Capitolo I PV - Dipartimento di Giurisprudenza

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CAPITOLO I
Prassi ed attori del diritto sindacale nei Paesi dell’Unione Europea. La
regolazione comunitaria.
Sommario: 1. La rilevanza del diritto comparato, oggi – 2. I rapporti collettivi di lavoro nel diritto
comunitario – 3. Il sindacalismo in Europa – 4. Gli accordi sindacali europei e l’iniziativa degli organi
comunitari – 5. Il diritto di associazione, di sciopero e di serrata nei diversi Paesi europei e nel diritto
comunitario – 6. I modelli di rappresentanza dei lavoratori a livello aziendale nei Paesi dell’Unione Europea
– 7. Il contratto collettivo negli ordinamenti europei – 8. La contrattazione collettiva a livello comunitario.
1. – La rilevanza del diritto comparato, oggi.
E’ necessario, in primo luogo, fare un riferimento all’importanza che oggi riveste il
diritto comparato. Esso non presenta più un’importanza meramente culturale, come si
è in passato spesso ritenuto, bensì un’importanza di tipo operativo. Il diritto
comparato non serve più solo ad interpretare meglio il diritto nazionale o a fornire
indicazioni per le riforme legislative, ma presenta anche una rilevanza operativa.
Il diritto comparato – che implica la conoscenza degli altri sistemi – è necessario per
risolvere i casi che pone l’economia globalizzata. Infatti, a causa della crescente
internazionalizzazione degli affari e dell’espansione della libera circolazione dei
lavoratori, ad esempio nell’Unione Europea, il fenomeno dei lavoratori che
incontrano diversi “diritti” è divenuto un fatto normale della vita.
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Le imprese multinazionali, del resto, operano già in differenti nazioni ed incontrano
una pluralità di ordinamenti, da cui nascono problemi operativi che, solo conoscendo
i singoli ordinamenti, si è in grado di risolvere.
Quindi, la finalità dello studio del diritto comparato, come si è già sottolineato, non è
più solo culturale, ma operativa: sapere che cosa accade oltralpe è importante molto
spesso per risolvere dei casi pratici. Questo vale in generale; e vale anche per il diritto
del lavoro che, pur essendo un diritto di matrice nazionale, non può più essere
considerato come un fenomeno da contenere entro i nostri confini.
Va da sé, tuttavia, che, come avvertivano i grandi comparatisti di un tempo, la
comparazione tra sistemi giuridici è utile (e possibile) solo se si adotta un approccio
funzionale: se, cioè, si comparano funzioni e non istituzioni. Questo è possibile se
l’analisi giuridica tiene conto del contesto sociale, economico e politico e se si va al
di là della terminologia e delle categorie tipiche del nostro sistema.
2. – I rapporti collettivi di lavoro nel diritto comunitario.
Occorre, a questo punto, soffermarsi nel merito sul tema “Prassi ed attori del diritto
sindacale nei Paesi dell’Unione Europea. La regolazione comunitaria”.
Come è noto, i rapporti collettivi – a differenza dei rapporti individuali di lavoro –
costituiscono una materia particolarmente resistente all’influsso del diritto
comunitario, anche nelle forme più blande.
Il motivo di fondo è rappresentato dall’eterogeneità dei vari ordinamenti collettivi
europei del lavoro. Anche nei Paesi, come quelli dell’Europa continentale, in cui si è
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avuta una pervasiva regolamentazione dei rapporti individuali di lavoro, è diffusa
l’idea che i fenomeni collettivi debbano essere lasciati all’autonomia delle parti e il
potere statale debba astenersi da interventi di merito.
Lo sfavore nei confronti di direttive comunitarie sui rapporti collettivi è comune sia
alle associazioni sindacali, favorevoli solo ad interventi comunitari di tipo
promozionale sui diritti di informazione e consultazione (v. direttiva 2002/14 Ce), sia
alle organizzazioni imprenditoriali, in questo caso soprattutto per il timore che la
Comunità arrivi a promuovere un livello di contrattazione collettiva europea.
3. – Il sindacalismo in Europa.
L’estrema eterogeneità dei sistemi di relazioni industriali concerne il tipo ed il grado
di sindacalizzazione dei lavoratori, le strutture ed i contenuti della contrattazione
collettiva, le dimensioni del conflitto collettivo, in particolare dello sciopero, nonché
le forme e gli ambiti in cui è consentita o promossa la partecipazione dei lavoratori
all’impresa, o meglio alla gestione delle aziende (secondo la terminologia presente
nell’art. 46 della Costituzione italiana).
In ambito europeo, vi sono Paesi in cui il sindacato è debole e diviso, come la
Francia, e Paesi in cui, invece, il sindacato è forte ed unitario, come la Germania.
L’Italia rappresenta un caso intermedio, in quanto presso di noi il sindacato è diviso,
ma non debole, anche se negli ultimi anni vi è stato un indebolimento della
sindacalizzazione dei lavoratori attivi, compensata dalla sindacalizzazione dei
pensionati (v. infra).
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Dall’analisi delle tabelle derivanti da uno studio di Visser del 2006, concernenti i dati
della sindacalizzazione dal 1970 al 2003, risulta che vi è stato un calo della
sindacalizzazione pressoché generalizzato in tutti i Paesi. Le tabelle prendono in
considerazione non solo i Paesi europei, ma anche altri Paesi, quali Stati Uniti e
Australia. Le statistiche mostrano un calo della sindacalizzazione in tutti i Paesi
sviluppati, eccetto quelli molto piccoli ed in un certo senso compatti come l’Olanda e
il Belgio. Con riferimento all’Italia, non si ravvisa un calo di sindacalizzazione, dal
momento che, al venir meno del numero degli iscritti come lavoratori attivi, il
sindacato ha supplito con l’iscrizione dei pensionati.
Come precedentemente sottolineato, in Europa abbiamo una situazione eterogenea,
con sindacati deboli e divisi (Francia), sindacati unitari e forti (Germania), sindacati
forti ma divisi (Italia). La divisione dei sindacati nel nostro Paese rappresenta una
realtà, come dimostrano le differenze di impostazione sussistenti attualmente tra
CGIL, da una parte, e CISL e UIL, che li ha portati alla firma separata di un accordo
importante quale quello sulla riforma degli assetti contrattuali del 2009.
In tutti i Paesi europei, ad eccezione della Gran Bretagna, si riconosce che il contratto
collettivo è la principale fonte regolativa del rapporto di lavoro. Tuttavia, la struttura
della contrattazione collettiva si presenta diversificata nei diversi Paesi.
Nella maggior parte di essi prevale il contratto nazionale di categoria. L’Italia è uno
di questi, anche se attualmente si sta affrontando la strada del decentramento,
soprattutto dopo il citato accordo del 2009.
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Tra gli Stati in cui prevale il contratto nazionale di categoria vi sono, quindi, la
Germania, la Francia, ma, allo stato, anche l’Italia, nonostante si cerchi di indirizzarsi
verso un maggiore decentramento contrattuale. Si hanno, invece, altri Paesi, come la
Gran Bretagna, dove prevale la struttura decentrata, ovvero la contrattazione a livello
di azienda, non a livello di industry.
Anche in tema di conflitto collettivo, cioè essenzialmente di sciopero, vi sono delle
diversità tra i vari Paesi europei. In alcuni, come la Germania, vi sono obblighi di
pace sindacale. Dalla stipulazione del contratto collettivo nazionale di lavoro nasce,
cioè, un obbligo di pace sindacale in capo alle associazioni sindacali: è, quindi,
illecito lo sciopero nell’arco di vigenza temporale del contratto collettivo e la pace
sindacale è raramente violata. Esistono, invece, Paesi che non conoscono l’obbligo di
pace sindacale nell’arco di vigenza del contratto collettivo e che hanno una più
intensa conflittualità; tra questi vi è l’Italia, che mantiene dei livelli di conflitto alti,
seppur decrescenti nell’industria (salvo il settore dei servizi pubblici essenziali).
E’ interessante osservare che anche il settore del pubblico impiego, pur se
decrescente per importanza in Europa a seguito delle politiche di privatizzazione, è
oggetto di una diversa configurazione nei diversi ordinamenti. In Italia, il rapporto di
pubblico impiego, salve limitate eccezioni, è contrattualizzato, ovvero regolato dalla
contrattazione collettiva; mentre in altri Paesi, ad esempio in Francia, è regolato per
legge.
Gli studiosi delle relazioni industriali hanno affermato correttamente che tutti i
principali modelli teorici discussi a proposito dei sistemi di relazioni industriali, dal
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modello partecipativo o neocorporativista, che è quello tedesco, al modello
pluralistico-conflittuale, che è quello inglese e nordamericano, e le loro varie
combinazioni, sono presenti in Europa. In conclusione, nell’Europa continentale,
l’importanza della contrattazione collettiva ai fini della regolazione delle condizioni
di lavoro rappresenta un dato comune, mentre emerge un’assoluta eterogeneità in
riferimento alla forza dei sindacati, alla struttura della contrattazione collettiva, ai
contenuti dei contratti collettivi, nonché alla tipologia ed alla intensità del ricorso al
conflitto.
4. – Gli accordi sindacali europei e l’iniziativa degli organi comunitari.
L’iniziativa comunitaria, in materia di rapporti collettivi, è stata contenuta in ambiti
limitati.
Questa cautela è stata confermata a Maastricht e nei trattati successivi che, pur
allargando le competenze della Comunità in materia sociale, ne hanno escluso del
tutto l’area del “diritto di associazione”, del “diritto di sciopero” e del “diritto di
serrata”, oltre che delle retribuzioni. L’articolo 2 dell’accordo sulla politica sociale
allegato al Trattato di Maastricht (ex art. 137 TCE; oggi, a seguito dell’entrata in
vigore del Trattato di Lisbona, e quindi del varo della versione consolidata dei
Trattati, art. 153 TFUE, par. 5) dispone, infatti, che “le disposizioni del presente
articolo”, ovvero quelle concernenti le competenze dell’Unione Europea in materia di
lavoro, “non si applicano alle retribuzioni, al diritto di associazione, al diritto di
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sciopero né al diritto di serrata”. Sussiste, quindi, un’esplicita esclusione dalle
competenze comunitarie di queste materie.
Ciò significa che devono escludersi interventi regolatori comunitari in riferimento al
conflitto nelle sue varie forme, ai rapporti intersindacali, alle diverse forme di
associazione e partecipazione e, probabilmente, ai requisiti di rappresentatività
sindacale.
Della rappresentatività sindacale la Commissione ed il Consiglio devono occuparsi
ogniqualvolta le parti siano firmatarie di un accordo concluso ai sensi dell’ex art. 139
TCE (oggi art. 155 TFUE). Trattasi della norma che promuove il dialogo sociale tra i
sindacati comunitari, cioè i sindacati europei dei lavoratori e dei datori di lavoro: nel
momento in cui tali soggetti arrivano ad un accordo, questo può essere, nelle materie
di competenza comunitaria, recepito da una decisione del Consiglio (in realtà, come
si vedrà, una direttiva). Vi sono stati molti casi in cui è stata adottata tale procedura.
Si pensi, ad esempio, alla direttiva sul contratto a termine, la direttiva n. 99/70,
recepita nel nostro ordinamento con il d.lgs. n. 368 del 2001, che deriva da un avviso
comune (nome dato all’accordo a livello europeo dalle parti comunitarie), cioè da un
accordo raggiunto dai sindacati europei (dai sindacati dei lavoratori e dai sindacati
dei datori di lavoro). Il Consiglio ha poi trasfuso questo avviso comune, ovvero
questo accordo, in una direttiva e l’Italia lo ha, a sua volta, attuato con il d.lgs. n. 368
del 2001.
Come precedentemente osservato, ciò è frutto non esclusivamente di una prassi, bensì
di una previsione normativa contenuta nell’ex art. 139 TCE, oggi art. 155 TFUE, il
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quale stabilisce che gli accordi conclusi a livello dell’Unione sono attuati secondo le
procedure e le prassi proprie degli Stati membri o, nell’ambito dei settori contemplati
dall’art. 153 TFUE, cioè nell’ambito dei settori per cui vi è competenza comunitaria a
legiferare, e a richiesta congiunta delle parti firmatarie, in base ad una decisione del
Consiglio su proposta della Commissione.
Quindi, una volta raggiunto l’accordo, questo può essere attuato o tramite le
procedure e le prassi proprie degli Stati membri, oppure le parti possono chiedere al
Consiglio di dare attuazione al medesimo, e il Consiglio vi dà attuazione tramite
questa “decisione”. “Decisione” è un termine atecnico, poiché non esiste un atto
formale della Commissione che assume questa denominazione: e di fatto si è
utilizzato lo strumento tecnico della direttiva.
Il problema che si pone in relazione all’ex art. 139 TCE è di capire se il Consiglio
deve dare attuazione a qualsiasi accordo stipulato da qualunque sindacato. La risposta
è negativa. La Commissione ed il Consiglio, in particolare, hanno adottato
indicazioni, in seguito convalidate ed avallate dal Tribunale di prima istanza
dell’Unione Europea (17 giugno 1998, causa T-135/96), in ordine alla
rappresentatività dei soggetti stipulanti l’accordo, precisando che il Consiglio è tenuto
a tramutare in una sua decisione, quindi in una direttiva, solo un accordo concluso da
sindacati dotati di una certa rappresentatività.
Trattandosi di accordi che hanno per oggetto materie di carattere generale – si pensi
alla materia del contratto a termine, oppure alla materia dei congedi parentali – la
Commissione, il Consiglio e lo stesso Tribunale di prima istanza hanno, chiarito che
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occorre che vi sia una rappresentanza di tipo intercategoriale. Le organizzazioni
sindacali che stipulano il contratto, o avviso comune (in realtà un accordo, secondo la
nostra terminologia), devono, cioè, essere organizzazioni sindacali intercategoriali
che rappresentino tutti i soggetti lavoratori e datori di lavoro operanti nella materia
del lavoro. Periodicamente la Commissione stila l’elenco delle organizzazioni
sindacali che possono essere considerate rappresentative a livello comunitario.
Queste sono: per i sindacati dei lavoratori, la CES (Confederazione europea dei
sindacati); per i sindacati dei datori di lavoro, l’UNICE, che rappresenta i datori di
lavoro privati, e il CEEP, che rappresenta le imprese pubbliche.
Nella direttiva sul lavoro a tempo determinato, che recepisce un accordo stipulato da
CES, CEEP e UNICE, si afferma che la Commissione ha elaborato la sua proposta di
direttiva in linea con la propria Comunicazione del 14 dicembre 1993, concernente
l’attuazione del Protocollo sulla politica sociale, e in linea con la propria
Comunicazione del 20 maggio 1998, che adegua e promuove il dialogo sociale a
livello comunitario, tenendo conto della rappresentatività delle parti contraenti, del
loro mandato e della legittimità di ciascuna clausola dell’accordo; poi – con frase
lapidaria – si afferma che i firmatari hanno una rappresentatività cumulativa
sufficiente (il 18° considerando). Quest’ultima previsione sta ad indicare che
l’esclusione di un sindacato minore dalla procedura (si pensi al sindacato degli
artigiani, che spesso non riesce ad entrare nel dialogo sociale) non assume rilevanza
ai fini dell’attuazione dell’accordo stipulato a livello sindacale.
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5. – Il diritto di associazione, di sciopero e di serrata nei diversi Paesi europei e nel
diritto comunitario.
Come precedentemente osservato, il par. 5 dell’attuale art. 153 TFUE prevede che le
disposizioni in esso contenute non si applicano al diritto di associazione, al diritto di
sciopero e al diritto di serrata. Non è facile stabilire le implicazioni di queste
esclusioni dalle competenze comunitarie, anche perché le accezioni con cui vengono
intesi i tre diritti o libertà nominati nel trattato sono differenti nei vari Stati membri.
Ad esempio, il diritto di sciopero, in Italia, come in Francia, è tendenzialmente un
diritto individuale ad esercizio collettivo; infatti, la proclamazione sindacale non è un
elemento necessario per dare ingresso ad uno sciopero tutelato ai sensi dell’art. 40
della Costituzione, a parte che nel settore dei servizi pubblici essenziali per cui vi è
una normativa particolare (l. n. 146 del 1990 e succ. mod.). In Francia ed in Italia,
quindi, lo sciopero è un diritto individuale dei singoli lavoratori (anche se ad
esercizio collettivo), e la proclamazione sindacale è solo un atto interno che vale
semplicemente come un invito ai lavoratori a scioperare, ma non fa parte della
struttura del diritto. Diversamente accade in Germania, dove il diritto di sciopero è in
effetti un diritto sindacale, più che un diritto dei singoli, poiché è necessaria la
proclamazione da parte delle associazioni sindacali che hanno sottoscritto il contratto
collettivo.
Per quanto concerne la serrata, è escluso nella maggior parte dei Paesi europei
(Spagna, Francia, Italia) che essa sia un diritto, mentre è protetta in varia misura in
altri (Germania). Il “diritto di serrata” è stato equiparato al “diritto di sciopero” prima
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dal Protocollo di Maastricht, poi dalla Carta dei diritti fondamentali di Nizza (art. 28),
divenuta vincolante a seguito dell’art. 6 TUE.
L’art. 28 della Carta di Nizza, in particolare, stabilisce che i datori di lavoro ed i
lavoratori e le rispettive organizzazioni hanno, conformemente al diritto dell’Unione,
alla legislazione ed alle prassi nazionali, il diritto di negoziare e concludere contratti
collettivi ai livelli appropriati e di ricorrere, in caso di conflitti di interessi, ad azioni
collettive. Pertanto, poiché sia i datori di lavoro sia i lavoratori e le loro
organizzazioni hanno il diritto di intraprendere azioni collettive, la disposizione
sembrerebbe includere, nel diritto all’azione collettiva, anche la serrata.
Come già rilevato, associazione sindacale, contratto collettivo, sciopero e serrata sono
esclusi dall’ambito delle competenze comunitarie. In materia “sindacale”, ai sensi
dell’ex art. 137 TCE (oggi 153 TFUE), le autorità comunitarie possono deliberare, a
maggioranza qualificata, esclusivamente per ciò che concerne i diritti di informazione
e consultazione.
Il rapporto tra i diritti sindacali, cioè la libertà sindacale, il diritto di sciopero e di
serrata, la contrattazione collettiva e le libertà fondamentali economiche sancite nel
trattato, in particolare la libertà di concorrenza, la libertà di circolazione delle merci e
dei servizi, ha sollevato, tuttavia, delicati interrogativi. Per risolvere questi ultimi, è
intervenuta la Corte di giustizia che, a dispetto della mancanza di competenza
comunitaria in materia, ha dato importanti indicazioni sia per quanto riguarda la
contrattazione collettiva, sia per quanto riguarda il conflitto collettivo, assoggettati a
restrizioni alla stregua del principio di proporzionalità.
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Di assoluta rilevanza è la sentenza 12 giugno 2003, causa C-112/00, Schmidberger v.
Repubblica d’Austria. Nel caso in esame, l’Austria non aveva impedito una
manifestazione di ambientalisti che aveva causato il blocco del traffico presso il tratto
autostradale del Brennero. Ci si era, pertanto, posti il problema se lo Stato austriaco
non fosse inadempiente agli obblighi comunitari, in quanto non aveva impedito una
manifestazione che ostacolava la libera circolazione delle merci. Dal momento che il
diritto comunitario, accanto alla libera circolazione delle merci, riconosce la libertà di
espressione e di manifestazione del pensiero, la Corte di giustizia si è trovata, nel
caso di specie, a dover contemperare due diversi diritti. Ed ha affermato che la libertà
economica è assoggettabile a restrizioni, allorché si debbano perseguire obiettivi di
interesse generale ed allorché la limitazione risponda al principio di proporzionalità.
In conclusione, vi è un filone giurisprudenziale, di cui può essere considerata
antesignana la suddetta sentenza della Corte di giustizia del 2003, per cui deve essere
assicurato un bilanciamento tra i diritti fondamentali e le libertà fondamentali
stabilite dal trattato (tra cui la libera circolazione delle merci). Secondo questo
orientamento, applicato alla nostra materia attraverso le modalità che vedremo (v.
infra cap. II), anche i diritti fondamentali possono, subire restrizioni se occorre
perseguire obiettivi di interesse generale e si tratta di una restrizione proporzionata.
6. – I modelli di rappresentanza dei lavoratori a livello aziendale nei Paesi
dell’Unione Europea.
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Come si è detto, il sindacalismo europeo risulta differenziato per struttura, per
consistenza, per tradizioni ideologiche ed anche per pratiche contrattuali. Ad
esempio, in Italia e in Francia il sindacato si presenta diviso su base ideologica. Ciò
non avviene in Germania (e nemmeno nel Regno Unito).
Nel Regno Unito, in particolare, è poi presente il sindacalismo di mestiere, il craft
unionism, diverso rispetto al tipo di sindacato generale che associa tutti i lavoratori
indipendentemente dall’attività che svolgono, presente negli altri Paesi europei. E il
tasso di sindacalizzazione si è ridotto nel 2003 rispetto al 1970 in tutti i Paesi
avanzati. Anche le tipologie di rappresentanza dei lavoratori nell’impresa si
presentano diversificate. Di essa esistono, come è noto, due modelli fondamentali:
quello del canale unico e quello del canale doppio di rappresentanza sindacale.
Il modello del canale unico implica la presenza di una sola forma di rappresentanza
dei lavoratori all’interno dell’impresa; il modello del canale doppio, invece, implica
la presenza di due forme di rappresentanza dei lavoratori, una di tipo associativo, di
derivazione sindacale (la rappresentanza dei lavoratori iscritti ad un sindacato
all’interno dell’impresa), l’altra di tipo elettivo, ovvero la rappresentanza generale di
tutti i lavoratori dell’impresa, siano essi iscritti o non iscritti al sindacato. Negli Stati
dove è presente il canale doppio di rappresentanza all’interno dell’impresa, e sono la
gran parte in Europa, alla duplicità di struttura corrisponde una diversità di funzioni.
Le funzioni della rappresentanza associativa, di tipo sindacale, sono diverse dalle
funzioni della rappresentanza elettiva, vale a dire della generalità dei lavoratori: più
in particolare, la rappresentanza di tipo associativo ha normalmente una funzione di
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contrattazione a livello aziendale; mentre la rappresentanza di tipo elettivo ha
soprattutto compiti di informazione e consultazione in determinate materie, ma non,
appunto, di contrattazione. Questa è riservata alla rappresentanza di tipo sindacale in
senso stretto al fine di mantenere una certa coesione all’interno del sistema di
contrattazione collettiva. I soggetti che eventualmente contrattano a livello aziendale
devono essere gli stessi che hanno stipulato il contratto collettivo nazionale, per
garantire la coerenza dei contenuti tra i due livelli di contrattazione. La
rappresentanza di tipo elettivo ha, invece, funzioni di informazione, di
partecipazione, specialmente per temi che riguardano la generalità dei lavoratori (si
pensi al tema della sicurezza dei lavoratori).
L’Italia presenta un modello ibrido. Si può dire che essa abbia un canale unico, dal
momento che l’ordinamento prevede unicamente le RSA di cui all’art. 19 St. Lav. Le
RSA, ai sensi dell’art. 19 St. Lav., hanno poi concretamente assunto la forma delle
RSU, in base alle disposizioni poste dalla contrattazione collettiva (v. protocollo 23
luglio 1993 e accordo interconfederale 20 dicembre 1993). La disciplina delle RSU è,
dunque, una disciplina di tipo contrattuale e non legale (il legislatore conosce solo le
RSA di cui all’art. 19 St. Lav.) A seguito di un lungo processo, si è arrivati alla
previsione delle rappresentanze sindacali unitarie, i cui componenti sono per un terzo
riservato associazioni sindacali firmatarie dei contratti collettivi nazionali applicati
nell’unità produttiva e per la parte restante eletti dalla generalità dei lavoratori, anche
se sulla base di liste presentate vuoi dai sindacati stipulanti i contratti collettivi
nazionali, vuoi da altri sindacati che abbiano almeno un certo quorum di
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rappresentatività. La rappresentanza sindacale unitaria presenta, quindi, una doppia
anima, in quanto è in parte un’emanazione del sindacato ed in parte ha la struttura
della rappresentanza generale. L’involucro è quello di una rappresentanza generale
dei lavoratori, perché elettiva: tutti partecipano, gli iscritti e i non iscritti, alle elezioni
della RSU, anche se la disciplina concreta della RSU cerca di mantenere saldo il
rapporto tra la RSU ed il sindacato che ha stipulato il contratto nazionale.
Perciò si è osservato che l’Italia presenta un modello ibrido: si ha un canale unico di
rappresentanza sindacale, nel quale tuttavia convivono le due anime, quella sindacale
e quella della rappresentanza elettiva. Al contempo, tuttavia, le funzioni della RSU si
presentano negoziali solo fino ad un certo punto, poiché i contratti collettivi aziendali
dovrebbero essere stipulati non solo dalle RSU, ma anche dalle strutture territoriali
dei sindacati stipulanti il contratto collettivo nazionale. Il sistema italiano, quindi,
brilla per la sua “originalità” o “anomalia”.
Si è detto che negli altri Paesi europei, almeno dell’Europa continentale, vi sono due
forme di rappresentanza dei lavoratori a livello aziendale: la rappresentanza di tipo
associativo-sindacale, che ha la funzione di contrattazione, e la rappresentanza
generale elettiva che ha una funzione di tipo consultivo-partecipativo. Molto spesso,
tuttavia, anche negli Stati che hanno un canale doppio di rappresentanza le
rappresentanza elettive finiscono per essere dominate dalle associazioni sindacali,
poiché le liste elettorali sono ispirate sostanzialmente dalle associazioni sindacali. Ad
esempio, il Betriebsrat della Repubblica Federale Tedesca, ovvero la rappresentanza
di tipo elettivo, che, in base alla normativa, non ha competenze in materia di
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contrattazione collettiva, è un organismo nei fatti controllato dalle organizzazioni
sindacali.
In conclusione, sussiste una diversità fra Paesi che hanno un canale unico (v. Italia,
Gran Bretagna), e Paesi, la maggioranza, che hanno un canale doppio di
rappresentanza sindacale. E, dove esiste una duplicità di struttura, vi è una
differenziazione o specializzazione di funzioni.
7. – Il contratto collettivo negli ordinamenti europei.
Occorre a questo punto soffermarsi sul contratto collettivo, che rappresenta la forma
di regolazione delle condizioni di lavoro più diffusa e rilevante nella generalità dei
Paesi europei. Ciò non solo sul piano fattuale, ma anche su quello giuridico: come
vedremo, gli ordinamenti giuridici europei in vario modo la riconoscono.
Anche per quanto attiene al contratto collettivo, vi sono differenze di strutture e
contenuti, senza contare il tipo e l’ambito di efficacia del contratto collettivo.
Nei Paesi dell’Europa continentale il contratto collettivo ha un’efficacia vincolante
per le parti; non così nel Regno Unito (v. infra cap. IV) ove ha il rango di
gentlemen’s agreement.
In quasi tutti i Paesi dell’Europa continentale sono previsti dei meccanismi per
l’estensione erga omnes dell’ambito soggettivo di efficacia del contratto collettivo al
di là degli iscritti ai sindacati stipulanti. In Italia, come è noto, il meccanismo di
estensione erga omnes dei contratti collettivi divisato dal costituente (il meccanismo
di cui all’art. 39, II^ parte, Cost.) non è mai stato attuato; dunque, l’estensione erga
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omnes in senso proprio non è realizzabile, anche se esistono mezzi di estensione
indiretta del contratto collettivo, in particolare per la parte retributiva: basti
considerare l’applicazione giurisprudenziale dell’art. 36 Cost.
Per quanto concerne il pubblico impiego, la situazione è diversificata. In Italia i
rapporti di pubblico impiego sono regolati, dopo un percorso che è iniziato con la cd.
legge quadro del 1983, oltre che dalla legge, anche dalla contrattazione collettiva.
Questo non vale ad esempio per la Francia, dove i contratti di pubblico impiego sono
regolati dalla legge e la fonte contrattuale è esclusa.
8. – La contrattazione collettiva a livello comunitario.
Posto che comune è l’accettazione del metodo negoziale-collettivo per la regolazione
delle condizioni di lavoro, si pone il problema della proiezione a livello
transnazionale, in particolare comunitario, di questo metodo.
Il profilo della regolazione transnazionale del contratto collettivo può essere
tralasciato in quanto l’ipotesi di un contratto collettivo europeo è rimasta del tutto
accademica. Negli anni ’60 un giurista francese ha dedicato un’opera al contratto
collettivo europeo, ipotizzando che potesse essere stipulato un vero e proprio
contratto collettivo di tipo transnazionale ed analizzando tutti i problemi giuridici che
questo contratto avrebbe causato.
In realtà, di contratto collettivo europeo non si può parlare, poiché, al di là dei
problemi giuridici che genererebbe, di esso non vi sono i presupposti fattuali essendo
troppo disomogenee le condizioni economico-sociali dei Paesi europei.
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E’ vero che esistono esperienze di contrattazione collettiva che possiamo definire
europea, transnazionale o, per meglio, dire multinazionale, poste in essere – non a
caso – da imprese multinazionali, ma si tratta soprattutto di esperienze in materia di
(ed ad opera dei) comitati aziendali europei, che disciplinano alcune condizioni di
lavoro (dalla sicurezza alla parità di trattamento uomo-donna) in modo uniforme nei
diversi Paesi in cui l’impresa è situata. Questa, tuttavia, è un’esperienza diversa, che,
appunto, possiamo definire contrattazione multinazionale ad opera della singola
impresa, più che contrattazione collettiva a livello europeo.
A livello comunitario, invece, si è detto che il Protocollo sociale di Maastricht ha
dato un particolare rilievo all’attività collettiva delle parti sociali.
L’ex art. 138 TCE (oggi art. 154 TFUE) attribuisce alla Commissione il compito di
promuovere la consultazione delle parti sociali a livello dell’Unione e di prendere
ogni misura utile per facilitarne il dialogo, provvedendo ad un sostegno equilibrato
delle parti. A tal fine, la Commissione, prima di presentare proposte nel settore della
politica sociale, consulta le parti sociali sul possibile orientamento dell’Unione. Se
dopo tale consultazione ritiene opportuna un’azione dell’Unione, essa consulta le
parti sociali sul contenuto della proposta prevista e le parti sociali trasmettono alla
Commissione un parere, o, se lo ritengono opportuno, una raccomandazione. In
occasione delle consultazioni, le parti sociali possono informare la Commissione
della loro volontà di avviare il processo previsto dall’art. 155 TFUE. Tale
disposizione prevede che il dialogo tra le parti sociali a livello dell’Unione possa
condurre, se queste lo desiderano, a relazioni contrattuali, ivi compresi accordi.
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In conclusione, quando la Commissione intende legiferare in materia sociale consulta
le associazioni sindacali comunitarie. Queste ultime possono bloccare l’iter
legislativo comunitario, manifestando la volontà di regolare autonomamente la
materia. Qualora riescano ad arrivare ad un accordo, in base all’art. 155 TFUE esso è
attuato secondo le procedure e le prassi delle parti sociali negli Stati membri o,
nell’ambito dei settori contemplati dall’art. 153 (cioè gli ambiti in cui l’Unione ha
competenza in materia sociale), in base ad una decisione del Consiglio su proposta
della Commissione.
Quindi, in realtà, il legislatore comunitario ha disciplinato, non una vera e propria
contrattazione collettiva a livello comunitario, ma il procedimento attraverso il quale
si arriva ad emanare una disciplina, in particolare, una direttiva, in campo sociale. In
altre parole, ogniqualvolta la Commissione desideri intraprendere un’azione
regolativa, deve prima sentire le parti sociali e queste possono a loro volta arrestare il
processo di regolazione comunitaria tentando di raggiungere esse stesse un accordo.
Questo accordo, che viene chiamato “avviso comune”, poi può essere attuato, o
attraverso – e qui si aprono molti problemi – le procedure e le prassi proprie degli
Stati membri, oppure tramite una decisione del Consiglio. Si tratta, quindi, di un
procedimento che porta ad un atto autoritativo di un’istituzione europea, cioè ad una
decisione del Consiglio.
Ovviamente, l’accordo può essere attuato anche attraverso le procedure e le prassi
degli Stati membri, ma le parti sociali a livello europeo non optano mai per questa
soluzione, poiché in realtà le procedure e le prassi dei Paesi europei sono talmente
19
diversificate che la scelta di questa strada non condurrebbe mai all’efficacia completa
dell’accordo stipulato a livello comunitario.
Il limite segnalato incide anche su un’altra disposizione introdotta dal Protocollo di
Maastricht, cioè quella per cui uno Stato membro può affidare alle parti, a loro
richiesta congiunta, ma sotto sorveglianza dello Stato, il compito di applicare le
direttive adottate nelle materie sociali di competenza comunitaria (v. art. 153 TFUE).
In Belgio, ad esempio, si utilizza il contratto collettivo, esteso erga omnes, per attuare
le direttive comunitarie. Questo non pare possibile – in base alla giurisprudenza della
Corte di giustizia – là dove, come in Italia, non sia disponibile un sistema di
estensione erga omnes.
In relazione alla procedura prevista dall’ex art. 139 TCE (oggi art. 155 TFUE), si
pone poi il problema se il Consiglio debba prendere “in blocco” l’accordo, recepirlo e
poi tradurlo in direttiva, oppure possa modificarne il contenuto. La tesi corretta e
prevalente è nel senso che non può modificare il contenuto dell’accordo, ma solo
verificare se lo stesso non contenga, in ipotesi, clausole che sono in contrasto con i
principî dell’ordinamento comunitario.
Da tutte queste considerazioni emerge che non vi è un vero e proprio livello
comunitario di contrattazione: la contrattazione è una fase del procedimento di
legiferazione comunitaria.
Se nei contesti nazionali la contrattazione collettiva è considerata oggi fenomeno di
un pluralismo ordinamentale socialmente diffuso, la contrattazione collettiva europea
– che fa parte della complessiva ridefinizione dell’agire regolativo comunitario – è
20
funzionale al superamento del deficit regolativo registrato in materia di diritto del
lavoro.
In un bel libro è stata utilizzata, efficacemente, l’espressione “funzioni e finzioni
della contrattazione collettiva comunitaria” (Lo Faro, 1999) per sottolineare che,
mentre la contrattazione collettiva è un mezzo di regolazione autonoma delle parti
sociali nei vari contesti nazionali, a livello comunitario non è altro che una tappa del
procedimento di regolazione comunitaria, attraverso il quale il legislatore
comunitario vuole fare fronte ad un deficit di rappresentanza politica.
21
CAPITOLO II
Il diritto applicabile ai rapporti di lavoro internazionali tra legge e contratto
collettivo. La Convenzione di Roma e le direttive comunitarie n. 96/71 e n.
2006/123 (Bolkestein). I rapporti tra libertà economiche e diritti sindacali nella
giurisprudenza della Corte di giustizia (i casi Laval, Viking, Rüffert e
Commissione c. Lussemburgo).
Sommario: 1. I rapporti di lavoro con elementi di internazionalità – 2. Il diritto applicabile ai rapporti di
lavoro internazionali nella Convenzione di Roma del 1980 – 3. La direttiva comunitaria n. 96/71 relativa al
distacco dei lavoratori nell’ambito di una prestazione di servizi. La sua attuazione con il d.lgs. n. 72/2000 –
4. La direttiva 2006/123 (cd. Bolkestein) – 5. Contrattazione collettiva e tutela della concorrenza nella
giurisprudenza della Corte di giustizia: la sentenza Albany – 6. Libera prestazione di servizi e conflitto
collettivo: il caso Laval – 7. Libertà di stabilimento e conflitto collettivo: il caso Viking – 8. Il caso Rüffert –
9. Libera prestazione di servizi e normativa di ordine pubblico nel Paese del distacco: il caso Commissione c.
Lussemburgo. 10. Il rapporto tra libertà fondamentali e diritti fondamentali: l’ultimo approdo
giurisprudenziale: Commissione v. Germania.
1. – I rapporti di lavoro con elementi di internazionalità.
E’ stato osservato che, pur essendo le materie della contrattazione collettiva, dello
sciopero e della serrata (nonché delle retribuzioni) al di fuori della competenza
comunitaria (ex art. 153 TFUE, ex art. 137 TCE), la Corte di giustizia, muovendo
dall’applicazione delle norme del trattato sulle libertà economiche, ha finito per dare
importanti indicazioni assoggettando a restrizioni questi “diritti fondamentali” (v. art.
22
52 della Carta di Nizza che consacra il principio di proporzionalità) sulla base del
principio di proporzionalità. Assumono rilevanza in materia i famosi casi Albany,
Laval, Viking, Rüffert e Commissione c. Lussemburgo.
Al fine di affrontare meglio la questione, è opportuno analizzare un altro importante
aspetto del nostro tema, se si ignora il quale non si comprende appunto appieno la
giurisprudenza della Corte di giustizia: quello relativo al diritto applicabile
(intendendosi con tale espressione sia la legge, sia i contratti collettivi) ai rapporti di
lavoro con elementi di internazionalità.
Quando si può parlare di rapporti di lavoro con elementi di internazionalità (o
internazionali)? Si può parlare di rapporti di lavoro internazionali quando il contratto
presenta elementi di estraneità rispetto all’ordinamento nazionale, o perché la
nazionalità dei contraenti non è comune, o perché la prestazione deve eseguirsi in un
altro Paese rispetto a quello dei contraenti, oppure per entrambe le ragioni. Diverse
possono essere le ipotesi: l’assunzione per l’estero, la mobilità internazionale
all’interno dei gruppi di imprese, che, a sua volta, può assumere la forma del distacco
e della stipulazione di diversi contratti con le società del gruppo, il distacco
dall’estero per svolgere la prestazione di lavoro. E queste ipotesi si collocano accanto
alle fattispecie tradizionali, del lavoro per definizione “itinerante”.
2. – Il diritto applicabile ai rapporti di lavoro internazionali nella Convenzione di
Roma del 1980.
23
L’individuazione del diritto applicabile ai rapporti di lavoro con elementi di
internazionalità è una problematica che si pone al crocevia tra diritto del lavoro e
diritto internazionale. Nella questione entra in gioco, però, anche il diritto
comunitario e, nel suo ambito, la relazione tra tutela della concorrenza (e dunque del
mercato) e tutela dei diritti sociali.
La fonte cui dobbiamo fare riferimento in materia è la Convenzione di Roma del
1980, sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali, successivamente
incorporata nella l. n. 218/1995 di riforma del diritto internazionale privato.
Recentemente poi – nel giugno 2008 – è stato adottato dagli Stati membri
dell’Unione Europea il regolamento n. 59, il cd. “Regolamento Roma I”, che trova
applicazione per i contratti stipulati dopo il 17 dicembre 2009 e che recepisce in
sostanza la Convenzione di Roma sulle obbligazioni contrattuali in forma di
strumento comunitario (per le obbligazioni extracontrattuali, dispone il “Regolamento
Roma II” dell’11 luglio 2007).
In linea generale, per tutte le obbligazioni contrattuali, la Convenzione di Roma, al
pari del regolamento del 2008, assume come criterio, ai fini dell’individuazione del
diritto applicabile ai rapporti con elementi di internazionalità, quello della volontà
delle parti. Invece, per il contratto di lavoro, così come per il contratto stipulato con i
consumatori, vale la regola per cui la legge scelta dalla volontà delle parti non può
privare il lavoratore della protezione assicuratagli dalle norme imperative che
regolerebbero il rapporto in mancanza di scelta.
24
E tale legge è la cd. lex loci laboris: cioè la legge del luogo in cui si esegue la
prestazione lavorativa, nel caso in cui essa venga svolta in un solo Paese, ovvero, nel
caso di lavoro itinerante, quella del luogo ove ha sede l’impresa che ha proceduto
all’assunzione del lavoratore (v. art. 6.2 della Convenzione di Roma e art. 8, par. 1
del Regolamento Roma I). Non rileva soffermarsi sugli specifici problemi
interpretativi sollevati da questi criteri di collegamento: basterà osservare che la loro
scelta è normalmente spiegata in un’ottica che tiene conto delle aspettative delle parti
e, in particolare, del lavoratore. Infatti, la lex loci laboris è quella con cui il lavoratore
ha una certa dimestichezza.
Il sistema della Convenzione di Roma (e poi del regolamento: art. 9.1) è peraltro più
complesso, poiché l’art. 7 pone un “superlimite”, costituito dalle norme di
applicazione necessaria (limite poi ripreso, con relativa definizione, dal
regolamento): “la presente convenzione non può impedire l’applicazione delle norme
in vigore nel Paese del giudice, le quali disciplinano imperativamente il caso concreto
indipendentemente dalla legge che regola il contratto” (cfr. art. 7.2).
Altro mezzo potenzialmente idoneo a limitare la legge individuata ex art. 6 è la cd.
clausola di ordine pubblico di cui all’art. 16 della Convenzione di Roma del 1980 ed
ora riprodotta nel Regolamento Roma I. In base alla comune definizione, essa evoca i
principî fondamentali dell’ordinamento considerato nella sua interezza, tenendo conto
dei principî entrativi a far parte in virtù del suo conformarsi al diritto internazionale,
ma anche dei connotati politici, economici, sociali e morali che lo caratterizzano e
che spesso sono espressi nella Carta costituzionale.
25
Si riconosce che l’ordine pubblico costituisce un limite eccezionale e non normale
all’aprirsi all’esterno del sistema giuridico.
La clausola dell’ordine pubblico è stata utilizzata, invece, almeno in passato, dai
giudici italiani come scorciatoia per far prevalere il diritto nazionale. La nozione di
ordine pubblico, inizialmente, è stata dilatata a dismisura, fino a far prevalere il
diritto del lavoro italiano (in quanto più favorevole: il principio di favore sarebbe
addirittura un limite di ordine pubblico: v. Cass. 6.9.1980, n. 5156).
Recentemente, tuttavia, e precisamente a partire dalla sentenza n. 14662 del 2000, si è
avuto un mutamento di indirizzo da parte della Cassazione: a partire da questa
sentenza del 2000 la Suprema corte ha acquisito la consapevolezza che non tutto il
diritto del lavoro può essere considerato di “ordine pubblico”, e che occorre, in
relazione alle norme che lo compongono, operare una graduazione.
3. – La direttiva comunitaria n. 96/71 relativa al distacco dei lavoratori nell’ambito
di una prestazione di servizi. La sua attuazione con il d.lgs. n. 72/2000.
L’analisi della normativa sopra delineata è preliminare a inquadrare una direttiva
molto importante ai fini dell’argomento trattato, ovvero la direttiva concernente il
distacco dei lavoratori nell’ambito di una prestazione di servizi (la direttiva n. 96/71).
Il tema è quello del Paese diverso da quello in cui si esegue normalmente la
prestazione, la mobilità infragruppo, il distacco, da parte di imprese di lavoro
temporaneo, di propri lavoratori presso un’impresa utilizzatrice avente sede in un
Paese diverso.
26
La fattispecie al centro della direttiva è rappresentata da una delle libertà economiche
fondamentali del trattato: la libera prestazione di servizi, di cui all’art. 56 TFUE, ex
art. 49 TCE.
Questa direttiva è stata propiziata da una sentenza della Corte di giustizia, la sentenza
Rush Portuguesa del 27 marzo 1990, causa C-113/89. In essa la questione era quali
limitazioni potesse imporre uno Stato membro allo spostamento di un’impresa,
appartenente ad altro Stato membro, per attuare una prestazione di servizi, in
relazione al proprio personale (in questione era l’ammissibilità della richiesta di un
permesso di lavoro). La Corte di giustizia è però andata ultra petita, precisando che
“il diritto comunitario non osta a che uno Stato membro estenda l’applicazione delle
sue leggi e dei contratti collettivi a chiunque svolga un lavoro subordinato anche
temporaneo nel suo territorio, indipendentemente dal Paese in cui è stabilito il datore
di lavoro”.
La decisione è stata criticata in quanto – si è detto – gli standard protettivi di un
Paese dipendono in gran parte dalla produttività dei lavoratori di quel Paese e
pongono perciò le imprese di un altro Stato in una situazione di svantaggio
competitivo (tant’è che, successivamente, vi è stata un’inversione di rotta da parte
della Corte di giustizia).
La sentenza ha dunque avallato la direttiva n. 71 del ’96, il cui cuore sta nell’imporre
agli Stati membri di provvedere affinché ai lavoratori distaccati venga applicata,
quale minimo inderogabile di tutela, la normativa del Paese ospite in materia di
tempo di lavoro, durata delle ferie annuali, tariffe minime salariali, sicurezza, salute,
27
igiene del lavoro, parità di trattamento uomo-donna (ed è consentito di applicarne
altre).
Le disposizioni relative alle materie indicate integrano le disposizioni di applicazione
necessaria di cui all’art. 7 della Convenzione di Roma?
Nonostante venga talora data questa lettura, la direttiva, a ben vedere, non aiuta
affatto a chiarire quali siano le norme di applicazione necessaria: è facile rendersi
conto che, nell’individuare le materie da includere nell’elenco, si sono seguiti criteri
opportunistici (si tratta, nel loro insieme, di materie oggetto di armonizzazione
comunitaria). E, per quanto riguarda le tariffe minime salariali, la loro inclusione
risponde all’obiettivo prioritario della direttiva di livellare le condizioni di
concorrenza tra le imprese che operano su uno stesso mercato.
In Italia il d. lgs. n. 72/2000 ha dato un’applicazione rigida della direttiva n. 96/71,
sostanzialmente estendendo l’intero nucleo protettivo del diritto del lavoro ai
lavoratori delle imprese distaccanti (ha previsto, in altre parole, l’applicabilità per
tutto il periodo del distacco delle medesime condizioni di lavoro – disciplinate dalle
leggi e dai contratti collettivi – applicate ai lavoratori nazionali); e questo, alla luce
delle sentenze Rüffert e Lussemburgo, potrebbe andare incontro alle censure della
Corte di giustizia, in sintonia con le pressioni della Commissione per
un’interpretazione
liberalizzante
della
direttiva
(v.
Comunicazione
della
Commissione n. 159 del 4 aprile 2006).
28
4. – La direttiva 2006/123 (cd. Bolkestein).
Si parla molto della direttiva Bolkestein (la direttiva n. 123 del 2006) che, tuttavia,
nella nostra materia ha un ruolo marginale.
La proposta di direttiva, presentata all’inizio del 2004 dal commissario europeo per il
mercato interno dell’epoca, il liberale olandese Bolkestein, è partita dal presupposto
che la libera circolazione dei servizi fosse stata fino ad allora “più un concetto
giuridico che una realtà concreta”, a causa dell’atteggiamento protezionistico dei
diversi Stati. Essa ruotava attorno al principio del Paese d’origine. In altri termini, e
con una certa dose di approssimazione, la proposta estendeva alla circolazione dei
servizi lo stesso principio di mutuo riconoscimento già da tempo applicato
nell’ambito europeo alla circolazione delle merci. La preoccupazione che essa destò –
nonostante che, per la verità, la proposta facesse salva la direttiva n. 96/71 sul
distacco dei lavoratori – era che ai prestatori di servizi si consentisse di operare
continuando ad applicare le regole più flessibili (ivi comprese quelle in materia di
lavoro) del Paese di provenienza.
Quale che fosse la fondatezza di simili preoccupazioni, il testo della direttiva infine
adottato le fuga completamente, disponendo chiaramente la prevalenza della direttiva
n. 96/71 in materia di tutela del lavoro in caso di prestazione di servizi
transnazionali. E’ dunque a questa direttiva che si deve guardare in materia di
prestazione transnazionale di servizi e di distacco dei lavoratori.
Ciò detto, non si sono risolti tutti i problemi. La stessa direttiva n. 96/71 lascia aperti
interrogativi in relazione al rapporto fra esercizio dei diritti sindacali, in particolare
29
dello sciopero, e libertà economiche garantite dal trattato (v. il suo 22° considerando:
la direttiva “lascia impregiudicato il diritto vigente degli Stati membri in materia di
azioni collettive per la difesa degli interessi di categoria”). La direttiva n. 2006/123 si
esprime al riguardo in termini più ambigui. In base al suo 14° considerando, la
direttiva “non pregiudica l’esercizio di diritti fondamentali quali riconosciuti dagli
Stati membri e dal diritto comunitario, né il diritto di negoziare, concludere ed
eseguire accordi collettivi, di intraprendere azioni sindacali in conformità del diritto e
delle prassi nazionali che rispettano il diritto comunitario”.
5. – Contrattazione collettiva e tutela della concorrenza nella giurisprudenza della
Corte di giustizia: la sentenza Albany.
Vi sono una serie di casi in cui, attraverso pronunce della Corte di giustizia, a dispetto
dell’incompetenza comunitaria in materia di diritti sindacali (e di retribuzione) da
una parte, e dell’affermazione del diritto di negoziare e concludere accordi collettivi
e di ricorrere, in caso di conflitti di interessi, ad azioni collettive, compreso lo
sciopero, quali diritti fondamentali (con la Carta di Nizza: art. 28), dall’altra parte, la
Corte di giustizia ha finito per “normare” questi diritti sindacali, nel bilanciamento
con le libertà economiche sancite dal trattato. Si è forse verificato, a livello europeo,
ciò che è accaduto a livello nazionale: è a tutti nota la previsione di un famoso
giurista a proposito dell’art. 40 della nostra Costituzione, vale a dire che, se i limiti al
diritto di sciopero non fossero stati scritti dal legislatore, essi sarebbero stati scritti dai
giudici.
30
Queste sentenze sono importanti, dal nostro punto di vista, perchè consentono di
cogliere, per così dire in vitro, le diversità dei sistemi giuridici nazionali – almeno in
ambito europeo –, costituendo così l’ideale testa di ponte verso l’altra parte della
materia oggetto del nostro esame: la parte concernente le caratteristiche generali dei
sistemi europei relativamente ad istituti importanti come il contratto collettivo ed il
conflitto collettivo.
Gli ex artt. 81 e 82 (ora 101 e 102 TFUE) del TCE si occupano delle intese restrittive
della concorrenza e dello sfruttamento abusivo di una posizione dominante da parte
di una o più imprese, nel senso di vietarle. La sentenza Albany (dal nome dell’azienda
tessile olandese “protagonista” del caso) del 21 settembre 1999 ha escluso che i
contratti collettivi rientrassero nel campo di applicazione dell’art. 81 TCE (ora 101
TFUE), (in particolare della lett. a)), vale a dire che fossero da considerare intese
volte a falsare il gioco della concorrenza.
Il rapporto tra contratto collettivo e tutela della concorrenza non è nuovo in termini
teorici. Basti pensare alla connotazione del contratto collettivo come limitativo della
concorrenza. Nuovo è, invece, l’approdo in termini normativi della tutela della
concorrenza interstatale, che potrebbe avere un effetto dirompente sul diritto del
lavoro. Lo stesso problema è stato affrontato negli Stati Uniti già a partire dal 1890,
quando il Congresso, nello Sherman Act, dichiarò illegittimo ogni contratto in
restrizione del commercio tra diversi Stati o con nazioni straniere.
Qui il problema nasceva in quanto, a fronte di una normativa che bandiva ogni
accordo restrittivo della concorrenza, mancava una specifica normativa di supporto
31
della contrattazione collettiva. Una volta che questa fu introdotta, con il National
Labor Relations Act (NLRA) del 1935, il problema cessò di esistere.
Afferma testualmente la Corte di giustizia in Albany: “vero è che taluni effetti
restrittivi della concorrenza sono inerenti agli accordi collettivi stipulati tra sindacati
dei lavoratori e dei datori di lavoro. Tuttavia, gli obiettivi di politica sociale perseguiti
da tali accordi sarebbero gravemente compromessi se le parti sociali fossero soggette
all’art. 85 (ora 105 TFUE), n. 1, TCE, nella ricerca comune di misure volte a
migliorare le condizioni di occupazione e di lavoro”. Insomma, gli accordi tra le parti
sociali, per la loro natura ed il loro oggetto, non rientrano nel campo di applicazione
dell’art. 85.
Nel caso in questione il problema nasceva dal fatto che, in forza dell’obbligatorietà
dell’iscrizione ad un fondo integrativo di previdenza, creato da un contratto
collettivo, si sarebbero private le imprese della possibilità di rivolgersi ad un altro
gestore; e, d’altro canto, altri assicuratori sarebbero stati esclusi da una quota
rilevante di mercato.
Chiarito il punto di cui sopra – vale a dire che gli accordi tra le parti sociali non
rientrano nel campo di applicazione dell’art. 85 –, poco importa che, per decisione
dell’autorità politica, su domanda delle parti sociali, il regime integrativo
pensionistico di fonte contrattuale fosse stato reso obbligatorio per un determinato
settore (attraverso dichiarazione d’efficacia obbligatoria del contratto collettivo: è il
caso dell’Olanda).
32
6. – Libera prestazione di servizi e conflitto collettivo: il caso Laval.
Nella sentenza Laval del 18 dicembre 2007, relativa al conflitto, l’atteggiamento della
Corte di giustizia è differente. Importante è l’incipit della pronuncia. In esso la Corte
innanzitutto esclude che la circostanza che la Comunità non abbia competenza a
disciplinare lo sciopero valga ad escludere questo (lo sciopero, ed in genere l’azione
collettiva) dal campo di operatività delle regole del trattato che sanciscono la libera
prestazione dei servizi (l’ex art. 49 TCE, oggi 56 TFUE). Lo sciopero è, sì, un diritto
fondamentale, ma non può essere immune da restrizioni, poiché anche la Carta di
Nizza (all’epoca ancora non vincolante) sottolinea che il diritto di intraprendere
un’azione collettiva è tutelato conformemente al diritto comunitario (art. 28).
Quindi, un’azione del genere non è sottratta all’ambito di applicazione del diritto
comunitario. E non può sfuggire ad un bilanciamento tra i due diritti (sciopero e
libera prestazione dei servizi). La restrizione alla libera prestazione dei servizi può
essere giustificata solo se l’obiettivo è legittimo, esistono ragioni imperative
d’interesse generale ed è rispettato il principio di proporzionalità (v. infra).
Nel caso Laval la Corte esclude che sia legittima l’azione collettiva volta ad ottenere,
per i lavoratori distaccati, trattamenti più favorevoli di quelli minimi garantiti dalla
direttiva n. 96/71, o la regolazione di materie ulteriori rispetto a quelle indicate dalla
stessa direttiva.
Laval è una società lettone che distacca in Svezia propri lavoratori per impiegarli in
alcuni cantieri edili. I sindacati svedesi trattano con Laval per determinare le
retribuzioni da applicare al personale lettone distaccato. Le trattative falliscono e
33
Laval stipula due contratti collettivi con il sindacato lettone dei lavoratori edili, che
prevedono retribuzioni inferiori a quelle previste in Svezia. I sindacati svedesi
bloccano i cantieri impedendo l’accesso ai lavoratori lettoni; scioperano per
solidarietà i lavoratori elettrici, impedendo la fornitura di energia elettrica. A Natale i
lavoratori distaccati rientrano in Lettonia e non tornano più. Intanto in Svezia altre
organizzazioni sindacali boicottano tutti i cantieri della Laval, che non è più in grado
di svolgere alcun lavoro e che, nel marzo del 2005, viene dichiarata fallita.
La Corte, nel motivare la sua decisione, fa presente che la direttiva n. 96/71 in
materia di distacco prevede che, per quanto riguarda le condizioni di lavoro, queste
devono essere indicate nei contratti collettivi (o decisioni arbitrali) dichiarati di
applicabilità generale. Il punto è che in Svezia i contratti collettivi non hanno
efficacia generale (inoltre, per quanto concerne il salario minimo, la Svezia non si è
avvalsa della procedura prevista dall’art. 3.8 della direttiva di estendere le previsioni
della contrattazione collettiva). Pertanto, le azioni collettive come quelle poste in
essere non possono essere giustificate se mirano a far accettare ad un’impresa
stabilita altrove minimi salariali in un contesto nazionale caratterizzato dall’assenza
di disposizioni sufficientemente precise, cui il distaccante dovrebbe attenersi.
7. – Libertà di stabilimento e conflitto collettivo: il caso Viking.
Nella sentenza Viking dell’11 dicembre 2007, in forza di argomentazioni identiche, la
stessa conclusione (necessità di bilanciamento tra diritto di sciopero e libertà
34
fondamentali del trattato) è raggiunta anche in relazione alla libertà di stabilimento
(assicurata dall’art. 43 TCE, ora 49 TFUE).
Per questo, si è detto, che le libertà economiche appaiono ancora gerarchicamente
sovraordinate nella scala valoriale del sistema giuridico comunitario. Tanto che il
Parlamento europeo ha approvato, nel 2008, la risoluzione “Sulle sfide per gli accordi
collettivi nell’Unione Europea”, nella quale ha richiesto un riesame dell’equilibrio tra
libertà economiche e diritti fondamentali, tale da evitare una competizione a favore di
standard sociali più bassi.
Venendo alla fattispecie concreta, la Viking, società di diritto finlandese, è
proprietaria di un traghetto chiamato Rosella che fa la spola tra Tallin e Helsinki e
batte bandiera finlandese. In territorio estone il Rosella opera in perdita a causa della
concorrenza delle navi estoni.
Nell’ottobre del 2003 la Viking progetta di cambiare bandiera al Rosella e di
immatricolarlo in Estonia e, ai sensi del diritto finlandese, comunica preventivamente
questa intenzione ai sindacati finlandesi. Il sindacato finlandese si oppone; tra l’altro,
a partire dal novembre 2003, data di scadenza dell’accordo in vigore, non è più in
vigore la pace sindacale.
Nel 2004 l’Estonia entra nell’Unione Europea; dunque la Viking, continuando il
Rosella a perdere, si rivolge ad un tribunale inglese per far cessare il comportamento
ostile della Federazione internazionale dei sindacati dei lavoratori marittimi (avente
sede in Inghilterra), in quanto contrastante con la libertà di stabilimento (e in
violazione della libera prestazione dei servizi).
35
La Corte di giustizia sancisce che la restrizione alla libertà di stabilimento, derivante
da azioni collettive come quelle indicate, può essere giustificata da una ragione
imperativa di interesse generale come la tutela dei lavoratori, purché sia accertato
che le stesse sono idonee a realizzare il legittimo obiettivo perseguito e non vadano al
di là di ciò che è necessario per conseguire tale obiettivo (e rimanda al giudice
nazionale di valutare la legittimità dell’azione sindacale in relazione ai due criteri,
vale a dire legittimità dell’obiettivo perseguito e sua necessarietà per conseguirlo).
Nonostante le pronunce Viking e Laval abbiano polarizzato l’attenzione, secondo
alcuni, le sentenze successive Rüffert e Lussemburgo sono destinate a provocare
ricadute pratiche più rilevanti.
8. – Il caso Rüffert.
Nella sentenza Rüffert, del 3 aprile 2008, la Corte di giustizia si è confrontata con una
legge del Land tedesco della Bassa Sassonia che impone agli enti pubblici di
assegnare appalti solo alle imprese che assumano l’impegno di applicare il contratto
collettivo di riferimento nel tempo e nel luogo di esecuzione dell’appalto. E il
contratto collettivo in questione non aveva efficacia generale.
Nel caso di specie, il Land Niedersachsen, in seguito ad una gara pubblica,
assegnava, nel corso dell’autunno 2003, alla Objekt und Bauregie un appalto relativo
a lavori di costruzione dell’istituto penitenziario a Göttingen-Rosdorf. Nel contratto
figurava, come previsto dalla legge del Land, l’impegno a rispettare i contratti
collettivi e, più specificatamente, quello di corrispondere ai lavoratori impiegati nel
36
cantiere almeno il salario minimo vigente nel luogo di esecuzione del lavoro, in base
al contratto collettivo del settore edilizio.
La Objekt und Bauregie affidava, a sua volta, i lavori in subappalto ad un’impresa
stabilita in Polonia. Poiché tale impresa aveva corrisposto ai lavoratori un salario
inferiore a quello previsto dal contratto collettivo del settore edilizio, sia la Objekt
und Bauregie sia il Land Niedersachesen risolvevano il contratto di appalto fra essi
concluso; e il Land con la motivazione che non era stato adempiuto l’obbligo
contrattuale di rispettare il contratto collettivo in parola.
Il tribunale di primo grado, investito della questione, ha considerato il credito della
Objekt und Bauregie (derivante dal contratto d’appalto) compensato con la penale
contrattuale e la restante parte della domanda di detta società estinta. Il giudice
d’appello, tuttavia, riteneva che, per decidere la controversia, occorresse stabilire se si
dovesse disapplicare la legge del Land, in particolare l’art. 8 n. 1, in quanto
incompatibile con le disposizioni in tema di libertà di prestazione dei servizi.
Il giudice remittente osservava, a tale riguardo, che gli obblighi di rispetto del
contratto collettivo facevano sì che le imprese edili di altri Stati membri dovessero
adeguare i salari percepiti dai propri dipendenti alle retribuzioni, solitamente più
elevate, corrisposte nel luogo di esecuzione dei lavori di appalto in Germania. Siffatto
obbligo avrebbe fatto alle imprese in parola il vantaggio concorrenziale a loro favore
costituito dal minor costo del lavoro. Di conseguenza, l’obbligo di rispettare il
contratto collettivo avrebbe rappresentato un ostacolo per le persone fisiche o
giuridiche provenienti da altri Stati membri.
37
Il giudice di rinvio, peraltro, si è interrogato anche sulla questione se l’obbligo di
rispettare i contratti collettivi potesse essere giustificato da ragioni imperative
d’interesse generale e, segnatamente, se siffatto obbligo non andasse oltre a quanto
necessario per la tutela dei lavoratori.
La Corte di giustizia, confermando l’orientamento già espresso nel caso Laval, ha
escluso la conformità al principio di libera prestazione di servizi della possibilità di
far applicare i contratti collettivi attraverso tecniche legislative diverse da quelle
previste dall’art. 3.8 della direttiva n. 96/71. Non può quindi ritenersi legittima, ai
sensi di tale direttiva, la legislazione di uno Stato membro ospitante che subordini,
peraltro limitatamente al lavoro pubblico, l’effettuazione di una prestazione di servizi
sul suo territorio al rispetto di condizioni di lavoro e occupazione che vadano al di là
delle norme imperative di protezione minima.
Uno Stato membro non ha il diritto di imporre, sulla base della direttiva n. 96/71, alle
imprese stabilite in altri Stati membri una tariffa salariale minima come quella
prevista dal contratto collettivo in esame; né può parlarsi di condizione più
favorevole ai sensi dell’art. 3.7 della direttiva, perchè questa può essere soltanto
quella in vigore nel Paese di origine dei lavoratori distaccati o quella cui
volontariamente l’impresa distaccante si sia sottoposta stipulando il contratto
collettivo.
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9. – Libera prestazione di servizi e normativa di ordine pubblico nel Paese del
distacco: il caso Commissione c. Lussemburgo.
Nella sentenza del 19 giugno 2008, Commissione v. Granducato di Lussemburgo, la
questione di fondo concerne i limiti di operatività del principio di ordine pubblico che
lo Stato ospitante può invocare a giustificazione dell’estensione, nei confronti di
imprese comunitarie che vi distacchino lavoratori, di norme di diritto interno ulteriori
– si trattava di minimi salariali – rispetto a quelle previste dall’art. 3.1 della direttiva
n. 96/71.
La Corte ha ritenuto che l’eccessiva estensione di tale principio rischia di creare
barriere giuridiche in grado di restringere la libertà di circolazione dei servizi. Ne
esce confermata la visione residuale della clausola di ordine pubblico (che – secondo
le parole della Corte – “può essere invocata solo in caso di minaccia effettiva e
sufficientemente grave ad uno degli interessi fondamentali della Comunità”).
Nel caso in esame il problema concerneva il punto se il Granducato di Lussemburgo
potesse, qualificando tali norme come norme di ordine pubblico, prevedere
l’applicazione, alle imprese distaccanti, delle disposizioni relative all’adeguamento
dei salari all’evoluzione del costo della vita. E la Corte ha dato in proposito risposta
negativa.
Stanti queste considerazioni, qualcuno ha affermato che vi è l’impressione che la
direttiva Bolkestein, “scacciata dalla porta, rientri dalla finestra”: questo, a causa
dell’applicazione che viene fatta del principio della libera prestazione di servizi, in
particolare ad opera della Corte di giustizia, la quale, con un’interpretazione in senso
39
liberistico delle norme del trattato, pone in secondo piano i diritti che pure sono
denominati “fondamentali” nella Carta di Nizza.
10. – Il rapporto tra libertà fondamentali e diritti fondamentali: l’ultimo approdo
giurisprudenziale: Commissione v. Germania.
Nella sentenza del 15 luglio 2010 la Corte di giustizia ha effettuato alcune
precisazioni e circoscrizioni, circa il rapporto tra libertà fondamentali e diritti
fondamentali (in particolare contrattazione collettiva), rispetto ad Albany, Viking,
Laval.
Se la contrattazione collettiva, nonostante gli effetti restrittivi della concorrenza non
ricade, in Albany, sotto le previsioni dell’art. 101, n. 1 TFUE, ciò non vuol dire che
possa sfuggire al bilanciamento con la libertà di stabilimento e di libera prestazione
dei servizi.
L’esercizio del diritto fondamentale della contrattazione collettiva deve essere
contemperato con gli obblighi scaturenti dalle libertà tutelate dal trattato FUE … e
deve essere conforme al principio di proporzionalità (nello stesso senso Viking e
Laval). Ed è interessante l’osservazione che “sebbene il diritto di negoziazione
collettiva goda in Germania della tutela costituzionale riconosciuta, in via generale,
dall’art. 9, n. 3 della costituzione tedesca al diritto di costituire associazioni per la
salvaguardia e il miglioramento delle condizioni lavorative ed economiche, ciò non
toglie che, ai sensi dell’art. 28 della Carta, tale diritto debba essere esercitato in
conformità alle norme dell’Unione”.
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CAPITOLO III
Contratto e conflitto collettivo. Modelli a confronto: il Regno Unito.
Sommario: 1. Il sistema inglese di relazioni sindacali: cenni storici – 2. La recognition del sindacato e
l’efficacia “normativa” dei contratti collettivi – 3. La contrattazione collettiva nel settore privato e il salario
minimo legale in Inghilterra – 4. Il rapporto tra il sistema volontaristico inglese di relazioni industriali e i
principî comunitari – 5. Le caratteristiche dello sciopero nel settore privato e dei pubblici servizi – 6. Lo
sciopero come inadempimento contrattuale e come tort – 7. Il diritto d’azione del cittadino-consumatore e le
condotte del lavoratore diverse dallo sciopero.
1. – Il sistema inglese di relazioni sindacali: cenni storici.
Si è in precedenza osservato come la Corte di giustizia, nella sentenza Rüffert, abbia
censurato il Land della Bassa Sassonia per aver previsto l’obbligatorietà delle tariffe
contenute in contratti collettivi non estesi erga omnes a favore dei lavoratori
distaccati da imprese stabilite in altro Stato membro dell’Unione Europea.
La questione ci permette di introdurre l’ulteriore tema della diversa configurazione
dell’associazione sindacale e del contratto collettivo nel contesto europeo.
Per la sua estrema peculiarità – anche se, come vedremo, le differenze strutturali non
sempre si trasformano in differenze funzionali – si può iniziare con l’analisi
dell’ordinamento inglese, che si pone a metà strada tra quello nordamericano e quelli
europei continentali. Ciò in quanto il sistema inglese, pur essendo di common law al
41
pari di quello nordamericano, ha visto accrescere significativamente negli ultimi
decenni il numero di leggi che regolano il rapporto di lavoro.
Il sistema sindacale inglese è tradizionalmente caratterizzato da un atteggiamento di
abstention of the law che ha reso marginale l’intervento legislativo. Tanto che esso
presenta, in alcuni istituti, assonanze con il diritto sindacale italiano, nel quale manca
una legge organica sul contratto collettivo e sullo sciopero.
Ed invero è tradizionale l’accostamento del sistema inglese a quello italiano quanto
meno sotto il profilo dell’informalità che contraddistingue, come è noto, le relazioni
industriali, più o meno variamente giuridificate negli altri ordinamenti dell’Europa
continentale.
Il sistema inglese è imperniato sull’idea del collective laissez-faire, ossia sulla
sostanziale astensione del legislatore dalla regolazione delle relazioni industriali.
Nel 1971 è stato emanato l’Industrial Relations Act, che conteneva una forte
giuridificazione delle relazioni sindacali, con la previsione dell’efficacia vincolante
del contratto collettivo, a meno che le parti non disponessero il contrario, e di un
sistema di riconoscimento dei sindacati.
Caratteristica tradizionale del contratto collettivo inglese è quella di essere un
gentlemen’s agreement “binding in honour only”. Ebbene, nel 1971 si era previsto,
che il contratto collettivo avesse un’efficacia vincolante sia per le parti collettive, sia
per le parti individuali di lavoro, a meno che le parti collettive disponessero il
contrario.
42
Senonché, l’Industrial Relations Act fu abrogato, appena tre anni dopo, con il Trade
Union and Labour Relations Act, appunto del 1974. E’ interessante notare che ciò è
avvenuto su pressione, non solo delle associazioni sindacali dei datori di lavoro, ma
anche delle associazioni sindacali dei lavoratori, a dimostrazione di come il sistema
volontaristico, ossia basato sugli autonomi rapporti tra le parti sociali, sia radicato nel
sistema inglese.
Nell’era Thatcher – che ha coperto circa un decennio tra il 1979 e il 1990 – vi è stato
un maggior interventismo legislativo con lo scopo, non celato, di controllare il potere
assunto dalle trade unions. Come noto, in Inghilterra era praticato il sistema del
closed shop – nelle due forme del pre-entry closed shop e post-entry closed shop –
(vale a dire clausole in cui si condizionava l’assunzione di un lavoratore ovvero la
sua permanenza in servizio all’appartenenza all’associazione sindacale).
Ad un giurista continentale, al giurista italiano in particolare, questo tipo di clausole
desta una certa impressione. Secondo la nostra visuale, infatti, tali clausole
potrebbero essere confliggenti con il principio di libertà sindacale cd. negativa (ossia
libertà, non solo di aderire, ma anche di non aderire ad un’associazione sindacale). Ed
infatti le convenzioni dell’OIL relative alla libertà sindacale, la n. 87 del 9 luglio
1948 e la n. 98 del 1° luglio 1949, menzionano esclusivamente la libertà sindacale
positiva per una ragione di carattere storico, legata all’esigenza di tener conto
dell’esperienza di Paesi quali l’Inghilterra e gli Stati Uniti, che si basano proprio sul
sistema del closed shop o dell’union shop.
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L’esistenza di queste clausole, cd. di sicurezza sindacale – significativa è la
traduzione in lingua italiana – ha contribuito enormemente al rafforzamento della
presenza del sindacato nelle imprese. Infatti, clausole che prevedano la mancata
assunzione o il licenziamento del lavoratore qualora questi non aderisca ad
un’associazione sindacale rafforzano in modo decisivo il sindacato. Queste
considerazioni avvalorano l’affermazione di un grande comparatista, Kahn Freund
(giurista di origine tedesca ma successivamente emigrato in Inghilterra), secondo il
quale l’astensionismo legislativo inglese non ha però escluso tradizionalmente il
supporto statale all’azione sindacale e alla contrattazione collettiva.
Lo Stato ha spesso supportato la contrattazione collettiva delle condizioni di lavoro
ed il riconoscimento dei sindacati, non semplicemente attraverso il sistema delle
immunità, ma anche attraverso vari mezzi non giuridici, come le sue politiche in
qualità di datore di lavoro.
Ebbene, l’amministrazione conservatrice ha fortemente limitato le pratiche di
sicurezza sindacale a cominciare dall’Employment Act del 1988, in cui si è dichiarato
unfair, ossia ingiustificato, il licenziamento del lavoratore per il rifiuto di aderire ad
un’associazione sindacale; mentre, per quanto riguarda lo sciopero, ne è stata
condizionata la legittimità all’esito positivo del referendum preventivo dei lavoratori
dell’unità produttiva (i cd. pre-strike ballots) con il Trade Union Act del 1984.
Il successivo governo laburista se, come vedremo, ha eliminato, da un lato, alcuni
aspetti della precedente legislazione, non è tuttavia tornato all’antico: in particolare
44
ha conservato il sistema dei pre-strike ballots ed anche le limitazioni delle clausole di
sicurezza sindacale.
2. – La recognition del sindacato e l’efficacia “normativa” dei contratti collettivi.
In base all’Employment Relations Act del 1999, un datore di lavoro può, in primo
luogo, scegliere di riconoscere un sindacato; ma può anche essere obbligato a
riconoscere un sindacato agli effetti della contrattazione collettiva. La recognition
implica un obbligo di trattare in capo al datore di lavoro in materia di retribuzioni,
orario di lavoro e ferie.
Nel caso di opposizione del datore di lavoro alla richiesta di recognition, si apre una
procedura complessa all’esito della quale, qualora al sindacato aderisca il 51% dei
lavoratori della bargaining unit, cioè dell’unità di contrattazione, il riconoscimento è
concesso dal CAC (Central Arbitration Committee), il quale coadiuva le parti anche
nella contrattazione collettiva al fine di raggiungere un accordo. A seguito del
procedimento legale di riconoscimento, il sindacato deve essere riconosciuto per tre
anni; ciò spiega la tendenza dei datori di lavoro al riconoscimento volontario,
sostanzialmente privo di limiti quanto alla derecognition.
Nel sistema inglese, come già osservato, in generale i contratti collettivi non sono
legalmente vincolanti tra le parti contrattuali (si considerano infatti binding in honour
only, ovvero vincolanti solo sull’onore), né essi hanno efficacia diretta sui contratti
individuali di lavoro.
45
Però sarebbe del tutto sbagliato pensare che, essendo gentlemen’s agreements, essi
non dispieghino effetti sui contratti individuali di lavoro. I contratti collettivi
diventano vincolanti per le parti individuali se richiamati espressamente o
implicitamente dai contratti di lavoro.
In particolare, la giurisprudenza di common law ha elaborato la teoria degli implied
terms nel contratto individuale. Secondo tale teoria, il richiamo al contratto collettivo
nel contratto individuale può avvenire anche implicitamente, nonostante non sia
previsto espressamente nel contratto, qualora vi sia l’intenzione delle parti individuali
di regolare i loro rapporti sulla base delle disposizioni del contratto collettivo. E’
molto forte, in questo caso, il richiamo a “custom and practice”: se il datore di lavoro
regola i propri rapporti individuali di lavoro sulla base del contratto collettivo, si ha
un implied term, ossia un rinvio implicito alle disposizioni del contratto collettivo.
Quindi, un contratto collettivo può essere vincolante tra le parti, se è pratica regolare
– questa è una specie di massima che si trova nelle pronunce – in un’impresa o in uno
stabilimento osservarne le clausole.
La più grande limitazione dell’effetto normativo dei contratti collettivi è
rappresentata dalla dottrina della “appropriateness”, secondo la quale le disposizioni
del contratto collettivo possono essere incorporate nel contratto individuale a
condizione che si tratti di clausole appropriate. Deve trattarsi, in particolare, di
clausole sostanziali (relative a retribuzioni, orario di lavoro etc.), in quanto quelle di
natura procedurale non si ritengono adeguate per l’incorporazione; e naturalmente
non devono contenere semplici affermazioni di scopi od aspirazioni.
46
Per quanto concerne tale ultimo aspetto, emblematico è stato il caso Kaur v. MG
Rover Group Ltd del 2004. La fattispecie riguardava una lavoratrice licenziata per
riduzione di personale, la quale si era opposta al licenziamento sostenendo che il suo
contratto individuale rinviava al contratto collettivo, che limitava il potere del datore
di lavoro di licenziare per riduzione del personale. Nel caso in esame, in realtà, vi
erano due contratti collettivi in relazione al rapporto di lavoro: la Corte,
analizzandoli, ha affermato che, dei due contratti collettivi richiamati, uno di essi
rappresentava solo una dichiarazione di intenti, in quanto conteneva mere
affermazioni di principio od aspirazioni delle associazioni sindacali e, pertanto, le sue
disposizioni non potevano essere incorporate nel contratto individuale. L’altro
contratto, invece, conteneva clausole inseribili nel contratto individuale ed era,
quindi, in grado di offrire tutela al soggetto licenziato.
In riferimento all’incorporazione, occorre inoltre osservare che, in via generale, il
datore di lavoro non può evitarla negando che le clausole del contratto collettivo
siano dirette ad avere un effetto sul piano individuale. Infatti, l’affermazione,
contenuta nei contratti collettivi, per cui essi devono ritenersi “binding in honour
only”, è interpretata come riferita esclusivamente al rapporto tra le parti collettive.
In Gran Bretagna, dunque, a dispetto della mancanza di uno status contrattuale, la
contrattazione collettiva gioca un ruolo importante come fonte di disciplina del
rapporto di lavoro. E ciò anche se occorre considerare la caduta del numero dei
lavoratori coperti dalla contrattazione collettiva; nel 1998 tale numero è caduto al
41% degli occupati nelle imprese con 25 o più lavoratori.
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3. – La contrattazione collettiva nel settore privato e il salario minimo legale in
Inghilterra.
La contrattazione collettiva avviene essenzialmente a livello aziendale: il declino
della contrattazione di categoria (industry wide bargaining) è avvenuto, per un
insieme di fattori, ben prima dell’avvento del governo Thatcher. Il governo
conservatore ha incoraggiato la contrattazione aziendale per rompere il fronte
dell’associazione sindacale, in quanto la contrattazione aziendale può tener conto più
precisamente dei margini di produttività e redditività delle singole imprese.
Il governo conservatore, ispirato in materia di politica economica dal liberale von
Hayek, ha introdotto una serie di riforme in materia di lavoro, tra cui l’abolizione del
closed shop, la limitazione delle azioni di picchettaggio e di solidarietà, la previsione
del referendum tra i lavoratori in caso di sciopero.
Il successivo governo laburista di Tony Blair ha varato un moderato programma
interventista in materia di rapporti collettivi di lavoro, ben riassunto nel Libro Bianco
“Fairness at work” del 1998; il principale intervento legislativo che ne è scaturito è
rappresentato dal già citato Employment Relations Act del 1999 (ERA). Si tratta della
legge relativa alla procedura di riconoscimento del sindacato da parte dei datori di
lavoro con più di 20 dipendenti.
Se è in grado di dimostrare che ad esso è iscritta la maggioranza dei lavoratori
operanti nell’unità produttiva, il sindacato ha la legittimazione a contrattare.
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Occorre in ogni caso sottolineare che il riconoscimento formale del sindacato, da
parte del datore di lavoro, non implica necessariamente che una contrattazione si
svolga su tutte le condizioni di lavoro, né che una contrattazione vi sia del tutto.
Infatti, il riconoscimento implica l’attribuzione di diritti d’informazione e di
consultazione solo in materia di trasferimento d’azienda e licenziamenti collettivi
(oltre che nei classici ambiti, quali salute e sicurezza dei lavoratori).
Nonostante la normativa sulla recognition del sindacato, la copertura della
contrattazione collettiva non è aumentata nel periodo laburista rispetto a quello
conservatore; ed è concentrata in specifici settori, in particolare nel settore pubblico
dove copre l’82% dei lavoratori pubblici; per contro, solo il 26% dei lavoratori privati
avrebbero le loro retribuzioni determinate dalla contrattazione collettiva. Il che ha
portato a concludere che la contrattazione collettiva nel settore privato non offre che
una protezione frammentaria e altamente localizzata, ad una minoranza di lavoratori.
In sostanza, ciò che è stato detto sul rapporto tra contratto collettivo e contratto
individuale presuppone che vi sia un contratto collettivo; ma vi sono tante situazioni
nelle quali il medesimo manca.
∗∗∗
Proprio per questo motivo, poiché la copertura della contrattazione collettiva, almeno
per il settore privato, si presenta limitata e non si è accresciuta, nonostante la
normativa sul riconoscimento dei sindacati, nel 1998 è stato approvato il National
Minimum Wage Act, seguito dalle Regulations del 1999, che riguarda l’intera forza
lavoro.
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L’introduzione di un minimum wage nazionale è stato un impegno assunto dal partito
laburista e ripreso nel già citato Libro Bianco “Fairness at work”. La proposta, poi
tradotta in legge, implicava che vi fosse una singola misura oraria per ogni regione,
settore e dimensione dell’impresa. Secondo il governo, il minimum wage avrebbe
contribuito ad una maggiore fairness per il lavoro ed avrebbe eliminato le forme di
sfruttamento. Fra l’altro, introdurre un minimum wage, secondo la teoria classica
degli Webb, avrebbe aiutato anche le imprese a diventare più competitive, giacché
esse non avrebbero potuto basarsi unicamente sui bassi salari e sui bassi prezzi, ma
avrebbero dovuto introdurre modifiche organizzative e tecnologiche sufficienti per
sostenere dei salari appropriati.
In base all’Act, il segretario di Stato determina qual è il salario minimo legale dopo la
consultazione della Low Pay Commission, un organismo trilaterale di cui fanno parte
sia i rappresentanti dei datori di lavoro, sia i rappresentanti dei lavoratori, sia esperti
indipendenti. E le raccomandazioni della Low Pay Commission sono invariabilmente
prese in considerazione dal governo nel momento in cui determina il salario minimo
legale.
La legge non prevede un adeguamento automatico del salario minimo legale alla
variazione dei prezzi e del costo della vita. L’innalzamento del salario minimo è a
discrezione del Segretario di Stato, che può rivolgersi, su tale questione, alla Low Pay
Commission. Nel giugno del 1998 il governo ha annunciato che il tasso del salario
minimo legale per i lavoratori di 22 anni o più sarebbe stato di 3.60 £ per ora, a
partire da aprile 1999. Ad ottobre 2009 è stato elevato a 5.80 £ per ora. È interessante
50
osservare che il salario minimo legale si applica ai workers: il worker è colui che
lavora o con contratto di lavoro subordinato o con qualsiasi altro contratto che lo
obbliga a compiere personalmente un lavoro o servizio per un’altra parte (e non sia
un professionista o un’impresa individuale). E che vi è una differenziazione in base
all’età: infatti, i lavoratori di 18 anni, ma con meno di 22, hanno diritto ad un salario
inferiore rispetto agli “adulti” (4.83 £ per ora dal 1° ottobre 2009).
4. – Il rapporto tra il sistema volontaristico inglese di relazioni industriali e i principî
comunitari.
Come detto, nel Regno Unito sussiste un sistema volontaristico basato sul collective
laissez-faire, ossia sull’astensione del legislatore dalla regolazione delle relazioni
industriali.
L’adesione all’Unione Europea, tuttavia, ha implicato alcuni adattamenti nel sistema
volontaristico inglese di relazioni industriali.
La Corte di giustizia, con due sentenze dell’8 giugno 1994, ha dichiarato il Regno
Unito inadempiente agli obblighi comunitari per non aver dato piena attuazione alla
direttiva n. 77/187 sul trasferimento d’azienda e a quella n. 75/129 sui licenziamenti
collettivi, con le normative, rispettivamente, del 1981 (Transfer of Undertakings
Protection of Employment Regulations) e del 1975 (Employment Protection Act).
Le
censure
della
Corte
di
giustizia
riguardavano
la
mancata
garanzia
dell’assolvimento degli obblighi di informazione e consultazione, poiché all’epoca
era prevista solo la recognition volontaria. Con la conseguenza che, sul datore di
51
lavoro che non riconosceva il sindacato, non poteva gravare alcun obbligo; e ciò,
secondo la Corte, era contrario al diritto comunitario.
In seguito alle due pronunce, la Gran Bretagna ha emendato i due Acts prevedendo la
possibilità per i lavoratori di eleggere rappresentanze ad hoc per l’esercizio dei diritti
di informazione e consultazione (dal cd. single channel all’alternative channel).
Questo sistema è stato poi adottato in tutti i provvedimenti legislativi successivi di
derivazione comunitaria in cui sono stati previsti diritti di informazione e
consultazione (salute e sicurezza, orario di lavoro, permessi parentali).
Possiamo, quindi, affermare che il diritto comunitario ha condizionato il sistema
inglese, in un’ottica armonizzante rispetto agli altri Paesi europei.
5. – Le caratteristiche dello sciopero nel settore privato e dei pubblici servizi.
Nel sistema inglese lo sciopero non è configurato come diritto, bensì è visto come
una rottura del contratto di lavoro (un inadempimento contrattuale). Esso, inoltre, non
è punibile penalmente: utilizzando il nostro linguaggio, non è, dunque, un diritto, ma
una libertà. Né i sindacati hanno mai reclamato questo diritto, limitandosi a richiedere
un sistema di relazioni industriali improntato al laissez-faire, alla libera dialettica tra
le parti. In quest’ottica si è mosso il legislatore, riconoscendo ai sindacati delle
specifiche immunità che li sottraessero alle responsabilità per tort di common law,
altrimenti conseguenti all’azione collettiva.
52
Il sindacato che proclama uno sciopero, sulla base del common law, incorre in una
responsabilità per tort. Il tort non è un concetto facile da definire: può essere visto
come una sorta di responsabilità extra-contrattuale per aver danneggiato una terza
parte, il datore di lavoro, inducendo i lavoratori ad essere inadempienti ai propri
obblighi contrattuali, oppure per cospirazione, e così via. Il tort principale è quello
dell’inducing breach of contract (indurre, istigare all’inadempimento contrattuale).
In Italia lo sciopero non è disciplinato, tranne che nel settore dei pubblici servizi,
dove vi è una regolamentazione specifica. In Inghilterra, invece, non è presente una
regolamentazione neppure in tale settore, anche se sono previste ipotesi di intervento
pubblico basato sull’Emergency Powers Act del 1920, che consente al governo,
previa dichiarazione dello stato di emergenza, di adottare una vasta gamma di misure
atte ad arginare gli effetti più dirompenti dello sciopero per la collettività (la
regolazione specifica nel settore energetico si è avuta con l’Energy Act del 1976).
Nel dopoguerra, si è giunti alla proclamazione dello stato di emergenza solo dodici
volte, l’ultima delle quali risale al 1974.
E’ prevista anche la possibilità di ricorrere ai militari sulla base di una decisione del
Consiglio della difesa, in presenza di un urgente lavoro di importanza nazionale. I
governi che si sono succeduti dal 1979 ad oggi hanno, tuttavia, fatto poco ricorso alla
dichiarazione dello stato di emergenza e i militari sono stati utilizzati in modo più
limitato rispetto al passato.
Ciò si è verificato probabilmente in quanto il risultato del controllo del conflitto,
anche nei servizi pubblici essenziali, è stato raggiunto attraverso l’indebolimento del
53
sindacato e la liberalizzazione dei pubblici servizi, che ha determinato un
indebolimento
della
capacità
organizzativa
del
sindacato,
causato
dall’assoggettamento ai vincoli del mercato.
6. – Lo sciopero come inadempimento contrattuale e come tort.
Il lavoratore che sciopera è responsabile per inadempimento contrattuale (breach of
contract). Trattasi di un principio di common law, tale per cui, non solo il lavoratore è
tenuto a risarcire i danni, ma può anche essere licenziato.
L’Employment Relations Act del 1999 (ERA) ha, tuttavia, escluso la fairness, ovvero
la giustificatezza, del licenziamento del lavoratore la cui unica ragione consista nel
fatto che egli abbia partecipato ad uno sciopero ufficiale, cioè autorizzato e sostenuto
dal sindacato. Pertanto, l’affermazione per cui lo sciopero, nel sistema inglese, non è
un diritto in senso proprio, necessita di una relativizzazione, se è vero che il
licenziamento motivato dall’adesione allo sciopero è unfair. Peraltro, secondo alcuni,
la regola posta nell’Employment Relations Act appare più un cedimento alle pressioni
internazionali, dal momento che vi sono state delle censure da parte dell’OIL per
violazione degli standards internazionali, che non l’indice di una volontà di ribaltare
l’atteggiamento del governo conservatore rispetto al conflitto.
Per quanto concerne i sindacati, essi possono essere ritenuti responsabili del tort of
inducing breach of contract (istigazione all’inadempimento). Per dar luogo a
responsabilità, tuttavia, la condotta deve essere stata posta in essere con l’intenzione
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di determinare la rottura del vincolo contrattuale. Altri tipi di tort sono conspiracy,
intimidation, interference.
I sindacati sono protetti dall’immunità, quindi, non sono responsabili nei confronti
del datore di lavoro, a condizione che lo sciopero risponda a determinate
caratteristiche, ovvero abbia il supporto della maggioranza dei lavoratori. Nel sistema
inglese, infatti, dal 1984 (con il Trade limit Act del 1984) è stato introdotto un istituto
di cui si discute da tempo in Italia, almeno nel caso di sciopero nei pubblici servizi,
ossia il referendum preventivo dei lavoratori.
L’azione collettiva deve essere approvata dalla maggioranza dei lavoratori
appartenenti alla bargaining unit o comunque al gruppo dei lavoratori che dovrebbero
scioperare secondo l’indicazione del sindacato, attraverso un’apposita votazione –
(pre-strike ballots). Essa è stata prevista con il Trade Union Act del 1984, e la relativa
previsione è stata più volte corretta nel tempo, anche dal governo laburista, che ha
reso meno complessa la procedura.
Alcuni autori ritengono che le previsioni del Trade Union Act non abbiano inficiato la
capacità di azione del sindacato. Infatti, i sindacati non hanno fatto pressioni affinché
il governo laburista abolisse il referendum preventivo, in quanto tale meccanismo,
prescrivendo la necessaria consultazione preventiva dei lavoratori in ordine alla
volontà di effettuare lo sciopero, rappresenta già un mezzo di pressione. In pratica,
quindi, i pre-strike ballots hanno quasi la stessa forza deterrente di uno sciopero
effettivo: se dal ballottaggio preventivo risulta che la maggioranza dei lavoratori
intende aderire allo sciopero, il datore di lavoro ha più interesse a raggiungere un
55
accordo con i lavoratori a votazione avvenuta, che non attendere la loro astensione
collettiva dal lavoro.
Nel nostro ordinamento si discute della necessità di introdurre il referendum
preventivo almeno nel settore dei servizi pubblici essenziali. Il governo attuale ha
presentato in proposito al Senato un disegno di legge – il disegno di legge n. 1473 del
2009 – in cui si prevede una riforma alla disciplina dello sciopero nei pubblici servizi
che contempla proprio l’obbligo di un referendum preventivo. In base a tale disegno
di legge, in particolare, si prevede che, prima di intraprendere azioni di sciopero, i
sindacati debbano effettuare un referendum tra i lavoratori, il cui esito è vincolante,
nel senso che solo in caso di esito positivo lo sciopero può essere proclamato.
7. – Il diritto d’azione del cittadino-consumatore e le condotte del lavoratore diverse
dallo sciopero.
E’ interessante osservare che, nel settore dei pubblici servizi, è previsto un diritto
d’azione del cittadino-consumatore nel conflitto sindacale (citizen’s right of action),
per esercitare il quale è sufficiente prospettare il pericolo di una diminuzione
dell’efficienza del servizio.
Per sostenere l’azione del cittadino era stato istituito un organismo apposito
(Commission for Protection Against Industrial Action): il cittadino che voleva agire
in giudizio contro il sindacato promotore di uno sciopero in grado di danneggiare
l’efficienza del servizio poteva essere sostenuto da tale organismo pubblico.
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Il governo laburista di Tony Blair ha eliminato tale organismo, non per ragioni
ideologiche, ma poichè in realtà nessuno lo aveva mai attivato. Il diritto d’azione del
cittadino-consumatore ha avuto poco successo sia per lo scarso numero degli
scioperi, sia per la complessità della normativa che fa si che non sia facile per il
cittadino stabilire se lo sciopero sia legittimo o illegittimo, sia (e ciò si è verificato
anche in Italia) per le campagne di alleanza che spesso intercorrono tra i sindacati e i
cittadini consumatori.
Le forme di lotta sindacale diverse dallo sciopero, vale a dire diverse dalla astensione
dal lavoro, non sono in linea di massima consentite: sono in genere considerate
ipotesi di breach of contract. La forma più comune è il work to rule (rifiuto di
eseguire prestazioni che esorbitino da quelle previste espressamente dal contratto di
lavoro). Tale comportamento è censurato dalle corti in quanto violerebbe gli obblighi
di correttezza e buona fede.
La soluzione è analoga a quella prevista nel nostro ordinamento qualora un lavoratore
si rifiuti di svolgere compiti accessori rispetto all’obbligazione principale: questa
condotta, essendo lesiva degli obblighi di correttezza e buona fede, viene considerata,
anche nel nostro sistema, un inadempimento contrattuale.
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CAPITOLO IV
Contratto e conflitto collettivo. Modelli dell’Europa continentale a confronto.
I
Il sistema francese
Sommario: 1. Il modello sindacale francese – 2. Costituzione francese e libertà sindacale – 3. Le fonti
legislative in tema di contratto collettivo e di rappresentatività sindacale – 4. La struttura e il regime
giuridico della contrattazione collettiva – 5. Il regime del contratto collettivo – 6. Il diritto di sciopero in
Francia e la sua regolazione – 6.1 Lo sciopero nei servizi pubblici.
1. – Il modello sindacale francese.
L’ordinamento inglese, per le sue caratteristiche, si presenta distante dai sistemi
dell’Europa continentale (pur avendo assonanze, quanto all’assenza di interventi
legislativi organici in materia di contrattazione collettiva, con il sistema italiano).
Tra i modelli classici dell’Europa continentale rileva, indubbiamente, la Francia, che
non si può certamente considerare ispirata, come il Regno Unito, al principio del
collective laissez-faire.
Anzi, la Francia è un sistema fortemente giuridificato e centralistico (anche se, come
nel sistema politico, anche nel sistema sindacale assistiamo ad una certa tendenza al
decentramento).
Le ragioni di questa differenziazione rispetto, ad esempio, al modello inglese, sono di
ordine storico, culturale e politico-sindacale. La Francia, tra tutti i Paesi d’Europa, ha
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il più basso tasso di sindacalizzazione (15% nel settore pubblico e 5% nel settore
privato, secondo il rapporto Hadas-Lebel del 2006).
A fronte di questa storica debolezza del sindacalismo francese, lo Stato ha
naturalmente acquisito uno spazio sempre più ampio. Lo sviluppo di una tradizione
“contrattuale” presuppone sindacati forti e un’attitudine dei sindacati dei datori di
lavoro al compromesso; come, ad esempio, è sempre stato in Inghilterra.
In Francia vi è, inoltre, una situazione di pluralismo sindacale su base ideologica –
come in Italia – e a differenza dell’Inghilterra e della Germania. Con riferimento ai
datori di lavoro, vi è il Medef (Mouvement des entreprises de France). Per quanto
concerne i lavoratori, vi sono la CGT (Confédération Générale du Travail), la CFDT
(Confédération Française Démocratique du Travail), la CFTC (Confédération
Française des Travailleurs Chrétiens), la FO (CGT Force Ouvriére) e la CFE-CGC
(Confédération Française de l’Encadrement-Confédération Générale des cadres),
che è un sindacato di mestiere.
2. – Costituzione francese e libertà sindacale.
Le fonti del diritto sindacale francese, con particolare riferimento al contratto
collettivo e allo sciopero, vanno rintracciate nel preambolo alla Costituzione francese
sia del 1946, sia del 1958 (che richiama, infatti, quello del 1946).
Nel preambolo si afferma, tra l’altro, che “ognuno ha il dovere di lavorare e il diritto
di ottenere un’occupazione. Nessuno può essere danneggiato, nel suo lavoro o nel suo
impiego, a causa delle sue origini, opinioni o credenze.
60
Ogni uomo può difendere i suoi diritti e i suoi interessi mediante l’azione sindacale, e
aderire al sindacato di sua scelta.
Il diritto di sciopero si esercita nel quadro delle leggi che lo regolano.
Ogni lavoratore partecipa, per mezzo dei suoi delegati, alla determinazione collettiva
delle condizioni di lavoro, nonché alla gestione delle imprese…”.
La prima disposizione rilevante del preambolo è quella per cui “ogni uomo può
difendere i suoi diritti e i suoi interessi mediante l’azione sindacale, e aderire al
sindacato di sua scelta”, in quanto essa sancisce il principio di libertà sindacale.
Segue quella per cui “il diritto di sciopero si esercita nel quadro delle leggi che lo
regolano”. Si tratta di una formulazione su cui è stata poi ricalcata quella contenuta
nell’art. 40 della Costituzione italiana.
Deve essere ricordata, infine, anche la disposizione per cui “ogni lavoratore
partecipa, per mezzo dei suoi delegati, alla determinazione collettiva delle condizioni
di lavoro, nonché alla gestione delle imprese...”.
Riassumendo, il preambolo della Costituzione francese riconosce, quindi, la libertà
sindacale, anche sotto forma di libertà di contrattazione collettiva, e il diritto di
sciopero. Nel testo costituzionale non compaiono, invece, né norme sulla
rappresentanza e sulla rappresentatività sindacale né norme sulle condizioni per
l’attribuzione di efficacia erga omnes ai contratti collettivi.
3. – Le fonti legislative in tema di contratto collettivo e rappresentatività sindacale.
Nonostante nella Costituzione non compaia una regolazione del contratto collettivo e
della rappresentatività sindacale, vi è una cospicua legislazione ordinaria, piuttosto
61
risalente, che si occupa degli aspetti precedentemente indicati. Risale addirittura al
1919 la prima regolamentazione legislativa del contratto collettivo (legge 23 marzo
1919), che ne riconosce l’effetto normativo sui contratti individuali, stabilendo che le
clausole individuali difformi (in senso peggiorativo) siano sostituite di diritto dalle
disposizioni dei contratti collettivi.
Successivamente, è stata emanata la legge del 24 giugno 1936, che ha sancito la
possibilità di riconoscere l’efficacia normativa erga omnes ai contratti collettivi
stipulati dai sindacati rappresentativi, mediante un decreto ministeriale.
La parentesi autoritaria aperta con la legge n. 46-2964 del 23 dicembre 1946 è stata
chiusa con la legge n. 50-205 dell’11 febbraio 1950. Quest’ultima ha previsto due tipi
di contratto collettivo: la convention collective ordinaire e la convention collective
susceptible d’extension (che acquisisce un’efficacia paranormativa per tutte le
imprese di un determinato settore). Dal punto di vista terminologico, si distingue tra
la “convention collective”, che è un contratto collettivo che riguarda l’insieme delle
condizioni di lavoro, e l’“accord collectif”, che è un contratto collettivo inerente solo
una o più materie determinate.
Tutto il materiale normativo che regola, non solo i rapporti collettivi, ma anche il
contratto individuale di lavoro, è stato raccolto nel 1973 in un Codice del lavoro
(Code du travail), che può essere visto come una sorta di testo unico contenente i
principî elaborati fino a quel momento (esempio di codification à droit constant), ora
modificato, da ultimo, dalla legge n. 2008-67 del 21 gennaio 2008.
62
Nel 1982 sono state emanate le cd. leggi Auroux (dal nome del Ministro del lavoro
dell’epoca), che hanno favorito il decentramento contrattuale. In seguito, la cd. legge
Fillon n. 2004-391 del 4 maggio 2004 ha inciso profondamente sulla struttura della
contrattazione collettiva, consentendo di stipulare contratti aziendali che derogano in
peius a quelli di categoria.
La recente legge n. 2008-789 del 20 agosto 2008 ha modificato i criteri di
rappresentatività (ancora stabiliti dalla legge dell’11 febbraio 1950). I criteri di
rappresentatività sindacale servono a svariati fini e, per quel che qui rileva, al fine di
determinare quali siano i soggetti legittimati a stipulare i contratti collettivi. Solo i
sindacati rappresentativi, infatti, possono stipulare i contratti collettivi. Anche le
conventions ordinaires, non estese erga omnes, devono essere stipulate dai sindacati
rappresentativi.
I criteri fissati dalla legge del 2008 sono i seguenti:
1) Rispetto dei valori repubblicani (sostituisce il criterio stabilito nel ’50 consistente
nell’“attitudine patriottica durante l’occupazione”, ormai obsoleto), ovvero il rispetto
della libertà d’opinione, politica, filosofica, religiosa e il rifiuto di ogni
discriminazione, integralismo o intolleranza, sia nello Statuto del sindacato che nella
attività sindacale.
2) Indipendenza nei confronti della controparte datoriale (non si deve cioè trattare di
un sindacato di comodo).
3) Trasparenza finanziaria: i sindacati devono avere dei bilanci certificati
annualmente.
63
4) Anzianità almeno biennale nel campo professionale e geografico che copre il
livello di contrattazione. Il presupposto è che solo un sindacato che abbia una certa
anzianità di impianto possa essere rappresentativo, per evitare che si tratti di un
fenomeno effimero.
5) Audience électorale, ovvero ottenimento di determinate percentuali nelle elezioni
dei rappresentanti sindacali ai vari livelli, in particolare dei rappresentanti del
personale a livello aziendale (comité d’entreprise).
6) Influenza, prioritariamente caratterizzata dall’attività e dall’esperienza. Lo
svolgimento di attività sindacale si traduce, in particolare, nella stipulazione di
contratti collettivi.
7) Aderenti effettivi e contributi sindacali.
Tutti questi criteri sono valutati cumulativamente e la loro applicazione lascia quindi
spazio ad un certo grado di discrezionalità vuoi all’autorità amministrativa, se si tratta
di estensione del contratto collettivo, vuoi al giudice.
Il quadro dei requisiti di rappresentatività è più analitico, ma, in pratica, non si tratta
di criteri diversi di quelli utilizzati nell’ordinamento italiano quando si è voluto
riempire di contenuto la nozione di rappresentatività (o maggiore rappresentatività).
4. – La struttura e il regime giuridico della contrattazione collettiva.
Per quanto concerne la struttura della contrattazione collettiva, in Francia il livello
centrale è rappresentato dalla convention de branche, ossia dal contratto collettivo di
64
categoria. Vi sono, inoltre, accordi a livello di professione (ad esempio per i
giornalisti), accordi interprofessionali e accordi a livello d’impresa.
Con riferimento alla disciplina del livello di contrattazione collettiva, in precedenza
vi era un sistema gerarchizzato e centralizzato (si privilegiavano gli accordi di
branche o intercategoriali). Gli accordi d’impresa venivano relegati in secondo piano;
poi la legge Auroux del 1982 ha dato impulso alla contrattazione aziendale. E la legge
Fillon del 2004, come si è detto, ha infine, consentito ai contratti aziendali di
derogare a quelli di livello territoriale o professionale più elevato.
5. – Il regime del contratto collettivo.
Il contratto collettivo deve essere stipulato da una o più associazioni sindacali
rappresentative nel campo di applicazione dell’accordo (art. L2231-1 Code du
travail) e necessita della forma scritta.
La legge Fillon del 2004, confermata sotto questo profilo dalla legge del 2008, ha
sancito il principio di maggioranza: il contratto collettivo (sia esso convention o
accord) deve avere il seguito della maggioranza dei lavoratori che rientrano
nell’ambito di applicazione dell’accordo, a prescindere dal fatto che esso sia
rappresentativo.
La legge ha affermato il principio di maggioranza in due forme. La prima è
rappresentata dal diritto di opposizione delle associazioni maggioritarie agli accordi
stipulati da sindacati minoritari (ma comunque rappresentativi in generale). Il
sindacato ha un droit d’opposition, un diritto di veto. L’opposizione deve essere
65
scritta, motivata e notificata entro breve termine dalla stipulazione del contratto (15
giorni per la convention de branche e 8 giorni per i contratti aziendali).
L’altra versione dell’affermazione del principio maggioritario è la sottoposizione
dell’accordo alla sottoscrizione dei sindacati maggioritari.
Il contratto collettivo può essere esteso erga omnes attraverso un decreto del Ministro
del lavoro. Va sottolineato, tuttavia, che sono suscettibili di estensione solo i contratti
collettivi stipulati anche dalle organizzazioni datoriali rappresentative, oltre che dai
sindacati rappresentativi. L’estensione ad opera del Ministro può avvenire o d’ufficio
(in tal caso egli convoca le parti in una sorta di “incontro concertativo”), o su
richiesta delle parti sindacali. Il Ministro del lavoro non è obbligato ad estendere un
contratto collettivo. Il rifiuto può essere dovuto alla contrarietà del testo a norme
legislative o regolamentari in vigore oppure al fatto che esso non sia rispondente alla
situazione del ramo di attività nel campo di applicazione considerato non soddisfi le
condizioni legali.
Nel caso in cui il Ministro del lavoro intendesse procedere all’estensione, dovrà
consultare preliminarmente la Commission nationale de la négotation collective.
Dopo aver acquisito il parere favorevole di tale commissione, il Ministro del lavoro
deve pubblicare nel Journal officiel un avviso relativo all’estensione ed invitare tutti
gli interessati da tale accordo o contratto collettivo a seguirne le indicazioni.
L’estensione è dunque un atto amministrativo: vi si può fare ricorso nelle sedi
amministrative e può essere annullato nel caso in cui non rispetti le condizioni legali
richieste.
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Gli effetti di tale estensione terminano nel momento in cui il Ministro abroga l’atto di
élargissment o nel momento in cui le parti sociali del settore negoziano un nuovo
contratto collettivo. L’élargissment ha, così, una funzione di incentivo alla
negoziazione.
6. – Il diritto di sciopero in Francia e la sua regolazione.
Lo sciopero è riconosciuto nel preambolo della Costituzione francese con una
formulazione identica a quella contenuta nella Costituzione italiana.
C’è una grande affinità per quanto riguarda il conflitto collettivo fra Francia ed Italia
e la vicenda della regolazione dello sciopero è sostanzialmente analoga.
Anche in Francia, nonostante il rimando del preambolo della Costituzione a leggi che
ne regolassero l’esercizio, queste leggi non sono state emanate. Esistono disposizioni
che hanno escluso alcune categorie di lavoratori dalla titolarità del diritto di sciopero:
es. la polizia, la magistratura e il personale del Ministro dell’Interno.
A parte queste disposizioni specifiche, di esclusione dal diritto di sciopero delle
menzionate categorie, il diritto di sciopero è essenzialmente un droit prétorien, un
diritto giurisprudenziale, come in Italia. Come in Italia, il diritto di sciopero, è
ritenuto un diritto individuale ad esercizio collettivo; quindi, la proclamazione
sindacale non è assolutamente necessaria al fine di dare ingresso ad uno sciopero
tutelato. In Francia gli scioperi spontanei sono comuni e sono da considerare del tutto
leciti.
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Lo sciopero è definito – come nell’ordinamento italiano – “astensione concertata dal
lavoro in vista della difesa di interessi professionali”. Quindi, le forme di lotta
sindacale che non si concretano in un’astensione dal lavoro non possono essere
considerate sciopero e possono anche essere considerati illecite. Si pensi a ciò che i
francesi chiamano la grève perlée (lavorare “al rallentatore”) e all’esecuzione inesatta
della prestazione, che rappresentano ipotesi di inadempimento contrattuale.
Nel nostro ordinamento la categoria di “abuso del diritto” è una categoria
controversa. Al di fuori delle ipotesi canonizzate (divieto di atti emulativi: art. 833
c.c.) è discussa l’utilizzazione della categoria dell’abuso del diritto per introdurre
limiti ulteriori rispetto a quelli che risultano dalle norme di legge. In Francia, la
categoria dell’abuso del diritto come limite all’autonomia individuale è spesso
utilizzata. Non a caso, i francesi utilizzano la formula dell’abuso del diritto per
affermare l’illiceità di forme di sciopero che provocano una “disorganizzazione”
dell’impresa e quindi un danno alla attività produttiva ulteriore rispetto al danno che
normalmente deriva dallo sciopero. Si tratta di conclusione analoga a quella raggiunta
dalla nostra giurisprudenza quando, in relazione agli scioperi articolati, distingue tra
danno alla produzione e danno alla produttività ovvero alla capacità produttiva
dell’impresa.
In Francia è ammesso anche lo sciopero politico: se è economico-politico è da
considerarsi un diritto, se è politico puro una libertà.
6.1. – Lo sciopero nei servizi pubblici.
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Nell’ordinamento francese l’unica regolazione specifica dello sciopero si ha nei
servizi pubblici. Vi è, innanzitutto, una legge risalente al 1963 (la n. 63777 del 31
luglio 1963) che riguarda il personale civile dello Stato, delle Regioni, dei distretti e
dei comuni con più di 10.000 abitanti.
Disposizioni particolari sono state poi previste per il settore del trasporto pubblico
terrestre da parte della legge n. 2007-1224 del 21 agosto 2007. Essa rende
obbligatoria la negoziazione tra imprese e organizzazioni sindacali rappresentative
per stabilire innanzitutto procedure di raffreddamento e conciliazione. Tra l’altro, la
legge, nello stesso tempo, detta una disciplina suppletiva per il caso in cui non si
raggiunga l’accordo. In particolare, essa prevede l’obbligo di comunicazione al
datore di lavoro dell’intenzione di partecipare allo sciopero almeno 48 ore prima del
suo inizio. Può essere inoltre indetto un referendum consultivo tra i lavoratori dopo 8
giorni dall’inizio dello sciopero per verificare l’opportunità della sua prosecuzione.
Gli utenti hanno diritto ad una piena informazione, al più tardi 24 ore prima
dell’inizio dello sciopero; ed è interessante che sia previsto espressamente il rimborso
dei biglietti in caso di mancata utilizzazione del servizio a causa dello sciopero.
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II
Il sistema tedesco
Sommario: 7. Il modello sindacale tedesco e la sua base nell’art. 9, 3° comma del Grundgesetz – 8. Il regime
del conflitto collettivo – 9. Il regime del contratto collettivo.
7. – Il modello sindacale tedesco e la sua base nell’art. 9, 3° comma del
Grundgesetz.
Un altro esempio di modello dell’Europa continentale che si presenta giuridificato sul
piano dei rapporti collettivi è quello tedesco.
Sul piano delle fonti, di fondamentale rilevanza è l’art. 9 della Costituzione tedesca
(Grundgesetz), concernente la libertà di associazione.
In esso si dispone, al 3° comma, che “il diritto di formare associazioni per la
salvaguardia e il miglioramento delle condizioni economiche e del lavoro è garantito
a ognuno e in ogni professione. Gli accordi che tentano di limitare o escludere tale
70
diritto sono nulli e sono illegali le misure adottate a tale scopo. I provvedimenti
adottati in forza degli articoli 12 a, 35, secondo e terzo comma, 87 a, quarto comma e
91, non possono essere diretti contro i conflitti di lavoro condotti dalle associazioni di
cui al primo periodo del presente comma al fine di salvaguardare e migliorare le
condizioni economiche e del lavoro”.
Da questa disposizione sono state desunte alcune importanti conseguenze, attraverso
un “diritto pretorio”. Innanzitutto, nel sistema tedesco non esiste una legislazione
sulla rappresentatività sindacale, come in Francia. La garanzia giuridica dei diritti
sindacali e la loro tipologia è stata elaborata dalla giurisprudenza proprio sulla base
dell’art. 9, comma 3 della Costituzione tedesca. Sotto questo profilo vi è un’analogia
con l’Italia, ove vi è stata una rilevantissima elaborazione scientifica e
giurisprudenziale, sulla base del 1° comma dell’art. 39 (“l’organizzazione sindacale è
libera”). I sindacati italiani tuttavia, per quanto riguarda i diritti sindacali, hanno
potuto fare riferimento anche alla l. n. 300 del 1970, che non ha equivalente in
Germania.
8. – Il regime del conflitto collettivo.
Nell’ordinamento tedesco non esiste una specifica regolamentazione del conflitto
collettivo, in particolare dello sciopero, il cui fondamento giuridico si riscontra
sempre nell’art. 9, comma 3 della Costituzione, che sancisce la libertà sindacale. Lo
sciopero, ponendosi quale strumento necessario ed indispensabile ai fini della libertà
71
di organizzazione sindacale e di negoziazione delle condizioni di lavoro, rientra
sostanzialmente nel concetto di libertà sindacale.
In Germania non esiste una norma come quella di cui all’art 40 Cost. italiana che
definisce lo sciopero come diritto, ma solo una disposizione analoga a quella
contenuta nell’art. 39 Cost. Si intravede, pertanto, in Germania una connessione tra
l’azione sindacale contrattuale ed il conflitto. Ciò ha portato alla costruzione del
diritto di sciopero come diritto legato alla contrattazione collettiva e sindacale: è
necessaria la proclamazione da parte di un sindacato perché si possa parlare di
sciopero. Non solo lo sciopero deve essere proclamato da un sindacato, ma deve
essere funzionale alla contrattazione collettiva. E’quindi ammessa la legittimità
esclusivamente dello sciopero economico-contrattuale, non dello sciopero politico.
Anzi, lo sciopero politico viene visto addirittura come un attentato alle prerogative
del Parlamento.
In Italia lo sciopero per fine politico è ammesso, quale semplice libertà, in base
all’interpretazione dell’art. 3, comma 2, Cost., perchè si tratterebbe di un mezzo per
garantire l’uguaglianza sostanziale di una classe sottoprotetta. In Germania, invece,
questa conclusione non è accettata, giacché si ritiene che, così argomentando, la
categoria dei soggetti “lavoratori subordinati” sarebbe privilegiata rispetto agli altri
cittadini, avendo un mezzo in più, oltre al diritto di voto, per incidere sulla politica
del Paese.
Nel 2007 tuttavia il BAG, sancendo la generale ammissibilità dello sciopero di
solidarietà, ha introdotto una parziale modifica a tali orientamenti tralatizi. Fino al
72
2007, infatti, la funzionalizzazione del conflitto sindacale alla contrattazione aveva
portato la giurisprudenza tedesca ad escludere di norma la legittimità degli scioperi
cd. secondari. Si tratta di azioni rivolte, non nei confronti della controparte
contrattuale (datori di lavoro o relative associazioni), al fine di esercitare pressione in
funzione del rinnovo del contratto collettivo, ma verso terzi che non possono
soddisfare le relative rivendicazioni. Nel 2007 il BAG ha sancito che, dalla libertà di
scelta dei mezzi di lotta sindacale, quale oggetto di tutela costituzionale ex art. 9, 3°
co. della Costituzione, deriva la garanzia costituzionale dello sciopero di solidarietà
finalizzato ad offrire appoggio ad un’azione primaria diretta alla stipulazione di un
contratto collettivo (anche nel caso in cui non vi sia identità dei soggetti sindacali
stipulanti).
Secondo il BAG, dalla concezione contrattualistica del conflitto industriale, non può
derivare l’illegittimità degli scioperi di solidarietà per il solo fatto di fuoriuscire dal
campo di applicazione del contratto collettivo alla cui osservanza è tenuto il datore di
lavoro soggetto passivo dell’agitazione. Tale conclusione è rafforzata dal richiamo
alla garanzia del diritto di sciopero di cui alla Parte II, art. 6, n. 4 della Carta sociale
europea, garanzia che non potrebbe tollerare una limitazione di carattere generale
dello sciopero al campo di applicazione del contratto collettivo.
Le argomentazioni tradizionali con cui il BAG in passato ha (salvo ipotesi residuali)
negato la legittimità dello sciopero secondario vengono tuttavia recuperate in sede di
sindacato di proporzionalità (Grundsatz der Verhältnismässigkeit) nella tradizionale
articolazione trifasica di giudizio di idoneità, necessità e proporzionalità in senso
73
stretto, alla luce del quale devono essere vagliati anche gli scioperi di solidarietà.
Così, ad esempio, ai fini del giudizio di proporzionalità in senso stretto, occorre
prendere in considerazione la vicinanza o lontananza del conflitto secondario rispetto
al conflitto primario, valutando il nesso economico esistente tra il datore di lavoro
interessato dallo sciopero primario e quello interessato dall’azione secondaria. Tale
connessione si avrà in particolare nell’ipotesi di collegamento societario tra le
imprese di un gruppo o nel caso della presenza di rapporti di produzione, servizio o di
fornitura.
La giurisprudenza tedesca, in mancanza di una normativa specifica sullo sciopero, ha
elaborato un insieme di principî, determinanti ai fini di stabilire la legittimità del
medesimo: in particolare, lo sciopero deve avere un motivo legittimo, deve essere
l’ultima ratio e l’azione deve avere un carattere di proporzionalità, ovvero il mezzo
usato deve essere proporzionato rispetto ai fini. Il principio del ricorso allo sciopero
quale ultima ratio è stato tuttavia praticamente svuotato di contenuto dalla
giurisprudenza del BAG, il quale ha chiarito che tale principio non richiede una
formale dichiarazione di fallimento delle trattative. La decisione in merito al
fallimento delle trattative compete al sindacato e non può essere oggetto di sindacato
giurisdizionale.
Un divieto di sciopero vige per gli impiegati pubblici di carriera (Beamte), tra cui si
annoverano ad esempio gli insegnanti, i professori universitari, i membri della polizia
o dei vigili del fuoco, i lavoratori del settore pubblico sanitario. Le ragioni del
divieto, supportato dal Tribunale Amministrativo Federale e dalla dottrina
74
maggioritaria, sono molteplici. Si ritiene che, poiché le condizioni di lavoro degli
impiegati pubblici di carriera sono disciplinate in via legislativa, uno sciopero diretto
alla modifica delle stesse sarebbe necessariamente diretto contro l’organo legislativo:
esso costituirebbe sciopero politico e, come tale, illegittimo per le ragioni suesposte.
Il diritto di sciopero sarebbe inoltre incompatibile con l’obbligo di fedeltà degli
impiegati pubblici sancito all’art. 33, 4° comma, della Costituzione. L’esclusione del
diritto di sciopero è considerata parte dei principî tralatizi che regolano lo status degli
impiegati pubblici di carriera, la cui applicazione è garantita dal 5° comma dello
stesso articolo. Infine, il divieto di sciopero è considerato quale compensazione per i
privilegi goduti da tale classe di impiegati pubblici.
La dottrina ritiene che il divieto sia di dubbia compatibilità con l’art. 6, n. 4, della
Carta Sociale Europea (che tutela “il diritto dei lavoratori e dei datori di lavoro
d’intraprendere azioni collettive in caso di conflitti d’interesse, compreso il diritto di
sciopero” a garanzia dell’effettività del “diritto di negoziazione collettiva”) e con le
Convenzioni OIL n. 87 sulla libertà sindacale e n. 98 sul diritto di organizzazione e di
negoziazione collettiva, entrambe ratificate dalla Germania.
In Germania è assente una normativa specifica sullo sciopero nei servizi pubblici
essenziali. Tuttavia dal principio di proporzionalità dell’azione sindacale, discende la
necessità che lo sciopero venga attuato in maniera “equa”. Una delle articolazioni di
tale principio è l’obbligo di effettuare i lavori urgenti (Notstandsarbeiten) in costanza
dello sciopero al fine di garantire i diritti dei terzi non coinvolti nel conflitto
sindacale. I lavori urgenti sono diretti ad assicurare l’assistenza minima necessaria al
75
soddisfacimento dei bisogni elementari di tipo personale, sociale e statale. Tale è il
caso ad esempio dell’assistenza sanitaria (Otto, 2003).
Un’altra articolazione del principio della conduzione dell’azione sindacale in maniera
equa è l’obbligo di effettuare i lavori di mantenimento (Erhaltungsarbeiten), diretti a
garantire la funzionalità dell’azienda al termine dello sciopero e la sicurezza degli
impianti durante lo sciopero (si pensi ai controlli e alla sorveglianza necessari in
un’azienda chimica).
Infine, sussiste un obbligo di pace sindacale, non sancito espressamente dalla legge,
ma ricavato dalla giurisprudenza sulla base del principio pacta sunt servanda. Si
ritiene, infatti, che dalla stipulazione del contratto collettivo derivi implicitamente un
obbligo di pace o tregua sindacale: un obbligo, cioè, a non sostenere o a non
proclamare scioperi per la modificazione di quanto contenuto nel contratto stesso.
Nel nostro ordinamento, al contrario, si ritiene comunemente che tale obbligo di pace
sindacale possa esservi solo laddove sia espressamente previsto.
9. – Il regime del contratto collettivo.
La contrattazione collettiva trova disciplina nel Tarifvertragsgesetz del 1949,
novellato nel 1969, che è una legge ordinaria che concretizza il principio di libertà
sindacale e di contrattazione contenuto nella Costituzione tedesca all’art. 9, comma 3.
Più in particolare, questa legge disciplina: il contenuto e la forma del contratto
collettivo, le parti, i soggetti e l’efficacia normativa del contratto collettivo. Viene
sancito lo stesso principio contenuto nel nostro ordinamento nell’art. 2077 c.c. (e in
76
Francia nella legge del 1919), ossia l’effetto cd. imperativo, vale a dire
l’inderogabilità in peius del contratto collettivo da parte del contratto individuale. La
legge disciplina, inoltre, la possibilità di attribuzione di efficacia generale al contratto
collettivo.
I contratti collettivi hanno infatti un’efficacia che è limitata agli iscritti alle
associazioni stipulanti. La dichiarazione di efficacia degli stessi può avvenire
attraverso
un
regolamento
ministeriale
o
attraverso
un
provvedimento
amministrativo, su accordo delle parti contrattuali.
Un altro dato rilevante è che, in Germania, la struttura della contrattazione collettiva
si presenta accentrata, nel senso che prevale assolutamente il contratto a livello di
categoria, per quanto vi possano essere anche contratti collettivi conclusi a livello di
distretto o regione. Prevale, inoltre, il contratto territoriale rispetto a quello aziendale.
Interessante è anche il fatto che i contratti dei Länder dell’ex Germania dell’Est
presentano contenuti differenziati ed “inferiori” sia per quanto riguarda le condizioni
normative, sia per quanto riguarda i trattamenti retributivi, rispetto all’ex Germania
dell’Ovest.
La contrattazione collettiva è, come lo sciopero, appannaggio esclusivo delle
organizzazioni sindacali. Quindi, a livello aziendale, i consigli aziendali
(Betriebsräte), forme di rappresentanza del personale elette dai lavoratori, non hanno
legittimazione a stipulare contratti collettivi. Tali organismi, cui sono attribuiti vari
diritti di cogestione ed informazione e consultazione, sono tuttavia legittimati a
concludere con il datore di lavoro accordi aziendali dotati di efficacia normativa
77
(Betriebsvereinbarungen). Questi accordi non vanno confusi con i contratti collettivi
di livello aziendale (che sono tuttavia rari nella prassi). Gli accordi aziendali godono
di un rango inferiore rispetto al contratto collettivo, in quanto non stipulati da soggetti
sindacali, gli unici ad essere tutelati dal dettato costituzionale.
Si
spiegano
così
le
norme
della
legge
sui
consigli
aziendali
(Betriebsverfassungsgesetz) dirette a garantire la prevalenza del contratto collettivo
sugli accordi aziendali. Ai sensi del par. 2, 3° co., della legge sui consigli aziendali
“le funzioni dei sindacati e delle associazioni dei datori di lavoro, in particolare la
tutela degli interessi dei loro iscritti, restano impregiudicate nell’applicazione della
presente legge”. Tale principio trova specificazione nella norma del par. 77, 3° co., 1°
periodo ai sensi del quale “i trattamenti retributivi e gli altri trattamenti normativi,
che vengono disciplinati o abitualmente vengono disciplinati dal contratto collettivo,
non possono essere oggetto di un accordo aziendale”. La norma sancisce una riserva
assoluta di competenza a favore delle coalizioni sindacali (Tarifvorbehalt). Ciò
significa che un accordo aziendale non può regolare tali trattamenti ove esista un
contratto collettivo che copre la regione e la categoria interessate, indipendentemente
dal fatto che il datore di lavoro sia vincolato o meno all’applicazione del contratto
stesso.
Un’eccezione a tale principio si rinviene nello stesso par. 77, 3° co., 2° periodo, ai
sensi del quale “tale principio non si applica, qualora un contratto collettivo permetta
espressamente la stipulazione di un accordo aziendale integrativo”. È pertanto nella
disponibilità
del
sindacato
consentire,
mediante
cd.
clausole
d’apertura
78
?
(Öffnungsklauseln), una deroga al contratto collettivo da parte di un accordo
aziendale integrativo. In assenza di tali clausole d’apertura, un accordo aziendale
contenente clausole in difformità rispetto alle previsioni del contratto collettivo è
nullo.
Nella prassi tali clausole prevedono che, in caso di crisi, il consiglio aziendale possa
negoziare con il datore trattamenti retributivi inferiori rispetto a quelli previsti dal
contratto collettivo o una riduzione dell’orario di lavoro con conseguente riduzione
della retribuzione, in cambio dell’impegno a non procedere ad una riduzione di
personale.
Tuttavia non tutti i contratti collettivi contengono tali clausole. Il datore di lavoro ed
il consiglio aziendale in caso di crisi cercano allora di eludere il divieto di concludere
accordi aziendali disciplinanti “trattamenti regolati dal contratto collettivo” mediante
la stipulazione, in luogo di accordi aziendali, di accordi di mera efficacia obbligatoria
che impongono al datore di negoziare con i singoli lavoratori condizioni in deroga ai
contratti collettivi.
Tali accordi necessitano ovviamente del consenso dei singoli lavoratori. Tuttavia in
caso di rischio di riduzione di personale o di chiusura dello stabilimento è molto
difficile che il singolo lavoratore rifiuti una modifica in peius del contratto
individuale.
È chiaro come tale soluzione rappresenti una minaccia per la contrattazione
collettiva. Nel 1999 il BAG ha chiarito che il sindacato ha la possibilità di esercitare
un’azione inibitoria nei confronti dell’impresa che imponga ai singoli lavoratori una
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deroga rispetto a quanto disposto dal contratto collettivo sulla base di un accordo di
efficacia obbligatoria con il consiglio aziendale. Il BAG ha tuttavia specificato che
non ogni accordo in deroga ad un contratto collettivo risulta in violazione
dell’autonomia collettiva. Tale violazione sussiste solo ove una stipulazione sia
diretta ad avere efficacia uniforme, soppiantando così una previsione contenuta in un
contratto collettivo. In tal caso infatti si attenterebbe all’ordine collettivo che
l’autonomia collettiva intende affermare, privandola della sua funzione centrale.
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