzo le loro costruzioni teoriche, facendo
uso del citato metodo genetico-critico, e, in via subordinata e collaterale, di un
controllo volto a porre in rilievo il carattere verbale e arbitrario di gran parte
delle asserzioni che vengono criticate. Tipica del modo con cui procede Condillac e particolarmente significativa in se stessa è l'analisi della nozione di forza
che Leibniz collega alle monadi: la ricordiamo a mo' di esempio. Le radici della
idea di forza sono, secondo Condillac, psicologiche: ognuno si familiarizza con
la forza che sente in sé ed è portato a parla come ragione dei cambiamenti di ogni
sostanza. Ma, trasportata fuori del contesto psicologico in cui si manifesta, essa
diventa una designazione puramente verbale; non si ha alcuna idea per designarla e tanto meno per indicarla come presente in esseri semplici, in quanto
la sentiamo sempre diffusa nel composto anima-corpo. È della medesima natura
di quelle nozioni con cui si indicano cause sconosciute, come forza centrifuga,
d'attrazione ecc. (diverse, ovviamente dalle cause conosciute, come ruota, bilanciere, ecc.) : si tratta di mere parole, certo molto comode, ma che non racc!J.iudono in sé altra idea se non quella con la quale si designa una ragione qualsiasi. Il passaggio dalle parole alle cose, o meglio la trasposizione delle parole in
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cose, è, a giudizio di Condillac, la conseguenza più evidente e quella più deleteria
che si riscontra nell'uso dei sistemi astratti. Preoccupazioni analoghe egli manifesta nell'analisi delle ipotesi nelle scienze, cioè di quegli elementi che stanno alla
base del secondo tipo di sistemi e in cui il rapporto effettivo con la realtà era
posto programmaticamente in dubbio: si muove sul piano di un calcolo prudente, rivolto a stabilire quali ipotesi si possano utilizzare e quali no. Si può
così vedere che riescono bene in matematica, meno bene in astronomia, mentre
il loro uso è aleatorio e problematico in fisica e lo è di più in scienze pratiche,
come la medicina. I criteri in base ai quali si devono valutare le supposizioni
devono essere ovviamente del tutto esterni: le ipotesi sono utili quando relativamente ad una questione s~ possono esaurire tutte le ipotesi possibili, e quando
si è in grado di operare tra di esse una discriminazione effettiva. In effetti i termini di giudizio concernenti le ipotesi ricalcano quelli più ampi (anch'essi intrinseci) in base ai quali Condillac considera i sistemi in genere: ciò che emerge è
sempre il richiamo alla realtà. Il filosofo tende a rompere a vantaggio dell'immaginazione quel delicato equilibrio tra analisi e immaginazione che è necessario
per ben filosofare e a costruire i suoi sistemi, simili a palazzi belli e magnifici,
ma poco solidi: occorre ben rilevare pertanto ciò che è reale e ciò che è arbitrario.
Come appare ben chiaro da ciò che si è detto finora, il discorso critico di
Condillac vuole essere la premessa per una discussione sui veri sistemi, quelli
fondati esclusivamente sull'esperienza, che il filosofo francese affronta però solo
in modo formale e poco dettagliato. La disamina dei sistemi fatta da Condillac
fu la più rigorosa che si ebbe nel corso del XVIII secolo; essa si inseriva in una
tendenza di fondo della cultura illuministica e incontrò quindi una grande fortuna, tanto che le sue conclusioni critiche furono accolte e divulgate dalla maggior
parte dei philosophes: l'articolo Système dell'Encyclopédie, per esempio, riassume
più o meno l'opera di Condillac. L'atteggiamento antisistematico dell'illuminismo
ha anche però una componente meno formale e più aderente a quelle che erano
considerate le reali esigenze della ricerca. La concezione del sistema che coarta
la natura travisandola nei suoi contenuti effettivi si inquadra infatti entro la ripresa dell'esigenza tipicamente rinascimentale di una comprensione dei fenomeni
nella loro concretezza puntuale e nella loro integralità: il continuo richiamo a
Bacone, da parte dei philosophes, è molto significativo. «Tutti riconoscono Bacone,»
diceva Jacques André Naigeon, «come l'autore e il padre della sana filosofia,
di quella saggia e utile filosofia che cammina solo con l'aiuto dell'esperienza e secondo lo studio della natura e delle sue operazioni. » Di un baconismo di tal
fatta furono autorevoli esponenti Diderot e, in genere, gli enciclopedisti. Si tende
oggi, e giustamente, a ridimensionare l'influenza, un tempo sopravvalutata che
il baconismo ha avuto su Diderot e a porre in rilievo molteplici altri influssi tra
cui, e di notevole importanza, anche quello legato alla tradizione cartesiana. A
mio parere però il problema non va posto esclusivamente nei termini della reale
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influenza che il pensatore inglese ha avuto sull'illuminismo francese. A volte è
estremamente significativa anche l'idea che di un determinato pensatore ci si costruisce: in questo caso il nome e la figura di Bacone servono ad indicare un tipo
di concezione che si vuole instaurare, una prospettiva sistematica (analoga, almeno per l'impostazione generale, alla filosofia baconiana) che non voglia interpretare la realtà con l'ausilio di pochi elementi astratti, ma che tenga conto invece delle sue molteplici caratteristiche al fine di armonizzarle in una sintesi
unitaria. Non stupisce che in alcuni dei più autorevoli illuministi, come Buffon,
Maupertuis e lo stesso Diderot (si è già accennato a ciò nel capitolo rx), ci sia
una spiccata avversione per la matematica, in quanto disciplina astratta e lontana
dal mondo concreto dei fenomeni reali che non riesce a cogliere nella loro individualità. Non stupisce neppure (ma si vedrà in seguito il vero significato di tali
affermazioni) che da parte di Diderot e di altri siano formulate critiche abbastanza
forti contro il metodo nelle scienze in quanto tende a imporre alla natura schemi
artificiali che non le sono propri.
Il generale atteggiamento antisistematico (nel senso chiarito in precedenza)
può essere rivelato anche da certi moduli stilistici che hanno grande voga in
questo periodo. Ci riferiamo, in particolare, agli scritti di forma dialogica e discorsiva o comunque non di forma didascalica, a cui gli studiosi danno uno speciale rilievo, specialmente quando si parla di Diderot. Si osserva che gli scritti
di Diderot non hanno un andamento dogmatico, ma sono invece aperti a tutte
le sollecitazioni della ricerca: ad essi quindi la forma espressiva del dialogo e dell'aforisma risulta congeniale. Si sottolinea il fatto che un simile atteggiamento
non è casuale, ma trova organici collegamenti con alcune tradizioni metodologiche precise: quella baconiana (in ciò si vede la conferma della radice empiristica del pensiero di Diderot, sollecito come Bacone a non rinchiudere entro
schemi intellettualistici la realtà) oppure quella cartesiana (Diderot sarebbe l'erede
di una concezione comunicativa e terrena della filosofia che aveva la sua forma di
espressione tipica nel dialogo, in cui il pensiero cartesiano intendeva raggiungere
il suo culmine) oppure ancora quella dei grandi moralisti (Montaigne, La Rochefoucauld, La Bruyère). È certo che il pensiero di Diderot è molto complesso
soprattutto sotto il profilo letterario ed è molto difficile coglierlo alla luce di
una prospettiva unitaria soddisfacente. Herbert Dieckmann in uno dei suoi
saggi più belli su Diderot ha analizzato, con notevole finezza e penetrazione, il
vario e multiforme rapporto tra il pensiero di Diderot e i suoi modi di espressione. Egli asserisce che c'è in Dideì:ot un modo di espressione rigorosamente
filosofico e fedele alla tradizione scolastica, nel senso lato del termine, e che compare particolarmente in quegli scritti - De la suifisance de la religion nature/le (La
sufficienza della religione naturale), Principes philosophiques sur la matière et le mouvement
(Principi filosofici sulla materia e il movimento) - scritti enciclopedici in cui, in
nome della ragione critica, combatte la religione e la metafisica. Ma osserva anche
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La critica dell'« esprit de système » e l'ideale enciclopedico del sapere
che questo modo di espressione non era particolarmente congeniale a Diderot,
il cui pensiero vario, mutevole, ricco di spunti, pronto continuamente alla digressione, difficilmente riusciva a trovare un modo di espressione adeguato. Secondo Dieckmann, la forma migliore di espressione Diderot la vedeva rappresentata soprattutto nelle arti e specificamente nello schizzo. « Nell'insieme dell'opera di Diderot, lo schizzo ha il valore e la funzione di un elemento formale.
Esso non poteva diventare, se non incidentalmente, un modo di espressione »;
Diderot si volse pertanto al dialogo che divenne per lui la forma letteraria di elezione (altri modi di espressione di cui fece uso furono il sogno e il paradosso)
in quanto esso gli permetteva di dare corso liberamente al movimento del suo
pensiero e di considerare i differenti modi di formulazione di un problema. Tutte
queste considerazioni paiono molto esatte nella sostanza, solo che occorre rilevare
che le preoccupazioni stilistiche di Diderot relative alla forma di espressione più
adeguata del suo pensiero, sono il travagliato e tormentato riflesso letterario
dell'interpretazione diderotiana del generale atteggiamento che ha verso la ricerca sulla realtà il philosophe illuminista: ciò si chiarirà meglio in seguito.
II
· IL VERO SISTEMA DEL SAPERE
Alle sistemazioni arbitrarie della realtà, gli illuministi contrapponevano, come
è noto, una visione enciclopedica del sapere. Ciò non implicava però la rinuncia
ad una concezione sistematica e organica della realtà che viene anzi rivendicata
ed esaltata dai più autorevoli rappresentanti dell'illuminismo: ciò è vero anche per
Diderot, malgrado l'apparenza. L'elemento che sta al centro della concezione
organica del sapere propria di questo autore è la nozione di natura: si tratta dello
stesso strumento concettuale astratto con cui aveva criticato i sistemi filosofici in
auge al suo tempo, che serve al filosofo per elaborare prospettive positive di interpretazione della realtà. Le formulazioni teoriche illuministiche sono differenti, in
relazione alle diverse esigenze degli autori, ma rivelano tutte il desiderio « naturalistico » di un approccio alla realtà senza il bisogno di mediazioni concettuali indirette. La polemica contro l'arbitrarietà dei sistemi filosofici secenteschi coinvolge
prevalentemente il carattere artificiale o antinaturale di tali costruzioni: riemerge
pertanto, se si vuole, il tema aristotelico della « traduzione » della realtà entro
schemi concettuali non deformanti, ma in una dimensione nuova e più elaborata.
La grande scoperta del secolo xvn, l'uso del m~todo analitico con le conseguenti caratteristiche operativistiche insite nel meccanicismo e nella relativa teoria
dei modelli, per cui la ricostruzione genetica di un fenomeno secondo i principi
della meccanica (o comunque secondo principi dettati dalla ragione) costituiva
il punto fondamentale della ricerca, viene trasposta in ambito gnoseologico; cioè
s1 pensa di applicare il metodo genetico-critico, o analitico,1 direttamente nella
1
L'analisi viene così definita dall' Encydopédie:
«Consiste nel risalire all'origine delle nostre
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indagine sui modi di appropriazione umana della realtà. Il presupposto di base
è comunque sempre quello per il quale conoscere qualcosa vuol dire essere in
grado di spiegare la formazione di essa; la scoperta di come si formano « realmente», secondo natura, idee e concetti costituisce, oltre che l'istanza critica fondamentale per smascherare l'errore, ad un tempo lo strumento di elaborazione positivo di
una filosofia nuova e più «vera», cioè più adeguata alla natura. Non si deve, per
conseguirla, dunque, immaginare un sistema, bensì osservare il « sistema » fatto
dalla natura, mediante l'analisi, cioè quella operazione intellettuale che tutti svolgono e che tutti, fin dall'infanzia, imparano dalla natura; per ben proseguire
« basterà continuare come la natura ci ha fatto cominciare: cioè osservare e mettere i nostri giudizi alla prova dell'osservazione e dell'esperienza». Questo giudizio di Condillac ci riconduce ancora a quel discorso sulla fondazione istintiva
della conoscenza, che è di capitale importanza nella filosofia dell'illuminismo e
che occorre pertanto intendere nei suoi termini esatti.
Richiamarsi all'istinto voleva dire portare alle estreme conseguenze l'esigenza di un adeguamento perfetto alla natura, quasi di un immedesimamento
con essa, per poter giungere a scoprire qualcosa di nuovo. Il familiarizzarsi con
gli oggetti, il vederli senza alcun disegno, divenivano le condizioni ideali per
avviarsi alla conoscenza scientifica, per scoprire cioè quella trama di rapporti
fissi e invariabili con cui gli oggetti si legano nel nostro animo. È ciò che espressamente affermava Buffon e che è condiviso da Diderot, il quale del resto nel suo
famoso elogio dell'istinto contenuto in quella che è la sua opera filosofica più significativa, De l'interprétation de la nature (già ricordata nel capitolo rx), giunse a sostenere che « ci sarebbe forse più fisica sperimentale da apprendere studiando gli animali che seguendo i corsi di un professore ». Il migliore conoscitore della natura risulta quindi essere quello che, per così dire, è più immerso
nella natura: le tante discussioni sul genio del xvrrr secolo tendono tutte a porre in rilievo una connessione, anzi una identità, tra la natura e il genio.
« Il genio studia, per così dire, senza accorgersene; è costretto per le impressioni che gli oggetti fanno su di lui, ad arricchirsi continuamente di conoscenze che
non gli sono costate nulla; getta sulla natura occhiate d'insieme e ne penetra gli
abissi. Raccoglie nel suo seno germi che vi entrano insensibilmente, e producono
col tempo effetti tanto sorprendenti che lui stesso è tentato di credere ad una
ispirazione» (Jean François Saint-Lambert, articolo Gmio dell' Encyclopédie).
idee, a svilupparne la generazione e a farne differenti composizioni o scomposizioni per paragonade da tutti i lati in cui possono mostrare dei
rapporti. È facile vedere che l'analisi così definita
è il vero segreto delle scoperte. Ha il vantaggio
sulla sintesi di non offrire che poche idee alla
volta e sempre nella gradazione più semplice. È
nemica dei principi vaghi e di tutto ciò che può
essere contrario all'esattezza e alla precisione. Essa
cerca la verità non facendo ricorso a proposizioni
generali ma sempre per mezzo di una specie di
calcolo, cioè componendo e scomponendo le nozioni per paragonarle nella maniera più favorevole
alle scoperte che si ha in vista. Non per mezzo di
definizioni, che di solito non fanno che moltiplicare le dispute ma spiegando la generazione di
ogni idea. » (Si ricordi quanto fu detto sul metodo
analitico nel ur paragrafo del capitolo rv.)
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La critica dell'« esprit de système » e l'ideale enciclopedico del sapere
L'istinto, il gusto, il talento, non sono, secondo Condillac, che gli strumenti di
cui si serve la natura, il miglior maestro che vi sia, per insegnare all'uomo di
genio il modo con cui svolgere l'analisi delle cose che studia. Questa visione« naturalistica » dello studio e della ricerca viene radicalizzata da Diderot che, come
ha ottimamente posto in rilievo Franco Venturi nel suo importante studio sul
filosofo francese, giunge a sostenere perfino una sorta di necessità biologica nello
sviluppo obiettivo delle singole scienze. Il genio si inserirebbe in tale sviluppo
operando nelle scienze trasformazioni analoghe a quelle che si hanno nelle trasformazioni degli esseri viventi.
Questo riconoscimento dei fattori istintivi nell'ambito della cultura illuministica non indica concessioni a tendenze irrazionalistiche né la presenza di questo
elemento nel secolo della ragione può essere oggetto di molto stupore. In effetti
il philosophe illuminista non ha la coscienza che ci possa essere una scissione tra
facoltà razionali e non razionali (con le conseguenze svalutative delle prime nei
confronti delle seconde, o viceversa, che si sono poi poste in rilievo) : entrambe
le facoltà adempiono ad una medesima funzione, quella di imitare la natura. Se
c'è una logica artificiale, frutto della nostra riflessione, il successo di essa dipende
molto dalla logica naturale che è varia e in vari gradi negli uomini, giacché l'esprit
che dio ci ha dato è uno strumento che deve essere esercitato e sapere che cosa
sia o come funzioni è cosa in certo senso non primaria. Lungi, quindi, dal proclamare una cesura tra sapere irriflesso e riflesso, Diderot (e in genere tutti i
pensatori dell'illuminismo) sostengono una sostanziale identificazione dei due momenti, una identificazione funzionale, ovviamente, nel senso che per conoscere
determinati processi conoscitivi viene postulata la concreta necessità di immergersi nel flusso degli eventi naturali per assimilare dal vivo gli elementi essenziali della realtà e poi tradurli in schemi concettuali che non ne falsino le caratteristich-e. Questo riaffermato primato della pratica non tradisce però la fiducia
nell'attività e nelle forze della ragione: costituisce invece, a giudizio degli illuministi, un potenziamento della ragione stessa in quanto viene ricondotta alla
sua fonte originaria e acquista così una dimensione concreta e vera perché desunta direttamente dalla realtà e modellata su di essa. Si capisce perché d' Alembert sostenga che «la filosofia moderna si è avvicinata in molti punti a ciò che
si è pensato nella prima età della filosofia; perché sembra che la prima impressione della natura sia quella di darci delle idee giuste, che si abbandonano ben
presto per incertezza o per amore delle novità, e alle quali infine si è forzati di
ritornare ».
Da tutto ciò consegue che è cosa di somma importanza per l'illuminista
conoscere come si sono formati idee e nessi conoscitivi: scoprire il loro processo
di formazione vuol dire impossessarsi di elementi reali di conoscenza. Quando
Diderot dice, all'inizio della lnterprétation de la nature: « Lascerò che i pensieri
si succedano sotto la mia penna nel medesimo ordine secondo il quale gli oggetti
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si sono offerti alla mia riflessione: perché essi rappresenteranno meglio i movimenti e il cammino del mio animo (esprit) », obbedisce pertanto ad un preciso
intento metodologico, quello di arrivare a scoprire la genesi naturale delle sue
considerazioni dando così ad esse un significato di verità. In questa prospettiva,
accanto al problema della scoperta delle nostre conoscenze, diventa essenziale
anche quello dell'ordine da dare ad esse. Gli enciclopedisti erano ben consci di
questo fatto e affrontarono a più riprese l'argomento, soprattutto d' Alembert
che ebbe il merito di collegare in modo diretto i due aspetti della questione. Secondo il pensatore francese la costituzione e lo sviluppo delle scienze avviene
gradualmente in virtù delle scoperte di alcuni uomini geniali, che costituiscono
altrettante tappe nell'evoluzione delle scienze. La scoperta1 è infatti una sorta di
liberazione da una impasse venutasi a creare nello sviluppo conoscitivo; una volta
aperta la via, si procede fino a quando si incontra un nuovo ostacolo, per superare il quale occorre un lavorio che dura talvolta anche dei secoli: tra i modi in
cui si esplica tale lavorio c'è anche l'ordinamento delle conoscenze già note. Ma
c'è una imperfezione in tale ordinamento, «dovuta principalmente al fatto che i
compilatori di quelle prime opere poterono ben di rado sostituirsi agli inventori,
giacché, utilizzando i frutti del loro lavoro, non ne avevano ereditato il genio.
Soltanto gli inventori avrebbero potuto trattare in modo soddisfacente le scienze
che avevano scoperto, perché, ripercorrendo il cammino compiuto dalla loro
mente ed esaminando in qual modo una proposizione li aveva condotti ad un'altra, erano essi solo in grado di cogliere la connessione della verità, e quindi di
formarne una catena».
Queste affermazioni che tendono a situare in un certo rapporto il processo
d'invenzione e quello di ordinamento, sono molto indicative per capire la concezione illuministica del sapere, e anche la difficoltà in cui viene a dibattersi.
Il modus ordinandi, nel senso chiarito prima del termine, è funzionale al modus
inveniendi: prepara il terreno perché possa verificarsi la scoperta del genio. Si
tratta di opere che tendono a sistemare i dati conosciuti, ma sempre in modo
imperfetto perché non si basano sui veri modi con cui si è giunti alla scoperta.
Ciò implica che, al limite, nel «vero» sistema del sapere, modus inveniendi e modus
ordinandi (qui inteso non in senso funzionale, ma reale) tendono a coincidere.
Ripercorrendo, quindi, nella sua genesi la verità, ristabilendo con precisione i
passi che hanno condotto alla scoperta, si può giungere ad individuare quelle
connessioni « vere », cioè insite nella realtà, che costituiscono dei punti fissi nella
costruzione dell'edificio del sapere. Le difficoltà sono notevoli perché gli inventori non sono usi lasciare che si conoscano quei principi e quei nessi che li hanno
I Nell'articolo omonimo dell'Encyclopédie,
d'Alembert cerca di enucleare ciò che caratterizza
la scoperta sia in generale sia in particolare nelle
scienze. Le scoperte si fanno in tre modi: tro-
vando una o più idee completamente nuove, oppure congiungendo un'idea nuova ad una già conosciuta, o infine riunendo due idee conosciute.
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condotti alle loro scoperte, per vari motivi (negligenza, ecc.) o anche perché, essendo a volte guidati più dall'istinto che dal ragionamento, riuscirebbe difficile
anche a loro stessi tale riconoscimento: la prospettiva è però chiara, almeno in
linea di principio. L'ordinamento delle conoscenze, genetico e sistematico ad
un tempo, è quindi lo scopo che si prefiggono i philosophes, anche se non è loro
estraneo l'intento di un sistema delle conoscenze in senso funzionale come punto
di partenza per nuove acquisizioni conoscitive. L'esigenza della fondazione assoluta o « naturale » del sapere è però preminente. Questa espressione di Didero t:
« Il genio non conosce regole; eppure, nelle sue buone prove, non se ne discosta
mai. La filosofia conosce soltanto le regole fondate sulla natura degli esseri, che
è immutabile ed eterna. Al secolo scorso tocca fornire esempi: al nostro, prescrivere regole », caratterizza bene il programma generale che si pone la filosofia
del xvnr secolo. Viene qui ribadito con grande efficacia che tra conoscenza istintiva e riflessa sussiste una sostanziale identità e che l'operazione gnoseologica
essenziale è quella mediante la quale si rendono esplicite le regole della natura.
Questa continua insistenza sulla intrinseca realtà della natura (di cui pure l'uomo
è parte) come termine di riferimento «assoluto» fa sì che la filosofia dell'illuminismo non perda mai la sua connotazione realistica essenziale.
Ma quali sono le caratteristiche di questo ordine naturale tanto auspicato
dagli illuministi? Esso si basa intanto su una visione della natura, che fa proprie,
mutuandole da un'antica tradizione, le idee dell'unità e della continuità delle
cose fra di loro.! Al concetto della natura intesa come un tutto organico corrisponde pertanto una visione delle scienze che riproduce tale totalità. « Se potessimo cogliere,» scrive d' Alembert, «senza soluzione di continuità, la catena invisibile che collega tutti gli oggetti delle nostre conoscenze, gli elementi di tutte
le scienze si ridurrebbero ad un principio unico, le cui principali conseguenze
sarebbero gli elementi di ciascuna scienza particolare. » L'unificazione sarebbe
in tal modo perfetta e l'uomo acquisirebbe quella conoscenza globale che ha solo
dio: è comunque la prospettiva che, come in ogni filosofia degna di questo nome,
guida le singole ricerche, ed è volta a comporre in unità le parti che costituiscono
le singole scienze e a situare queste nella catena del tutto. I principi generali su
cui si fonda la conoscenza ordinata sono, secondo d' Alembert, di due tipi. Da
un lato si hanno i principi fondamentali di ogni scienza, quelli che formano il
capo di ciascuna parte della catena, come, « in fisica, i fenomeni quotidiani che
l'osservazione rivela agli occhi di tutti; in geometria, le proprietà sensibili dell'estensione; in meccanica, l'impenetrabilità dei corpi, fonte della loro reciproca
azione» e così via nelle altre scienze; dall'altro, quelli che si trovano al punto di
unione di diverse branche della catena e che si possono chiamare secondari. L'ordine cui mirano gli illuministi risulta essere di tipo enciclopedico-sistemaI Più ampi dettagli su questi concetti e sul
loro effettivo significato (significato che deriva
principalmente dalle scienze biologiche) si hanno
nel capitolo IX.
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tico. Nel quadro del sapere devono essere presenti i singoli dati conoscitivi,
nella loro specificità, ma si deve pure poter trarre da essi elementi di correlazione e di unificazione generale. L'opera che realizzò praticamente l'ideale illuministico del sapere fu appunto ad un tempo « dizionario ragionato delle scienze,
delle arti e dei mestieri» ed enciclopedia, come traspare dal titolo stesso dell'opera
e dai rilievi in proposito fatti da d' Alembert all'inizio del discorso preliminare.
L'ordine sistematico enciclopedico si deve realizzare sulla base del metodo
genetico o analitico. L'analisi non è ovviamente psicologistica : «N o n ci riferiamo,»
sostiene d' Alembert, « all'ordine che gli inventori hanno realmente seguito, che
era senza regola alcuna e talvolta senza oggetto; ma a quello che avrebbero potuto seguire procedendo con metodo.» L'analisi è invece tipologica: si tende
cioè a stabilire le strutture primarie e originarie della conoscenza umana in generale, a fissarle in tipi gnoseologici fondamentali, da cui è possibile poi ricavare
tutto l'apparato concettuale adeguato per rappresentare il quadro conoscitivo
nella sua interezza. Il discorso preliminare dell' Encyclopédie comincia appunto
con un discorso sull'origine delle idee, ricondotte tutte al primum della sensazione (che riflette un mondo di oggetti che ci è estraneo), prosegue poi con l'esposizione della genesi delle idee sociali e morali, dell'anima e di dio, e infine delle
varie scienze e delle arti. Tuttavia la storia filosofica delle nostre idee, se dà un
quadro genealogico e sistematico conforme ai principi metodologici prima delineati, questo risulta troppo generale e confuso perché possa essere proficuamente
utilizzato. Pertanto, dobbiamo riconoscere che possiamo ricostruire, mediante
l'analisi tipologico-normativa, solo una genealogia delle nostre conoscenze, che
ripeta, senza essere in grado di spiegarlo, l'apparente disordine naturale (se potessimo spiegarlo avremmo una conoscenza analoga a quella divina); questo
disordine (non si riesce neppure a far quadrare l'ordine genealogico delle scienze
con quello della loro invenzione)« per quanto sia filosofico da parte dello spirito,
sfigurerebbe o piuttosto distruggerebbe completamente l'albero enciclopedico
nel quale lo si volesse raffigurare ».
L'impossibilità effettiva di creare una sistemazione organica e dettagliata
delle conoscenze a partire dalla ricostruzione genealogica delle idee, non infida
però né il metodo analitico in se stesso né il fine conoscitivo che rimane quello
traduttivo della realtà. Si tratta di modificare l'impianto sistematico in un modo
che si ritiene più adeguato e costruire un albero genealogico-enciclopedico (si
noti bene, ancora genealogico) che costituisca la traduzione, in sistema concettuale, del « sistema » della natura. L'immagine di cui si servono sia Diderot che
d'Alembert per rappresentare l'ordine enciclopedico è quello di una carta geografica, o meglio di un mappamondo che ben simbolizza la stretta e concreta
aderenza che sussiste tra il sistema «reale» e quello concettuale. «L'assetto più
naturale sarebbe quello nel quale gli oggetti si susseguissero secondo quelle
insensibili sfumature che servono a un tempo a distinguerli e a unirli », ma esso
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non può essere conseguito, perché l'uomo, essere relativo, deve per forza servirsi di semplificazioni e quindi c'è sempre, secondo i due maggiori enciclopedisti, una arbitrarietà inevitabile in ogni sistema costruibile dall'uomo: il sistema
che non abbia in sé alcuna arbitrarietà si trova solo nell'intelletto divino. L'albero enciclopedico delle conoscenze, di derivazione baconiana/ verso cui si erano
decisi gli enciclopedisti sembrava loro corrispondente il più possibile sia alle
esigenze «genealogiche» sia a quelle «enciclopediche». Sia per Diderot che per
d' Alembert esso costituiva però un pis-aller, una sorta di adattamento forzato alla
tradizione, particolarmente a quella baconiana, anche se ciò avveniva senza che
essi dovessero rinunciare ai presupposti gnoseologici fondamentali nei quali credevano. Il metodo da essi usato per giustificare l'albero delle conoscenze è sempre quello tipologico-normativo: solo che la sistemazione non risulta costruita
a parte oljecti (o meglio ideae oljecti), ma a parte su~jecti. In pratica i tipi di sistemazione delle conoscenze non sono più gli oggetti, ma le facoltà conoscitive, cioè
i vari modi di organizzazione delle idee dirette o riflesse: questi sono la memoria,
la ragione e l 'immaginazione. Le tre facoltà costituiscono le divisioni fondamentali
sulle quali si articola l'albero della conoscenza: da esse derivano immediatamente
le tre discipline fondamentali, la storia, la filosofia, le belle arti e poi tutte le altre
scienze. Il raggruppamento scelto dagli enciclopedisti, malgrado le insufficienze
che rivela, trae peraltro la sua validità dal fatto che è fondato su divisioni non
artificiali, che non alterano la conoscenza « naturale »: palesa comunque una
fiducia innegabile nell'esprit systématique (che d' Alembert invita a non confondere con l'esprit de système con il quale è generalmente in dissidio), cioè nella capacità umana di elaborare costruzioni concettuali in grado di connettere in unità gli
oggetti che costituiscono il sistema, organico e totale, della natura. 2 La concer D' Alembert si sofferma molto sul fatto
che nel suo albero delle conoscenze, diversamente
che in quello baconiano, la ragione è anteposta
all'immaginazione: è interessante notare che le
argomentazioni a favore di questo ordine delle
facoltà sono tutte fondate sul fatto che esso è
conforme al naturale progresso delle operazioni
dello spirito.
2 Alcuni critici hanno sostenuto che tale
fiducia venne meno nei due maggiori enciclopedisti e che essi in seguito vennero accentuando i
motivi critici verso il criterio rigidamente sistematico in cui ancora credevano al tempo della
pubblicazione del primo volume dell' Encyc!opédie. Documenti di tale evoluzione sarebbero
per d' Alembert l'articolo E!éments des sciences
(175 5) e poi ancora gli E!éments de phi!osophie
(1759), mentre per Diderot, particolarmente, l'articolo Encyc!opédie che viene visto come contrapposto al Prospectus e al Discours pré!imùtaire di
d' Alembert. In verità non mi pare si possa sostenere la tesi di una qualche crisi nelle convinzioni
sistematiche dei due autori: i passi citati dai critici (e se ne possono citare anche non tardi cronologicamente) si spiegano tutti benissimo alla luce
dell'idea, radicata in tutti gli illuministi, per la
quale la limitatezza di ogni sistematica umana va
sempre vista in rapporto a quella naturale, assoluta,
opera di dio: la presunta inadeguatezza è solo funzionale. Questo presupposto d'altra parte è ben
rilevato dagli studiosi, per esempio da H. Dieckmann a proposito di Diderot e nel medesimo
scritto in cui sostiene un cambiamento di prospettiva nel senso sopra delineato da parte dell'enciclopedista, ma non è situato in modo esatto.
Quando si sostiene che« l'idea di ordinamento che
Diderot non sacrifica, ha perso il suo carattere di
sistema stabilito a priori per diventare aspirazione
a un sistema che non si consegue che dopo numerosi tentativi e tanti scacchi » non si comprende
che Diderot, come d' Alembert, non ha mai pensato di stabilire un sistema aprioristico, ma ha
avuto sempre l'aspirazione e il desiderio di creare
un sistema aderente alla natura, visto sempre come
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zione che si fecero gli illuministi dell'ordine sistematico del sapere è chiara nelle
sue linee generali, ma non è affatto lineare nei suoi presupposti e nelle sue conseguenze; presenta numerose difficoltà che mi pare sia necessario cercare di porre
in luce. Si è visto che i due massimi enciclopedisti, per quanto fossero ben consci
dell'inscindibile nesso che doveva sussistere tra la genesi delle conoscenze e il loro
ordinamento, non riuscirono di fatto ad enucleare quella genesi «naturale» del sapere che costituiva per essi lo scopo primo della filosofia: il problema rimase
irrisolto o per lo meno risolto solo in via generale. Infatti, anche una volta scartata la via soggettiva (quella psicologistica) nella formazione del sapere, restava
pur sempre aperto il problema di una ricostruzione univoca e vera. Sia Diderot
che d' Alembert erano consapevoli che gli ordini che si potevano introdurre
erano infiniti (nel Discours préliminaire vengono citate, a mo' di esempio, le suddivisioni delle conoscenze in naturali e rivelate, utili e dilettevoli, speculative e
pratiche e così via), ma erano altrettanto consapevoli del fatto che, tra quegli infiniti modi, ce ne dovevano essere alcuni privilegiati e, al limite, uno cui bisognava tendere. Le incertezze e le aporie che rivela il Discours préliminaire sono
la conseguenza di una tensione nella ricerca maturata da una tale esigenza che
non si poteva abbandonare e l'incapacità di approntare gli strumenti teorici
adeguati.
La ricostruzione tipologico-normativa esposta nella prima parte del Discours
doveva apparire molto importante a d' Alembert perché, praticamente, era condotta sulla base di un solo tipo gnoseologico fondamentale, la coscienza dell'esistenza del nostro corpo e dei suoi bisogni, che si ha tramite le sensazioni le quali
ci avvertono appunto della nostra esistenza e di quella di oggetti estranei, tra cui
il nostro corpo. La coscienza che abbiamo un corpo fa tutt'uno con la scoperta
dei bisogni che manifesta e dei mille pericoli cui è esposto. La valutazione degli
oggetti esterni è modellata su questa necessità di preservare il corpo dalle malattie
e dalla distruzione: su tale base viene giudicato anche il rapporto con gli altri
uomini, condizionato dal vantaggio che può venire dall'unione fra diverse persone. « Presupposto e sostegno di questa unione è la comunicazione delle idee,
che esige naturalmente l'invenzione dei segni. Ecco dunque l'origine delle società, nelle quali probabilmente nacquero le lingue. » Le idee morali (quella dell'ingiustizia e del male e, correlativamente, quella della giustizia e del bene),
le scienze e le arti vengono. quindi ricondotte tutte alla soddisfazione di crescenti
bisogni corporei. Per quanto riguarda il contenuto, tale spiegazione utilitaristica
dell'origine della conoscenza si ricollega, direttamente e volutamente, non solo
a Bacone ma anche a tutta la tradizione empiristica; per quanto riguarda l'impianto generale, si può vedere come una forte e genuina volontà demistificatoria,
un assoluto, come una guida per la ricerca. Del
resto l'assoluto come elemento normativa di ogni
ricerca è sempre stato una costante nella buona fi-
losofia perseguibile, ma non attingibile dall'uomo
nella sua interezza, almeno nella dimensione dell'evoluzione storica.
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presente del resto in ogni teoria empiristica, sia del tutto preminente e comandi
l'assetto metodologico che si fonda, in ultima analisi, nella presunzione che dietro
ogni processo conoscitivo ci sia un preciso bisogno pratico. Essa appare comunque inadeguata e le ragioni della sua inadeguatezza vanno ricercate nell'insufficiente giustificazione dell'assunto. Gli illuministi non accettavano o non davano
rilievo a prove indirette, come il criterio pragmatico dell'efficacia esplicativa, di
cui avevano fatto un grande uso proprio i pensatori oggetto delle loro critiche;
d'altro canto le prove dirette addotte per dimostrare l'origine pratica delle nostre
conoscenze erano da un lato troppo generiche, e dall'altro rivelavano un difetto
di correlazione con gli altri elementi della ricerca. Non stupisce pertanto che la
spiegazione tipologica testé delineata venisse giudicata insoddisfacente dallo stesso
d' Alembert, in quanto il tipo delineato era estrinseco e generale, non presentava
un nesso logico fra le varie idee e non riusciva a dare un'esplicazione funzionale
della derivazione delle varie scienze dalle singole idee. In realtà il modulo estrinseco di spiegazione doveva essere collegato e integrato, almeno nelle intenzioni
degli enciclopedisti, con un altro, più intrinseco, che ripetesse le regole operative
della natura, e che viene designato talora con il termine di genealogico (tale termine non viene però sempre usato in modo univoco: a volte significa puramente
e semplicemente cronologico). Stabilire la genealogia esatta delle conoscenze vuol
dire osservare e rendersi conto del ritmo funzionale della natura: l'operazione è
possibile perché l'uomo è ad un tempo parte preminente della natura e suo osservatore e può quindi scoprire ed enucleare i veri nessi della natura. Si tratta in
sostanza di quell'ordine degli inventori di cui si è parlato prima, e cioè di una sistemazione tipologico-normativa estremamente difficile da perseguire e che gli enciclopedisti riuscirono a presentare solo sotto forma di abbozzo. Il tema della
genealogia intrinseca è comunque importante perché fu sempre tenuto presente
dagli enciclopedisti e dagli illuministi in genere: per essi costituiva una remora per
ogni sistemazione conoscitiva artificiosa e un costante invito ad un confronto
diretto con la natura, con l'entità con la quale si commisura il grado di verità che si
consegue. La genealogia dell'invenzione non coincide necessariamente con quella
storica. Le regole operative della scienza devono rifarsi alla natura, non importa
se in modo istintivo o con l'ausilio di strumenti concettuali elaborati: è certo
però che le vie che. portano alla scoperta di conoscenze vere sono sempre originate da un contatto diretto con la natura; lunghi, difficili, pieni di sviamenti ed
errori (tutti storicamente determinabili) sono i tempi e i modi che portano a quelle
operazioni inventive, ma essi si pongono al di fuori della tipologia che deve mirare solo a stabilire delle verità. Creare un'opera che contenga non ciò che si è
pensato in tutti i secoli,« ma solo ciò che si è pensato di vero» (d' Alembert) costituiva perciò realmente la più grande aspirazione di tutti gli enciclopedisti. Il
problema essenziale allora dovrebbe essere quello di conseguire una stretta connessione tra genealogia estrinseca ed intrinseca delle conoscenze; una volta giunti
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7
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Il sistema figurato delle conoscenze umane: tavo la dal primo volume dell'Encyclopédie
pubblicato a Parigi nel 175 r.
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La critica dell'« esprit de système » e l'ideale enciclopedico del sapere
ad essa anche l'ordine logico fra i vari elementi del sapere nell'albero enciclopedico ideale ne deriverebbe come una diretta conseguenza, nel senso che l'ordine
sarebbe derivato direttamente dalla natura.
In questa prospettiva generale risulta evidente che il problema della genealogia storica delle conoscenze e della sua sistemazione nell'ordine del sapere non
poteva essere eluso. Il « difetto » della soluzione adottata dagli enciclopedisti fu,
se si vuole, quello di non aver studiato a fondo la connessione che doveva sussistere tra la ricerca tipologica e quella storica. Conseguenza dell'imperfetta valutazione di tale rapporto fu il fatto che la riduzione dell'analisi storica a quella
tipologica fu condotta in modo non molto elaborato e rimase abbastanza generica.
All'inizio della seconda parte del Discours préliminaire dedicata appunto all'esposizione storica dell'origine delle nostre conoscenze, viene posta in chiaro la differenza tra genealogia storica e filosofica, e la subordinazione della prima, in
quanto l'esposizione storica viene condotta secondo le indicazioni derivate dal
discorso genealogico-tipologico che serve da norma. Lo sviluppo storico è collegato principalmente allo sforzo creativo del ristretto gruppo di geni che hanno
dato origine ad un avanzamento nelle scienze; si tende poi a mettere in rilievo
che gli avvenimenti si susseguono secondo un ritmo ciclico che si adegua, in
linea di massima, al ritmo tipologico; le deviazioni dalla linea teorica vengono
spiegate con il condizionamento sociale per il quale le modalità diverse si presentano come necessarie per nuovi sviluppi.
Il discorso prescinde volutamente da ogni spiegazione relativa alle origini
delle nostre conoscenze; l'esposizione storica comincia dalla :rinascenza, che viene
interpretata alla luce dell'andamento tipologico basato sulle facoltà. L'umanità
ridotta in decadenza durante il medioevo per tutta la messe di pregiudizi che in
tale età prosperavano, si venne poco a poco liberando da tale situazione per una
serie favorevole di circostanze, ma si trovò quasi come agli inizi della sua attività, cioè in una sorta di infanzia. Ma, diversamente che ai primordi del suo sviluppo, invece di studiare la natura, cominciò a leggere le opere degli antichi,
ausilio che non avevano i primi uomini (la giustificazione è pratica-utilitaristica:
è più facile leggere che vedere): ciò portò allo sviluppo della memoria, cioè
dell'erudizione; poi a quello dell'immaginazione, cioè delle belle arti, alimentate
dall'ammirazione per le bellezze stilistiche degli antichi; infine a quello della ragione, cioè della filosofia. La deviazione rispetto allo sviluppo tipologico si spiega
in questo modo: «Sebbene nell'ordine delle nostre idee le prime operazioni della
ragione precedano i primi saggi dell'immaginazione, quest'ultima, una volta
fatti i primi passi, va assai più in fretta dell'altra; essa ha il vantaggio di lavorare
su oggetti che lei stessa produce, mentre la ragione è costretta ad attenersi a
quelli che trova dinanzi a sé, ad arrestarsi ogni momento, e spesso si esaurisce
in ricerche vane. » Il processo di rinnovamento storico si conclude con lo sviluppo della filosofia moderna che è caratterizzato ad un tempo dalla lunga e fa-
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La critica dell'« esprit de système » e l'ideale enciclopedico del sapere
ticosa liberazione da secolari pregiudizi alimentati dall'autorità politica e religiosa e dal progressivo ritorno allo studio della natura. Artefici di questo rinnovamento che avrebbe portato la luce della ragione ad illuminare il mondo furono
alcuni geni (Bacone, Descartes, Newton, Locke, Leibniz, di ognuno dei quali
d' Alembert si compiace di tessere l'elogio) le cui opere costituiscono, si può dire,
le tappe del lungo cammino che ha condotto al grande rigoglio filosofico del
secolo in cui vivevano appunto gli enciclopedisti. In sostanza, la filosofia moderna, secondo che osserva Diderot, riprende la grande tradizione filosofica dell'eclettismo che ha rappresentato, fin dalle origini, il vero e corretto modo di
filosofare. «L'eclettico è un filosofo che, calpestando il pregiudizio, la tradizione,
l'antichità, il consenso universale, l'autorità, insomma tutto ciò che soggioga l'animo del volgo, osa pensare con la propria testa, risalire ai principi generali più
chiari, esaminare, discuterli, astenendosi dall'ammettere alcunché senza la prova
dell'esperienza e della ragione.» Il metodo che usa consiste non già nel sistemare
in un piano preordinato le sue conoscenze, né nellasciarle isolate, ma nell'ordinarie secondo relazioni aderenti in modo evidente a principi: cerca di seguire
cioè, di fatto le relazioni che ha posto la natura. Secondo Diderot scopo della
filosofia eclettica altro non è se non quello « di ritrovare la mappa del grande
architetto e i piani perduti di questo universo»; constatato il crollo dei vari edifici sistematici in cui si erano situate le conoscenze, alcuni allora si trasferirono in
aperta campagna per costruire un nuovo edificio completamente diverso dai
precedenti, con i materiali ancor solidi rimasti (cioè le conoscenze vere) e con
altri che trassero direttamente dalla natura. È questo il fine ultimo cui tende la
filosofia eclettica, praticata dai primi uomini di genio e rimasta sepolta nell'oblio
fino alla fine del xvr secolo, epoca in cui la natura, lungamente intorpidita e
quasi esausta, fece uno sforzo e generò uomini come Bruno, Cardano, Bacone,
Descartes, ecc., fedeli alla più bella prerogativa umana, la libertà di pensiero, che
diedero origine alla moderna forma dell'eclettismo. Si tratta ancora di quella
prospettiva di sistemazione che guida la ricerca della vera filosofia che si manifesta in una duplice tendenza di fondo: sperimentale (rappresentata da quegli
eclettici che ritengono impossibile allo stato attuale delle conoscenze costruire
l'edificio del sapere e si dedicano perciò alla raccolta di materiali nuovi), e sistematica (rappresentata da quei filosofi, i quali pur essendosi cimentati più volte e
senza successo nell'impresa, ritengono di non dover smettere di tentare).
Il rapporto tra assoluto e relativo è, del resto, come si è più volte sottolineato, il punto di riferimento costante in tutta la ricerca degli illuministi ed è
essenzialmente da questo punto di vista che va valutato. Il termine di riferimento
assoluto per la valutazione delle nostre conoscenze è il concetto di natura. Tale
strumento conoscitivo svolse una funzione critica veramente notevole perché
servì a porre in rilievo in modo molto efficace la scarsa aderenza alla realtà di
dottrine logorate ormai nelle formulazioni acquisite e svuotate da usi ed appli2.77
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La critica dell'« esprit de système » e l'ideale enciclopedico del sapere
cazioni indiscriminate. Anche in discipline e in ambiti specifici svolse una funzione di questo tipo: un esempio abbastanza significativo è dato dalla valutazione
fornita da d' Alembert delle scienze fisico-matematiche. Egli propose una netta
distinzione tra modello matematico e modello meccanico generico: c'è infatti,
secondo d' Alembert, la fisica generale e sperimentale, che è. propriamente soltanto una raccolta ragionata di esperienze e di osservazioni, e ci sono le discipline
fisico-matematiche che deducono da una sola esperienza numerose conseguenze
dotate di una certezza assai vicina a quella della geometria. Solo la meccanica e
l'ottica che fanno uso del modello matematico sono certe: quando invece si utilizza il modello meccanico generico (tipico è il caso della iatromeccanica citato
da d' Alembert) si giunge a conseguire risultati lontani dalla realtà della natura. Si
comprendono quindi i motivi del cambiamento che si è avuto nel XVIII secolo
nella valutazione generale del meccanicismo. Si condanna come contraria a natura la generalizzazione arbitraria, «metafisica», dei risultati della meccanica,
concezione che aveva avuto il suo apogeo nel secolo precedente: la generalizzazione meccanicistica, se mai, viene intesa nel senso contrario, come effettiva riduzione delle altre discipline nell'ambito operativo della meccanica, ed è concezione questa che troverà ampi sviluppi nel XIX secolo.
Si può qui osservare, concludendo, che l'uso del concetto di natura se diede
buone prove nella ricerca filosofico-scientifica (e non solo in essa) come strumento critico e polemico, era troppo vago, generico, impreciso perché potesse
dar luogo ad elaborazioni positive molto efficaci: fu un « modello » fondato essenzialmente su di una esigenza pratica e morale (il ritorno alle origini come metodo di rinnovamento) da cui risultava poco agevole derivare quelle mediazioni
concettuali concrete nuove e feconde con le quali sole la ricerca può realmente
rinnovarsi e procedere.
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CAPITOLO UNDICESIMO
L'Enciclopedia
DI GIANNI MICHELI
I
· CONSIDERAZIONI
PRELIMINARI
L'ideale illuministico di una enciclopedia del sapere che si è analizzato nel
capitolo precedente nei suoi presupposti generali, si concretizzò principalmente
nella realizzazione di un'opera, l' Encyclopédie, ou dictionnaire raisonné des sciences,
des arts et des métiers (Enciclopedia, o dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei
mestieri), che si può definire la prima grande impresa editoriale moderna. L'opera
però non ha valore soltanto come l'espressione pratica della concezione generale
del sapere di un'epoca, ma anche e soprattutto per l'aperto significato polemico e critico nei confronti della cultura tradizionale (e particolarmente degli
istituti religiosi del tempo) che aveva esplicitamente buona parte del suo contenuto. Questi due aspetti, quello teorico-sistematico e quello critico, sono così
intimamente connessi fra di loro che non è possibile, a mio parere, scindere nell'opera tali componenti. Infatti, se l'enciclopedia appare o può apparire essenzialmente come un efficace veicolo di propaganda e di azione politica, lo strumento
con il quale gli enciclopedisti condussero la loro battaglia contro il conservatorismo culturale, religioso e politico della società francese del tempo, occorre rilevare che tale azione di propaganda si basava su una concezione generale che, proprio per quel richiamo, implicito ed esplicito, alla natura veniva ad avere un chiaro
significato di rottura nei confronti della tradizione, e che l'enciclopedia doveva
appunto realizzare in forma concreta e sistematica. L'essere ad un tempo opera
teorica e politica è forse l'aspetto più tipico dell'Enciclopedia: è comunque l'elemento che meglio la caratterizza rispetto alle numerose opere analoghe, contemporanee e antecedenti. In effetti i numerosi dizionari ed enciclopedie del tempo
avevano un carattere prevalentemente linguistico (New generai english dictionary di
T. Dycke e W. Pardon, 1737; il Dictionnaire des arts et des sciences, edito dall'Académie française, r694; il Dictionnaire universel français et latin, detto Dictionnaire
de Trévoux, 1704) o specifico (Lexicum technicum or an universal english dictionary
of arts and sciences di J. Harris, 1704-ro; Dictionnaire économique di N. Chomel,
1709) o erudito (Grand dictionnaire historique di Moreri, r674; il Dictionnaire historique
et critique di P. Bayle, r695-97, anche se in quest'opera, come si è visto nel capito-
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L'Enciclopedia
lo n, l'erudizione è permeata di vis polemica e di una prospettiva filosofica generale, si trovano in essa scarse preoccupazioni per una visione teorico-sistemativa
delle conoscenze). Le enciclopedie nel senso proprio del termine, cioè come opere
teoriche, si rifacevano a moduli tradizionali, artificiosi e scolastici (esempio tipico
è l'Enciclopedia di J.H. Alstedius, 163o), oppure non erano nulla più che mere
enunciazioni programmatiche (i programmi di Bacone e, in misura molto meno
elaborata, quelli di Leibniz sono esempi significativi di questa tendenza). La preoccupazione di creare un'opera che fosse ad un tempo dizionario ed enciclopedia,
e quindi dotata di organicità e completezza, ben viva in Diderot e d' Alembert,
si riscontra peraltro anche nel Dizionario universale delle arti e delle scienze di Ephrai'm
Chambers, opera che si riconnette direttamente all'Enciclopedia, in quanto è
noto che la grande impresa editoriale francese all'origine non doveva essere che
una traduzione del dizionario inglese. Orbene Chambers, nella prefazione della
sua opera che ebbe molta fortuna tanto da essere tradotta in italiano nel 1749,
considera l'esigenza di organicità l'elemento caratterizzante e originale del suo
lessico rispetto a quelli precedenti, ma nello stesso tempo sottolinea i grandi vantaggi che presenta l'ordinamento del contenuto sotto forma di dizionario; «quella
forse,» sostiene lo studioso inglese,« è la sola strada, onde l'intiero circolo o corpo
di scienza, con tutte le sue parti e dipendenze, si possa altrui ben porgere. In
ogni altra forma, migliaia di cose più minute necessariamente tolgonsi alla vista:
tutti i piuoli, le connessure, i legamenti della fabbrica è forza che rimangono
invisibili; tutte le minore parti, quali si siano, esser debbono in qualche misura
come inghiottite nel tutto ». Nel Prospectus dell'Enciclopedia, in cui Diderot analizza criticamente l'opera di Chambers, riconosce allo studioso inglese il merito
di aver posto in rilievo i vantaggi della sistematicità e della concatenazione organica delle conoscenze ma censura la realizzazione dell'opera, sottolineando lo
scarto sussistente fra le enunciazioni programmatiche e i risultati conseguiti. Questo difetto di realizzazione è, a giudizio di Diderot, strutturale e non soggettivo,
una naturale conseguenza del piano dell'opera troppo angusto, per cui le numerose
lacune ed omissioni appaiono ovvie e scontate. Ma se « l'omissione di un articolo
rende semplicemente imperfetto un dizionario comune, in una enciclopedia infrange la connessione intera dell'opera, nuoce alla forma e al contenuto». La deficienza nella realizzazione risulta quindi essere ad un tempo deficienza nella teoria.
Qui, implicitamente, Diderot mostra la precisa consapevolezza della novità della
sua opera, in cui ad un progresso nell'elaborazione teorica corrispondeva un progresso nella realizzazione, concepita non in termini dilettantistici; è noto che
l'Enciclopedia è la prima opera del genere in cui le voci siano redatte da specialisti
e secondo criteri specialistici, cioè ampie e dotate di una considerevole precisione di linguaggio.
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II· LE VICENDE DELLA PUBBLICAZIONE
L'Enciclopedia nacque dall'iniziativa commerciale di un libraio parigino A.F.
Le Breton, il quale aveva accolto la proposta che uno studioso tedesco, G. Sellius, abitante allora a Parigi, gli aveva fatto nel gennaio I745 relativamente alla
traduzione francese dell'opera di Chambers. A tal fine si associò con un gentiluomo inglese, J. Milis, con il quale lo stesso Sellius lo aveva messo in contatto.
Fu stipulato un contratto per una traduzione ampliata che doveva comprendere
quattro volumi di testo e 120 tavole; fu ottenuto il privilegio per la stampa e
diffuso il Prospectus dell'opera. L'associazione durò solo qualche mese: sorsero
ben presto dei contrasti tra J. Milis e il libraio parigino, che alla fine riuscì a liquidare il socio inglese e anche Sellius, al quale spettava l'onere della traduzione.
Vista però la favorevole accoglienza che il progetto aveva avuto presso il pubblico, Le Breton prese l'iniziativa di fondare, per la pubblicazione dell'opera, un
sindacato comprendente gli stessi finanziatori, Briasson, Durand e David, con
i quali si era associato in precedenza per la traduzione del Dizionario di medicina
di R. James, cui aveva collaborato Diderot. La direzione del lavoro venne affidata il 27 giugno 1746 all'abate Gua de Malves, studioso di matematica e di
varie altre scienze, mentre d' Alembert e Diderot vennero assunti come collaboratori. I rapporti tra gli editori e il direttore si deteriorarono quasi subito a
tal punto che poco più di un anno dopo fu rotto il contratto; Diderot e d'Alembert allora si assunsero l'onere di continuare l'opera, di cui presero la direzione.
Non si sa con precisione a chi sia dovuta l'idea di modificare radicalmente il progetto originario dell'opera; probabilmente ciò fu il frutto, da un lato, delle esigenze
degli editori invogliati, viste le reazioni favorevoli del pubblico, a sviluppare sempre più l'impresa, e dall'altro, di quelle dei direttori i quali, valutate le manchevolezze delle varie voci tradotte che avevano a disposizione, dovevano essere
sempre più spinti ad impegnarsi in un'opera originale. Comunque il cambiamento
nel piano e nella elaborazione del lavoro fu progressivo; il passaggio dai cinque
volumi primitivi ai ventotto finali avvenne attraverso varie tappe, che costituiscono altrettanti momenti importanti della tormentata e complessa vicenda della
pubblicazione dell'Enciclopedia. A partire dal 1747 d'Alembert e Diderot si misero con grande zelo e fervore al lavoro, ma fu soprattutto Diderot, il quale si
interessava della parte più ampia e gravosa dell'opera, quella relativa alle arti e ai
mestieri, che si assunse le maggiori incombenze, tanto che, arrestato a causa della
Lettre sur !es aveugles à l'usage de ceux qui voient nel luglio 1749, la preparazione dell'opera dovette essere sospesa quasi del tutto. Furono pertanto gli stessi librai a
rivolgersi al vicecancelliere conte di Argenson e al luogotenente generale di polizia Berryer per sollecitarli a porre in libertà Diderot, ponendo in rilievo la necessità dell'attiva presenza del philosophe per il proseguimento dell'impresa da
essi iniziata. Diderot fu liberato il 3 novembre 1749 e si dedicò quindi con il mas281
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L'Enciclopedia
simo impegno alla stesura dell'Enciclopedia; nel novembre dell'anno seguente fu
distribuito il Prospectus dell'opera, scritto dallo stesso Diderot e si cominciarono
a raccogliere le sottoscrizioni che furono numerose. Il successo dell'iniziativa appariva lusinghiero, ma già in occasione del prospetto Diderot ebbe una prima
polemica con i gesuiti del « Journal de Trévoux » e particolarmente con il padre
Berthier (che doveva in seguito dirigere il periodico ed essere il principale avversario degli enciclopedisti) a proposito del piano dell'opera e dei rapporti di esso
con il programma baconiano.
Il primo volume apparve il 28 giugno con l'approvazione dei censori, ma
suscitò subito delle polemiche. Il più duro attacco, ma anche il più serio, veniva
dai gesuiti, e particolarmente ancora dal padre Berthier che pubblicò nel suo periodico, già fin dall'ottobre, numerosi articoli che contenevano un'analisi accuratissima sia del Discours préliminaire che delle varie voci del primo volume; egli
si era reso ben conto infatti dell'importanza dell'opera e del pericolo che rappresentava come strumento di diffusione delle nuove idee eversive. Lo strumento
di cui si servì per condurre la sua lotta era particolarmente efficace: consisteva
in ripetute accuse di plagio che egli per altro provava in modo minuzioso e dettagliato, lasciando intendere chiaramente però che il vero fine della sua battaglia era la difesa della religione e degli istituti su cui essa si basava. Poneva in
rilievo come particolarmente pericolosi, tra gli altri, l'articolo Autorité politique
e l 'articolo Aius Locutius in cui si rivendicava, almeno per i philosophes, la libertà
di espressione e sottolineava inoltre l'irriverenza verso la religione e l'autorità
politica che traspariva dal particolare tipo di scelta degli articoli e dal risalto dato
agli uni piuttosto che agli altri. Nella critica dell'Enciclopedia si ebbe la singolare
convergenza con i gesuiti dei giansenisti; loro intento era palesemente quello di
inasprire la polemica contro gli enciclopedisti dei gesuiti, gareggiando con questi
ultimi, loro tradizionali avversari, in intransigenza. I gesuiti del resto non si limitarono soltanto ad esercitare una critica violenta e dura, ma cercarono ben
presto di esercitare le più forti pressioni sulle autorità perché l'opera fosse soppressa. Furono essi a creare in funzione chiaramente antienciclopedica il caso
dell'abate de Prades, un giovane collaboratore dell'Enciclopedia al quale fu contestata l'ortodossia di alcune affermazioni contenute nella sua tesi di teologia, che
aveva già presentato e brillantemente discusso alla Sorbona. La condanna di de
Prades era in effetti, una condanna contro l'Enciclopedia. Notava un contemporaneo: « I gesuiti sono italiani e macchinano da lontano la loro vendetta. Che
si fa contro gli autori di questa grande e utile impresa? Li si accusa di empietà.
Di qui questa accusa contro la tesi presentata alla Sorbona da uno di essi, l'abate
de Prades, in cui non c'era nulla da ridire ... La gelosia degli altri licenziati ha
fatto trovare motivi di critica nel giro di quattro o cinque giorni. Denunciato dai
licenziati invidiosi ai gesuiti, questi, che meditavano già una persecuzione contro
il libro nemico suscitarono immediatamente a Parigi un gran scalpore contro la
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L'Enciclopedia
tesi e il suo autore. »Ancora, fu un ecclesiastico molto legato ai gesuiti, F. Boyer,
già vescovo di Mirepoix e precettore del delfino, ad intervenire presso il re contro l'Enciclopedia e a far sì che il 7 gennaio I 7 52 fosse emanato il decreto di soppressione dei due primi volumi dell'opera (il secondo volume era apparso proprio pochi giorni prima). Le conseguenze di tale ordine non furono però molto
gravi: i volumi sequestrati furono pochi e d'altra parte Diderot e i librai poterono salvare dalla confisca preventiva i manoscritti degli altri volumi perché avvertiti in tempo proprio dallo stesso directeur de la librairie, Malesherbes, favorevole
aiphilosophes, che doveva far eseguire l'ordine. Il benevolo appoggio di Malesherbes ebbe un ruolo determinante anche nel rendere possibile la continuazione della
pubblicazione dell'Enciclopedia. Assicurò che tre teologi della Sorbona avrebbero rivisto tutta l'opera (un espediente abituale dei primi due volumi era stato
quello di inserire le espressioni meno ortodosse dal punto di vista religioso in
voci che non avevano nulla a che fare con la teologia) e sostenne inoltre d'Alembert nella sua vittoriosa polemica con il « Journal des Savants » circa il contenuto
irreligioso del suo Discours préliminaire, contribuendo a far sì che il matematico
desistesse dai suoi propositi di ritirarsi dall'Enciclopedia. Non senza ragione quindi
d' Alembert poteva scrivere una Avvertenza al terzo volume pubblicato nel I 7 53
in cui traspare chiaramente la fiducia nell'assenso indiretto delle autorità all'opera
anche nell'orgogliosa sicurezza che mostra nella confutazione delle varie critiche
che erano state mosse all'opera. In effetti l'Enciclopedia superò bene questa prima
crisi e il lavoro proseguì alacremente; i volumi vennero pubblicati al ritmo di
uno all'anno; nel novembre I757 apparve il settimo volume. I violenti attacchi
da parte degli oppositori non erano però mai cessati; essi ricevettero un rinnovato impulso nel I757 appunto, a seguito dell'attentato di Damiens al re Luigi xv
e del conseguente decreto regio che introduceva misure più severe nel controllo
della stampa di opposizione. I libelli e gli scritti polemici e satirici contro l' Enciclopedia si moltiplicarono; tra questi divennero famosi i Mémoires sur !es cacouacs
in cui gli enciclopedisti (cacouacs) venivano dipinti come degli esseri spregevoli
che irretivano chi cadeva nelle loro mani ma che potevano essere facilmente combattuti. Questa ben orchestrata campagna di stampa contro l'Enciclopedia, nonché
le polemiche e le proteste suscitate dall'articolo Genève, ebbero come conseguenza
immediata il ritiro dall'Enciclopedia di d' Alembert, autore dell'articolo in questione. La decisione di d' Alembert, alla quale per la verità non furono estranei
motivi di contrasto economico con gli editori, fu irrevocabile malgrado le insistenze di Diderot e di Voltaire; essa arrecò un danno notevole all'opera, in quanto
provocò la defezione di altri collaboratori e fece cadere interamente su Diderot
la responsabilità della pubblicazione. La rinuncia di d' Alembert costituì un effettivo indebolimento dell'Enciclopedia e fu più grave in quanto avvenne
proprio nel momento in cui si venne maturando la crisi più seria che l' Enciclopedia avesse mai avuto. L'opera fu infatti coinvolta nello scandalo che sorse
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L'Enciclopedia
a seguito della pubblicazione del libro di Helvétius De l'esprit; I' Enciclopedia
fu condannata insieme allo scritto di Helvétius e ad altre opere da un decreto del
Parlamento redatto il 6 febbraio I 7 59; rimasta senza esito una petizione dei librai a Malesherbes, un decreto regio revocò il privilegio accordato nel I746.
L'opera fu quindi interrotta, la vendita dei volumi proibita e fu fissato anche il
rimborso da rendere ai sottoscrittori. Di fatto però, e sempre per merito di Malesherbes che seppe districarsi assai bene in questa delicata circostanza, l'opera
non venne sospesa; fu raggiunto un compromesso nel senso che si diede corso
alla stampa delle tavole (1'8 settembre fu concesso un nuovo privilegio concernente appunto le tavole) mentre la pubblicazione dei rimanenti volumi fu solo
rimandata (si era ottenuto in pratica un tacito consenso; nel I 766 furono in effetti
distribuiti, sia pure con molte difficoltà, gli altri dieci volumi di testo).
La pubblicazione degli undici volumi di tavole fu relativamente sollecita;
dati i problemi enormemente complessi che essa implicava, si protrasse per dieci
anni, dal I76z al I77Z e diede luogo anch'essa ad una lunga polemica, sebbene
solo di carattere letterario. Si trattava di un'accusa di plagio, avanzata da più
parti, nei confronti delle tavole relative alle arti e ai mestieri (le più numerose
dell'Enciclopedia) in corso di elaborazione sotto la guida di Réaumur da parte
dell' Académie des sciences. La denuncia, raccolta nell'« Année littéraire » da
E. Fréron, irriducibile avversario dell'Enciclopedia, partiva dall 'incisore Patte e
venne poi ribadita dallo stesso Réaumur. Diderot sconfessò a più riprese il plagio
ed anche una commissione dell' Académie des sciences incaricata di appurare
la cosa, si pronunciò in modo negativo, redigendo un attestato in tal senso che
venne stampato nei volumi delle tavole dell'Enciclopedia. È certo comunque che
l'accusa non era infondata: una parte (anche se non rilevante) delle incisioni deil'Enciclopedia furono composte utilizzando, in misura maggiore o minore, le tavole di Réaumur, ed è molto probabile che anche considerazioni esterne (il fatto
che d'Alembert ed altri membri dell'Académie avessero collaborato all'Enciclopedia, nonché il desiderio di non interrompere ancora una volta le pubblicazioni dell'opera) abbiano avuto un certo peso nel giudizio liberatorio della commissione dell'Accademia.
L'Enciclopedia poté quindi esse completata; nel I 76 3 si era dimesso Malesherbes, ma il nuovo directeur de la librairie, Sartine, amico di Diderot, continuò la
politica del predecessore, e non vi furono quindi ulteriori eccessivi intralci
nella pubblicazione.
III· COLLABORATORI
E
LETTORI
Alcuni studiosi hanno tentato di «situare» in modo preciso l'Enciclopedia
all'interno della società francese considerando la provenienza sociale sia dei collaboratori che dei lettori; i risultati conseguiti sono di un qualche interesse e vale
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L'Enciclopedia
la pena di ricordarne gli elementi essenziali. La cosa più rilevante di siffatte ricerche
analitiche è di aver determinato nei particolari un'asserzione abbastanza scontata nei suoi termini generali, cioè l'estrazione borghese dei collaboratori dell' Enciclopedia. Jacques Proust che ha svolto egli stesso studi in questa direzione
e che ha esaminato da vicino tutta questa questione nel suo ampio studio su Diderot è giunto alla conclusione, abbastanza persuasiva, che gli enciclopedisti
derivavano da una frazione limitata della borghesia. Erano principalmente rappresentanti della media e piccola borghesia: medici, tecnici, funzionari, insegnanti,
ecc.; nobili, parlamentari ed ecclesiastici parteciparono all'impresa solo in quanto
potevano, in qualche modo, essere assimilati alla borghesia. Questi collaboratori
si trovavano per lo più integrati entro le strutture feudali della società francese
del tempo, soprattutto perché le loro fonti di reddito (principalmente di origine
fondiaria o derivanti da cariche pubbliche) erano tradizionali; però spesso svolgevano funzioni tecniche ed economiche che li portavano in direzioni nuove e ciò
li caratterizzava come membri di quella frazione dinamica e progressiva della borghesia che determinerà l'affermarsi del capitalismo industriale. Si trattava comunque di una volontà di rinnovamento inficiata dal moderatismo, cosa che del
resto, non sfuggirà agli stessi contemporanei. Significativo è da questo punto di
vista lo sferzal)te giudizio di Robespierre nei confronti dell'Enciclopedia citato
dallo studioso francese J. Dautry e che qui riportiamo: « L'Enciclopedia racchiudeva alcuni uomini degni di stima e un gran numero di ciarlatani ambiziosi.
Parecchi suoi capi erano divenuti dei personaggi considerevoli nello stato: chi
ignorasse la sua influenza e la sua politica non avrebbe una idea completa della
prefazione della nostra rivoluzione. Questa setta, in materia di politica, restò
sempre al di sotto dei diritti del popolo; in materia di morale andò molto al di là
della distruzione dei pregiudizi religiosi. I suoi corifei declamavano talvolta contro il despotismo ed erano pensionati dai despoti, facevano ora dei libri contro la
corte, ora delle dediche ai re, dei discorsi per i cortigiani e dei madrigali per le
cortigiane; erano fieri nei loro scritti e striscianti nelle anticamere... Si è notato
che parecchi di loro avevano legami intimi con la casa di Orléans, e la costituzione
inglese era secondo essi il capolavoro della politica e il massimo di felicità sociale. »
La censura dei giacobini è rivolta essenzialmente contro il carattere non popolare
dell'Enciclopedia; la scarsa fiducia e considerazione che gli enciclopedisti avevano
per il popolo, è cosa del resto nota. Così, se la descrizione delle attività manifatturiere ed artigiane occupa gran parte dell'Enciclopedia e se molti operai hanno
collaborato, in modo diretto o indiretto, alla stesura degli articoli e delle tavole,
non deve meravigliare che la maggior parte degli operai e degli artigiani non venga
nominata. «Insomma, i giacobini hanno concepito dall'alto in basso, in direzione
del popolo minuto, un compromesso sociale che gli enciclopedisti e i costituenti
come Barnave e Mounier non concepivano che verso l'alto tra la borghesia attiva e l'aristocrazia» (Proust). Gli ideali dell'Enciclopedia ispirarono pertanto
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quelle forze politiche, i girondini prima e i termidoriani poi, che esprimevano il
moderatismo borghese al tempo della rivoluzione; i grandi istituti scolastici della
Francia rivoluzionaria e postrivoluzionaria, come si vedrà nel capitolo xvi, costituivano, a giudizio degli stessi contemporanei, una realizzazione condotta secondo lo spirito e la mentalità dell'Enciclopedia.
Lo strato sociale a cui appartenevano i collaboratori dell'Enciclopedia è anche quello stesso da cui proveniva buona parte dei lettori dell'opera, che furono
moltissimi (i sottoscrittori furono infatti più di quattromila). Tale asserzione trova
conferma anche dall'indagine di D. Mornet volta ad accertare la presenza dell'Enciclopedia nelle biblioteche private francesi e dall'esame (fatto da Proust)
della lista dei sottoscrittori che aderirono al processo intentato contro i librai da
Luneau de Boisjermain che aveva per scopo di ottenere il rimborso di somme, a
loro giudizio, illegittimamente pagate. Si tratta pertanto, ed è questo il dato più
interessante che emerge da questi studi, di una frazione della borghesia legata,
direttamente o indirettamente e sotto diversi aspetti, alle strutture del potere tradizionale: ciò spiega abbastanza il moderatismo degli enciclopedisti in generale
e l'equivoca posizione personale di alcuni suoi membri, di d' Alembert in particolare che nutrì una eccessiva fiducia nell'autorità regia e coltivò a lungo l'illusione che il rinnovamento culturale che prospettava potesse essere non solo
tollerato, ma addirittura appoggiato e favorito dal potere statale.
IV · IL
CONTENUTO
DELL'ENCICLOPEDIA
Il moderatismo e, in genere, l'equivoco atteggiamento politico degli enciclopedisti ha il suo esatto corrispettivo teorico nella incapacità che essi mostrarono
nel creare strumenti concettuali generali atti a rinnovare positivamente la cultura tradizionale come era nelle loro intenzioni. Il contenuto effettivo dell' Enciclopedia fa risaltare in modo macroscopico le deficienze della nozione teorica di
enciclopedia del sapere, quale fu concepita da Diderot e da d' Alembert, particolarmente l'insufficienza dell'astratto concetto di natura come elemento di mediazione tra le opposte esigenze della sistematicità e della concretezza. L'opera risulta quindi essere, nel suo complesso, un amalgama eclettico che non risponde
agli intendimenti programmatici appunto perché l'assunto teorico non è in grado
di caratterizzare e di situare i vari elementi del tutto. Le deficienze sono pertanto
obiettive e non si spiegano con le difficoltà di ogni sorta che gli enciclopedisti
dovettero superare per pubblicare la loro opera: sono la conseguenza diretta di
un compromesso con la cultura tradizionale, forse necessario, ma comunque altrettanto obiettivo.
Con tutto ciò non si vuole affatto sminuire il valore dell'Enciclopedia: lo
stesso grande rilievo che si è dato in questa Storia all'analisi di tale opera testimonia del contrario. Esso ha avuto per scopo di cercare di ricondurre la sua ec2.86
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cezionale importanza in un ambito ben determinato e di modificare il giudizio
abbastanza corrente che fa dell' Enciclopulia un'opera aperta a tutte le sollecitazioni della ricerca e in cui traspare « lo spirito di dialogo », e per ciò essa « può
ancora insegnare qualcosa ad un lettore del secolo xx» (Proust). In verità, a nostro parere, l'Enciclopedia si caratterizza essenzialmente per la sua funzione sociale. Come ha ben detto F. Venturi, essa è un capolavoro pratico. «Per l'attrazione che esercitò sulle forze più vive della Francia di allora, per l'equilibrio
che ha saputo dare a forme di cultura varie e complesse, per il fine comune verso
cui ha saputo dirigerle, l'Enciclopedia è una grande opera politica e sociale. » Del
resto, come si è visto, l'opera ebbe origini pratiche (non doveva essere nulla più
di una modesta impresa commerciale) e ciò fu, a giudizio dello stesso Diderot,
uno degli elementi essenziali per la sua realizzazione. Egli, infatti, rileva a ragione
che se si fosse dato ai collaboratori l'incarico di redigere ex novo le voci, essi si
sarebbero spaventati per la complessità e l'impegno che esso avrebbe richiesto
e l'Enciclopedia non si sarebbe fatta. Il semplice lavoro di revisione e arrangiamento
di articoli già stesi, sembrava invece un compito più facile, per i collaboratori, anche se poi erano costretti, per le insufficienze e le lacune che presentava, a non
servirsi affatto del materiale iniziale. A poco a poco, con l'aumentare della mole
e dell'impegno, l'opera si venne delineando come un amalgama di idee correnti
e di dati ormai acquisiti, sufficientemente ampio e analitico: come tale, fu un efficacissimo strumento di diffusione sociale della cultura. In questa prospettiva
fu di grande giovamento anche l'apparato teorico elaborato da Diderot e da
d' Alembert, pur nella sua imperfetta correlazione con la realizzazione effettiva
dell'opera. Infatti, l'assetto programmatico, ambizioso e organico, rese necessaria
da un lato una stesura ampia, analitica e non dilettantesca delle singole voci (ponendo con ciò le basi per un'opera di divulgazione di alto livello) e dall'altro l'integrazione dell'esposizione alfabetica con una serie di rinvii che resero articolata
la trattazione e fornirono inoltre un efficace strumento politico (gli argomenti
più scabrosi erano trattati spesso come si è già accennato, in voci apparentemente
innocue a cui si arrivava appunto per mezzo di rinvii); tutti questi fatti contribuirono a fare dell'Enciclopedia quel «capolavoro pratico» di cui si è detto, caratterizzato dall'equilibrio tra idee diverse ed eterogenee e dal compromesso tra
innovazione e tradizione, cioè da quegli elementi che determinano il successo di
una iniziativa pratica. Non può stupire pertanto la larga utilizzazione di materiali
preesistenti effettuata dagli enciclopedisti per la stesura degli articoli (l'accusa più
ricorrente, ed anche la più veritiera contro l'Enciclopedia è il plagio) né l'arrendevolezza mostrata da Diderot in alcune questioni di fondo (nella voce Autorità
politica, per esempio, la nozione di potere politico viene fondata su principi tanto
tradizionali da suscitare la giustificata reazione di alcuni amici del filosofo). Una
analisi anche sommaria della trattazione delle più importanti discipline chiarirà
e confermerà tale assunto.
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Per quanto riguarda le materie più scabrose, la teologia soprattutto, il compromesso fu abbastanza evidente. La collaborazione fu piuttosto difficile e travagliata per diversi e ovvi motivi; fu affidata a dei religiosi come Mallet, Yvon,
de Prades, Pestre, Morellet, i quali cercarono in varia misura, ma con non molto
successo, di conciliare esigenze e prospettive di rinnovamento con il più scrupoloso rispetto dell'ortodossia: i risultati non furono particolarmente vistosi e
l'allarme suscitato dall'affare de Prades non fu causato, come si è visto, da motivi intrinsechi. Più intelligente, articolata e fatta in vista di una prospettiva precisa fu la « conciliazione » effettuata nelle discipline filosofiche e affini, opera
principalmente di Diderot. Sulla scorta di una guida sicura, la Historia critica
phil?sophiae di Brucker, una delle prime esposizioni critiche dello sviluppo del
pensiero filosofico, egli accentuò i motivi antireligiosi, cercando nel contempo
di dar risalto a quegli elementi che potessero risultare idonei alla diffusione della
sua dottrina materialistica, la quale appunto per i suoi caratteri di vaghezza, indeterminazione e non molto rigore, si prestava bene per una siffatta operazione
polemico-divulgativa. Uno degli aspetti meno appariscenti, ma certamente più
positivi dell'Enciclopedia fu la divulgazione dei principi della critica storica, che
ormai erano accolti dalla maggior parte degli studiosi. Non solo la trattazione
delle materie storiche viene effettuata sulla base di essi, ma si ha anche un'esposizione generale dei criteri che devono guidare lo storico nella sua ricerca, dando
grande rilievo all'importanza dello studio critico delle fonti, alloro ampliamento,
allo scrupolo e alla cautela che occorre dimostrare nell'accertamento di fatti e dottrine, alla necessità di espungere ogni elemento estrinseco nell'esame del documento. Caratteri ancor più accentuati di eclettismo e di compenetrazione di esigenze e di prospettive diverse si hanno nella trattazione della politica e dell'economia (si hanno articoli di Quesnay, di d'Holbach, di Rousseau, ecc.), in cui
traspare evidente una linea moderatamente riformista e conciliante, almeno come tendenza generale di fondo.
Un discorso più ampio e circostanziato merita l'analisi della parte più originale dell'Enciclopedia (se non altro per l'ampiezza rispetto alle opere simili antecedenti) che ci interessa più da vicino in questo contesto, cioè quella relativa
alle scienze e alle tecniche. Anche qui si può affermare che manca una prospettiva realmente innovatrice (nel senso specifico e tecnico del termine) e che per
lo più si ha una esposizione, neanche sempre molto diligente o aggiornata, di
dati e asserzioni ormai acquisiti. La parte di gran lunga migliore è senz'altro
quella relativa alla matematica e alla fisica matematica redatta quasi esclusivamente
da d' Alembert. Per quanto concerne la matematica, la trattazione è semplice,
chiara e pienamente adeguata allo stato delle conoscenze del tempo; nuoce tuttavia, come ha ben rilevato René Taton, il preconcetto che d' Alembert ha verso Euler dovuto a una reazione istintiva contro i principi di sistematizzazione dell'opera di Euler. Di notevole rilievo sono anche gli articoli relativi alla meccaz88
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nica, in cui d' Alembert riproduce gli elementi essenziali della sistemazione che
aveva fatto di tale disciplina nelle sue opere specifiche; risalta particolarmente la
sua preoccupazione antimetafisica e il suo desiderio di unificazione e semplificazione dei principi della meccanica. Di buon livello sono anche gli articoli di ottica,
mentre non molto significativi sono quello sui fenomeni calorici, magnetici ed
elettrici: carente è inoltre l'astronomia e soprattutto la chimica, la cui trattazione
è opera (per lo più di Vene!) incoerente e non aggiornata; non molto omogenee
sono anche le voci di fisiologia e di medicina, affidate a diversi autori, tra cui
T. de Bordeu (contiene comunque anche l'articolo lnoculation opera di T. Tronchin), e quelle di biologia scritte da Diderot, dai fratelli Daubenton, da de Jaucourt in cui accanto alla volgarizzazione delle teorie di Buffon, riescono a trasparire le idee personali di Diderot.
Ma la parte più interessante è quella relativa alle arti, la più ampia e la più
ambiziosa di tutta l'opera, ed anche la più nota. L'eccezionale rilievo dato in
un'opera di cultura generale alla trattazione delle arti e dei mestieri viene infatti
considerato come uno dei motivi più originali e moderni dell'Enciclopedia, indice della piena consapevolezza del superamento della separazione tra le arti
liberali e meccaniche e della acquisizione di una prospettiva filosofica « pratica »,
rivolta essenzialmente alla trasformazione della realtà. Gli stessi enciclopedisti,
del resto, hanno spesso posto in risalto l'importanza della loro opera in questo
campo situandola nel solco della grande tradizione che risaliva a Bacone e che
auspicava una stretta unione della teoria con la pratica da realizzarsi proprio
nelle arti, considerate lo strumento per un radicale rinnovamento. Diderot pertanto perseguì l'idea, sviluppata nell'articolo Arte, di costruire un trattato generale delle arti meccaniche che raccogliesse l'ideale baconiano e lo traducesse in
realtà. Per la soluzione dei molteplici problemi che lo sviluppo delle arti meccaniche poneva, Diderot insiste particolarmente sulla necessità della combinazione
tra geometria teorica e geometria pratica o sperimentale e della creazione di una
unificazione linguistica reale dei termini usati nelle varie arti spesso diversi fra
di loro e non correlati: ma soprattutto ripropone continuamente un'operazione
di rivalutazione culturale primaria ed essenziale, cioè il definitivo riscatto delle
arti meccaniche dall'avvilimento in cui erano state a lungo mantenute. Diderot
cercò di realizzare il suo intento nel modo più proprio, cioè sulla base di informazioni dirette apprese nelle botteghe degli artigiani. «Ci siamo rivolti», egli afferma
nel Prospectus, «ai più abili artigiani di Parigi e del regno. Ci siamo presi la pena di
andare nei loro opifici, interrogarli, scrivere sotto loro dettatura, sviluppare i loro
pensieri, trovare termini adatti ai loro mestieri, tracciare le relative tavole e definirle, parlare con coloro dai quali avevamo ottenuto memorie scritte, e (precauzione quasi indispensabile) rettificare in lunghi e ripetuti colloqui con alcuni, ciò
che altri avevano spiegato insufficientemente, oscuramente, talvolta non fedelmente. » L'immagine di Diderot intento ad osservare nei laboratori artigiani è
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forse quella che meglio riassume l'attività stessa di tutta l'Enciclopedia e spesso ha
avuto un carattere emblematico. Studi recenti hanno però giustamente ridimensionato il significato dell'opera di Diderot e d' Alembert in questo campo. È
cosa del tutto evidente, anzitutto, che la preoccupazione di inserire l'attività degli
artigiani in un'ampia prospettiva culturale non era altro che l'accoglimento di un
atteggiamento ormai definitivamente acquisito dalla grande cultura razionalistica
del Seicento. Si può dire, anzi, che la concezione della tecnica che gli enciclopedisti divulgano è più vicina a quella rinascimentale che non a quella dell'età del
meccanicismo e si traduce in un programma che è baconiano nel senso letterale
del termine, condizionato cioè dalla preoccupazione enumerati~a e descrittiva.
I vari mestieri sono posti tutti sullo stesso piano e sono visti più con lo sguardo
e la curiosità dell'amateur inteso ad una raffinata elencazione antiquaria, che non
con la piena consapevolezza del valore scientifico e culturale delle tecniche. Non a
caso B. Gille, autore del migliore studio sull'Enciclopedia come dizionario tecnico,
ha potuto scrivere che «il programma redatto dai direttori dell'Enciclopedia costituiva una eccellente ricerca folcloristica». «Di più, rifiutando deliberatamente
- o per lo meno annunciavano che avevano agito così -la letteratura tecnica a
stampa, i nostri ricercatori andavano sul posto a studiare i vari mestieri (il maestro di Gargantua aveva fatto così alcuni secoli prima). Non si poteva dunque ottenere che una condizione statica delle tecniche. » In fondo gli enciclopedisti
non avevano tratto alcun profitto dalla lezione di Descartes e dei meccanicisti
secenteschi che avevano una visione selettiva delle tecniche incentrata sulla macchina; lo studio delle componenti teoriche delle macchine, la cui generalizzazione
concettuale aveva costituito il fulcro delle concezioni secentesche, non subisce
apprezzabili sviluppi da parte degli enciclopedisti. Come osserva ancora Gille,
se nell'opera viene dato adeguato rilievo alla macchina per tessere le calze, primo esempio di automatismo in materia di tecnica, sono in verità « i mestieri tradizionali poco meccanizzati, quelli degli artigiani, che sembravano costituire per
Diderot la vera tecnica: essi sono descritti in modo eccellente, come quello del
conciatore di pelli per esempio, per cui Diderot rivolgeva a se stesso dei complimenti ». Un'ulteriore riprova della concezione antiquata che hanno delle tecniche gli enciclopedisti (ma si potrebbero dare ancora altri esempi) è data dalla scarsa considerazione che hanno per la macchina a vapore. Si è già visto nel capitolo
VIII che essa costituiva un'invenzione rivoluzionaria, sia dal punto di vista teorico che tecnico, che avrebbe cambiato radicalmente di lì a pochi decenni lo stato
delle tecniche in generale e della società: orbene nell'Enciclopedia si ha solo, in
appendice alla voce Feu, una descrizione minuta, ma per niente significativa, della
macchina di Bois di Bossu. Nella sostanza quindi il lungo lavoro di Diderot non
appare molto diverso per l'impostazione generale dai numerosi trattati tecnici
anteriori, di cui la monumentale impresa dell' Académie cles sciences era l'ultimo e grandioso esempio; ad essa lavorò intensamente Réaumur, con il quale, si
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è visto, ebbe una polemica a causa dell'accusa non del tutto immotivitata di plagio. L'inestimabile pregio e importanza dell'opera di Diderot in questa direzione
non deve però ricercarsi, ancora una volta, nell'originalità dei presupposti teorici
e nell'indicazione di svolte culturali decisive, bensì nel fatto che per la prima volta,
superando i vincoli corporativi che tendevano a non divulgare eccessivamente i
procedimenti tecnici di fabbricazione, una descrizione scrupolosa e dettagliata
delle arti e dei mestieri viene programmaticamente ed effettivamente messa alla
portata del gran pubblico: la consapevolezza del rilievo culturale delle tecniche,
divenendo di fatto, con l'Enciclopedia, una acquisizione sociale, acquistò una dimensione del tutto nuova.
V · IL SUCCESSO COMMERCIALE
Il grande successo che gli enciclopedisti riuscirono a conseguire con la loro
opera di sintesi e di divulgazione è forse il maggior pregio dell'Enciclopedia,
certamente l'elemento che più ne sottolinea la modernità. Infatti, per il numero di
copie vendute eccezionale per l'epoca, per l'immensa risonanza che ebbe, l'Enciclopedia fu l'antesignana delle grandi opere collettive del XIX e del xx secolo e
senza dubbio quella di maggior peso culturale. La storia dell'opera da un punto
di vista strettamente commerciale ha quindi un suo particolare interesse; studi
recenti, tra cui notevoli quelli di Proust di cui qui riassumiamo i risultati, hanno
attirato l'attenzione sui numerosi documenti in questo campo ancora reperibili,
sì che è ora possibile avere un quadro abbastanza analitico delle varie vicende economiche della pubblicazione dell'Enciclopedia. Il capitale iniziale messo a disposizione da Le Breton dapprima e dagli altri tre librai associatisi in seguito, era
abbastanza modesto in relazione ai modesti fini che si voleva perseguire con la
pubblicazione dell'opera; al tempo della rottura del contratto con Gua de Malves,
tuttavia, erano già state spese più di 36.ooo lire. L'incarico dato dagli editori
a Diderot si spiega, anche ed essenzialmente, con il fatto che il philosophe, data la
sua precedente esperienza editoriale, dava garanzie reali per il concreto compimento dell'opera. Così se all'inizio del 1750 le spese avevano superato le 6o.ooo
lire, nell'ottobre dello stesso anno era già distribuito il Prospectus e venivano
aperte le sottoscrizioni per un'opera in dieci volumi al prezzo complessivo di
lire 28o. Il successo dell'iniziativa apparve subito lusinghiero e lo fu sempre più:
i sottoscrittori aumentarono progressivamente e la tiratura dei volumi successivi
al primo venne continuamente aumentata fino ai 4200 esemplari del quarto volume (il numero dei precedenti volumi venne adeguato con ristampe); con l'uscita
del settimo volume (novembre 1757) la quasi totalità dei volumi era assorbita
dalle sottoscrizioni (circa 4ooo). Le spese alla fine del 1754 avevano raggiunto
le 28o.ooo circa, ma gli incassi avevano già superato il mezzo milione di lire e
alla fine del 1757 questi ultimi avevano quasi raggiunto il milione di lire. La so-
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spensione della pubblicazione nel 1759, il cui decreto prevedeva anche un indennizzo di 72 lire per ciascun sottoscrittore, determinò un'ulteriore espansione
commerciale e finanziaria dell'opera; il rimborso di lire 72 ai sottoscrittori dei
volumi di testo venne scontato dalle nuove sottoscrizioni per le tavole che vennero aperte al prezzo di lire 360. Le spese in questa fase dell'opera aumentarono
enormemente data l'ampiezza e la natura della nuova pubblicazione (erano di
circa 49o.ooo lire nel gennaio 1762 e alla fine del 1767 avevano raggiunto, secondo
il registro di uno dei librai, Briasson, la cifra di 1.039.642 lire, 7 soldi, 3 denari)
ma gli incassi erano aumentati in una proporzione ancora maggiore; secondo i
calcoli fatti da Luneau de Boisjermain (fatti per sostenere la sua causa nel processo
già ricordato) dovevano aver superato i 3·5oo.ooo di lire (tale dato è abbastanza
attendibile nel complesso). I profitti dell'impresa furono quindi certamente superiori ai 2 milioni di lire. Non appare del tutto sproporzionato pertanto questo
famoso e significativo giudizio di Voltaire: «Di quest'opera si tirarono 42 5o
esemplari di cui non ne rimane neppure uno dai librai. Quelli che si possono
trovare per un caso fortunato si vendono oggi a 18oo franchi; così tutta l'opera
avrebbe potuto operare una circolazione di 7.65o.ooo lire. Quelli che non considerano che i vantaggi commerciali, vedranno che quelli derivanti dalle due Indie
non vi si sono avvicinati. I librai vi hanno guadagnato all'incirca il 5oo%, cosa
che non è mai accaduta da quasi due secoli in nessun commercio. Se si considera
l'economia politica, si vedrà che più di mille operai, da quelli che cercano le
materie prime della carta fino a quelli che si sono incaricati delle più belle incisioni, sono stati impiegati e hanno nutrito le loro famiglie. » Come testimonianza
del fatto che già in questo periodo era abbastanza normale lo sfruttamento del
lavoro intellettuale, si può osservare che il totale dei proventi che Diderot riuscì
a ricavare nei venticinque anni di collaborazione ali' Enciclopedia si aggira all'incirca sulle 8o.ooo lire, che gli furono date in vari modi dai librai. I compensi
pagati a Didero t erano inoltre eccezionali: la collaborazione degli altri autori
venne pagata molto meno.
VI · GLI
SVILUPPI
La pubblicazione dell'ultimo volume dell'Enciclopedia avvenne nel 1772.
L'opera aveva avuto un successo strepitoso, ma presentava anche difetti evidenti
a chiunque. Il critico più severo fu del resto lo stesso Diderot il quale, secondo
un suo giudizio riportato in una memoria presentata dai librai al cancelliere in
vista di una nuova edizione, affermò che l'Enciclopedia era un abisso in cui erano
gettate alla rinfusa « un'infinità di cose mal viste, mal digerite, buone, cattive,
detestabili, vere, false, incerte e sempre incoerenti e disparate » e osservò che
quasi tutte le sezioni dovevano essere rimaneggiate e rifatte. Gli ulteriori sviluppi
dell'Enciclopedia sono quindi determinati dalla duplice esigenza, di continuare
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da un lato lo sfruttamento commerciale dell'opera, e dall'altro di eliminare le deficienze più vistose sia del testo che delle tavole. Il libraio Panckoucke già dal
1768 si era interessato presso i librai associati per una seconda edizione dell'opera
che però non fu iniziata per le sfavorevoli accoglienze che ebbe il Prospectus.
Stampò invece il supplemento (due volumi furono pubblicati nel luglio I776,
due altri nel I 777 con un volume di tavole e poi due altri volumi contenenti la
tavola analitica e ragionata degli argomenti) che presentava l'aggiornamento,
la correzione, la revisione e l'ampliamento delle varie voci: oltre ai vecchi collaboratori scrissero per il supplemento anche altri studiosi, tra cui Condorcet
(per la matematica), Lalande (per l'astronomia), J. Bernoulli (autore di alcuni articoli tra cui lnstrument balistique e Tables astronomiques), Adanson (per la storia
naturale), Guyton de Morveau (per la chimica).
Furono questi alcuni dei più noti collaboratori della Encyclopédie méthodique
ou par ordre de matières, opera monumentale in I66 volumi, pubblicata tra il I782
e il I 8 32, che costituisce la prosecuzione più naturale ed immediata dell' Enciclopedia, e un serio sviluppo di essa. Fu lo stesso Panckoucke che si assunse l'onere
della pubblicazione sfruttando il materiale dell'opera precedente e del supplemento; la stampa iniziò sotto favorevoli auspici ma si protrasse poi a lungo
in mezzo a difficoltà di ogni sorta. Il richiamo diretto all'opera di Diderot e d'Alembert è programmatico: l'Enciclopedia metodica infatti, più che una cosa nuova,
voleva essere una trasformazione in senso più funzionale della vecchia Enciclopedia, della quale voleva correggere gli errori, aggiungere tutti gli articoli mancanti, completare la nomenclatura di tutte le parti, operare una corrispondenza
rigorosa tra il testo e le tavole, ridurre il numero delle tavole sopprimendone alcune e aggiungendone altre, ed inoltre e particolarmente, modificare il piano
espositivo dell'opera. Quest'ultima è la novità più sostanziale: creando un'opera
composta di diversi trattati, ognuno dei quali esponeva in ordine alfabetico i
principali elementi di una particolare disciplina, si credeva di poter ovviare al
principale difetto della vecchia Enciclopedia, la confusione degli oggetti, risultante dal voler « rinchiudere tutte le conoscenze umane in un solo dizionario ».
Risulta nel complesso un'opera ancor più grandiosa, sia per la concezione che
per la realizzazione, di quella precedente che era sorta, come si è visto, con ambizioni modeste, ed è grande merito di Panckoucke di averla portata, contro
ogni difficoltà, ad uno stadio di realizzazione molto avanzato. Fu certamente
un'impresa culturale di grande portata, superiore per molti aspetti particolari
all'opera da cui derivava, ma ovviamente risentì non solo della mancanza di
un'impronta unitaria e di quella passione e di quell'entusiasmo che Diderot e
d' Alembert seppero profondere nella loro opera, ma anche e soprattutto di quella
caratterizzazione che l'Enciclopedia venne a mano a mano assumendo, particolarmente per merito di Diderot, come punto di riferimento culturale di tutta un'epoca e come strumento di direzione politica efficacissimo. Diderot non partecipò
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all'iniziativa di Panckoucke. Certo il philosophe nutrì l'intenzione di dedicarsi
alla stesura della nuova edizione dell'Enciclopedia sotto gli auspici dell'imperatrice Caterina n cui egli aveva sottoposto il progetto; la cosa lo aveva entusiasmato avendo intravisto la possibilità di rifare l'opera conformandola al piano
sul quale era stata progettata e di vendicarsi di tutti gli ostacoli e tutte le difficoltà
che aveva dovuto superare. Il progetto di Diderot però non potè realizzarsi e
così il diretto proseguimento dell'Enciclopedia si realizzò senza il fattivo interessamento del vecchio Diderot e ancora sotto il pesante condizionamento di esigenze
puramente commerciali.
L'intento commerciale di acquisire un mercato più vasto si rivela nella concezione stessa dell'Enciclopedia metodica che intendeva essere, racchiudendo in sé
i vantaggi del dizionario e del trattato, opera di consultazione e di studio ad
un tempo; però l'ambizione di creare un sistema completo delle conoscenze
umane mediante l'unione articolata delle singole sezioni si rivelò illusoria. Secondo il Prospectus, infatti, doveva esserci all'inizio di ogni dizionario un discorso preliminare e una tavola analitica per indicare l'ordine in cui si dovevano
leggere tutte le parole, in modo che ogni sezione poteva essere considerata
come un trattato ed essere collegata con le altre; orbene le tavole analitiche
spesso mancano e i discorsi preliminari sono molto diversi fra di loro, sia per
l'ampiezza dell'esposizione sia per il modo in cui essa si svolge e del tutto eterogenei, sì che il legame fra le varie sezioni risulta essere un mero presupposto.
Le sezioni in cui si divide l'opera sono 26; il numero dei volumi di ciascuna serie
è variabile e le voci (quelle della vecchia Enciclopedia sono indicate) sono poco
numerose ma molto ampie e analitiche (alcuni articoli sono dei veri e propri trattati a se stanti). Per quanto concerne il contenuto, e relativamente alle sezioni
che ci interessano, un notevole interesse riveste la trattazione delle materie filosofiche innanzi tutto perché la parte più propriamente storica è divisa da quella
sistematica comprendente la metafisica, la logica e la morale, e poi perché la parte
storica è opera di Naigeon, l'allievo e più diretto continuatore dell'opera di Diderot; vi viene trattata molto estesamente la filosofia antica e moderna (c'è un lungo articolo su Diderot stesso e su d' Alembert) e vengono da un lato accentuati
gli aspetti più propriamente materialistici mentre dall'altro Naigeon manifesta
una più sottolineata autonomia rispetto a Brucker, fonte primaria di Diderot;
l'opera di Naigeon, che, come è noto, fu l'editore degli scritti del maestro, ha inoltre un certo rilievo come fonte per l'identificazione e l'autenticità del testo delle
voci diderotiane della prima Enciclopedia. Le sezioni scientifiche sono quasi
tutte valide e originali per diversi aspetti: si può dire che, nel complesso, la parte
relativa alla scienza e alla tecnica è stata quella più curata di tutta l'Enciclopedia
metodica. La sezione di matematica, curata dall'abate Bossut, autore di un ampio
excursus storico su tale disciplina posto all'inizio del trattato, consta prevalentemente delle voci già redatte da d' Alembert e delle integrazioni apportate da Con294
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dorcet per il supplemento; la sezione di astronomia, non molto sviluppata nella
vecchia Enciclopedia, è invece completamente rinnovata da parte di un astronomo di grande rilievo, Lalande, il quale diede un quadro esauriente anche per
quanto riguarda lo sviluppo storico fino alle più recenti scoperte; la fisica è trattata da un grande scienziato, Monge, e da altri collaboratori e contiene numerose
e talora sostanziali modificazioni rispetto al modello originario: l 'impostazione
generale non sembra però mutata, mentre è ampliata e più curata la parte storica.
Le scienze mediche sono raggruppate in tre trattati distinti dedicati uno alla chirurgia, uno alla medicina propriamente detta e l'altro alle discipline mediche di
base, l'anatomia e la fisiologia. Il primo è curato da Louis e gli altri due da Vicq
d' Azyr, uno dei medici più noti del tempo, il quale si preoccupò di ampliare la
trattazione della vecchia Enciclopedia e del supplemento, dando rilievo a branche
come l'anatomia comparata e la chimica animale del tutto trascurate nell'opera
precedente. La parte relativa alla zoologia, affidata precipuamente a Daubenton,
è redatta secondo le idee generali di Buffon, di cui viene accolta la nomenclatura;
viene inoltre riprodotto nella trattazione molto del materiale della sua monumentale opera. Ancor più sostanziali rimaneggiamenti vennero introdotti nella sezione di botanica, il cui autore, Lamarck, si propose di colmare le enormi lacune
che presentava questa disciplina nell'opera diderotiana relativamente soprattutto
alla parte descrittiva e alla nomenclatura. «Manca in essa,» si dice espressamente
nel prospetto, « più della metà dei vegetali, anche tra i più conosciuti. I diversi
articoli sono posti per lo più sotto nomi stranieri, che i botanici non hanno potuto
adottare e che ne rendono la ricerca impossibile. Per mancanza di un'intesa, vi
sono numerosi impieghi doppi dei nomi. Una pianta conosciuta spesso è designata col suo nome barbaro. » Ma è soprattutto la sezione di chimica, « senza
alcun dubbio, » si afferma nel prospetto, «la parte più imperfetta di tutta la vecchia
Enciclopedia » che ha subito i più radicali rinnovamenti: le deficienze che vi si
riscontravano erano però obiettive, riflesso dello stato di confusione in cui versava tale disciplina proprio pochi decenni prima che si affermassero i principi
della chimica moderna. Di questi cambiamenti i redattori della Enciclopedia metodica erano ben consci; Guyton de Morveau, autore del primo volume, costituito
quasi esclusivamente dalle voci Acido e Ajjinità, espose idee analoghe, in qualche
misura, a quelle di Lavoisier, e Fourcroy, autore principale degli altri volumi,
è un deciso seguace delle teorie di Lavoisier. Si può pertanto dire che nel complesso, la trattazione abbia accolto pienamente il senso che gli ultimi sviluppi di
tale disciplina avevano avuto, e abbia un'impronta chiaramente moderna. Un discorso solo in apparenza analogo si può fare anche per la parte dedicata alla tecnica: le novità che l'Enciclopodia metodica introduce rispetto alla vecchia Enciclopedia sono infatti notevoli, ma si ha l'impressione che Roland de La Platière,
Macquer e Jaubert, come già Diderot, non abbiano affatto coscienza della rivoluzione che stava svolgendosi nelle industrie proprio nel periodo della fine del
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L'Enciclopedia
XVIII secolo e l 'inizio del XIX. La sezione è comunque molto aggiornata: vengono
infatti descritti gli ultimi perfezionamenti della macchina a vapore, come pure
quelli della industria siderurgica e tessile. È abbastanza indicativo il fatto che la
parte dedicata alle industrie tessili, del cuoio, degli olii e dei saponi sia separata
in un trattato autonomo rispetto a quello dedicato alla descrizione delle attività
più propriamente artigianali.
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CAPITOLO DODICESIMO
Rousseau
DI LUDOVICO GEYMONAT E
I
RENATO TISATO
· VITA E OPERE
Jean-Jacques Rousseau nacque a Ginevra nel 1712 da una famiglia calvinista
di piccoli artigiani. Malgrado la scomparsa della madre (morta in conseguenza
del parto) ebbe un'infanzia abbastanza serena: il padre - che era uno spirito
piuttosto bizzarro - provvide direttamente alla sua istruzione, indirizzandolo
verso letture romanzesche e coltivandone la viva sensibilità naturale. Ma quando
il ragazzo aveva appena dieci anni il padre dovette fuggire da Ginevra per non
venire arrestato (era stato coinvolto in una rissa), e il giovane Jean-Jacques venne
affidato alla cura di parenti che non erano in condizione di fargli proseguire gli
studi. Fu pertanto avviato al lavoro ed esercitò per qualche tempo il mestiere di
incisore. Insofferente di questo genere di vita fuggì in Savoia rivolgendosi per
aiuto a un parroco cattolico, che lo indirizzò ad una giovane signora svizzera,
Madame de Warens, dedita a fare propaganda in favore del cattolicesimo. Questa
nel 17z8 lo condusse a Torino ove il giovane sedicenne si convertì alla fede
cattolica; tornato in Savoia Rousseau divenne, qualche anno più tardi, l'amante
della sua protettrice. Dopo una decina di anni abbastanza felici, trascorsi nello
studio e in mestieri diversi, il nostro autore lasciò Madame de Warens per recarsi
prima a Lione (1740) come precettore, poi a Parigi (1742). Quivi fu costretto, per
guadagnarsi la vita, a fare ora il maestro, ora il segretario privato, ora il copista
di musica (come segretario privato dell'ambasciatore di Francia presso la repubblica veneta, passò alcuni mesi a Venezia). Nel vivace ambiente parigino poté
entrare in contatto con vari rappresentanti della più avanzata cultura illuministica,
in particolare con Diderot e Condillac. Ebbe pure una relazione, durata diversi
anni, con una povera ragazza di campagna che faceva la cucitrice; ne nacquero
vari figli, abbandonati uno dopo l'altro all'ospizio dei trovatelli, secondo il
costume dell'epoca.!
I Indagini moderne hanno provato che il
costume di abbandonare i figli in ospizi raggiunse, /
durante la seconda metà del XVIII secolo punte
veramente sconcertanti: a Parigi, nel 1772, su
18.713 nati, ben 7676 (e cioè il41°/o circa) vennero
deposti all'ospizio dei trovatelli; e si noti che di
questi 7676 solo un migliaio era costituito da
illegittimi! Comunque, Rousseau cercò poi di giustificare il proprio comportamento attribuendone
la colpa alla società, che facendo di lui un povero,
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Rousseau
Il 1750 segnò un'importante svolta della sua vita. L'accademia di Digione
aveva bandito un pubblico concorso sul tema: « Se il progresso delle scienze e
delle arti avesse contribuito a migliorare i costumi »; la risposta inviata da
Rousseau- risposta che era il suo primo scritto di filosofia- fu giudicata vincitrice e gli procurò improvvisamente una grande notorietà. Nel 17 53 un nuovo
quesito a premio bandito dalla medesima accademia lo indusse a tornare sull'argomento, scrivendo un Discours sur l'origine et !es fondements de l' inégalité parmi /es
hommes (Discorso sull'origine e i fondamenti dell'ineguaglianza fra gli uomini), che approfondiva la tesi già sostenuta nel precedente lavoro. Questo secondo Discours viene da lui dedicato alla città di Ginevra, dove si recherà- vivamente festeggiato
-per abiurare il cattolicesimo riconvertendosi al calvinismo (1756).
Nel medesimo periodo (e cioè negli anni dopo il 1750) Rousseau collabora
pure all'Encyclopédie con una serie di articoli di carattere musicale che verranno
poi riuniti nel Dictionnaire de musique (Dizionario di musica, q68). Stende inoltre
per tale enciclopedia, la voce Economia politica, ove però l'economia occupa solo
l'ultima parte dello scritto.
Va subito notato che, malgrado la collaborazione testé accennata, Rousseau
veniva maturando una posizione assai diversa da quella dei philosophes illuministi.
Essa emerge con indubbia chiarezza già dalla risposta inviata all'accademia di
Digione, ove si sostiene che il progresso delle scienze e delle arti non ha contribuito a nobilitare i costumi; tale progresso infatti rappresenterebbe, secondo il
nostro autore, qualcosa di esteriore rispetto all'uomo, qualcosa che non tocca
ciò che vi è di più intimo nel nostro essere, cioè l'istinto naturale. È una risposta
polemica, paradossale, che permette a Rousseau di rivolgere un'acerba critica
alla più raffinata società del suo tempo, presentandola come assolutamente inferiore a quella dei primitivi e dei selvaggi. Nello stato di natura - aggiungerà
nella risposta al secondo quesito - non esistono diseguaglianze tra gli uomini;
queste infatti sono il frutto artificioso della decadenza dell'uomo dal suo stato di
originaria perfezione, sono il risultato della sua « alienazione » ossia della separazione tra uomo e proprietario, uomo e cittadino.!
Approfondendo il proprio pensiero, Rousseau si renderà poi conto che lo
gli aveva impedito di assumersi il compito di
educare i propri figli.
1 Questi temi vanno senza dubbio ricollegati alla fiorente letteratura francese, e non solo
francese, ispirata alla leggenda del « buon selvaggio ». Tale letteratura aveva avuto inizio nel
Cinquecento in seguito alle grandi scoperte geografiche, e aveva dato luogo all'idealizzazione
dei popoli primitivi (in particolare degli aborigeni
d'America), all'apologia della vita selvaggia, talvolta anche alla condanna della colonizzazione.
Più tardi gli stessi gesuiti contribuirono al diffondersi di tale utopia, mossi fra l'altro dall'intento di assimilare i selvaggi (naturalmente buoni)
ai cristiani delle prime comunità o ai popoli più
virtuosi del mondo classico. Nel Settecento la
letteratura in esame incontrò un particolare successo anche in seguito all'accresciuto gusto per
i racconti di viaggi, per i costumi esotici, e in
generale pet tutto ciò che appariva estraneo alla
civiltà europea. Un altro fattore di questo successo fu il diffondersi di un vago atteggiamento
umanitaristico e anarchico-socialista. In Rousseau la contrapposizione fra vita spontanea dell'uomo primitivo e vita artefatta di chi accetta
passivamente le ingiustizie della nostra civiltà assume però, come vedremo, un significato nuovo,
ricco di profonde implicanze filosofiche.
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Rousseau
stato di natura non può, a rigore, venire inteso come uno stato che abbia avuto
effettiva esistenza nella storia umana, ma è essenzialmente un concetto teorico,
una categoria filosofica, una norma di giudizio, in base a cui condannare le ingiustizie del mondo presente e smascherare il disordine della pretesa società civile.
Nel 1757 Rousseau interrompe i rapporti con la redazione dell'Enryclopédie
e nel 175 8 entra in polemica aperta con d' Alembert a proposito delle istituzioni
ginevrine rendendo così pubblico il proprio dissenso. Come spiega Furio Diaz
« nonostante ricorrenti rimpianti e tentativi di recupero, era [per gli enciclopedisti] una perdita inevitabile: determinata da un divario di idee sostanziali a sua
volta fondato su sensibilità fra loro diverse per le esigenze della lotta ideologicopolitica ».
Intanto il nostro autore si era ritirato in un piccolo edificio isolato, nei dintorni di Montmorency (l'Ermitage) messo a sua disposizione da Madame d'Epinay. Rotti i rapporti anche con lei, per cause tutt'ora non esattamente chiarite,
Rousseau non abbandona l'incantevole paese accettando l'ospitalità del maresciallo
di Lussemburgo, signore di Montmorency. Le lunghe ore trascorse in aperta
campagna suscitano in lui - secondo quanto scrive Harald Hoffding - « fantastici sogni di libertà » illudendolo di poter « vivere come era vissuto l'uomo primitivo, prima che la civiltà avesse rotto il felice incanto dello stato di natura ».
Sono anni di lavoro intenso, eccezionalmente fecondo. Nel 1761 esce la
Nouvelle Héloise (Nuova Eloisa), :romanzo epistolare pieno di passione, diretto a
sostenere che il matrimonio deve essere fondato non sulle artificiose convenzioni
della società, ma su di una libera scelta dettata unicamente dall'amore. Nel 1762.
Rousseau pubblica altri due capolavori che dovranno immortalarlo nella storia
del pensiero: uno- l'Émile- di carattere filosofico-pedagogico, l'altro- Le
contrai social (Il contratto sociale) -di argomento sociale. Particolarmente degna di
menzione è la famosa Profession de foi du vicaire savoyard (Professione di fede del vicario
savoiardo), contenuta nel quarto libro dell'Émile, che costituisce un testo fondamentale per lo studio della concezione filosofico-religiosa rousseauiana.
Queste due opere suscitarono immediatamente il più vivo sdegno delle
autorità e provocarono contro il loro autore gravi persecuzioni politiche e religiose, tanto più pericolose in quanto Rousseau non poteva ormai contare sull'appoggio dei philosophes (dai quali era considerato un traditore). Dovette pertanto fuggire in Svizzera, nella speranza di trovarvi protezione e libertà; poco
dopo però, sentendosi anche qui perseguitato, abbandonò la Svizzera per l'Inghilterra ove Hume gli aveva offerto un rifugio sicuro ( 1766). Ma i rapporti fra
i due ebbero ben presto termine con una clamorosa rottura dovuta alla morbosa
suscettibilità del ginevrino. Rientrato in Francia, ove nel frattempo si era calmata
la tempesta, continuò a manifestare la propria irrequietezza compiendo ripetuti
viaggi, senza preciso scopo, nelle regioni meridionali del paese. Fece infine
ritorno a Parigi, ove condusse a termine le Confessions (ConfeSsioni) già iniziate nel
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Rousseau
r 76 5 e scrisse - senza però pubblicarle - varie altre opere, di notevole interesse
anche se meno importanti dei tre capolavori pubblicati nel 1761-62. Ci limiteremo a ricordare i dialoghi dal titolo Rousseau juge de jean-]acques (Rousseau giudice di
Gian Giacomo, composti fra il 1772 e il 1776) e le Reveries du promeneur solitaire
(Fantasticherie del viandantc solitario, composte fra il 1776 e il 1778). Morì nel 1778
in seguito ad una improvvisa malattia, nel castello di Ermenonville, ove erasi
recato su invito del marchese di Girardin.
L'esasperata emotività che traspare dagli scritti di Rousseau nonché dalla
sua stessa agitatissima vita, rivelano in lui una disposizione d'animo senza dubbio
più vicina a quella che caratterizzerà i grandi spiriti romantici che non a quella
dominante nella cultura settecentesca. Scarsa è la fiducia da lui riposta nelle
scienze, nelle innovazioni della tecnologia e nei progressi che esse fanno compiere
all'umanità; grandissima invece è l'importanza che riconosce al sentimento,
all'istinto, alla spontaneità. Eppure egli resta, a giudizio di parecchi studiosi, un
caratteristico uomo del Settecento, sostenitore di una filosofia sostanzialmente
razionalistica. È il problema che ci proponiamo di esaminare, sia pure molto
rapidamente, nel prossimo paragrafo esponendo le linee generali della concezione
filosofico-religiosa di Rousseau. Precisato questo aspetto del suo pensiero, sarà
più agevole comprendere il grande contributo da lui recato nell'ambito della
politica e dell'educazione.
II
· RAGIONE E SENTIMENTO. IL PROBLEMA RELIGIOSO
Abbiamo ricordato nel paragrafo precedente che Rousseau fu in stretto
contatto- fra il I742 e il 1756- con l'ambiente illuministico, in particolare con
Diderot e Condillac; è naturale quindi che si ritrovino in lui non pochi riflessi
della filosofia empiristica e sensistica di cui venne a conoscenza attraverso tali
autori. Risulta però con certezza che egli fu profondamente influenzato anche dal
pensiero di Male branche~ oltreché da quello dei giusnaturalisti del Seicento. Poiché
ciascuno di questi indirizzi lasciò un'impronta assai durevole nella sua formazione,
ne segue che la filosofia rousseauiana rivela spesso notevoli oscillazioni fino ad
apparirci su qualche punto pressoché contraddittoria.
Così ad esempio egli sostiene, nel Discours sur l'origine et /es fondements de l' inégalité e più tardi nel Contra! social, che lo sviluppo della ragione umana è essenzialmente legato alla socialità, onde sarebbe dovuto proprio ai contatti fra individuo e individuo se, « animale stupido e limitato », l'uomo divenne a poco a poco
un essere intelligente. Nell' Émile collega invece il formarsi della ragione allo sviluppo del singolo uomo che la contiene « in potenza » fin dall'infanzia ma potrà
attuarla solo gradualmente man mano che giunge a piena maturità. Sotto la manifesta influenza di Condillac il nostro autore afferma che si tratta di un trapasso
dal mero uso dei sensi alla ragione « sensitiva o puerile », e poi da quest'ultima
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Rousseau
alla vera e propria «ragione umana»; l'opera dell'educatore- come spiegheremo più diffusamente nell'ultimo paragrafo - dovrà adeguarsi a questa gradualità agevolando dapprima l'esercizio dei sensi e poi, via via, quello delle facoltà superiori, restando comunque inteso che « il capolavoro di una buona educazione è
di fare un uomo ragionevole ».
Rousseau è ben convinto che il nostro essere non si risolve in una mera serie
di atti conoscitivi, poiché i sentimenti costituiscono essi pure una parte fondamentale della nostra vita; è inoltre ben convinto che l'attività del conoscere non
si esaurisce per intero nella ragione, poiché questa costituisce soltanto la fase
finale del complesso processo conoscitivo. Non ha dubbi sul fatto che la ragione - una volta maturatasi nel nostro animo- ne diventerà la guida più autorevole, spettandole naturalmente il compito di giudice supremo di tutte le nostre
opinioni:« Non vi è nulla di più incontestabile che i principi della ragione. »
Malgrado le ripetute polemiche contro la metafisica cartesiana, egli delinea
una metodologia del conoscere ove è impossibile negare l'influenza dell'impianto
filosofico di Descartes. È vero che Rousseau si appella a un « lume interiore »
non identificabile con l'evidenza invocata dall'autore del Discorso sul metodo, ma
l'analogia fra le vie da essi seguite traspare comunque ben chiara. Ecco ad esempio
alcune significative parole che il ginevrino fa pronunciare al vicario savoiardo:
«Portando dunque in me per sola filosofia l'amore della verità e per solo metodo
una regola facile e semplice che mi dispensa dalla vana sottigliezza degli argomenti, io riprendo sulla base di questa regola l'esame delle conoscenze che mi
·interessano, deciso ad ammettere come evidenti tutte quelle alle quali, nella sincerità del mio cuore, non potrei rifiutare il mio assenso, come vere tutte quelle
che mi parranno avere un legame necessario con le prime, e di lasciare tutte le
altre nell'incertezza, senza rigettarle né ammetterle, e senza darmi la pena di chiarirle quando esse non conducano a nulla di utile per la pratica. »
Anche sul piano del comportamento pratico come sul piano teorico, l'uomo
attraversa, secondo Rousseau, tre fasi: durante la prima il criterio della condotta
è costituito dal piacere e dal dolore; durante la seconda diviene possibile organizzare l'azione in vista dell'utile; solamente dopo i quindici anni si formano la
coscienza morale e il sentimento religioso. La passione fondamentale dell'uomo
è «l'amore di sé». L'amore di sé è sempre buono ed è soddisfatto quando i
nostri veri bisogni sono soddisfatti. Le altre passioni, finché sono modificazioni
di quella fondamentale, possono a rigore essere definite esse pure « naturali »;
senonché nella maggior parte dei casi esse hanno cause esterne senza le quali non
sarebbero sorte: in tal caso esse vanno contro il loro principio. L'uomo è allora
fuori della natura. Lo stesso amore di sé degenera e diventa « amor proprio »
che ci fa anteporre noi stessi agli altri ed esigerebbe che anche gli altri ci preferissero a loro stessi. L'amor di sé diventa il fondamento della pietà in quanto permette al giovane di comprendere che vi sono esseri simili a lui che soffrono come
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Rousseau
lui. Solo a questo punto è possibile affrontare il problema religioso. Anticipare
l'annuncio della verità a quelli che non sono in grado di comprenderla sarebbe,
infatti, come sostituirvi l'errore. È meglio non avere alcuna idea che averne di
fantastiche e false. Ciò vale anche e in particolar modo per l'idea della divinità.
Come gran parte dei suoi contemporanei, anche Rousseau ritiene che il
problema religioso sia assolutamente centrale per la cultura. L'educatore avrà
perciò il dovere di delinearlo in tutta la sua complessità e gravità all'educando;
ma- come abbiamo detto- dovrà farlo solo quando questi abbia raggiunto un
adeguato livello nello sviluppo della propria vita teoretica e sentimentale. In tale
momento il giovane si troverà in grado, non solo di comprenderlo, ma di risolverlo lungo la grande linea tracciata dal deismo. La « via razionale » per giungere
all'esistenza di dio prenderà le mosse da un principio che sembra riecheggiare la
filosofia di Malebranche e che il nostro autore ritiene di dover accettare senza
discussione: « Le prime cause del movimento non risiedono nella materia;
questa riceve il movimento e lo trasmette, ma non lo produce. » Per spiegarlo
occorrerà dunque rimontare a una causa prima: la volontà divina che « muove
l'universo e anima la natura». E aggiunge: «Concepire la materia come produttrice del movimento, è manifestamente concepire un effetto senza causa, è non
conoscere assolutamente nulla. »
La religione « naturale » fondata unicamente sulla nozione di causa prima
(o, per essere più esatti, di volontà capace di muovere tutto l'universo) non può
certo presumere di farci conoscere l'esistenza di dio, e quindi di poter gareggiare
con le religioni positive nella precisazione degli attributi divini; proprio questo
suo limite ha però l'immenso vantaggio di preservarla dalle innumerevoli superstizioni che affliggono i vari culti religiosi. E proprio perciò essa si rivela in
grado di convincere ogni uomo dotato di ragione, assai più di quanto lo possano
persuadere i vari argomenti solitamente addotti dai teologi.
Le religioni positive, diverse da popolo a popolo, possono senza dubbio
compiere una funzione socialmente assai utile, in quanto capaci di rivolgersi anche
agli ignoranti e di aiutarli, con i loro precetti e le loro minacce, a seguire le vie
della morale, ma non possono reggere di fronte a un serio esame razionale. « Io
considero tutte le religioni particolari come istituzioni salutari, che prescrivono
in ciascun paese una maniera uniforme di onorare Dio con un culto pubblico, e
che possono - tutte - avere le loro ragioni nel clima, nel governo, nel genio
del popolo, o in qualche altra causa locale che rende l'una preferibile all'altra
secondo i tempi e i luoghi. » Ma guai se si pretende di giustificarle facendo riferimento a prove soprannaturali, a miracoli, a profezie. Fare appello a tali pretese
prove ci conduce a credere tutto questo « sulla base della testimonianza altrui,
e a sottomettere, all'autorità degli uomini, l'autorità di Dio che parla alla ragione ».
Il più grave pericolo insito in ogni religione particolare è la presunzione che
questa costituisca una verità indiscutibile mentre le altre non sarebbero che errori.
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Rousseau
Di qui l'intolleranza, il fanatismo, il dogmatismo. « Conoscete voi molti cristiani, i quali si siano presi la pena di esaminare con cura ciò che la religione
ebraica adduce contro di essi? » Una situazione analoga si ripete per tutte le religioni positive, ciascuna delle quali nasconde gelosamente ai fedeli gli argomenti
addotti dalle altre religioni e pretende che tutti i propri dogmi vengano accettati
senza discutere, malgrado le loro palesi assurdità. « Io sostengo,» scrive Rousseau nella Projession de foi du vicaire savoyard - che non esiste alcuna rivelazione
contro cui le medesime obiezioni (sollevate contro i dogmi cristiani) non abbiano
una forza pari, o anche maggiore, a quelle che hanno contro il cristianesimo.
D'onde segue che, se esiste una religione verace che tutti siano obbligati a seguire
sotto pena di venire dannati, bisognerà trascorrere la vita a studiarle tutte, ad
approfondirle, a confrontarle, a viaggiare nei paesi ove esse sono praticate. Nessuno è esente dal primo dovere dell'uomo, nessuno ha il diritto di fidarsi del
giudizio altrui... Se il figlio di un cristiano fa bene a seguire, senza un esame
profondo e imparziale la religione di suo padre, perché mai il figlio di un turco
farebbe male a seguire egualmente quella del proprio? ... Io non ho la presunzione
di credermi infallibile; altri uomini hanno potuto decidere ciò che mi sembra
indeciso; io ragiono per me e non per loro; non li biasimo né li imito; il loro
giudizio può essere migliore del mio, ma non è colpa mia se non è il mio. »
Senza insistere su altri punti particolari della religione professata dal vicario
savoiardo, risulta chiaro che essa si ispira a un razionalismo individualista, permeato di tolleranza verso tutte le fedi e ben deciso a negare che una qualunque di
esse possa venire privilegiata rispetto alle altre. Come scrive molto bene Robert
Derathé, trattasi di una posizione « altrettanto lontana dallo scetticismo quanto
dal dogmatismo »; posizione che alcuni hanno voluto considerare come puramente pragmatistica, ma che ricorda invece - secondo Derathé - quella assunta
da Malebranche nella Recherche de la verité: non certo nel rifiuto di privilegiare
la religione cristiana, ma nel riconoscimento che « i limiti della ragione umana
le impediscono di farsi un'idea chiara di Dio e di concepirne la natura ».
Questo riconoscimento dei limiti della ragione, unito all'altro - non meno
esplicito in Rousseau- che entro l'ambito dei problemi che riesce a trattare,
essa risulta assolutamente sovrana, ci permetterebbe pure di comprendere,
secondo Derathé, la dialettica rousseauiana ragione-sentimento. Se la ragione ha
dei limiti, se per esempio non si trova in grado di comprendere come possano
conciliarsi la giustizia e la bontà di dio, ciò che interviene a salvare l'uomo impedendogli di smarrirsi sarà proprio il sentimento interiore (non opposto alla
ragione- come intendeva Pascal- ma neanche riducibile ad essa). Non si trattava dunque, per Rousseau, di opporre il sentimento alla ragione né di preferirlo
ad essa. Ma gli pareva naturale di ricorrere al sentimento interno quando la
ragione resta in sospeso, in quanto «priva di motivi in base a cui optare per un
partito o per l'altro» (Derathé).
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Rousseau
In quale senso dovremo intendere questi limiti della ragione? Nell'unico
senso che la ragione abbia bisogno di venire integrata dal sentimento o nel senso
più ampio che, per essere limitata, essa risulti essenzialmente ingannatrice? Qui
si appunta il dibattito più acceso fra gli interpreti di Rousseau, tendendo gli uni
(come R. Derathé, E. Cassirer e altri) alla prima soluzione, e gli altri invece
(come ad esempio P. M. Masson) alla seconda. Pur senza voler entrare in una
controversia tanto complessa (che richiederebbe un esame dettagliato dei testi
qui non eseguibile per evidenti limiti di spazio), non possiamo comunque nascondere la serietà dei motivi che possono venire addotti a favore di un'interpretazione sostanzialmente razionalistica del pensiero di Rousseau. Se è vero che
égli non condivide il razionalismo degli illuministi vero è però che ciò dipende
soprattutto dal loro modo di intendere il razionalismo. « Ciò che Rousseau condanna è la filosofia dei lumi, e tutti coloro che, come gli enciclopedisti, non
vedono altra salvezza per l'uomo fuorché nel progresso delle conoscenze »
(Derathé).
III
·
LA VOLONTÀ GENERALE, BASE DELLA
SOCIETÀ CIVILE
L'ultima osservazione accennata nel paragrafo precedente ci porta al cuore
del pensiero rousseauiano. La preoccupazione centrale del nostro autore è la
« salvezza » dell'umanità, ove si intenda questa salvezza non già come un fine da
raggiungersi in un'altra vita, ma nella nostra, liberando la società umana dai profondi mali che l'affliggono. Egli percepisce questi mali con un acume e una
sensibilità eccezionali, e si rende perfettamente conto - in modo ben diverso da
parecchi suoi contemporanei - che essi affondano le loro radici nella struttura
stessa del mondo civile così come si è venuto costituendo attraverso i millenni
della nostra storia. Da questo punto di vista egli ci appare come un autentico rivoluzionario, perfettamente consapevole che la società in cui viveva non poteva
essere guarita con semplici riforme interne (e in particolare con il semplice progresso delle scienze e delle tecniche), ma esigeva una trasformazione radicale,
un rivolgimento completo, un totale mutamento delle sue istituzioni.
Come abbiamo accennato all'inizio del capitolo, questo è il senso autentico
delle risposte che Rousseau diede ai famosi quesiti posti dall'accademia di
Digione. È vero che egli sembra talvolta credere seriamente alla superiorità della
vita primitiva rispetto a quella realizzata dai popoli civili, ed è vero che il suo
vagare per le foreste di Montmorency sembra sinceramente dettato dal desiderio
di ristabilire nel proprio animo un contatto diretto colla natura (non ancora corrotta dalla civiltà), vero è però che egli si rende ben conto che la riforma della
società non può consistere nel riportare gli uomini allo stato primitivo. Essa
dovrà consistere invece nel « ridare misura umana a società e cultura », come
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Rousseau
spiega assai bene Aldo Visalberghi, facendo in modo che le istituzioni civili non
impediscano e distorcano lo sviluppo dell'uomo ma lo pongano in grado di realizzare la sua più profonda libertà.
Fin dai primi scritti Rousseau sembra consapevole che lo stato di natura è
sostanzialmente una finzione: esso « non esiste, forse non è esistito affatto, probabilmente non esisterà mai ». Il riferimento a tale stato è tuttavia importantissimo,
in primo luogo per farne un termine di confronto con l'innaturale stato in cui
viviamo, in secondo luogo per affermare con energia la nostra fede nell'uomo.
L'esaltazione della superiorità dello stato di natura rispetto al così detto stato
civile assume infatti, in Rousseau, il significato di rifiuto del dogma ebraicocristiano del peccato originale: ad esso viene contrapposto il mito della bontà
primitiva dell'uomo, che costituisce una sicura garanzia della possibilità di rinnovare a fondo lo stato attuale dell'umanità.
Nel Contra! social Rousseau riprende il problema già trattato nelle sue risposte
ai quesiti cui sopra accennammo e prospetta la formulazione positiva della tesi
antecedentemente svolta in forma critica. Non essendo possibile riportare l'uomo
allo stato di natura reintegrandolo nella sua umanità primitiva, occorre trasformare la società stessa in modo che essa non annulli ma potenzi la nostra libertà.
Con questa affermazione, Rousseau già rivela la distanza che lo separa, sia dalle tesi giusnaturalistiche che dalle teorie hobbesiane, e anche da quelle di Locke. Come
sappiamo, le preoccupazioni dei giusnaturalisti e quelle di Locke erano essenzialmente rivolte a fissare i limiti del potere statale allo scopo di salvare i diritti
dei singoli cittadini; al contrario, Hobbes mirava ad affermare perentoriamente e
drasticamente il diritto dell'autorità statale al potere assoluto sui sudditi. Di qui
un certo vizio originale delle diverse concezioni del contratto sociale: col pactum
unionis gli individui avrebbero decretato la fine dello stato di natura e la loro
unione, ma col pactum subiectionis tale unione si sarebbe spezzata nella distinzione
fra sudditi e sovrano. Per Rousseau invece il passaggio dallo stato di natura allo
stato civile assume un significato profondamente diverso in quanto, nella nuova
situazione, « l'uomo che prima aveva badato soltanto a se stesso si vede costretto
ad agire in base ad altri principi, e ad ascoltare la propria ragione prima di ascoltare le proprie tendenze».
Il nostro autore sa molto bene che il passaggio testé accennato non è un
fatto storico, nel senso comune di questo termine; il riferimento ad esso compie
tuttavia, nella sua trattazione, un ruolo essenziale perché è proprio l'analisi del
contratto sociale - in cui possiamo immaginare puntualizzato tale passaggio a permettergli di enucleare i caratteri che debbono stare alla base della vita civile.
Il contratto sociale, asserisce Rousseau contro Hobbes, è nullo e assurdo se
collega le volontà individuali solo esteriormente, ricorrendo alla costrizione
fisica, anziché all'intima unione di esse. Un tale vincolo non avrebbe alcuna legittimità perché sarebbe privo di ogni valore morale; questo spetta solo a un patto
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Rousseau
al quale l'individuo non sia costretto, ma vi si sottometta spontaneamente. Con
la costrizione non si ha un'effettiva inclinazione della volontà individuale, ma
soltanto una coercizione di essa, onde la volontà conserva, in fondo, tutta la sua
primitiva indipendenza. L'unione vera dei singoli può fondarsi soltanto sul libero
consenso e sul reciproco rispetto della libertà individuale.
Da un lato, la rinuncia che mediante tale unione gli individui fanno delle
loro prerogative non costituisce una alienazione della propria libertà, perché essi
decidono solo di sostituire ai dettami della volontà individuale i decreti della volonté générale, come la chiama Rousseau; dall'altro lato, la libertà che gli individui
conservano non significa negazione di ogni freno, di ogni vincolo, ma sottomissione alla legge, severa e sacra, che ogni individuo, mediante la volonté générale,
impone a se stesso. Va sottolineato che tale volontà generale non va confusa con
la volontà di tutti: quest'ultima infatti ha in sé qualcosa di contingente, potendo
costituire il momentaneo punto di convergenza di interessi particolari ed egoistici; quella invece è la volontà del generale, dell'universale, e pertanto è necessariamente buona.
Secondo Rousseau l'autentica personalità umana si afferma proprio con l'accennata sottomissione alla volontà generale. Sorge così un nuovo concetto positivo di libertà, la quale non consiste più nel libero svolgersi degli impulsi individuali, ma nel dominio di esso in nome di quella più vera e profonda libertà
che si afferma solo con il potere della ragione. « Soltanto la libertà morale rende
l'uomo veramente padrone di sé: infatti l'impulso del solo appetito è una schiavitù, mentre l'obbedienza alla legge che ci è prescritta [dalla volontà generale] è
libertà. » Il vero significato della filosofia di Rousseau non va dunque cercato in
un anarchico tendere all'emancipazione dell'individuo (cioè nell'esaltazione della
libertà naturale) ma nella costruzione di un nuovo concetto di libertà, che trova
la propria struttura nell'autonomo controllo della ragione sulla persona, preannunziando e anticipando la Critica della ragion pratica di Emanuele Kant.
Con il passaggio dallo stato di natura allo stato sociale gli individui, che
prima erano soltanto un agglomeramento di istinti e di impulsi, diventano- come
abbiamo testé spiegato - esseri razionali, morali. Il contratto, che puntualizza
tale passaggio, segna pertanto l'inizio della vera e propria storia, intesa come storia
di autentici uomini; è l'atto di fondazione della società civile.
I vari regimi politici si organizzano proprio a partire da questo atto; essi
saranno legittimi solo se rispetteranno la volontà generale che ha dato luogo al
contratto sociale. Rousseau ammette che ogni forma di governo possa essere sostanzialmente buona; pur riconoscendo che la più perfetta è la democrazia, non
esclude per principio che le diverse circostanze di tempo e di luogo giustifichino
anche altre forme. Ciò che conta è che esse rispettino la volontà generale non tentando di soffocarla. In qualunque tipo di governo, la vera sovranità si regge soltanto sulla volontà generale, e quindi può appartenere esclusivamente al popolo.
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Rousseau
«La sovranità, non essendo altro che l'esercizio della volontà generale, non
può mai essere alienata. » Il popolo potrà trasmettere il potere, ma non cedere
la sovranità. Questa è unica, inalienabile e indivisibile. Il vero sovrano, cioè il
popolo, potrà affidare il governo alla totalità dei cittadini e si avrà così la democrazia; o a un piccolo numero di essi, il che darà luogo all'aristocrazia; o perfino
a un magistrato unico (« questa forma di governo è la più comune e si chiama
monarchia o governo regio»). In ogni caso però si tratta sempre di una delega
temporanea. Nessun governo può in base alla delega ricevuta annullare o sopprimere la sovranità del popolo, a pena di perdere ogni suo fondamento e ogni
sua giustificazione. Non solo: se ciò avvenisse, il popolo potrebbe legittimamente
costringere i responsabili di tale cattivo uso del potere a restituirlo al suo vero
e unico depositario: il popolo.
Le conseguenze pratiche ricavabili dalla concezione filosofica testé accennata
erano gravide di significato rivoluzionario: governo, parlamento, magistratura
restavano per Rousseau non altro che forme diverse di servizio sociale sotto
l'unica indivisibile sovranità del popolo. Egli abbandonava in tal modo le forme
del liberalismo classico per affermare l'assoluta sovranità dello stato, inteso non
quale volontà di un despota o di un gruppo, bensì quale volontà collettiva e
universale. Era il modello di una democrazia politica, non formale ma sostanziale, cui si ispireranno i protagonisti più accesi della rivoluzione. Esso tornerà
nel XIX secolo a costituire l'oggetto di profonda riflessione da parte dei teorici
di altre ideologie rivoluzionarie.
IV · IL PENSIERO PEDAGOGICO: FONTI E METODO DELL'«ÉMILE»
Un'indagine che mirasse a ricostruire la genesi della pedagogia di Rousseau
dovrebbe tener conto di due ordini di fattori: le fonti culturali e le esperienze
personali (in particolare l'educazione da lui ricevuta, e la sua esperienza quale pedegogo). Sarebbe poi necessario un minuzioso riesame di tutti i suoi scritti, note e
corrispondenza inclusi, allo scopo di rintracciare via via i segni del sorgere e dello
svolgersi dell'interesse e della consapevolezza critica del nostro autore in ordine
al problema dell'educazione. È superfluo dire che un'impresa del genere esula
completamente dal compito che questo capitolo si propone. Ci limiteremo dunque
a pochi richiami, miranti a fornire al lettore più che altro qualche indicazione
circa la delicatezza e la complessità della questione.
Per quanto riguarda le fonti culturali, Rousseau sembra ignorare gran parte
della letteratura specificamente pedagogica (è vero però che egli, il più delle
volte, non si preoccupa di citare le sue fonti). Egli non cita né Vives, né Erasmo,
né Rabelais, né, in generale, i pedagogisti dell'umanesimo e del rinascimento.
Analogamente si comporta per quanto si riferisce ai grandi esponenti del movimento culturale e pedagogico della riforma e della controriforma: neppure il
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Rousseau
grande Comenio ha l'onore di una citazione. Silenzio assoluto anche a proposito
dei gesuiti i quali, pure, stanno dominando la scena pedagogica europea da un
secolo e mezzo (la loro espulsione dalla Francia avviene nel I 762, l'anno stesso
della pubblicazione dell' Émile). Gli autori di Rousseau sono: Montaigne, Locke
(col quale peraltro polemizza aspramente su questioni fondamentali) e Fénelon.
Un secondo gruppo di ispiratori è costituito dai philosophes dell' Enryclopédie, sopra tutti Diderot e Condillac. Un terzo (ma forse è il più importante) è formato
dagli autori antichi e in particolare da Plutarco e da Platone, la cui Repubblica
è definita « il più bel trattato di educazione che sia mai stato fatto ».
Per quanto riguarda l'educazione ricevuta da Jean-Jacques, vogliamo solo
ricordare che essa si presta a due interpretazioni contrastanti. I vecchi studiosi
di impostazione moralistica tendevano a scorgervi « vicissitudini tali da scoraggiare anche l'ottimismo pedagogico più tenace», tanto che la pubblicazione dell' Émile poteva essere considerata « lo scandalo di una personalità moralmente
corrotta che si erige a guida degli educatori» (Roggerone). Oggi si tende a sottolineare l'analogia fra l'educazione di Émile e quella ricevuta da Rousseau, appoggiandosi, del resto, alle parole da lui stesso scritte nelle Confessions: «Se mai
un fanciullo ebbe un'educazione ragionevole e sana, questo fui io. »
Quanto infine alle esperienze di Rousseau quale pedagogo, basterà far presente che esse non furono né numerose, né di lunga durata, né particolarmente
importanti. Alcuni riferimenti, qua e là rintracciabili negli scritti rousseauiani,
permettono tuttavia di affermare che egli affrontò l'impresa con serietà di impegno e che la riflessione sulle concrete esperienze dell'insegnamento diede l'avvio
ad una serie di ripensamenti critici i quali costituiscono indubbiamente altrettante
tappe verso l'elaborazione dell'opera pedagogica fondamentale.
Prima di addentrarci nella esposizione dei motivi essenziali della pedagogia
di Rousseau riteniamo opportuno fare alcune considerazioni relative alla questione del« metodo» seguito dal nostro autore nella elaborazione dell' Émile. Non
si tratta di un problema marginale, sia pure elegante, ma di una questione che
investe il significato stesso dell'opera.
Alla vecchia critica secondo cui il libro peccherebbe di astrattezza, gli interpreti più moderni rispondono osservando che esso vuol darci la descrizione non
di un esperimento concreto ma di un esperimento ideale. Si tratterebbe di un
metodo di « analisi ideologica » consistente nel verificare talune ipotesi mediante
il semplice ragionamento, metodo già usato da Condillac nel famoso esempio
della statua e, prima ancora, da Buffon. È lo stesso Rousseau ad enunciare chiaramente questo metodo, allorché, nel primo libro dell' Émile, afferma di volere
scegliere «un allievo immaginario» e di voler supporre per se stesso «l'età, la
salute, le conoscenze e tutte le attitudini adatte » a portare a termine nel miglior
modo la difficile impresa.
Su questo punto l'accordo fra gli studiosi è ormai pressoché totale. Secondo
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Rousseau
Vial è la stessa funzione normativa attribuita da Rousseau ai suoi scritti che determina il metodo dell'indagine: dovendo non tanto descrivere ciò che è quanto
definire ciò che deve essere, non è possibile muovere dai fatti ma si impone una
indagine razionale a priori. Per Lecercle l' Émile è « una pittura dell'uomo ideale », di un uomo di cui attualmente non esiste alcun modello nella vita, creato secondo pure esigenze morali e sociali. Wallon, dal canto suo, osserva che i rapporti tra Emilio e l'educatore «sarebbero stravaganti e mostruosi se fosse necessario supporli trasportabili sic et simpliciter nella realtà ». Le pratiche e gli accorgimenti descritti nel libro sono artifici escogitati « per enunciare tutte le condizioni
richieste per una felice preparazione dell'uomo alla vita ... Maestro e alunno restano cioè esseri puramente immaginari, che l'autore modella in modo valido per
la sua dimostrazione».
Una volta superata la critica di astrattismo utopistico ed accettata la tesi dell' Émile quale « modello ideale » o « mentale », è facile il passaggio all'affermazione (che costituisce una delle massime lodi fatte al nostro autore) secondo la
quale Rousseau, per primo, avrebbe impostato il problema dell'educazione sul
piano dell'universalità, cioè come problema dell'educazione dell'uomo in quanto
tale, laddove i pedagogisti precedenti si erano limitati a progettare il piano per
la formazione del militare o del religioso, dell'umanista o del cortigiano o del
gentleman e via dicendo.
Senonché, in seguito ad un'ulteriore e più attenta analisi dell'intera problematica, oggi anche la portata universale dell'impegno pedagogico rousseauiano
è stata sottoposta ad un severo controllo critico e ricondotta entro i confini di
una precisa situazione esistenziale e storica. Si trovano dei limiti sia in taluni motivi che derivano dall'atmosfera (e mediatamente dalla realtà sociale) del tempo,
sia nelle stesse finalità che il pedagogista si propone.
Per quanto riguarda il primo punto l'accusa è quella di non riuscire a superare il pensiero borghese del tempo e, quel ch'è più grave, di non essere, a proposito di alcuni problemi fondamentali, neppure all'avanguardia di tale pensiero.
Ciò varrebbe, per esempio, per l'ostilità nei riguardi del materialismo, considerato dal ginevrino una dottrina da salotto, utile esclusivamente a gente del gran
mondo e per la conseguente difesa della religione e per l'educazione della donna,
intesa conformisticamente come educazione all'inferiorità e all'esclusivo compito
matrimoniale (Lecercle). Per quanto si riferisce al secondo punto, la limitazione
sarebbe costituita da una parte dal proposito di lottare anche sul piano dell'educazione contro la società francese del tempo e dall'altra dalla convinzione che i
poveri e i plebei non abbiano bisogno di educazione, dal momento che a formarli ci pensano le difficoltà della vita, e dalla conseguente decisione di immaginare Emilio nobile e ricco. Ne deriverebbero conseguenze estremamente interessanti. Prima di tutto il programma di Rousseau, lungi dall'essere il programma
educativo considerato sul piano puramente pedagogico e quindi sub specie aeter-
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Rousseau
nitatis, sarebbe un programma subordinato a limitazioni di natura contingente,
secondariamente il piano per l'educazione di Emilio verrebbe a perdere buona
parte del suo famoso carattere o utopistico o di « modello ideale », dal momento
che« il ricco può ben concedersi il lusso di un'educazione in campagna, con un
precettore dedito interamente a lui, lontano dalla corruzione sociale che è prevalente in città» (Roggerone).
V
· I PRINCIPALI MOTIVI DELLA PEDAGOGIA ROUSSEAUIANA:
EDUCAZIONE NATURALE ED EDUCAZIONE NEGATIVA
Come già abbiamo detto più volte nelle pagine precedenti, l'uomo è secondo
Rousseau naturalmente buono, ma risulta corrotto dalle istituzioni sociali. Ne
deriva che, attualmente, bisogna scegliere: o educare l'uomo o educare il cittadino. Ritornare alla natura non può significare, d'altra parte, sottrarsi definitivamente alla società, giacché Emilio « membro della società, deve compierne i doveri » e nemmeno può significare entrare nella società senza educazione alcuna,
giacché questo significherebbe lasciarsi sommergere e soffocare dai pregiudizi,
dai cattivi esempi, dalla violenza e dalla ipocrisia, da tutto quanto di peggiore
la società stessa ha prodotto. L'educazione è indispensabile precisamente allo
scopo di salvare, nella società e per la società, quanto di buono v'è nella natura
umana. Solo promovendo la formazione di uomini nei quali la natura si realizzi
liberamente, senza corrompersi, possiamo sperare di dare origine ad una società
migliore. Così Rousseau, mentre da un lato considera, con Platone, che l'individuo sia il risultato della struttura della società, si rivela, dall'altro - con Socrate, con la tradizione cristiana e con Comenio - fiducioso nella possibilità di
riformare la società agendo sull'individuo.
Educazione naturale, dunque, in quanto salvaguarda la natura dalla contaminazione dell'ambiente. Ma educazione naturale anche in quanto la necessità di
sottrarre il bambino all'azione depravatrice della società (identificata con la città)
: suggerisce di sistemare il fanciullo in campagna (vista come l'ambiente naturale
dell'uomo). « Gli uomini non sono fatti per ammucchiarsi come formiche ...
L'alito dell'uomo è mortale per il suo simile, tanto in senso proprio quanto in
senso figurato. » Educazione naturale, infine, perché presuppone da parte dell'educatore una profonda conoscenza della psicologia dell'età evolutiva in generale e della psiche di Emilio in particolare.
Questa terza accezione del naturalismo porta Rousseau a sostenere, contro
la pedagogia tradizionale e anticipando un motivo particolarmente caro alla pedagogia e alla psicologia dei nostri giorni, la tesi (per verità già presente in Comenio, Fénelon e Vico) secondo la quale fra l'adolescente e l'adulto non c'è tanto
differenza in grado, per cui il fanciullo possa essere considerato un uomo imperfetto, quanto differenza qualitativa. « La natura vuole che i fanciulli siano fan-
p o
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Rousseau
ciulli prima di essere uomini. L'infanzia ha certi modi di vedere, di pensare, di
sentire del tutto speciali; niente è più sciocco che volere sostituire ad essi i nostri. » « Ogni età, ogni stato di vita ha la sua perfezione conveniente, la specie
di maturità sua propria. Abbiamo sentito spesso parlare d'un uomo fatto: consideriamo ora un bambino fatto. »
Conseguentemente non vi può essere un unico tipo di azione educativa, valido per tutte le età. La scuola tradizionale si preoccupava esclusivamente di fissare « ciò che importa agli uomini sapere »; è invece necessario determinare « ciò
che i fanciulli sono in grado di imparare », in conformità col tipo di attività conoscitiva in essi prevalente e, conseguentemente, coi loro interessi.
Dal principio che bisogna determinare ciò che i fanciulli sono in grado di
imparare e ciò di cui si interessano, deriva l'affermazione che l'attività educativa
presuppone una robusta preparazione psicologica. n fatto, poi, che la suddivisione rousseauiana delle varie fasi dell'età evolutiva, la loro caratterizzazione e il
ritmo del loro trascorrere l'una nell'altra possano apparire, oggi, schematici, artificiosi e in qualche caso errati, ha una modesta importanza: Rousseau, ovviamente, non possiede la somma di dati che solo una secolare sperimentazione fornisce ai pedagogisti dei nostri giorni; egli basa ancora le sue affermazioni sull'intuizione e sull'osservazione personale. 1
Una volta chiarito che il fanciullo non è, in quanto tale, un essere imperfetto, che la sua attività spirituale e fisica ha una sua organicità, che la sua attività è adatta alle circostanze di vita che all'infanzia sono peculiari; una volta ammesso che il fanciullo si sviluppa naturalmente passando attraverso alcuni stadi
che si succedono in ordine costante, ci apparirà assai meno paradossale l'affermazione secondo la quale « coi bambini bisogna cercare non di guadagnare tempo,
ma di perderne », in quanto «ogni dilazione è un vantaggio». Accelerare il
I Ciò non toglie che alcuni psicopedagogisti dei nostri giorni (Claparède, Wallon) riconsiderando l' Émi/e alla luce delle conclusioni della
scienza più avanzata, siano giunti a riconoscere
la validità di parecchie tesi rousseauiane.
Claparède, per esempio, trova nella pedagogia del ginevrino alcune fondamentali leggi
della pedagogia funzionale:
I) La legge di successione genetica, per la
quale il fanciullo si sviluppa naturalmente, passando per un certo numero di tappe che si succedono in un ordine costante, col corollario che
queste tappe sono le stesse percorse dal cammino
dell'umanità.
2) La legge dell'esercizio genetico-funzionale, per
la quale l'esercizio di una funzione è condizione
dello sviluppo e dello sbocciare di funzioni superiori.
3) La legge dell'adattamento funzionale, per la
quale l'azionesi apre la strada allorché essa è adatta
a soddisfare il bisogno o l'interesse del momento.
4) La legge dell'autonomia funzionale, per la
quale il fanciullo non è in se stesso un essere imperfetto, ma un essere adatto alle circostanze che
gli sono proprie, con una vita mentale costituita
in unità e un'attività mentale appropriata ai suoi
bisogni.
Wallon, dal canto suo, ritiene che Rousseau abbia colto i caratteri di quel tipo di pensiero
che oggi si chiama sincretico, abbia realizzato
un'equilibrata convergenza di funzionalismo e
finalis.mo, abbia esattamente attribuito un carattere utilitaristico all'interesse del fanciullo per le
cose, abbia acutamente visto la necessità di adeguare il metodo al progressivo cambiare dei valori,
pur identificando, nel mutare dei metodi, almeno
un punto fisso: quello per cui il presente non
deve essere sacrificato al futuro, contrapponendo
la pedagogia della felicità alla tetra pedagogia
dello sforzo per lo sforzo.
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Rousseau
ritmo del processo educativo vuol dire, infatti, proporre all'educando cose, fatti,
idee, esperienze per le quali egli non è ancora maturo, col risultato di accumulare
nella sua mente nozioni non intese o, quel ch'è peggio, intese erroneamente e col
far assumere al fanciullo atteggiamenti esteriori non corrispondenti all'autentico
momento evolutivo della sua struttura psicofisica.
La condizione perché il fanciullo si impegni attivamente nella conquista di
nuove cognizioni e nell'acquisizione di nuove tecniche è l'interesse; ma l'interesse non può sorgere che in dipendenza di un bisogno ed in presenza di un oggetto atto ad appagare il bisogno. Solo seguendo il progressivo svolgersi e mutare dei bisogni vitali dell'educando noi provocheremo l'attivazione delle sue facoltà. Queste, dal canto loro, si sviluppano mediante il loro funzionamento e in
guisa tale che il pieno sviluppo di alcune è condizione per il manifestarsi delle
ulteriori.
Ne derivano due norme di fondamentale importanza:
r) sul piano dell'attività conoscitiva, la capacità di ragionare, il gusto estetico, l'interesse per i problemi etico-politici e religiosi non possono manifestarsi,
se prima non siano giunte a perfetta maturazione le facoltà sensitiva e rappresentativa;
.z) sul piano dell'attività pratica, la capacità di agire secondo il dettato della
coscienza morale non è concepibile se non come conclusione di un processo di
sviluppo della primitiva ricerca del piacere, attraverso la successiva fase della
ricerca dell'utile.
Educazione naturale, dunque, non vuol dire restituzione dell'uomo alla condizione di bruto, farlo camminare a quattro zampe, come scriveva, motteggiando,
Voltaire; essa vuole eliminare quanto, nella cultura moderna, è ingombro che
soffoca lo spirito e comprime la personalità.
Rousseau ha un altissimo concetto della dignità umana: « Se dovessi scegliermi io stesso il mio posto nell'ordine degli esseri, che cosa potrei scegliere
di più che d'essere uomo? » Ma vero uomo è colui che non si lascia avvolgere
dal turbine sociale e trascinare dalle passioni e dalle opinioni altrui, colui che vede
coi suoi occhi e sente col suo cuore e non si lascia governare da nessun'altra
autorità.
Non si tratta - come già chiarimmo nel paragrafo III - di proscrivere la
cultura in quanto tale ma di riconoscere che la così detta cultura è, oggi, in
larga misura corrotta e superficiale, pronta a sacrificare alla moda e al successo
la vera grandezza. L'ingegno autentico è operoso, creativo e modesto e solo
questo tipo di ingegno vale la pena di curare e di accrescere. Ne consegue la critica ad ogni insegnamento che non promuova o, peggio, che indebolisca la capacità di ragionare. Quel che conta non è di possedere un ricco bagaglio di nozioni ma di formarsi lo strumento capace di acquistarle. L'intelligenza umana è
limitata e il numero delle verità inesauribile. Bisogna dunque operare una scelta.
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Rousseau
Escluse le cognizioni inutili e quelle che servono solo a nutrire l'orgoglio di chi
le possiede, si devono escludere anche quelle la cui comprensione implica un
grado di sviluppo superiore a quello attualmente raggiunto dall'educando. Ciò
che rimane è, comunque, una sfera immensa. Il principio fondamentale del metodo sarà questo: Emilio non deve tanto imparare quanto inventare. Ogni nuova
cognizione deve essere il risultato di una conquista e l'impegno che la conquista
implica non può essere promosso che dalla curiosità, dall'interesse. Cosmografia,
industria e arti meccaniche, tutto deve essere studiato praticamente, attivamente.
Emilio si costruisce mappe e plastici; impara ad orientarsi guardando il sole e
gli alberi. L'essenziale non consiste nel numero delle nozioni acquisite ma nella
nascita del gusto, dell'amore per le scienze e nello svilupparsi del metodo per
impararle.
Rousseau respinge la massima di Locke secondo la quale si può ed anzi si
deve ragionare coi bambini: in realtà, per chi conosca l'autentica posizione del
filosofo inglese, la polemica appare un luogo comune, fondato sulla deformazione
del suo pensiero. Del resto lo stesso Rousseau è costretto a concedere che i fanciulli sanno ragionare molto bene su tutto ciò che conoscono e che si riferisce
ai loro interessi presenti, e Locke non voleva dire altra cosa che questa. Quello
che veramente è assurdo (per Rousseau ma anche per Locke) è il pretendere di
far ragionare l'alunno su luoghi e cose lontani nello spazio e nel tempo e, soprattutto, lontani dalla sua attuale forma mentis e dai suoi interessi.
Per quanto riguarda l'educazione del fanciullo al comportamento pratico,
Rousseau afferma che ognuno di noi è educato da tre specie di maestri: la sua
personale natura, gli altri uomini e le cose. Dal momento che la natura (cioè le
facoltà e le attitudini individuali) non può svilupparsi che in rapporto di azione
reciproca col mondo circostante, Rousseau ritiene indispensabile attribuire primaria importanza alle « cose >> rispetto agli uomini. A contatto con le cose Emilio
imparerà che di fronte alla necessità bisogna piegare il collo senza sentirsi per
questo vittime dell'ingiustizia o preda del disordine. Rousseau vuole che anche
le poche persone le quali dovranno per necessità avere rapporti con Emilio bambino si comportino con lui come « cose ». La dipendenza del bambino dagli
adulti deve essere generata e limitata esclusivamente dal bisogno: forza, necessità, potenza, impotenza, soggezione sono parole che debbono occupare al più
presto un posto importante nel vocabolario di Emilio, al quale debbono invece
rimanere sconosciute le parole « obbedienza » e « comando ». La legge degli
uomini deve essere inflessibile e impassibile come le leggi di natura. Una legge
di questo tipo non nuoce alla libertà e non genera vizi. Purtroppo la volontà degli uomini è quasi sempre disordinata, particolare, incostante, incapace di porsi
come fine il bene comune e di assumere, conseguentemente, un valore oggettivo.
In quanto tale, essa fonda la dipendenza ingiusta, fonte di ogni corruzione.
Solo qualora sia stato esattamente compreso quanto siamo venuti fin qui
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Rousseau
dicendo, sarà possibile afferrare il significato autentico del secondo fondamentale
principio della pedagogia rousseauiana: vale a dire il concetto di educazione negativa. Se l'educando deve passare naturalmente attraverso i successivi stadi del
suo sviluppo e se ogni individuo differisce dagli altri, è necessario, come suggeriva Montaigne, !asciarlo trotterellare liberamente davanti a noi per evitare di
imporgli un passo troppo lento o troppo spedito. Quindi niente programmi rigidi, orari precostituiti, mete fisse da raggiungere entro limiti di tempo predeterminati.
A questo punto, però, il concetto di negatività rivela alcuni aspetti intimamente contraddittori: lungi dal limitarsi ad osservare Emilio che cresce a contatto con le cose; lungi dal contenere il suo intervento entro i limiti di una oculata vigilanza, Rousseau trasforma incessantemente l'ambiente, organizza situazioni, crea occasioni, di modo che, al momento da lui ritenuto opportuno, il fanciullo sia costretto a incontrarsi con certe « cose », a fare certe esperienze, a porsi
certi problemi. Né si tratta di abuso involontario, del quale l'autore sia inconsapevole, tutt'altro. In un passo celeberrimo Rousseau esclama: «Emilio deve credere di essere sempre lui il padrone ma in realtà il padrone dovete essere voi.
Non vi è sottomissione più completa di quella che conserva l'apparenza della libertà; così la volontà stessa risulta imprigionata ... Indubbiamente egli non deve
fare se non ciò che vuole, ma non deve volere se non ciò che voi volete che
faccia; non deve fare un passo che voi non abbiate previsto; non deve aprir
bocca senza che voi sappiate cosa dirà. »
L'educazione negativa si è ormai trasformata in intervento dissimulato e la
libertà dell'educando si risolve nell'assenza della consapevolezza di essere sotto il
giogo dell'educatore, cioè nella peggiore forma di schiavitù, se è vero che la prigionia della volontà è mille volte peggiore della prigionia dell'azione. L'illusione
che l'uomo sia libero in quanto, come i bruti, non è conscio della causalità dei
suoi stati mentali e affettivi è proprio quella che lo mantiene non libero. I limiti
della concezione rousseauiana rivelano qui tutta la loro gravità. Nello stato di
natura, essere liberi significa agire secondo l'impulso dell'istinto; perché anche
nello stato civile l'uomo si senta parimenti libero occorrerà - secondo Rousseau - rendere i comportamenti di tipo sociale formalmente identici a quelli
istintivi. In altri termini: gli uomini devono credersi, devono sentirsi, liberi da
ogni violenza, da ogni sottomissione, da ogni specie di costrizione, anche se oggettivamente violenza sottomissione e costrizione risulteranno indispensabili per
realizzare il bene comune. Di qui il netto prevalere del metodo «indiretto»
nell'educazione.
Ma c'è un altro motivo essenziale generalmente meno avvertito, per mettere
in evidenza la chiusura del pensiero rousseauiano entro i limiti di una situazione
storica determinata: alludiamo alla polemica contro la funzione disintegratrice
della personalità umana svolta da una società basata sulla divisione del lavoro.
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Rousseau
Nello stato di natura l'individuo basta a se stesso: è agricoltore, cacciatore, pescatore, pastore, conosce tutte le arti che gli occorrono e che insegna ai suoi piccoli. Vive, insomma, una vita piena senza dipendere da alcuno e in ciò consiste
la sua libertà. Gli uomini sono liberi in quanto eguali ed eguali in quanto autosufficienti. La divisione del lavoro e la specializzazione, creando una fitta rete di
reciproche dipendenze, distrugge l'eguaglianza e la libertà. L'uomo cessa di essere un organismo e si riduce a parte di un organismo via via più vasto, complesso
e poderoso. Rendere « uno » l'uomo è la grande meta che Rousseau propone all'educazione, senza però additare una via d'uscita che non sia quella di un velleitario agognare alla restaurazione di un artigianato di tipo paesano-medievale.
Alcuni storici hanno osservato che a Rousseau sono in generale favorevoli
quelle correnti di pensiero le quali, partendo dal presupposto della bontà originaria dell'uomo, ritengono possibile una pedagogia della libertà, mentre sono
sfavorevoli quelle che ritengono l'uomo naturalmente malvagio o comunque
corrotto. Mentre crediamo di poter accettare il principio generale per cui dal postulato della bontà naturale è giustificata una pedagogia della libertà e dal postulato della malvagità una pedagogia dell'autorità, ci sembra di poter affermare:
1) che Rousseau se ammette, in linea di principio, la naturale bontà dell'uomo, afferma però in linea di fatto la sua attuale corruzione;
z) che egli, conseguentemente, instaura una pedagogia dell'autorità anche se,
mediante la tecnica dell'intervento dissimulato, mira ad ottenere l'adesione dell'educando in forma irriflessa ed inconsapevole.
Rousseau, inoltre, non esclude l'azione della società nel campo educativo:
non solo per quanto riguarda il futuro, nel quale, essendo la società retta dalla
volontà generale, l'educazione non avrà più bisogno di rifugiarsi nella solitudine
dei campi, ma anche per quanto riguarda il presente. È chiaro infatti che il nostro
autore riassume in sé e nella piccola schiera dei suoi obbedientissimi collaboratori, l'intera futura perfetta società. E questo lo pone sul piano di tutti gli assertori dell'educazione collegiale a partire dai gesuiti.l Così, quella che per tanto
I È vero che la contrapposizione del ginevrino alla compagnia di Gesù ha costituito un
punto fisso, un passaggio obbligato per la critica,
fino a poco tempo fa e in parte lo costituisce ancora. Oggi però un notevole gruppo di studiosi
è giunto, sulla base di indagini assai rigorose, a una
profonda, radicale revisione di questo tradizionale « passaggio obbligato ». Il lettore che abbia
seguito attentamente l'argomentazione da noi
svolta nel corso di questo paragrafo non potrà
che riconoscere francamente la logicità della revisione alla quale alludiamo. « Quando si pone il
problema sul piano spirituale, » osserva il cattolico Ravier, «una prima verità si impone. Si
tratta del fatto che nel libro c'è un orientamento
segreto; si può anzi dire che questo orientamento
si presenta con una forza, un vigore, che si trova
raramente in altre concezioni pedagogiche. Bisogna ricorrere alla Ratio studiorum dei gesuiti,
sul piano intellettuale, o, sul piano del carattere,
ai pedagogisti degli stati dittatoriali, per trovare
l'equivalente di questa forza di convergenza verso
un fine ... » Chàteau, dal canto suo, dice che
per quanto si riferisce alla meticolosità con la
quale organizza un ambiente artificiale, essenzialmente educativo, Rousseau « è agli antipodi dell'educazione cosiddetta nuova e molto più vicino
ai gesuiti... Rousseau non si fida della perversa
società contemporanea, proprio come i gesuiti »
e perciò, contrariamente a quello che faranno i
pedagogisti progressisti del '900 i quali invocheranno una scuola aperta sulla vita, innalza una
barriera fra Emilio e la società, rinchiudendolo
in un vero e proprio collegio.
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Rousseau
tempo è stata lodata, o biasimata, come la pedagogia dell'assoluta e magari eccessiva libertà, si rivela, ad un esame più approfondito, la pedagogia tipica di una
società sostanzialmente autoritaria.
Prima di chiudere questo capitolo ci sembra opportuno aggiungere un brevissimo cenno sull'influenza esercitata dal pensiero pedagogico di Rousseau negli
ultimi decenni del xvm secolo e in particolare durante la rivoluzione. Ci limiteremo a riferire in proposito i discordi pareri di due valenti studiosi come Vial e
Lecercle.
Per Vial gli uomini della rivoluzione avrebbero imparato da Rousseau a
liberare la pedagogia dai chiostri e dai palazzi gentilizi per portarla nelle piazze.
Da Rousseau avrebbero tratto la convinzione che l'educazione sia la principale
collaboratrice dei grandi progetti rivoluzionari, lo strumento più efficace per instaurare il regno della ragione. Di più: tutti i progetti rivoluzionari relativi alla
creazione o alla riforma della scuola sarebbero stati solo delle applicazioni di
principi rousseauiani.
Lecercle, viceversa, afferma che «si potrebbe benissimo scrivere una storia
dell'insegnamento sotto la rivoluzione senza parlare dell' Émile » e che « Talleyrand, Condorcet, Lepelletier de Saint-Fargeau, Saint-Just, Romme, Lakanal, Daunou e tanti altri legislatori rivoluzionari devono molto poco a Rousseau ».
Al primo ci permettiamo di obiettare che la riduzione di progetti come quelli
di Talleyrand e di Condorcet alla temati ca dell' Émile è possibile, solo se si interpreta tale tematica in modo così generico da svuotarla del suo significato originale.
Al secondo obiettiamo che è possibile negare ogni influsso del pensiero pedagogico di Rousseau solo se si mettono fra parentesi i programmi e la politica scolastica dei giacobini di sinistra e in particolare di Robespierre.
In realtà la situazione storica fu così complessa da non permettere- a nostro parere - una risposta univoca. È ciò che si cercherà di spiegare con una
certa ampiezza nel capitolo XVI della presente sezione.
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CAPITOLO TREDICESIMO
Ulteriori sviluppi dell'illuminismo francese:
Ho/bach e Condorcet
DI GIANNI MICHELI
I · CONSIDERAZIONI GENERALI
L'enciclopedismo, come si è visto nei capitoli relativi, era la conseguenza
teorica più generale di un atteggiamento realistico accolto in modo organico dalla
cultura illuministica; esso scaturiva, ad un tempo, dall'istanza critica verso le
costruzioni sistematiche artificiose e dalla fiducia nella scoperta del vero sistema
naturale del sapere. Gli altri più consistenti risultati teorici a cui è pervenuta la
filosofia del xviii secolo, la concezione materialistica della natura e dell'uomo e la
nozione del progresso indefinito del sapere, nascono anch'essi dall'assunzione del
principio di una stretta e rigida identità fra natura e ragione. Ma se l'enciclopedismo, come si è visto, rappresentò più che altro una mera esigenza teorica che
non si venne configurando in una adeguata elaborazione dottrinale (le incertezze,
e, in definitiva, lo scacco dell' Encyclopédie in questo settore, sono significativi),
il materialismo e la dottrina del progresso ebbero invece una concretizzazione più
compiuta, articolata e precisa: si ebbero in questo campo importanti sintesi dottrinali improntate ad una fiduciosa sicurezza e che costituirono indubbiamente
un successo, almeno nella coscienza dei loro autori. Enciclopedismo, materialismo
e dottrina del progresso non sono condivisi da tutti i filosofi e da tutti gli uomini
di cultura del xviii secolo, ma certamente larghissimi strati della cultura illuministica, o per lo meno quelli più rappresentativi, sono dominati da questi elementi:
si può dire comunque che essi sono gli aspetti teorici più originali dell'illuminismo e quelli, soprattutto, che l'hanno caratterizzato storicamente. Appare opportuno, quindi, dopo aver analizzato dettagliatamente l'enciclopedismo, esaminare in un capitolo apposito i punti essenziali del materialismo e della dottrina
del progresso. L'esame di questi temi verterà principalmente su quegli autori,
Holbach e Condorcet, che li hanno espressi nella forma conclusiva e paradigmatica.
II· IL MATERIALISMO
Il materialismo settecentesco costituisce, ad un tempo, lo sbocco di tutta la
copiosa letteratura eterodossa, per lo più manoscritta e clandestina, che da tempo
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Ulteriori sviluppi dell'illuminismo francese: Holbach e Condorcet
circolava in Europa, e una conseguenza indiretta del rinnovato clima culturale
polemico verso la cultura del passato e desideroso di trovare, mediante l'esperienza, le vere strutture della natura e dell'uomo. Ed è pure lo strumento teorico
più radicale di cui si servivano le punte estreme dell'illuminismo per la loro
azione eversiva contro le istituzioni culturali, religiose e politiche del tempo.
Si tratta quindi di una dottrina che presenta difficoltà notevoli di interpretazione,
appunto per la diversità di componenti e di intenti che contiene. Non a caso gli
studi critici sulla questione sono insoddisfacenti: si riscontrano infatti esaltazioni,
confutazioni o superamenti, e solo raramente giudizi equilibrati e storici.
Il materialismo settecentesco si pone come l'erede naturale di quella letteratura libertina, deista, panteista e solo marginalmente materialistica, sviluppatasi
particolarmente nel corso del xvn secolo e nei primi decenni del xvm. Le fonti
cui si ispiravano questi autori eterodossi, ai margini della cultura ufficiale, erano
l'atomismo e l'epicureismo antichi, l'aristotelismo padovano, lo scetticismo rinascimentale; tali temi erano temperati e commisti, negli autori più tardi, con
alcuni elementi della nuova cultura secentesca (gassendismo, cartesianesimo, spinozismo). Pur nella varietà degli accenti e delle componenti teoriche, questi autori promulgavano una visione del mondo a sfondo naturalistico e una morale
più libera ed aperta. Era però comune a tutti una caratteristica peculiare: i loro
interessi, come le loro letture e le loro conoscenze, erano di tipo essenzialmente
letterario, e solo indirettamente legati ai vasti e complessi problemi scientifici
in discussione nel Seicento e nella prima metà del Settecento. L'ispirazione moralistica di tale letteratura eterodossa venne in gran parte accolta dagli esponenti
più maturi del materialismo settecentesco. Ciò permette di chiarire l'aporia
insolubile in cui si dibatte Holbach e il sostanziale fallimento del suo pur notevole sforzo di conciliare la letteratura non ufficiale tradizionale con l'esigenza,
tipica del suo tempo, di costruire una nuova filosofia naturale con gli strumenti
dottrinali empiristici. In effetti, furono ancora una volta le circostanze pratiche
immediate, la necessità di condurre a fondo la lotta contro il cattolicesimo e gli
istituti politici che lo sorreggevano, che risultarono predominanti e indussero
Holbach e i numerosi philosophes del suo gruppo a porsi nella linea della tradizione culturale antireligiosa e ad accoglierne sostanzialmente le motivazioni.
Come si vedrà, il piglio polemico ed eversivo, è addirittura ossessivo in Holbach: esso coesiste peraltro con la ferma e sincera volontà di porre le basi per la
edificazione del vero sistema della natura. Non diversamente però da quello di
d'Alembert, il tentativo di Holbach, ma per ragioni diverse, non ebbe successo,
per la povertà degli strumenti concettuali di cui si servì, conseguenza di una insufficiente conoscenza delle scienze naturali del suo tempo e, soprattutto, di una
inadeguata riflessione su di esse. Non è casuale il fatto che, mentre l'enciclopedismo di d' Alembert ebbe originali sviluppi nel positivismo, il materialismo
di Holbach fu solo il punto di arrivo e il culmine della corrente filosofica antire-
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ligiosa tradizionale: il materialismo ottocentesco si muove, infatti, in una direzione diversa, verso cioè una utilizzazione, diretta ed esclusiva, dei metodi scientifici e dei risultati conseguiti nelle singole scienze.
III· IL BARONE D'HOLBACH
Paul-Henri-Dietrich, barone d'Holbach, nacque ad Eidelsheim, una località
tedesca (del Palatinato), prossima alla Francia. Poco si sa della sua famiglia.
In virtù della munificenza dello zio, Franciscus Adam d'Holbach, che si era da
tempo trasferito a Parigi, dove aveva acquisito una notevole fortuna e il titolo
baronale, ricevette una buona educazione, e, in seguito, alla morte di lui, un
patrimonio ragguardevole e il titolo di barone. Il giovane Paul-Henri studiò
alla università di Lei da e visse per qualche tempo a Heesen; poi, sposatosi con la
figlia di una sua cugina, Basile-Geneviève d'Aine, si recò a Parigi, dove in breve
tempo entrò in relazione con gli ambienti culturali più vivi della città. Molto
importante fu la sua amicizia con Diderot che durò tutta la vita ed ebbe grande
rilievo nella sua opera (con Rousseau ruppe, invece, clamorosamente i suoi rapporti dopo pochi anni). Subito dopo aver conosciuto Diderot entrò nel vivo
dell'ambiente dell'Encyclopédie e collaborò attivamente, a partire dal secondo volume, pubblicato nel I 7 5z, alla redazione dell'opera, soprattutto per quanto riguarda la metallurgia e la mineralogia. La casa di Holbach divenne in breve il
centro del gruppo enciclopedista; i pranzi che settimanalmente offriva agli amici
erano altrettante occasioni per degli incontri e delle discussioni su temi letterari,
filosofici e politici condotte con spregiudicatezza e nella più ampia libertà. Furono ospiti di Holbach i maggiori uomini di cultura del tempo: Voltaire, d' Alembert, Grimm, Buffon, Saint-Lambert, Rousseau, Helvétius, l'abate Galiani,
Hume, ecc. Gli amici più intimi di Holbach, Diderot, Boulanger, Naigeon e altri
che condividevano le idee materialistiche e radicali del barone, costituivano il
centro del salotto e formavano la cosiddetta coterie. Nel 1754 gli morì la moglie
che svolgeva un ruolo non indifferente nei ricevimenti che offriva; poco dopo
si risposò con la sorella di Basile-Geneviève, Charlotte-Suzanne. La sua vita si
svolse tranquillamente quasi esclusivamente a Parigi e nella sua residenza di
campagna (Le Grandval) dove spesso era ospite Diderot (solo nel 1765 fece un
breve soggiorno in Inghilterra) e fu completamente assorbita dall'attività di
infaticabile animatore culturale e di cauto, ma ostinato, propagandista a favore
del materialismo. Morì nel 1789.
Holbach svolse un'intensa attività come divulgatore e editore di testi.
Essa comprende la traduzione di numerosi trattati di chimica e di tecnica tedeschi, pochissimo conosciuti in Francia, tra cui la Minéralogie ou description générale des substances du règne minéral (Mineralogia o descrizione generale delle sostanze del
regno minerale, 1753) di J.G. Wallerius; la Chimie métallurgique (La chimica meta/-
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lurgica, I758) di C.E. Gellert; i Traités de physique, d'histoire naturelle, de mtneralogie et de métallurgie (Trattati di fisica, di storia naturale, di mineralogia e di metallurgia, I759), di J.G. Lehmann; la P_yritologie, ou histoire naturelle de la pyrite
(La piritologia, o storia naturale della pirite, q6o), di J.F. Henckel; il Traité du
soufre (Trattato sullo zoljò, I766), di G.E. Stahl; gran parte del contenuto di questi
testi venne utilizzato dal barone per la redazione delle voci dell' Encyclopédie.
Comprende inoltre l'edizione di numerosi scritti di polemica antireligiosa che
circolavano da tempo e che egli fece stampare in Olanda e introdurre clandestinamente in Francia. Citiamo alcuni di questi testi: Recherches sur l'origine dudespotisme orientai (Ricerche sull'origine del dispotismo orientale, q6 I), e L'antiquité dévoilée par ses usages, ou examen critique des principales opinions, cérémonies et institutions
religieuses et politiques des dijférents peuples de la terre (L'antichità svelata dai suoi usi,
o esame critico delle principali opinioni, cerimonie e istituzioni religiose e politiche dei vari
popoli della terra, q66), di N.A. Boulanger; Lettre de Thrasybule à Leucippe(Lettera
di Trasibulo a Leucippo, I 76 5), e l' Examen critique des apologistes de la religion chrétienne (Esame critico degli apologeti della religione cristiana, I766), di N. Fréret; Les
prétres démasqués, ou des iniquités du clergé chrétien (l preti smascherati, ovvero delle
iniquità del clero c1'istiano, traduzione dall'inglese, I767), di « Layman »; L'esprit
du clergé, ou le christianisme primitif vengé des entreprises et des excés de nos prétres
modernes (Lo spi1'ito del clero, ovvero il cristianesimo pritnitivo contraddetto dalle imprese
e dagli eccessi dei nostri p1'eti moderni, traduzione dall'inglese, 1767), di ]. Trenchard; Le militai1'e philosophe ou diffìcultés sur la religion, proposées au R.P. Malebranche, prétre de I'Oratoire (Il militare filosofo, ovvero diffìcoltà intorno alla religione,
proposte al Rev. P. .Malebranche, prete dell'Oratorio, I 768); Let tres philosophiques
(Lettere filosofiche, traduzione dall'inglese, q68), di ]. Toland; De la nature des
choses (Sulla natura delle cose, testo e traduzione, I768), di Lucrezio; De la nature
humaine (Sulla natura umana, traduzione dall'inglese, I77z), di T. Hobbes. Numerosi sono pure gli scritti originali di Holbach, tutti pubblicati anonimi o con
artifici letterari: erano anch'essi stampati in Olanda e divulgati per vie traverse
in Francia. I principali sono i seguenti: Le christianisme dévoilé, ou examen des
principes et des effets de la religion chrétienne (Il cristianesimo disvelato, ovvero esame dei
principi e degli effetti della religione cristiana, stampato come se fosse opera di Boulanger, ormai defunto, I 76 I, antidatato I 7 56); Système de la nature, ou des lois
du monde physique et du monde mora/ (Sistema della natura, o delle leggi del mondo fisico
e del mondo morale, I 770); Le bon sens, ou idées naturelles opposées aux idées surnaturelles (Il buon senso, ovvero idee naturali contrapposte alle idee soprannaturali, I77z);
5_ystème social, ou principes naturels de la morale et de la politique, avec un examen de
l'influence du gouvernement sur /es moeurs (Sistema sociale, o principi naturali della morale
e della politica, con un esame dell'influenza del governo sui costumi, I773); La morale
universelle, ou /es devoirs de l'homme fondés sur la nature (La morale universale, ovvero
i doveri dell'uomo fondati sulla natura, I776).
p.o
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Ulteriori sviluppi dell'illuminismo francese: Holbach e Condorcet
Lo stretto legame del materialismo di Holbach con la letteratura eterodossa
tradizionale traspare più che dai contenuti, dall'impostazione stessa della dottrina e dalle sue caratteristiche metodologiche essenziali. L'analisi ha infatti lo
stesso tono di assolutezza e di genericità della filosofia naturalistica anteriore e
non è per nulla adeguata allo stato di grande complessità cui erano giunte le
scienze fisiche e biologiche del tempo: ad esse occorreva purtuttavia rifarsi
se si volevano creare degli strumenti teorici e metodologici atti a trattare in
modo nuovo i temi usuali della natura, dell'uomo e dei loro reciproci rapporti.
Ma Holbach aveva un'idea molto approssimativa della fisica e della biologia
del suo tempo e per quanto riguarda la chimica, la disciplina che più lo aveva
interessato, condivideva le concezioni stahliane, allora molto in voga, ma ormai
in via di completo superamento; egli non ebbe affatto coscienza del profondo
rinnovamento che la chimica stava subendo proprio negli anni della sua maturità intellettuale. L'impostazione che P. Naville, il maggior studioso di Holbach, ha dato al suo lavoro, Ho/bach et la philosophie scientifique au xvm siècle
(Ho/bach e la filosofia scientifica nel xvm secolo, 1943) risulta quindi inaccettabile;
il voler porre Holbach e le sue concezioni nel vivo del dibattito scientifico
settecentesco, significa fare della cattiva apologia del barone, e soprattutto,
fuorviare il discorso. Per farsi un'idea delle sue carenze, in questo campo,
basta considerare il modo vago e indeterminato con cui è affrontata nel Système
de la nature, l'opera più importante del barone, la questione del movimento
della materia e delle sue leggi o quella della sensazione e della genesi delle facoltà
intellettuali; si tratta peraltro di problemi fondamentali nell'ambito di una dottrina che voglia essere materialistica. Tale dilettantismo scientifico ha conseguenze negative generali e di fondo che investono tutta l'opera del barone: è
la matrice principale dell'assoluta mancanza di ordine e di rigore concettuale
della trattazione, dell'uso di un linguaggio impreciso e, sul piano formale, di
macroscopici difetti stilistici (la prolissità e le frequenti e inutili ripetizioni che
si riscontrano nel Système furono più volte rilevate e furono a lungo stigmatizzate da Voltaire). L'assenza di una mentalità rigorosa nell'affrontare i problemi
traspare specialmente se si considera la concezione di Holbach dal punto di vista
che le è più proprio, quello della stretta connessione tra prospettiva teorica e
politica. Nel 5_ystème, e più ancora nelle altre opere, il riferimento ai nessi che collegano l'assunzione di determinate dottrine con le istituzioni politiche e religiose
è continuo. Considerando le varie tirannidi e le varie chiese e particolarmente la
chiesa cattolica come i veri responsabili degli errori concettuali e dei pregiudizi
che si continuano e si aggravano nel tempo, Holbach ritenne che suo compito
precipuo fosse quello di combattere incessantemente, con ogni mezzo e da ogni
punto di vista, tale duplice avversario. Certamente la tensione pratica, il sincero
anelito per l'affermazione della verità e per la conquista di una società più libera
e giusta, costituiscono l'aspetto più vivo dell'opera del barone. Osserva giusta-
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mente a questo proposito N aville: «La lettura di Ho lbach è benefica. Il suo pensiero respira l'onestà, l'energia, l'intelligenza, la generosità, il rifiuto di ogni
ipocrisia, l'intransigenza e anche l'humour.» Per quanto riguarda l'impegno,
l'energia, il coraggio intellettuale profusi per l'acquisizione sociale di quegli
ideali di umanità, di libertà, di giustizia che, dal Settecento in poi, sono diventati
il patrimonio inalienabile della cultura razionalistica e democratica, la figura di
Holbach rimane esemplare. Tale passione politica, pervasa com'è da un acceso
moralismo, non fa però che aggravare le ambiguità e la confusione metodologica della trattazione. Egli è pienamente convinto che la scoperta della verità
coincide con la conquista di una nuova e più alta moralità e che entrambe
sono il frutto di un atto di emancipazione intellettuale e insieme morale. La vera
conoscenza cioè non si consegue che a prezzo dell'impegno, dello sforzo, del
coraggio con cui ci si è saputi liberare dai pregiudizi cui le istituzioni politiche,
sociali, religiose tengono avvinti gli individui. La conseguenza che ne trae il
barone è però quella di mescolare continuamente all'esposizione dottrinale la
esortazione pratica e la declamazione e di usare spesso tali artifici retorici come
un mezzo per uscire dalle difficoltà concettuali in cui si viene ad imbattere.
In definitiva, il giudizio che un acuto critico inglese del secolo scorso dava del
barone: « è più un espositore che un ricercatore, più un predicatore che un filosofo; e fa un uso sfacciato dell'esortazione, invece che della prova» rimane
ancora quello più valido.
All'inizio della prefazione del Système de la nature si trovano queste significative parole: « L 'uomo non è infelice se non perché misconosce la natura »;
l'opera termina poi con un capitolo, Abrégé du code de la nature (Compendio del codice della natura), che è un inno di esaltazione lirica della natura, in cui alcuni critici hanno riconosciuto la mano di Diderot (Diderot, come è noto, rivide per
intero il manoscritto del Système). Il contrasto tra l'esperienza, da cui solo può
nascere un verace contatto con la natura e l'immaginazione, fonte di ogni errore,
così essenziale in tutta la problematica dell'illuminismo, è la matrice fondamentale anche del pensiero di Holbach e disvela nel barone, come in tutti i philosophes, quella esigenza realistica che è al fondo di ogni filosofia razionalistica.
La nozione della natura come un tutto è l'idea generale che guida la ricerca del
barone. Per radicalizzare in senso rigidamente materialistico questa concezione
tanto tradizionale, egli insiste, fin dall'inizio della sua opera, sulla completa
determinazione materiale della natura, e pertanto, sulla non esistenza di entità
spirituali e della distinzione tra uomo fisico e morale. 11 presupposto fondamentale è quindi il rifiuto della nozione di passività della materia e l'asserzione che
i fenomeni, dai più semplici ai più complessi, si autogenerano necessariamente
l'uno dall'altro in virtù del movimento che è proprio, ab aeterno, della materia.
« Se per natura,» egli afferma, «intendiamo un ammasso di materie morte, prive
di ogni proprietà, puramente passive, saremo senza dubbio forzati a cercare al di
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fuori di questa natura il principio dei suoi movimenti; ma se per natura intendiamo ciò che essa è realmente, un tutto le cui diverse parti hanno diverse proprietà,
che fin da allora agiscono secondo quelle medesime proprietà, che sono in una
azione e reazione perpetua le une sulle altre, che pesano, che gravitano verso un
centro comune mentre altre se ne allontanano e vanno alla circonferenza, che si
attirano e si respingono, che si uniscono e si separano e che con le loro collisioni
e i loro ravvicinamenti continui producono e decompongono tutti i corpi che vediamo, allora nulla ci obbligherà a ricorrere a delle forze soprannaturali, per
renderei conto della formazione delle cose e dei fenomeni che vediamo. »
Le prove empiriche che adduce per dimostrare il suo assunto sono per altro
dubbiose o estremamente generiche. Esse sono i fenomeni di autocombustione,
di generazione spontanea e in genere quelli misti in cui si trovano uniti insieme
il fuoco, l'aria e l'acqua, come il tuono, le eruzioni vulcaniche, i terremoti. Si
tratta, come si vede, più che di prove, di mere esemplificazioni, espresse nella
forma del linguaggio comune e addotte senza la benché minima preoccupazione di farne le pietre angolari del sistema per mezzo di un'analisi dettagliata.
Inoltre lascia indeterminato il problema della costituzione essenziale della materia non solo nel suo aspetto di questione squisitamente metafisica, ma anche
in quello propriamente funzionale, precludendosi così la possibilità di un'analisi
seria, di qualsiasi fenomeno naturale. Così, per risolvere la questione della determinazione della materia, anziché servirsi in modo esplicito e diretto dello strumento di indagine per eccellenza e insostituibile, quello di corpuscolo o particella (le molecole di materia, cui fa talvolta cenno, non hanno comunque una
funzione esplicativa), introduce l'ambigua ed equivoca nozione di natura od
essenza. È costretto infatti a considerare la natura in modo non omogeneo,
ma continuamente differenziata. Le differenziazioni più generali sono quelle
costituite dalle proprietà designate tradizionalmente come i quattro elementi
fondamentali (fuoco, terra, acqua, aria). Secondo gli svariati modi con cui si
compongono e si raggruppano le singole parti di materia, si formano entità
individuali dotate di nature ed essenze peculiari, estremamente varie per grado e
forma di caratterizzazione. L'essenza viene definita come «ciò che costituisce
un essere, ciò che è, la somma delle sue proprietà o delle qualità secondo le quali
esiste e agisce ». Ogni entità è quindi dotata di alcuni movtmenti caratteristici,
sempre gli stessi; se un'entità dotata di un'essenza più forte si oppone ad essa,
tale entità si modifica o si dissolve in relazione all'intensità dell'effetto subito.
Così un corpo deve cadere necessariamente (la caduta è un effetto necessario del
peso, della densità, della coesione delle parti di cui il corpo è composto), così
la materia del fuoco deve bruciare, così un essere sensibile deve cercare il piacere
e fuggire il dolore; così il fuoco cessa di bruciare delle materie combustibili,
quando ci si serve dell'acqua per arrestare i suoi progressi; così l'essere sensibile
cessa di cercare il piacere quando teme che ne risulti un male per lui.
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Come criterio esplicativo concreto dei fenomeni adotta ed usa in modo indiscriminato la nozione generica e vaga di gravitazione, che egli assimila alla
conservazione dell'essenza propria di ogni entità corporea, credendo con ciò
di aver superato la tradizionale dicotomia tra mondo fisico e morale. « La conservazione, » egli afferma nel capitolo IV della prima parte del Système, « è dunque
il fine comune verso cui sembrano continuamente dirette tutte le energie, le forze,
le facoltà degli esseri. I fisici hanno denominato questa tendenza o direzione
gravitazione su di sé; Newton la chiama forza d'inerzia, i moralisti l'hanno chiamata
nell'uomo amore di sé, che non è se non la tendenza a conservarsi, il desiderio
della felicità, l'amore del benessere e del piacere, la prontezza a cogliere tutto
ciò che sembra favorevole al proprio essere, e l'avversione marcata per tutto ciò
che lo turba o lo minaccia: sentimenti primitivi e comuni di tutti gli esseri della
specie umana, che tutte le loro facoltà si sforzano di soddisfare, che tutte le loro
passioni, le loro volontà, le loro azioni hanno continuamente per oggetto e per
fine. Questa gravitazione su di sé è dunque una disposizione necessaria nell'uomo
e in tutti gli esseri che, con mezzi diversi, tendono a perseverare nell'esistenza
che hanno ricevuto, finché nulla rompe l'ordine della loro macchina o la sua
tendenza primitiva. » Ciò non fa che porre in rilievo quella che è la carenza principale di tutta la ricerca holbachiana: l'assenza di uno strumento metodologico
unitario e rigoroso che permetta di dare, mediante analisi dettagliate, una effettiva interpretazione materialistica dei fenomeni naturali ed umani. Holbach è
costretto pertanto ad avvalersi dello strumento classico del naturalismo anteriore,
la mera analogia, nel senso meno rigoroso e più ascientifico del termine, e a
combinare insieme in modo astratto e verbalistico concetti eterogenei e disparati
tratti dai più diversi autori, da Aristotele ad Hobbes, da Locke, a Leibniz, a
Toland.
L'astrattezza e il verbalismo sono le caratteristiche principali del pensiero
di Holbach. Si veda per esempio il modo con cui è risolto il problema della differenziazione degli individui. Il concetto base è la nozione di temperamento.
« È dalla natura, » afferma, « è dai nostri genitori, è dalle cause che senza
posa e dal primo momento della nostra esistenza ci hanno modificato, che ll hbiamo ricevuto il nostro temperamento. È nel seno della propria madre che ciascuno di noi ha attinto le materie che influirono per tutta la vita sulle sue facoltà
intellettuali, sulla sua energia, sulle sue passioni, sulla sua condotta. Il nutrimento
che prendiamo, la qualità d'aria che respiriamo, il clima in cui abitiamo, l'educazione che riceviamo, le idee che ci vengono presentate e le opinioni che ci vengono date, modificano questo temperamento, e siccome queste circostanze non
possono mai essere rigorosamente le stesse in ogni punto per due uomini, non
sorprende che ci sia tra di essi una così grande diversità, o che ci siano tanti temperamenti differenti quanto sono gli individui della specie umana. » Poco prima
il temperamento era stato definito come « lo stato abituale in cui si trovano i
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fluidi e i solidi di cui il corpo di ogni uomo è composto. I temperamenti variano
in ragione degli elementi o materie che dominano in ogni individuo e delle differenti combinazioni e modificazioni che queste materie, diverse per se stesse,
provano nella sua macchina. Ed è così che negli uni abbonda il sangue, negli
altri la bile, il flegma in alcuni, ecc. ». Posta in questi termini, la nozione di temperamento non è altro che una mera espressione verbale che non spiega niente.
Inoltre, e senza alcuna motivazione, Holbach accanto al temperamento, introduce come elemento di coesione dinamica degli individui il concetto stahliano
di flogisto. « Sembra, in generale, » sostiene il barone, « che il principio igneo che
i chimici hanno designato con il nome di flogisto o di materia infiammabile, sia
quello che, nell'uomo, gli dà più vita ed energia, che procura più flessibilità,
mobilità, attività alle sue fibre, tensione ai suoi nervi, rapidità ai suoi fluidi. »
Risulta qui in modo chiaro quale sia il procedimento normale che Holbach
usa per la sua trattazione e soprattutto quali siano i suoi veri intenti: quel che gli
interessa in verità non è l'individuazione di strumenti concettuali atti a spiegare
i fenomeni in tutta la loro complessità, bensì creare nel suo lettore un preciso
atteggiamento di ripulsione verso alcune credenze radicate. Così il temperamento, essendo un termine che indica il complesso psico-fisico dell'uomo facendo riferimento esclusivamente ad elementi sensibili, serve da efficace contrapposizione a quelle definizioni dell'uomo che comprendono entità spirituali
(anima, volontà, ecc.) non rilevabili empiricamente. Il designare un tutto con
asserzioni implicanti un riferimento sensibile e il contrapporre polemicamentetali asserzioni a concezioni che contengano entità non empiriche, è una caratteristica costante del metodo holbachiano; in genere, la validità degli assunti proposti viene provata con una loro presunta efficacia pratica, cioè con esortazioni
a servirsene. Così, a proposito della dottrina dei temperamenti afferma: « La
morale e la politica potrebbero trarre dal materialismo dei vantaggi che il dogma
della spiritualità non fornirà loro mai e ai quali impedisce loro anche di pensare.
L 'uomo sarà sempre un mistero per quelli che si ostineranno a vederlo con gli
occhi prevenuti della teologia, o che attribuiranno le sue azioni a un principio,
di cui non possono mai avere idee. Allorché vorremo conoscere l'uomo, cerchiamo dunque di scoprire le materie che entrano nella sua combinazione e che
costituiscono il suo temperamento; queste scoperte serviranno a farci congetturare la natura e la qualità delle sue passioni e delle sue inclinazioni, e a presentire
la sua condotta in date occasioni: esse ci indicheranno i rimedi che potremo impiegare con successo per correggere i difetti di una organizzazione viziosa o di
un temperamento tanto nocivo alla società quanto a quello che lo possiede. »
Si può avere un'ulteriore conferma della netta prevalenza, nell'opera del barone, del motivo pratico-politico, se si considera uno dei più vivaci capitoli del
Système, quello sulla libertà. In questo caso il tutto che viene considerato è l'attività dell'individuo nel suo complesso: dato che è stato posto che ogni individuo
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è esclusivamente un amalgama di elementi materiali, viene asserito che le azioni
di ogni uomo, cioè i suoi movimenti, sono necessariamente determinati dalle
condizioni in cui si è costituito e sviluppato il suo essere materiale. La prospettiva del totale ed estrinseco condizionamento dell'attività dell'uomo viene contrapposta alla concezione che postula la possibilità di resistere alle inclinazioni
mediante la volontà. Questa possibilità si può avere o non avere, secondo il
temperamento dell'individuo o comunque sempre in virtù di motivi estrinseci
alla volontà dell'uomo. Se per esempio qualcuno vuoi dimostrare che è libero,
sostiene il barone, per il fatto che può muovere o non muovere le mani, ciò
non proverà la sua libertà, ma solo il desiderio di mostrare la sua volontà in
un modo o nell'altro. Se poi quella stessa persona sostenesse che è libera di gettarsi dalla finestra, continua il barone, gli si può rispondere che non è vero,
che fin quando conserverà la ragione, il desiderio di provare la sua libertà non
diverrà motivo sufficientemente forte per spingerlo a tale azione; qualora si
gettasse effettivamente dalla finestra, vorrà dire che è stata la violenza del suo
temperamento a indurlo a ciò.
Come si vede è l'assolutezza e il verbalismo di tale criterio assertorio che
impedisce un serio discorso sulle motivazioni del comportamento umano. L'argomentazione viene quindi abbastanza disinvoltamente sviluppata nel senso che
più sta a cuore al barone. Un freno alle inclinazioni malvagie e agli eccessi dei
temperamenti, è possibile, si domanda, in un contesto sociale dominato dal culto
dell'ambizione sfrenata, del denaro, delle sregolatezze di ogni genere, della
vendetta, della persecuzione, che non fa altro che deprimere il bene con ogni
sorta di esempi? Ancora una volta, egli si sforzerà di persuadere che il sistema
della necessità è molto più utile di quello della presunta libertà per promuovere
la virtù. Qui, come sempre, è il tema della società che corrompe gli individui
instillando in essi pregiudizi ed errori ed oscurando i veri valori fondati sulla
natura che predomina. Per instaurare il regno della moralità, bisogna cercare nel
mondo visibile i veri moventi che spingono l'uomo ad agire; la natura indica
che essi sono esclusivamente l'interesse e il piacere e che essi non possono essere veramente soddisfatti se non con la virtù, cioè promuovendo la felicità
altrui; compito del phiiosophe è di diffondere tale verità e di persuadere gli uomini
ad accettarla rimuovendo i pregiudizi che la offuscano.
La filosofia di Holbach si pone quindi essenzialmente come un tentativo di
demistificazione del passato e della tradizione: in ciò si collega a quelle che sono
le esigenze più sentite del pensiero illuministico. L'avere interpretato questo motivo in senso prevalentemente oratorio e propagandistico e l'averlo sviluppato
con il debole ausilio del metodo assertorio-verbalistico, costituiscono senza dubbio i limiti di tale filosofia nei confronti della grande corrente analitica
del pensiero settecentesco. Non mancano, è vero, nell'opera del barone, spunti
di una ricerc:,~ volta a dare un senso all'errore e al pregiudizio e a spiegarne le
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Ulteriori sviluppi dell'iiluminismo francese: Holbach e Condorcet
origini: sono però molto approssimativi, mancano di finezza, di approfondimento
e di una seria riflessione sugli strumenti concettuali creati dalla psicologia empiristica.
La nascita di concetti assurdi, come quello di anima, di ordine dell'universo,
di dio, è in effetti un problema che viene considerato da Holbach. La nozione
di anima viene spiegata come l'obiettivazione di un atto di ignoranza. L'uomo,
osserva il barone, « vide che il suo corpo e le sue differenti parti agivano, ma
spesso non poté vedere ciò che li portava all'azione; credette dunque di racchiudere entro di sé un principio motore, distinto dalla sua macchina, che dava
segretamente l'impulso alle molle di questa macchina, si muoveva in virtù di
una energia propria e agiva conformemente a leggi totalmente differenti da
quelle che regolano i movimenti di tutti gli altri esseri ». La comune considerazione dell'universo come un tutto ordinato è vista come una indebita estrapolazione di una prospettiva psicologica. L 'uomo, infatti, non appena scorge un
modo di agire che ha qualche affinità con il suo, tende a spiegado con una causa
che gli assomiglia, che agisce come lui. «È così che l'uomo, non vedendo al di
fuori della sua specie che degli esseri che agivano differentemente da lui e credendo di notare nondimeno nella natura un ordine analogo alle proprie idee,
delle vedute conformi alle sue, immaginò che questa natura fosse governata
da una causa intelligente come la sua, alla quale fece l'onore di quell'ordine che
credette di vedere e delle vedute che aveva egli stesso. »Con questa sola differenza,
che l 'uomo, sentendosi incapace di produrre gli effetti che vedeva nell'universo,
esagerò enormemente le facoltà che possedeva, ponendole nella causa invisibile
che regge l'universo.
Un discorso più preciso è svolto da Holbach per spiegare la nascita dell'idea di dio, che è, a suo modo di vedere, la matrice permanente degli errori
più gravi, degli arbitri più assurdi, delle più irragionevoli violenze che hanno
afflitto l'umanità. La trattazione della divinità occupa tutta la seconda parte
del Système ed è condotta puntigliosamente con l'intento di confutare, in modo
ampio e dettagliato, tutte le presunte prove che sono state date dell'esistenza di
dio. La nozione di dio viene risolta nell'ambito dell'analisi empiristica del comportamento umano, fondato sul bisogno. 11 primo dei mali che l'uomo avverte
è, in effetti, il bisogno; esso è purtuttavia necessario alla conservazione e allo
sviluppo individuale, poiché senza bisogni l'uomo non potrebbe né conoscere
né evitare ciò che gli nuoce né procurarsi ciò che gli è favorevole, e non differirebbe dagli esseri insensibili e non organizzati. « Se la natura gli avesse permesso
di soddisfare agevolmente tutti i suoi bisogni rinascenti, o di non provare che
sensazioni piacevoli, i suoi giorni sarebbero trascorsi in una uniformità perpetua
e non avrebbe avuto motivi per ricercare le cause sconosciute delle cose. » La
divinità non è in fondo che il modo illusorio con cui l'uomo tenta di liberarsi
dai timori, dagli allarmi, dai dolori, che sono suscitati in lui dai bisogni continua32·7
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mente insoddisfatti, e dal gran numero di mali estrinsechi che lo affliggono (accidenti, malattie, calamità, ecc.); è appunto per dare una spiegazione al male del
mondo e per cercare di !imitarne le conseguenze dannose che l 'uomo ha forgiato
degli agenti sconosciuti e potenti, obiettivando in essi le proprie facoltà, e ha
creato il culto verso di essi. È su tali elementi che si sono costruite le religioni,
il cui sviluppo è visto da Holbach come un processo di successive riflessioni.
La prima teologia si fonda infatti sul timore e l'adorazione degli elementi, di
oggetti materiali e grossolani; si ha poi il culto per degli agenti che presiedono
agli elementi stessi, e infine la creazione, in virtù di uno sforzo di semplificazione,
di un solo agente, di una intelligenza sovrana, di un'anima universale che mette
in movimento tutta la natura: Ciò perché «l'essenza dello spirito umano è di
lavorare senza posa sugli oggetti sconosciuti ai quali comincia sempre con l'attribuire una importanza molto grande e che non osa mai in seguito esaminare con
sangue freddo ». Questo abbozzo di sviluppo delle religioni, discusso in dettaglio, costituisce di per sé uno sforzo effettivo di dare un senso preciso alla genesi dell'errore, ma risulta sterile, perché Holbach non ha posto bene in luce la
necessità dei vari momenti dello sviluppo e quale sia il rapporto di essi con il
manifestarsi della verità. lnvero il problema del nesso errore-verità, pur presente in tutta la filosofia del barone, viene in sostanza eluso con l'abituale uso di
formule semplicistiche ed assertorie.
Lo spunto più interessante di una ricerca più precisa si trova nel capitolo
sulla libertà dove il barone afferma che, malgrado tutte le idee false e gratuite
che l'uomo si è fatto sulla sua pretesa libertà, di fatto ha sempre adottato il
sistema della necessità. Se non si supponesse, infatti, la presenza di un potere
necessitante nella determinazione della volontà, non avrebbero senso l'educazione, la legislazione, la morale, la religione stessa che suppone che il genere
umano e la natura siano sottomessi alle volontà irresistibili di un essere necessario. « In una parola, in tutto ciò che fanno, gli uomini suppongono la necessità, quando credono di avere per esso delle esperienze sicure, e la probabilità
quando non conoscono il legame necessario delle cause con i loro effetti, non
agirebbero come fanno, se non fossero convinti, o se non presumessero che da
certi effetti seguiranno necessariamente le azioni che fanno. » Ma anche questo
spunto esplicito è risolto in senso immediatamente polemico e non è il punto
di partenza per una analisi approfondita dei rapporti tra riflessioni illusorie e
vere, tra i risultati dell'immaginazione e quelli dell'esperienza.
IV · LA DOTTRINA DEL PROGRESSO
La nozione del progresso del sapere si trova già delineata, nelle sue linee
essenziali, nel xvrr secolo, anche se non assume la forma di una trattazione specifica e non è esplicitamente oggetto di dibattito culturale, se non verso la fine
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del secolo. Essa è vista più che altro come la naturale conseguenza della conquista della nuova dimensione della ragione scaturita dal grande sviluppo delle
scienze e delle tecniche e dagli innumerevoli successi che aveva avuto in ogni
campo. Il testo di Pascal che abbiamo citato nel capitolo vm della sezione
IV, esprime in modo incisivo ciò che è una convinzione comune della cultura
secentesca. Il problema si poneva concretamente soprattutto in relazione al
modo in cui si situava il pensiero moderno nei confronti dell'antico.
La celebre polemica letteraria, originata dallo scritto di Claude Perrault (Parai/è/e des anciens et des modernes [Parallelo fra gli antichi e i moderni], I 68 8-98), che si
suole considerare come il punto di partenza, esplicito e diretto, del dibattito culturale attorno a cui si è venuta formulando la moderna dottrina del progresso,
verte appunto sul tema del rapporto tra gli antichi e i moderni. Il testo di Perrault, come i numerosi scritti analoghi, hanno in effetti contribuito ad impostar<
il problema, nei termini che vennero poi sviluppati, dibattuti e divulgati dagli
illuministi.
Tra gli autori « progressisti », la figura che emerge è senz'altro quella di
Bernard de Fontenelle (I657-I757), il più celebre uomo di cultura del suo tempo.
Poeta, autore di teatro, moralista, scrittore di cose scientifiche, questo grande
divulgatore del cartesianesimo e del suo spirito, fu essenzialmente un letterato brillante e ironico. Segretario dell' Académie des sciences per oltre un quarantennio,
scrisse numerose opere tra cui gli Entretiens sur la pluralité des mondes (Conversazioni
sulla pluralità dei mondi, I686), che rimase il modello insuperato degli innumerevoli
scritti di divulgazione scientifica settecenteschi e l'Histoire des oracles (Storia degli
oracoli, I687). I testi da cui traspaiono le sue idee sul progresso sono i Dialogues
des morts (Dialoghi dei morti, I683) e soprattutto la Digression sur /es anciens et /es
modernes (Digressione sugli antichi e i moderni, I688). In Fontenelle la dottrina del
progresso è già impostata in termini chiari. Infatti, vi si trova il problema della
natura come struttura perenne, per cui tra gli antichi e i moderni non c'è differenza per quanto concerne l'energia creatrice («la natura dispone di una pasta
che gira e rigira in mille modi, ma che è sempre la stessa »); vi si trova il problema dell'errore, visto come un passo necessario per l'acquisizione della verità;
vi si trova il problema della distinzione tra progresso nell'eloquenza e nella
morale e progresso nelle scienze.
Ma è soprattutto con Turgot che la dottrina del prògresso trova un effett1vo
approfondimento. Robert-Jacques Turgot (I727-8I) è più noto come economista
e uomo politico che come filosofo. I suoi scritti filosofici appartengono al periodo della giovinezza (alcuni sono abbozzi relativi ad opere non portate a termine) e non sono molto conosciuti. Sono tuttavia tra i più interessanti di tutta la
letteratura filosofica settecentesca: rivelano conoscenze ampie e approfondite,
giudizi sicuri e precisi, analisi ricche, dense, serrate. Tali testi sono essenzialmente due discorsi letti alla Sorbona nel I 7 5o: S ur /es avantages que l' établissement
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du christianisme a procurés au genre humain; Sur /es progrès successifs de l'esprit humai11
(Sui vantaggi che l'istituzione del cristianesimo ha procurato al genere umano; Sui progressi successivi dello spirito umano) e un Pian des discours sur l'histoire universelle
(Piano dei discorsi sulla storia universale), diviso in due parti: Sur la formation des
gouvernements et le mélange des nations (Sulla formazione dei governi e l'incrocio delle
nazioni) e un Esquisse dont l'objet sera /es progrès de l'esprit humain (Abbozzo il cui
argomento sarà il progresso dello spirito umano). Le concezioni generali di Turgot si
sviluppano sotto il profilo della dominante filosofia empiristica di origine
lockiana e si collegano direttamente alle filosofie della storia, come quella di
Bossuet, dominate dalla prospettiva della provvidenza divina (Turgot parla
talora di provvidenza, ma si può dire, come ha notato un critico, che in lui si
venga attuando una sorta di secolarizzazione della provvidenza e una assimilazione di tale nozione con quella di progresso). Il problema del progresso è impostato in modo chiaro e preciso da Turgot, il quale stabilisce preliminarmente
una distinzione fondamentale tra i fenomeni naturali e i fenomeni storici; Mentre
i primi seguono sempre i medesimi cicli di sviluppo e sono determinati da leggi
costanti, i secondi sono estremamente vari di luogo in luogo e di età in età.
I fenomeni storici tuttavia si pongono fra di loro in un effettivo processo di continuità, per cui si può considerare il genere umano come un tutto immenso che
ha come ogni individuo, la sua infanzia e i suoi progressi. Sono così delineate
quelle che sono le questioni principali: la continuità e le caratterizzazioni dello
sviluppo.
Un presupposto essenziale è che il punto di partenza dello sviluppo è ovunque il medesimo. « Le risorse della natura e il germe fecondo delle scienze si
trovano ovunque ci siano degli uomini. » Gli uomini si trovano, infatti, nei
confronti della natura in un rapporto che è univoco: hanno cioè tutti le stesse
sensazioni, le stesse idee, gli stessi bisogni. Gli strumenti dell'analisi empiristica
hanno permesso, a giudizio di Turgot, di risolvere in modo verace il problema
della genesi delle conoscenze e di scoprire così le strutture portanti dell'evoluzione comuni a tutti gli uomini. Egli pertanto sviluppa ampiamente questa questione che, pur appartenendo, egli osserva, più alla storia della natura che a quella
dei fatti, è purtuttavia importante, poiché i primi passi condizionano il resto,
ed espone una tipologia del processo conoscitivo abbastanza dettagliata secondo
i soliti schemi lockiani. Essendo comuni i nessi strutturali che regolano l'attività degli uomini e i loro primi comportamenti fondati su bisogni elementari e
grossolani, si può rilevare una identità sostanziale nelle varie manifestazioni del
modo di vivere dei popoli primitivi. Ora, l'elemento dinamico che introduce il
germe del progresso in alcuni popoli e non in altri è dato, secondo Turgot, dallo
stabilirsi di una differenza qualunque. Non si tratta di una diseguaglianza dovuta al clima, come sostiene Montesquieu: tale opinione è smentita dai fatti.
E neppure solo di una diseguaglianza naturale: individui meglio dotati, cioè
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con una felice disposizione nelle fibre cerebrali, con una memoria più viva ecc.,
esistono in egual misura in tutti i popoli, sia barbari che civilizzati, a parità
del numero dei componenti la popolazione. Si tratta piuttosto di una diseguaglianza casuale, alimentata e fortificata dalle relazioni in cui si trovano gli individui e
i popoli. « Senza dubbio, » afferma Turgot, « lo spirito umano racchiude ovunque
il principio dei medesimi progressi, ma la natura ineguale nei suoi benefici, ha
dato a certi spiriti, una abbondanza di talenti che ha rifiutato ad altri; le circostanze sviluppano questi talenti o li lasciano avvolti nell'oscurità; e dalla varietà
infinita di queste circostanze nasce l'ineguaglianza dei progressi delle nazioni. »
In un popolo barbaro c'è un livellamento abbastanza generale tra gli individui
(tutti svolgono le medesime funzioni, l'educazione è la stessa per tutti); quando
gli individui più dotati cominciano a stabilire differenze tra loro e gli altri individui
(divisione del lavoro con conseguente creazione di dislivelli di ricchezza e di educazione), determinano le condizioni per il sorgere di uno sviluppo. La stessa
cosa succede per i popoli. Un primo progresso determina i successivi, per cui
il distacco di una nazione sull'altra aumenta in progressione. Il concetto del
progresso implica quindi necessariamente quello della continuità, come trasmissione delle conoscenze acquisite: nella trattazione viene pertanto dato il dovuto
rilievo all'importanza del linguaggio, della scrittura e soprattutto dell'educazione,
intesa nel suo più ampio significato.
Se Turgot ammette che la diversità del progresso dei vari popoli è casua,le,
si sforza però di dare una ragione del diverso sviluppo delle scienze e delle arti
e di stabilire delle leggi che ne regolano l'evoluzione. La matrice di tale differenz~1
si trova essenzialmente, secondo Turgot, nel diverso oggetto che considerano
le varie discipline. Erodoto, per esempio, che è venuto dopo Omero, è enormemente inferiore in quanto storico, ad Omero in quanto poeta: spesso, in effetti,
una cosa che richiede meno genio di un'altra, esige più progresso nella massa
totale degli uomini. Turgot ritiene particolarmente significativa la differenza di
sviluppo tra le scienze matematiche e le altre discipline. La matematica ha una
evoluzione sicura; da poche idee semplici si traggono di mano in mano conseguenze vere, le quali sono a loro volta fonte di altrettante verità; la catena delle
verità è ininterrotta, anche se si sono avute divergenze circa l'ordine da dare a
tali verità (il metodo preferibile è quello di seguire i passi che ha seguito lo spirito umano nelle sue scoperte, che vanno dal conseguimento di verità particolari verso formule sempre più generali). Il carattere privilegiato della matematica
consiste nel fatto che la verità delle proposizioni è dimostrata dalla reciproca
dipendenza delle medesime e non c'è bisogno di stabilire una connessione con la
realtà. Nelle altre scienze, quelle d'osservazione, che comprendono, secondo
Turgot, oltre alle scienze fisiche propriamente dette, la logica, la metafisica, e
anche, in qualche modo, la storia, la morale e la politica, il discorso è diverso;
la verità è molto più difficile da conseguire, si realizza a livelli diversi secondo
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l'oggetto (nella storia, per esempio, la certezza che si può avere non è mai molto
grande, perché dipende in gran parte da testimonianze), _e l'errore risulta essere
una necessità di fronte all'enorme complessità di un'analisi che deve partire dal
tutto della realtà, dove i fenomeni sono reciprocamente collegati l'uno all'altro.
« Cerco, » dice enfaticamente Turgot, « i progressi dello spirito umano e non vedo
quasi altro che la storia dei suoi errori. » In verità, il cammino in questi campi di
indagine è lungo e tortuoso. Sulla base di un certo numero di effetti poco conosciuti, si formano ipotesi che poi vengono abbandonate per fare posto ad altre
meno assurde, ma non per questo più vere: l'evoluzione, già lenta, è ulteriormente ritardata dallo spirito di setta che fa sì che gli uomini tendano a perpetuare
le opinioni e le ipotesi conseguite, impedendo con ciò l'ascesa verso la verità.
Le leggi secondo cui Turgot ritiene che tale cammino si svolga sono quelle
che saranno riprese poi da Comte, il quale riconoscerà nel philosophe un suo diretto precursore: dapprima si crede che gli effetti fisici siano prodotti da esseri
invisibili, intelligenti e simili a noi, poi da espressioni astratte come le essenze e
le facoltà, infine da cause meccaniche. Considerazioni più brevi sono rivolte alle
arti (anche in esse è possibile riscontrare dei progressi), all'eloquenza e alle arti
meccaniche, le quali conoscono un progresso ininterrotto (ogni arte, ogni volta
che è inventata, sussiste, e se sussiste, si perfeziona). L'evoluzione delle singole
discipline è quindi impostata in modo chiaro e l'analisi è acuta e circostanziata,
anche se è necessariamente sommaria, dato il carattere degli scritti turgotiani.
Inoltre Turgot si preoccupa di vedere anche quale sia l'elemento di unificazione
del progresso di tutte le scienze, che sarebbe costituito da una tendenza verso la
generalizzazione crescente. La conquista della verità, cioè dell'avvicinamento
progressivo alla realtà naturale sarebbe il frutto di una considerazione sempre
più ampia dei fenomeni naturali; le prime ipotesi, più povere, nascerebberc.
dall'esame di un numero limitato di fenomeni; le ipotesi successive, più complesse e più vere scaturirebbero dalla considerazione di un numero di fenomeni
maggiore. Questo sarebbe un principio generale. Così egli riconosce che il
cristianesimo, lungi dall'aver indebolito il sentimento della natura, ha apportato
un effettivo progresso nell'evoluzione dell'umanità essenzialmente perché
ha abolito le barriere tra ebrei e gentili, e ha promesso l'amore per tutti gli
esseri umani, fortificando e ampliando la nozione di virtù e di felicità di tutto il
genere umano.
V · CONDORCET
Jean-Antoine-Nicolas Caritat de Condorcet nacque a Ribemont in Piccardia
nel 1743. Studiò nel collegio dei gesuiti di Reims e poi nel collegio di Navarra
a Parigi. Dopo essere ritormto per qualche tempo nella sua città natale, nel
1762 si stabilì a Parigi, dove entrò in relazione con l'ambiente enciclopedista.
Particolare rilievo ebbe l 'amicizia che strinse con Turgot, il quale ebbe molta
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influenza sul suo pensiero filosofico e politico. Nel I769 entrò a far parte dell'Académie des sciences, di cui divenne segretario quattro anni dopo. Nel I775
fu nominato da Turgot inspecteur des monnaies, carica che tenne fino a quando
Turgot rimase al potere come ministro; qualche anno più tardi (1782) divenne membro dell' Académie française, per opera soprattutto di d' Alembert. Nel
periodo che precede immediatamente il I 789 e fino alla morte, svolse una intensa
attività politica, divenendo uno degli esponenti più noti e combattivi della rivoluzione. Ricoprì numerose funzioni pubbliche e partecipò attivamente al
dibattito sui principali problemi in discussione 1 ; alla Convenzione, pur avendo
una posizione politica personale, fu abbastanza legato ai girondini. Inviso a
Robespierre, il quale, come osserva L. Cahen, vedeva in lui, non senza ragione,
il rappresentante della congrega enciclopedista che aveva perseguitato il suo
maestro, Rousseau, nel luglio del I793 fu proscritto per essersi pubblicamente
opposto al progetto di una nuova costituzione. Rifugiatosi nella casa di Madame
V ernet, vi restò alcuni mesi; nel marzo del I 794, temendo di essere stato scoperto
fuggì da Parigi; cercò invano ospitalità presso dei conoscenti, i Suard, e, infine,
dopo aver vagato due giorni per la campagna attorno a Parigi, fu arrestato e
condotto in carcere a Bourg-la-Reine. Fu trovato morto poco dopo nella sua
cella; non si sa con certezza se si sia suicidato, come vuole la tradizione. A vendo dato false generalità al momento dell'arresto, la notizia della sua morte fu
conosciuta solo molti mesi dopo.
Condorcet fu uno spirito enciclopedico: si occupò dei più svariati argomenti
e sempre in modo serio e approfondito. L'attività a cui si dedicò continuamente
per tutta la vita fu la matematica; la sua opera in questo campo verte principalmente su problemi di analisi e di calcolo delle probabilità. Gli scritti più importanti, oltre agli articoli redatti per il supplemento dell'Encyclopédie e per l'Encyclopédie
méthodique e a numerose memorie accademiche su problemi specifici, sono i seguenti: Du calcul intégral(Sul calcolo integrale, I765); Essais d'ana!Jse (Saggi di analisi,
1768); Essai sur l' application de l' ana!Jse à la probabilité des decisions rendues à la pluralité
desvoix (Saggio sull'applicazione dell'analisi alla probabilità delle decisioni prese a maggioranza di voti, I 78 5). Una menzione particolare meritano i suoi studi dettagliati
volti a cercare una applicazione pratica nelle scienze sociali e politiche del calcolo
delle probabilità. Notevoli furono anche le sue conoscenze di storia della scienza:
i suoi elogi degli accademici morti tra il 1666 e il 1699 e quelli degli accademici
contemporanei, che egli scrisse conformemente alle sue funzioni di segretario dell' Académie des sciences, sono considerati un modello del genere. Si occupò anche
di problemi di economia; condivise le idee fisiocratiche del suo amico Turgot
e intervenne sulla controversa questione della liberalizzazione del commercio
del grano con lo scritto Réflexions sur le commerce des blés (Riflessioni sul commercio
I Sul progetto di riorganizzazione generale
dell'istruzione pubblica, presentato da Condorcet
ali' Assemblea legislativa,
mente nel capitolo xvi.
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si ritornerà ampia-
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dei grani, 1768) in difesa dell'opera riformatrice del ministro. Sull'importanza
della concezione fisiocratica nel pensiero di Condorcet ha particolarmente insistito uno studioso italiano in uno scritto recentissimo. Vasta e molteplice fu
inoltre la sua opera di pubblicista su varie questioni politiche. Ricordiamo, fra
gli altri, lo scritto Réftexions sur l' esclavage des nègres (Riflessioni sulla schiavitù dei
negri, 1781) e di legislatore. Della sua opera più nota, il Tableau historique des
progrès de l'esprit humain (Quadro storico dei progressi dello spirito umano), si hanno
alcuni frammenti e il Prospectus; essa fu redatta da Condorcet negli ultimi mesi
di vita nel suo rifugio parigino, praticamente senza l'ausilio di nessun libro.
La Convenzione nazionale rese omaggio alla memoria di Condorcet acquistando
tremila esemplari del Prospectus per essere distribuiti nelle scuole repubblicane;
nel rapporto letto nella seduta del 2 aprile 179 5 venne sottolineata particolarmente la grandezza della figura di Condorcet il quale «ha composto quest'opera
in un tale oblio di se stesso e dei propri infortuni, che non c'è nulla che ricordi
le circostanze disastrose nelle quali scriveva. Non parla della rivoluzione che con
entusiasmo, e si vede che non ha considerato la sua proscrizione personale che
come una di quelle sventure particolari quasi inevitabili nel mezzo di un grande
movimento verso la felicità generale ».
Nel Prospectus la storia dell'umanità è divisa in dieci grandi epoche. Le prime
tre comprendono i primi stadi dello sviluppo, fino all'invenzione della scrittura
alfabetica; la quarta e la quinta descrivono i progressi compiuti dallo spirito umano
nel mondo greco-romano fino alla decadenza delle scienze; la sesta e settima
sono dedicate ali' analisi della decadenza e degli inizi della restaurazione delle
scienze in Occidente fino all'invenzione della stampa; l'ottava tratta del periodo
che va dall'invenzione della stampa fino al tempo in cui le scienze e la filosofia
scossero il giogo dell'autorità; la nona descrive l'età dei lumi; nella decima
Condorcet traccia un quadro dei progressi futuri dello spirito umano. Tale Prospectus non era nelle intenzioni di Condorcet che il semplice abbozzo di un'opera
grandiosa e ambiziosa. I frammenti dell'opera che si posseggono danno un'idea
del modo ampio e particolareggiato con cui intendeva impostare la trattazione,
che doveva essere una esposizione analitica dell'evoluzione dell'umanità in tutte
le sue fotme e i suoi aspetti. Occorre quindi, nel dare un giudizio su questo
scritto, tenere presente che esso dà solo la prospettiva d'insieme e le idee generali
di un trattato che si poneva effettivamente come la summa del pensiero illuministico e delle sue aspirazioni.
Il Prospectus è, in effetti, forse il testo più rappresentativo, insieme con il Discours préliminaire de I'Enryclopédie di d'Alembert con il quale ha non poche somiglianze, della cultura del xvm secolo. Entrambi gli scritti, di d' Alembert e Condorcet, sono programmi per monumentali opere di sintesi e palesano il vigore, la
forza e l'energia di convinzioni radicate; entrambi accolgono i più validi elementi della filosofia illuministica (principalmente l'esigenza realistica e l'uso dell'ana334
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lisi come strumento di indagine) e ne condividono le illusioni e i limiti teorici.
Come l'Encyclopédie, il Tableau voleva essere non solo un'opera dottrinale, ma uno
strumento di azione culturale: la verità ormai acquisita, esposta nelle sue forme
più compiute, doveva essere il punto di partenza per traguardi prestigiosi. « Queste osservazioni su ciò che l 'uomo è stato, su ciò che è oggi, condurranno in seguito ai mezzi per assicurare e accelerare i nuovi progressi che la sua natura gli
permette di sperare ancora,» scrive Condorcet nell'introduzione. Non diversamente che in d' Alembert, anche se in forma diversa, il limite essenziale che si riscontra nell'opera di Condorcet consiste essenzialmente nella imperfetta correlazione, nel considerare l'evoluzione dell'umanità, tra concezione teorica e concezione storica. Il problema è visto chiaramente da Condorcet, il quale, fin dall'inizio, distingue la « metafisica » dalla storia. « Se ci si limita ad osservare, » scrive
il philosophe, «a conoscere i fatti generali e le leggi costanti che presenta lo sviluppo delle facoltà, in ciò che c'è di comune ai diversi individui della specie umana,
questa scienza porta il nome di metafisica. Ma se si considera questo stesso sviluppo nei suoi risultati, relativamente agli individui che esistono nel medesimo
tempo su uno spazio dato, e se lo si segue di generazioni in generazioni, presenta
allora il quadro dei progressi dello spirito umano. » I due momenti sono però
strettamente congiunti nella trattazione non solo perché Condorcet si pone continuamente dal punto di vista della verità acquisita (strutture delle facoltà conoscitive dell'uomo rilevate dall'analisi empiristica; scoperta del metodo scientifico
e dell'esistenza di un diritto naturale per ogni individuo), ma anche perché l'analisi « metafisica » gli serve spesso come chiarificazione del momento storico.
Alcuni dei passi più interessanti dei frammenti dell'opera possono servire da
esempio circa il metodo seguito da Condorcet: la trattazione del genio, in cui il
philosophe espone una tipologia della scoperta geniale e innovatrice in ogni disciplina, e più ancora quella della nascita della superstizione religiosa. L'esame di
questo problema è condotto con molta finezza e penetrazione. La prima forma di
superstizione nasce, secondo Condorcet, dal desiderio di colmare il vuoto lasciato dai morti e di trovare una consolazione nel ritenere che una parte di essi sopravviva. «L'opinione che sussista,» egli afferma, «dopo la morte una parte di
noi stessi che si compiace di vivere nei medesimi luoghi, che conserva i medesimi
gusti, le medesime affezioni, era troppo consolante per non essere avidamente
adottata da esseri la cui sensibilità era viva e la ragione debole. Ciò che questa opinione racchiude di contrario alle leggi generali della natura non poteva colpirli.
L'annichilimento assoluto di un essere che poco prima aveva dei sentimenti e dei
pensieri doveva anche apparire loro ancora più difficile da concepire che non
quella nuova esistenza.» Si ebbe poi l'antropomorfizzazione dei fenomeni naturali,
mediante la trasposizione in essi, per via di una analogia grossolana, degli elementi
caratteristici dell'uomo (principalmente la volontà).« Questa analogia,» continua
Condorcet, « appariva tanto più naturale a quegli uomini grossolani che, non a-
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vendo ancora alcuna idea della regolarità né delle leggi della meccanica, né degli
effetti generali ai quali noi diamo il nome di cause e di cui gli effetti sensibili che
osserviamo sono i risultati, l'azione di una volontà sui corpi era, fra tutte le cause,
quella che era loro più familiare e di cui avevano anche una nozione più distinta. »
Da questi primi fatti nacquero, secondo il philosophe, le religioni che si svilupparono poi sempre più per l'azione dei preti.
Come si vede, la ricerca « metafisica » guida e potenzia la ricerca storica e ne
costituisce l'asse esplicativo fondamentale. Se ne comprendono le ragioni: più di
ogni altro philosophe, Condorcet ha sentito l'urgenza di spiegare l'errore secondo
la categoria della necessità, al di là di ogni prospettiva moralistica, di ogni caratterizzazione positiva o negativa. Il progresso metodico, senza cadute o turbamenti, non potrebbe trovarsi che in una specie costituita in modo diverso da quella
umana. Condorcet ha però interpretato questa necessità non nel senso in cui si era
mosso Turgot, quello cioè di trovare nel ritmo stesso dello sviluppo le leggi generali che lo regolano, non si è cioè preoccupato di trovare dei principi generali
chiari ed efficaci con i quali poter dominare in tutta la sua globalità l'evoluzione
delle conoscenze e delle società. Ora, quando si usa la categoria della necessità,
perché questa abbia un senso reale e fecondo, occorre porre alcune assunzioni
generali ed essere in grado di derivare da esse l'insieme dei fenomeni che si considerano. Le conseguenze inevitabili sono la mancanza di sistematicità e di organicità e, in sostanza, l'empirismo, nel senso più lato del termine. Sono in effetti
quelle in cui cade Condorcet; le sue spiegazioni dell'errore sono continuamente
o di tipo « metafisica » o di tipo storico-sociale senza che fra di loro venga stabilito un nesso effettivo.
Le spiegazioni storico-sociali, di cui Condorcet fa spesso uso, sono senza
dubbio acute e interessanti. Di esse diamo qui due esempi che ci paiono particolarmente felici. La presenza delle classi sacerdotali si riscontra in tutti i popoli ed
ha quindi un fondamento naturale. Essa ha avuto ad un tempo una funzione positiva e negativa: da un lato, infatti, ha contribuito ad accelerare il progresso di lumi,
in quanto ha dato la possibilità ad un certo numero di uomini, svincolati da bisogni materiali, di coltivare certe credenze generali e di creare i primi rudimenti
delle scienze (astronomia, medicina, ecc.); ma dall'altro, accentuando il distacco
con il resto della popolazione e tenendo segrete le conoscenze acquisite o velandole con allegorie per mantenere il prestigio e il potere ed ingannare sempre di più
il popolo, ha determinato paurosi ritardi nello sviluppo delle conoscenze. Ora
« degli uomini il cui interesse era quello di ingannare dovettero ben presto provare disgusto per la ricerca della verità. Contenti della docilità dei popoli, credettero di non aver bisogno di nuovi mezzi per garantirsene la durata. Poco a poco,
dimenticarono essi stessi una parte delle verità nascoste sotto le loro allegorie; della loro antica scienza non serbarono che ciò che era rigorosamente necessario per
conservare la fiducia dei loro discepoli, e finirono per essere essi stessi vittime delle
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Ulteriori sviluppi dell'illuminismo francese: Holbach e Condorcet
·loro favole». Su questo punto ha giustamente insistito lo studioso americano
C. Frankel. L'altro esempio si trova nell'ottava epoca. La molla che ha fatto sorgere la cultura moderna e che ha infranto la catena dei pregiudizi che si perpetuavano nel tempo è stata, a giudizio di Condorcet, l'invenzione della stampa.
Con lo sviluppo della stampa, si stabilisce una nuova tribuna, si forma un'opinione pubblica potente per numero ed energia poiché i motivi che la determinano
agiscono su tutti gli spiriti, anche a grandi distanze. Ogni nuovo errore è combattuto fin dalla nascita; quelli ricevuti fin dall'infanzia sono distrutti per il fatto
che è divenuto impossibile impedirne la discussione. Essa inoltre ha liberato da
tutte le catene politiche e religiose, poiché, di fronte all'enorme diffusione dei
libri e all'istruzione che tale diffusione apporta, tutti gli istituti tradizionali di dominio culturale di cui si servivano la tirannide politica e quella ecclesiastica per
mantenere i popoli nell'errore e nel pregiudizio, vengono a perdere gran parte
della loro efficacia.
Si palesa qui quello che è il presupposto fondamentale del pensiero di Condorcet: il nesso indissolubile che stabilisce tra errore-oppressione-tirannide e
verità-libertà-democrazia. È in effetti l'assunto con cui tenta di unire la « metafisica » e la storia. Ma più che un reale principio esplicativo un tale assunto è una
mera convinzione che trae la sua efficacia dall'energia e dalla convinzione con cui
Condorcet lo sostiene: risulta troppo generico perché possa servire da effettivo
strumento di indagine. L'imbarazzo in cui il philosophe si trova alcune volte è
particolarmente significativo. Così, a proposito della civiltà araba si esprime in
termini che racchiudono quasi una contraddizione. «Le scienze erano libere e gli
arabi dovettero a questa libertà il fatto di aver potuto risuscitare qualche scintilla
del genio dei greci; ma essi erano sottomessi a un dispotismo consacrato dalla
religione. Così questa luce non brillò qualche momento se non per far posto alle tenebre più spesse ... » E più oltre deve proporsi di risolvere il quesito di come « la
religione di Maometto, la più semplice nei suoi dogmi, la meno assurda nelle sue
pratiche, la più tollerante nei suoi principi, sembra condannare ad una schiavitù
eterna, ad una stupidità incurabile, tutta quella vasta porzione della terra ove essa
ha esteso il suo impero; mentre vedremo brillare il genio delle scienze e della libertà sotto le superstizioni più assurde, nel mezzo della più barbara intolleranza ».
Ma è soprattutto nell'ottava epoca che traspaiono evidenti le difficoltà in cui
Condorcet viene ad imbattersi. Non c'è alcun tentativo di spiegare perché si sviluppi nel Seicento la scienza moderna (introduce semplicemente nel corso del
capitolo l'analisi dei rivoluzionari sviluppi dell'astronomia, della fisica, della matematica e della biologia) proprio nel secolo in cui dispotismo e intolleranza
raggiungono il loro apice; i suoi sforzi per capire come si siano sviluppati i primi
germi della libertà e del diritto naturale dalla riforma e dal rigurgito di intolleranza, che ne è seguito, sono fugaci, generici e puramente verbali.
Se l'aporia rilevata costituisce il limite sostanziale dell'opera di Condorcet,
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Ulteriori sviluppi dell'illuminismo francese: Holbach e Condorcet
ciò non toglie che egli abbia visto con eccezionale chiarezza, ancor più di Turgot,
che la nozione fondamentale nella considerazione dello sviluppo dell'umanità, è
quella della continuità. Il grande rilievo che hanno nel suo pensiero i problemi
del linguaggio e dell'educazione ne sono l'immediata conseguenza. Si tratta di
argomenti così essenziali che Condorcet ne ha fatto oggetto di studio per delle
applicazioni pratiche. Se i suoi progetti di riforma dell'insegnamento sono ben
noti e di essi si discuterà a lungo nel capitolo xvr, meno conosciuti sono quelli
relativi alla creazione di un linguaggio rigoroso ed universale. Essi sono stati
particolarmente posti in luce dallo studioso francese G.G. Granger. Le preoccupazioni per una lingua precisa collegano direttamente Condorcet a Condillac.
Una frase del Prospectus è molto significativa: «Una delle prime basi di ogni
buona filosofia è di formare per ogni scienza una lingua esatta e precisa, ove ogni
segno rappresenti un'idea ben determinata, ben circoscritta, e di giungere a ben
determinare, ben circoscrivere le idee. » Quel che è interessante è che Condorcet
riconosce nella creazione di una lingua universale e rigorosa una necessità pedagogica derivante dalla sempre più grande diffusione dell'istruzione. Se, infatti, il
genio può superare gli inconvenienti di un linguaggio poco preciso e può comunque discernere la verità, per far sì che le cognizioni possano essere efficacemente diffuse e apprese dalla maggior parte delle persone, occorre che siano espresse in una forma semplice ed esatta. Linguaggio ed educazione sono gli elementi
in cui si realizza la continuità dello sviluppo, ma sono anche i fattori propulsivi
del progresso.
Il tema della continuità e del progresso tendono quindi ad unificarsi nell'opera di Condorcet: sono i due aspetti concomitanti in cui si presenta l'evoluzione.
La nozione del progresso indefinito del sapere è pertanto la vera radice del pensiero di Condorcet, essa viene ampliamente sviluppata nel Prospectus in termini
molto chiari e precisi. I lumi che si sono faticosamente conseguiti non debbono
essere che la base per nuovi avanzamenti nella conoscenza e nell'emancipazione
sociale in uno sviluppo che non può avere fine. La realtà, con la sua estrema complessità, è l'oggetto inesauribile della ricerca: anche la sola considerazione meccanicistica dei fenomeni costituisce già un sistema enormemente vasto per l 'uomo.
Ciò non toglie che l'uomo abbia la capacità di adeguare continuamente la funzionalità dei suoi strumenti di indagine: metodi nuovi, semplificazioni sempre più
efficaci, generalizzazioni sempre più precise, energie nuove scaturite da masse
sempre più vaste di individui illuminati, amplieranno continuamente il campo di
comprensione e di dominio dell'uomo sulla natura. Il quadro dei progressi futuri dell'umanità che Condorcet presenta nella decima epoca del Prospectus, pervaso
di un ottimistico fervore, è animato dalle giustificate speranze di reali rinnovamenti sorte dalla rivoluzione francese; se tali speranze risultarono in gran parte
fallaci, lo spirito che le animava costituisce sempre fonte di ispirazione per ogni
cultura che voglia essere progressiva.
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CAPITOLO QUATTORDICESIMO
Il pensiero ftlosoftco-pedagogico italiano
DI LUDOVICO GEYMONAT E RENATO TISATO
I ·IL TRAPASSO DELLA CULTURA ITALIANA
DAL SEICENTO AL SETTECENTO
Il lettore avrà forse notato che nella sezione precedente non dedicammo
alcun capitolo specifico alla trattazione del pensiero italiano. Si fece sì, parecchie
volte, riferimento agli apporti - in taluni casi davvero notevoli - recati dai
discepoli e continuatori di Galileo alle singole discipline scientifiche, ma è fuori
dubbio che questi apporti non riuscirono purtroppo a confluire in un movimento
di portata nazionale, capace di imprimere un qualche ben delineato carattere alla
cultura del paese.
Il fatto è che le grandi svolte operate, nell'ambito della filosofia e della
scienza, dai pensatori del nostro rinascimento fino a Galileo incluso erano diventate da tempo patrimonio comune del pensiero europeo e stavano producendo,
come sappiamo, notevolissimi frutti in Francia, Inghilterra ecc. La situazione
dell'Italia aveva invece subìto nel xvn secolo un pauroso arretramento, almeno
nel campo delle più impegnative indagini filosofico-scientifiche sia per effetto
indiretto della mala amministrazione politica di quasi tutte le regioni (in ispecie
di quelle sotto il dominio spagnolo), sia più direttamente per il pesante clima di
intimidazione che la condanna di Galileo aveva diffuso in larghe schiere di intellettuali. Si ha l'impressione che per parecchi di essi l'unico serio problema
(anch'esso però tutt'altro che facile da risolversi) fosse quello di mantenere
qualche contatto personale con i più eminenti pensatori stranieri per ottenere
qualche informazione attendibile sui grandi dibattiti della cultura d'avanguardia.
Vi fu sì nelle nostre maggiori città una certa fioritura di studi storico-eruditi,
sostanzialmente non ostacolati dalla controriforma che si limitava a precludere
loro tal uni precisi reparti di storia religiosa ed ecclesiastica; ma il loro carattere
circoscritto, sostanzialmente avulso dai più generali problemi filosofici, contribuì
a rinchiudere gli spiriti, più che a sensibilizzarli verso i nuovi indirizzi che andavano diffondendosi nel resto dell'Europa.
È fuori dubbio che le ricerche storico-erudite testé accennate fornirono un
prezioso materiale filologico alle indagini di Vico. Non si può negare tuttavia
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Il pensiero filosofico-pedagogico italiano
che esse impressero ·alla cultura italiana un carattere retorico-umanistico che
pesò a lungo sulla nostra tradizione, radicando in parecchi studiosi anche di valore, la convinzione che ogni altro tipo di ricerca (orientata per esempio verso
una visione scientifico-filosofica del mondo) fosse intrinsecamente priva di un
autentico significato culturale. Purtroppo lo stesso Vico, che pur nutriva vivi
interessi per le scienze propriamente dette, finì per rafforzare questa tradizione
con la sua tenace e accanita polemica anticartesiana.
Nella seconda metà del xvn secolo si cominciano però a notare alcuni fermenti che, pur senza essere in grado di liberare la cultura italiana dalla pesante
cappa testé accennata, rivelano un nuovo interesse per ciò che sta elaborandosi
al di là delle Alpi. Essi sfociano nella creazione di vere e proprie scuole, che si
propongono di rinfocolare i contatti col grande pensiero europeo su di un piano
non più soltanto individuale ma per così dire collettivo. I limiti concettuali di
queste scuole sono incontestabili, ma esse hanno l'indubbio merito di dar luogo
a più ampi dibattiti, che tendono a strappare faticosamente il nostro paese dall'isolamento in cui era caduto.
La rinascita culturale italiana del Settecento è strettamente connessa alla
nuova atmosfera creata da tali scuole: ciò non significa però che ne sia una diretta
prosecuzione, ed infatti, se un rapporto del genere può venire in certo senso affermato per gli illuministi, dei quali parleremo negli ultimi paragrafi del presente
capitolo, esso non sussiste sicuramente per Vico che anzi si oppose energicamente alle filosofie straniere di recente importazione. Eppure anche il suo pensiero subì profondamente l'influenza dell'anzidetta atmosfera: fu essa a stimolarlo,
a parlo di fronte a gravissimi problemi, a fargli cercare vie originali per la loro
soluzione ( « originali», anche se ricavate da un serio ripensamento dei temi in
qualche modo contenuti nella tradizione umanistico-erudita di cui abbiamo
poco sopra fatto cenno).
Ciò premesso, risulta chiaro che, prima di accingerci ad esporre il pensiero
italiano del Settecento (nelle sue due fondamentali componenti, vichiana e illuministica), sarà opportuno fornire qualche informazione, sia pur brevissima e
meramente schematica, sui tentativi compiuti negli ultimi decenni del Seicento,
di aggiornare il nostro paese intorno ai risultati ottenuti dalle più famose correnti filosofiche europee.
Spetta alla cultura napoletana il merito di aver capito l'importanza del cartesianesimo e la necessità di iniziare al più presto una diffusione sistematica di
esso. Fu per l'appunto un professore dell'università di Napoli, Tommaso Cornelio (1614-86), matematico, astronomo e medico, a introdurre in Italia la
conoscenza diretta delle opere del grande pensatore francese. Meccanicista convinto, egli accettò quasi per intero le ipotesi della fisica e della fisiologia cartesiane, ritenendo - quale erede del glorioso pensiero rinascimentale italiano di poter trovare senza difficoltà il modo tli conciliarlo con il vecchio naturalismo
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di Telesio nonché con le dottrine di Galileo. Anche il medico e filosofo Leonardo da Capua (I 6 I 7-9 5), amico del precedente, fu seguace degli insegnamenti
di Cartesio e perciò strenuo avversario della medicina galenica. Egli pure si
mostrò fermamente convinto di poter conciliare la scienza cartesiana con quella
galileiana (segno evidente che non aveva saputo enucleare le ben diverse radici
filosofiche dell'una e dell'altra), rivelando tra l'altro notevoli simpatie per l'atomismo di Democrito. A Tommaso Cornelio e Leonardo da Capua si deve la fondazione dell'accademia degli Investiganti, organizzata sul modello di quella che
era stata la gloriosa accademia del Cimento di Firenze.
Di pochi decenni più giovane fu Gregorio Coloprese della Scalea (I 6 5o- I 715)
egli pure cartesiano entusiasta (« gran filosofo renatista », per usare le parole di
Vico), che può venire considerato uno dei più dotti e autorevoli professori
dell'epoca; pare che alla sua scuola venissero anche esposte e discusse le idee
dei giansenisti.
Non occorre aggiungere altri nomi per dimostrare quanto fosse numeroso
e vivace il gruppo dei cartesiani di Napoli. Sembra invece indispensabile chiarire
quale fosse il vero scopo del loro cartesianesimo: il richiamo al pensatore francese assumeva in loro il precipuo significato di una lotta aperta contro la vecchia
cultura, contro le concezioni tradizionali della filosofia e della scienza (tanto da
suscitare non pochi sospetti e persecuzioni da parte dei censori ecclesiastici).
Proprio perciò non dobbiamo stupirei che essi non provassero alcun disagio a
difendere, insieme con le teorie di Cartesio, anche quelle - per verità assai differenti - di Galileo o di Gassendi, e non di rado oscillassero tra la difesa del
più schietto empirismo e l'adesione a un matematismo di tipo pitagorico-platoni-:co. Come spiega assai bene Eugenio Garin, « soprattutto scientifico fu originariamente l'interesse destato da Cartesio, e medici e naturalisti quelli che primi si
occuparono di lui. Essi nella nuova filosofia vedevano soprattutto lo strumento
polemico contro la tradizione, il mezzo di affermare e difendere le idee nuove.
Chi volesse opporre nella cultura del tempo motivi galileiani, cartesiani e poi gassendisti, andrebbe assai lungi dal vero, ché li vediamo generalmente congiunti
in un unico sforzo».
Non mancarono, è vero, altri cartesiani, direttamente interessati anche alla
metafisica del pensatore francese; basti citare Michelangelo Fardella da Trapani
(I658-I7I8), che insegnò la filosofia cartesiana all'università di Padova dal I693
al I 709. Ma il significato innovatore della loro opera è in certo senso meno rilevante di quello del « cartesianesimo napoletano ». I problemi da essi dibattutti
riguardano la conciliabilità della filosofia cartesiana con la religione cattolica, la
possibilità di inserire il cartesianesimo nella tradizione del platonismo rinascimentale, di interpretarlo in chiave agostiniana, ecc. ; questioni tutte indubbiamente
importanti, ma che tendono in modo più o meno esplicito ad attenuare la frattura
fra il vecchio e il nuovo.
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Il pensiero filosofico-pedagogico italianu
Ritorneremo nel paragrafo VI su altri sviluppi del cartesianesimo in Italia;
qui basti aver rilevato la funzione di autentica rottura che rappresentò - per il
nostro paese - questa prima presa di contatto, in forma sistematica, con un
grande filosofo di livello europeo. Allo studio di Cartesio e di Gassendi seguirà,
poco più tardi, quello di altri famosi autori (Locke, Newton, Leibniz, ecc.) che
porteranno alla ribalta sempre nuovi problemi. Saranno questi con tatti, via via
più frequenti, a rendere possibile la mirabile rinascita che caratterizzerà la cultura
italiana nel XVIII secolo.
II · VITA E OPERE DI VICO
Di modestissima famiglia, Giambattista Vico nacque a Napoli nel" 1668.
Come ci racconta egli stesso nella propria Autobiografia, 1 fu lungamente infermo, tra i sette e i dieci anni, in seguito a una grave caduta: si salvò per le attente
cure ricevute, ma «dal guarito malore pervenne che indi in poi e' crescesse di
una natura malinconica ed acre ». Allievo dei gesuiti, fu da essi stimolato a intense letture prima di logica e poi di metafisica; ma, tutto sommato, il giovane si
sentiva più interessato alla poesia che non alla filosofia. Suo padre invece voleva
avviarlo a studi giuridici per farne un avvocato; in effetti si addottorò in legge,
forse a Salerno, fra il 1693 e il '94· Intanto aveva dovuto accettare un posto
da precettore presso la famiglia di un nobile napoletano, Domenico Rocca marchese di Vatolla, e tale professione lo costrinse a vivere per nove anni (dal 1686
al 1695), quasi ininterrottamente nel castello avito che il marchese possedeva
nel Cilento (per l'appunto a Vatolla): furono anni di «esilio» (forse meno rigoroso, però, di quanto Vico racconta nell'anzidetta Autobiografia) dedicati a
studi molto intensi e a profonde meditazioni.
Sul tipo di letture compiute in tali anni dal nostro autore sono sorte di
recente parecchie discussioni. Se è certo infatti che egli lesse attentamente le opere
di Agostino e dei più famosi rinascimentali (Ficino, Pico, Patrizi), non meno certo
è tuttavia che subì anche l'influenza di Lucrezio e delle correnti fisico-materialistiche allora vivacemente dibattute dai circoli « novatori » della cultura napoletana. Ne è sicura testimonianza la celebre canzone, di manifesta ispirazione lucreziana, che Vico scrisse verso il 1692. e pubblicò nel '93; essa ha per titolo Affetti
di un disperato ed è interamente dominata da un inconsolabile pessimismo sia per le
sorti personali dell'autore sia, più in generale, per la sorte stessa del cosmo.
Un valente studioso di Vico (Antonio Corsano) ha avanzato, qualche decennio
fa, l'ipotesi di una crisi religiosa del giovane Vico che avrebbe determinato il
I È questa un documento estremamente
interessante, ma non sempre attendibile; fu infatti scritta quando Vico aveva poco meno di
cinquant'anni, ed è quindi ben spiegabile che egli
non ricordasse più esattamente tutti i particolari
della propria infanzia. Risulta inoltre viziata dall'intento dell'autore di presentarci un quadro della
propria vita (in particolare della propria formazione) quale egli la vedeva a partire dalle nuove
posizioni ormai maturate in lunghi anni di studio.
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suo trapasso, da una primitiva adesione all'epicureismo, a una posizione filosofica orientata in senso neoplatonico. Anche se tale ipotesi sembra poco accettabile non si può tuttavia negare che lo sviluppo del pensiero vichiano abbia attraversato una fase (sostanzialmente passata sotto silenzio nell'Autobiografia) in
cui il nostro autore fu assai meno lontano dal meccanicismo di quanto lo sarà
negli anni della piena maturità.
Un'altra cosa è certa: che nel periodo in esame e ancora per molti anni più
tardi (all'incirca fino al 1714), Vico nutrì un serio e vivo interesse per i problemi
di fisica e di biologia. Dopo il distacco dalla fase originaria cui abbiamo or ora
fatto cenno, egli penserà di poterli risolvere in forma decisamente antimateriaUstica e antimeccanicistica (ispirandosi ai temi vitalistici del Timeo platonico),
e anche se tale soluzione ci appare arretrata rispetto alla scienza dell'epoca, essa
vale comunque a confermarci la grande importanza attribuita dal nostro autore
a tale tipo di problemi; purtroppo il Liber physicus dedicato all'argomento è andato perduto.
Rientrato nel 1695 a Napoli, fu subito ammesso a frequentare i migliori salotti letterari della città ove si fece ammirare per le sue poesie e la grande erudizione (nel 1710 verrà aggregato all'Arcadia). Nel gennaio 1699 vinse la cattedra
di retorica presso l'università di Napoli (carica però che comportava uno stipendio assai modesto) e nel dicembre del medesimo anno si sposò; il grande numero dei figli nati da tale matrimonio (ben otto) renderà sempre più pesante la
situazione finanziaria del filosofo.
Principale frutto del suo insegnamento universitario sono le sette orazioni
inaugurali che Vico ebbe l'incarico di pronunciare in latino all'apertura dell'anno
accademico (fra il 1699 e il 1708), la più importante delle quali è l'ultima, letta
nel 1708 e pubblicata nel 1709. Come dice il suo stesso titolo, De nostri temporis
studiorum ratione (Sul metodo degli studi del nostro tempo), questa orazione tratta con
ampiezza l'organizzazione degli studi, stabilendo un raffronto critico fra il livello da essi raggiunto in tempi moderni e quello che possedevano in passato.
Fra le più interessanti tesi ivi sostenute ricordiamo: l'impossibilità di affrontare
con un medesimo metodo le scienze dell'uomo e quelle della natura, la difesa
dell'indirizzo sperimentale nelle ricerche fisiche, la critica della pretesa cartesiana di giungere alla conoscenza della natura per via puramente matematica. A
proposito di quest'ultimo argomento sono celebri le seguenti parole: «geom6trica
demonstramus, quia facimus; si physica demonstrare possemus,faceremus » («dimostriamo
le proposizioni geometriche perché le facciamo; se potessimo dimostrare quelle
fisiche, le faremmo»).
Nel 1710 Vico pubblica una prima esposizione sistematica della propria
visione del mondo: De antiquissima italorum sapientia ex linguae latinae originibus
eruenda (Dell'antichissima sapienza italica da rintracciarsi nelle origini della lingua latina).
In quest'opera l'autore tenta di illuminare le concezioni dei primi popoli italici,
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quali gli Joni e gli Etruschi, ricavandole dallo studio di talune parole che sarebbero passate dalle loro lingue in quella latina. Vi si trova per la prima volta
chiarito in tutta la sua portata il famoso criterio del verum ipsum factum, su cui
ci soffermeremo nel prossimo paragrafo; esso costituisce il perno di una serrata
critica contro « i dogmatici del nostro tempo », cioè i cartesiani. Vi si trova pure
abbozzata una classificazione delle scienze a partire dalla più certa, cioè dalla
matematica, alla meccanica, poi alla fisica e infine alla morale (è una classificazione
che verrà rovesciata nelle opere successive).
Nel I7I3 inizia la stesura di una ricerca storica su Antonio Carafa; essa gli
offre l'occasione di rileggere le opere di Grozio il quale diventa così uno dei
quattro autori preferiti di Vico (accanto a Platone, a Tacito e a Bacone). Uscirà
nel I7I6 col titolo De rebus gestis Antonii Caraphaci (Intorno alle imprese di Antonio
Carafa).
Da questo momento l'interesse di Vico si volge prevalentemente ai problemi
di diritto e di storia. Nel I72o inizia la pubblicazione del Diritto universale, un'opera
che può venire considerata quale primo abbozzo della futura Scienza nuova. Un
secondo abbozzo di essa è elaborato tra il I723 e il '24 con la cosiddetta Scienza
nuova in forma negativa, che è andata smarrita. Finalmente nel I725 esce la prima
edizione del capolavoro vichiano: Principi di una scienza nuova d'intorno alla natura
delle nazioni (è la cosiddetta Scienza nuova prima).
Nel medesimo anno il nostro autore stende la propria autobiografia (Vita
di Giambattista Vico scritta da se medesimo) a cui apporterà una notevole Aggiunta
nel 173 I su invito di Muratori.
Fra il natale I729 e l'aprile I730 riscrive il proprio capolavoro che uscirà
nel dicembre col titolo Cinque libri di G.B. Vico de' principi d'una scienza nuova
d'intorno alla comune natura delle nazioni (è la cosiddetta Scienza nuova seconda).
Nel I 7 3 5 ottiene la carica di storiografo regio, e intanto gli viene raddoppiato lo stipendio di profess