54DG3 ,/,%5,',*,7$/, Collana diretta da F. Izzo (magistrato) e G. Abbate (avvocato) L’ESAME di AVVOCATO 2012 SINTESI MIRATA di DIRITTO PENALE ® Gruppo Editoriale Simone Estratto della pubblicazione 20 12 SIMONE EDIZIONI GIURIDICHE Q COUES N TIO LE N DO AR M IO AN IN DE AP D’ PEN ES D AM IC E E Parte generale Parte speciale Estratto della pubblicazione Copyright © 2012 Simone S.p.A. Via F. Russo, 33/D 80123 Napoli Tutti i diritti riservati. È vietata la riproduzione anche parziale e con qualsiasi mezzo senza l’autorizzazione scritta dell’editore. Tutti i diritti di sfruttamento economico dell’opera appartengono alla Simone S.p.A. (art. 64, D.Lgs. 10-2-2005, n. 30) Ideazione, progettazione, direzione: Federico del Giudice Grafica di copertina a cura di Giuseppe Ragno Per conoscere le nostre novità editoriali consulta il sito internet: www.simone.it Estratto della pubblicazione PREMESSA Questo volume — aggiornato al maggio 2012 — nato dalla quarantennale esperienza delle Edizioni Simone, consente al lettore informatizzato di avere sul proprio tablet, i-phone, lettore e-book, pc e altri strumenti informatici una comoda sintesi della materia d’esame. La scelta degli argomenti e il loro approfondimento sono stati calibrati sulle principali domande d’esame che abitualmente vengono proposte agli aspiranti avvocati e che sono oggetto di vivaci discussioni e confronti sui forum specialistici. Un ricco elenco di tali domande è riportato in calce a questo volume. La stesura di questa sintesi mirata tiene conto che il lettore è già in possesso di pregresse conoscenze di base che è chiamato — per sostenere il coloquio — a “rinfrescare”; pertanto vengono presentati alcuni argomenti ritenuti importanti sotto forma di trattazione organica, altri sotto forma di schede riassuntive sulle quali è facile orientarsi. Opportuni approfondimenti giurisprudenziali sono stati sapientemente inseriti per consentire all’ esaminando di dimostrare durante il colloquio padronanza e dimestichezza anche con l’applicazione pratica delle norme. Si consiglia di affiancare ed integrare questo e-book con lo studio dei compendi e manuali Simone nonché con i volumi della collana “I quaderni per l’esame di avvocato”, di cui questo lavoro non rappresenta una duplicato, ma solo una utile e ragionata sintesi panoramica del programma d’esame. Estratto della pubblicazione PARTE I PARTE GENERALE CAPITOLO 1: Concetti introduttivi Pag. 5 CAPITOLO 2: L’interpretazione e l’efficacia della legge penale Pag. 10 CAPITOLO 3: Il reato in generale Pag. 15 CAPITOLO 4: Le cause di esclusione del reato Pag. 30 CAPITOLO 5: Le forme di manifestazione del reato Pag. 37 CAPITOLO 6: Il concorso di reati ed il concorso apparente di norme coesistenti Pag. 43 CAPITOLO 7: Il concorso di persone nel reato Pag. 48 CAPITOLO 8: L’imputabilità e la pena Pag. 54 CAPITOLO 9: Il diritto penale amministrativo Pag. 68 PARTE II PARTE SPECIALE CAPITOLO 1: Cenni introduttivi e delitti contro la personalità dello Stato Pag. 71 CAPITOLO 2: I delitti contro la Pubblica Amministrazione Pag. 77 CAPITOLO 3: I delitti contro l’amministrazione della giustizia Pag. 91 CAPITOLO 4: I delitti contro il sentimento religioso e la pietà dei defunti Pag. 99 CAPITOLO 5: I delitti contro l’ordine pubblico Pag. 101 CAPITOLO 6: I delitti contro l’incolumità pubblica Pag. 106 CAPITOLO 7: I reati contro la fede pubblica Pag. 109 CAPITOLO 8: I delitti contro l’economia pubblica, l’industria e il commercio Pag. 112 CAPITOLO 9: I delitti contro la moralità pubblica e il buon costume Pag. 115 CAPITOLO 10: I delitti contro il sentimento per gli animali Pag. 116 CAPITOLO 11: I delitti contro la famiglia Pag. 119 CAPITOLO 12: I delitti contro la persona Pag. 121 CAPITOLO 13: I delitti contro il patrimonio Pag. 134 Questionario Pag. 144 Estratto della pubblicazione PARTE I PARTE GENERALE CAPITOLO 1 Concetti introduttivi Sommario: 1. Il diritto penale, nozione e caratteri. - 2. Partizioni del diritto penale. - 3. La norma penale. - 4. Le fonti del diritto penale. - 5. Principio di legalità. - 6. Segue: Principio di materialità. - 7. Segue: Principio di offensività. - 8. Segue: Principio di soggettività. 1. IL DIRITTO PENALE, NOZIONE E CARATTERI Il diritto penale costituisce quel complesso di norme giuridiche con cui lo Stato, mediante la minaccia di una sanzione (pena), proibisce determinati comportamenti umani ritenuti contrari ai fini che esso persegue (reati). Pertanto, può affermarsi che la funzione del diritto penale è la difesa della società dai reati (CARNELUTTI). Tuttavia, le odierne esigenze di tutela della libertà impongono sempre più di legittimare l’intervento punitivo solo per la difesa dei beni aventi rilevanza costituzionale o socialmente considerati tali (BRICOLA, FIANDACA-MUSCO). Riguardo ai caratteri, il diritto penale è diritto positivo (in quanto può risultare solo da norme giuridiche), statuale (potendo le norme essere emanate solo dallo Stato), autonomo (nel senso che mutua i suoi concetti, non da altri rami dell’ordinamento, ma nell’ambito dei suoi principi fondamentali) pubblico (in quanto mira a tutelare l’interesse generale dello Stato alla conservazione e al progresso della società). 2. PARTIZIONI DEL DIRITTO PENALE a) Diritto penale fondamentale e diritto penale complementare: il primo è quello contenuto nel codice penale; il secondo è quello contenuto nelle leggi speciali che integrano o modificano il codice penale. b) Diritto penale comune e diritto penale speciale: a seconda che si applichi a tutti coloro che si trovano nel territorio dello Stato, ovvero a determinate classi o categorie di persone, a cagione della loro qualità o della condizione giuridica in cui vengono a trovarsi (es.: reati previsti dal Codice Penale Militare e dal Codice della Navigazione). 3. LA NORMA PENALE A) Definizione ed elementi costitutivi Norma penale in senso stretto può ritenersi solo quella disposizione di legge che vieta un determinato comportamento, minacciando, in caso di trasgressione, la inflizione di una pena (cd. norma incriminatrice). Gli elementi costitutivi della norma incriminatrice sono: — il precetto: comando o divieto di compiere una determinata azione od omissione; — la sanzione: conseguenza giuridica che deriva dalla inosservanza del precetto. 6 Parte I: Parte generale Rispetto agli elementi costitutivi, le norme penali possono distinguersi in: a) b) c) d) norme incriminatrici: sono le norme penali vere e proprie in quanto individuano gli estremi di un fatto vietato dalla legge (reato) e fissano la relativa sanzione; norme imperfette: sono quelle che contengono il solo precetto o la sola sanzione; norme penali in bianco: sono quelle che contengono una sanzione ben determinata, ed un precetto a carattere generico, dovendo esso essere specificato da atti normativi di grado inferiore (regolamenti, provvedimenti amministrativi). Esempi di norme penali in bianco contenute nel codice penale: art. 329 (rifiuto o ritardo di obbedienza commesso da un militare o da un agente della forza pubblica); art. 650 (inosservanza di un provvedimento dell’Autorità emanato legalmente per ragioni di sicurezza, di giustizia, di ordine pubblico, d’igiene). Da esse si differenziano i cd. elementi normativi della fattispecie, che ricorrono quando per individuare uno o più elementi del fatto tipico, si rinvia a nozioni presenti in altri rami del diritto ovvero in norme sociali (es. il possesso richiamato nel reato di furto - v. art. 624); norme integratrici (o di secondo grado): sono quelle norme penali (imperative) che non contengono né un precetto né una sanzione ma si limitano a precisare o limitare la portata d’altre norme o a disciplinarne l’applicabilità, indicando regole di interpretazione o rinviando ad altre disposizioni. B) Caratteri della norma penale Sono: — l’imperatività, in quanto la norma una volta entrata in vigore diviene senz’altro obbligatoria per tutti coloro che si trovano nel territorio dello Stato; — la statualità, in quanto la norma penale promana soltanto dallo Stato. Non devono perciò essere considerate norme penali quelle previste negli statuti degli enti (pubblici o privati) dello Stato, né quelle contenute nelle convenzioni internazionali. Dunque, non sono penali stricto sensu le norme amministrative. Difatti: — al diritto penale si collegano le «pene vere e proprie» irrogate sempre dall’Autorità Giudiziaria mediante il «processo»; — al diritto amministrativo si collegano le cd. «sanzioni amministrative» che sono, di regola, irrogate dall’Autorità amministrativa e, solo eccezionalmente, dall’Autorità Giudiziaria. C) Destinatari della norma penale La dottrina tradizionale, ancora oggi prevalente, ritiene che le norme penali siano indirizzate indistintamente a tutti i consociati, senza distinguere, come fanno alcuni autori, tra i giudici (chiamati ad applicare la sanzione) ed i consociati (tenuti a rispettare il precetto). Si discute se debbano considerarsi destinatari della norma penale anche i soggetti non imputabili, cioè incapaci d’intendere e di volere (ad esempio, l’infans e l’amens): parte della dottrina (PETROCELLI, PANNAIN) ritiene che tali soggetti, in quanto incapaci di comprendere il precetto penale e di uniformarsi ad esso, non ne siano destinatari; altri, rilevando come anche gli incapaci siano in grado di avvertire l’efficacia intimidatoria della sanzione, ritengono che anche ad essi si rivolga la norma penale (MAGGIORE, ANTOLISEI). 4. LE FONTI DEL DIRITTO PENALE In diritto penale, il numero delle fonti è assai più limitato che negli altri rami del diritto: l’art. 25 Cost. pone al riguardo un’espressa riserva di legge. Il nostro legislatore, quindi, non soltanto ha riservato allo Stato ogni competenza normativa in materia penale (principio della statualità), ma ha disposto che fonti del diritto penale siano solo la legge ordinaria e gli atti ad essa equiparati (principio di legalità). Il diritto penale è costituito da norme contenute nel codice penale e nelle leggi penali speciali; tuttavia, numerose sono le norme contenute nel codice di procedura penale (il quale disciplina lo svolgimento del «processo penale» che può, eventualmente, portare alla irrogazione della pena) nonché nel codice civile. Quanto alla consuetudine essa, nel diritto penale, ha efficacia limitata. Estratto della pubblicazione Capitolo 1: Concetti introduttivi 7 In particolare: a) b) c) la consuetudine innovatrice non opera nel diritto penale, ostandovi il principio della riserva di legge; la consuetudine abrogatrice, del pari, non opera nel diritto penale, in quanto l’abrogazione di una disposizione di legge può derivare solo da altra norma; la consuetudine integratrice si ritiene, in dottrina, possa operare solo se in senso favorevole all’imputato. 5. PRINCIPIO DI LEGALITÀ Il diritto penale è retto da quattro principi fondamentali: 1) 2) 3) 4) il principio di legalità; il principio di materialità; il principio di offensività; il principio di soggettività. Si ricordi, poi, che il ricorso al diritto penale è ammesso solo come extrema ratio punitiva (principio di sussidiarietà) e che la pena deve scattare solo per una aggressione di beni-interessi che raggiunga una notevole gravità (principio di meritevolezza); da ciò discende che il diritto penale interviene a difesa di singoli beni-interessi e contro specifiche modalità di aggressione (principio di frammentarietà). Il principio di legalità (sancito dalla Costituzione all’art. 25 commi 2 e 3 e dal codice penale agli artt. 1 e 199) regola la materia delle fonti del diritto penale. Secondo la cd. concezione formale, tale principio importa il divieto di punire qualsiasi fatto che, al momento della sua commissione, non sia espressamente previsto come reato dalla legge (anche se socialmente pericoloso) e con pene che non siano dalla stessa espressamente stabilite. Ne consegue una nozione formale di reato per la quale è reato solo un fatto previsto come tale dalla legge. Il principio di legalità formale, quindi, tende ad evitare l’arbitrio del potere esecutivo e del potere giudiziario, e ad assicurare la certezza e l’uguaglianza nell’applicazione del diritto, rispondendo così ad un’insostituibile funzione di garanzia della libertà degli individui. Al principio descritto si oppone la concezione sostanziale della legalità, secondo la quale deve considerarsi reato ogni fatto socialmente pericoloso, anche se non espressamente previsto come tale dalla legge, e quindi, applicarsi la pena adeguata allo scopo. Secondo i suoi sostenitori, il principio di legalità sostanziale consente una più efficace difesa della società e una giustizia più conforme alla coscienza sociale, in quanto, da un lato, tende a colpire le condotte effettivamente contrarie agli interessi della società, e dall’altro, permette di adeguare il diritto penale alla realtà sociale in continuo mutamento, evitando fratture tra il diritto penale codificato e le mutate esigenze di difesa sociale. Tuttavia, tale teoria, fondata su una nozione di reato desumibile da fonti extra-legali (ad esempio, la coscienza rivoluzionaria, il sano sentimento del popolo, la coscienza sociale), tende ad elidere la certezza del diritto e consente l’arbitrio e le discriminazioni più gravi. La Costituzione italiana, accogliendo una concezione del reato sostanziale-formale, tende alla realizzazione di una compenetrazione tra legalità e giustizia, da un lato, riconfermando la propria rigorosa fedeltà al «nullum crimen nulla poena sine lege», ma, dall’altro, imponendo di positivizzare nella legge i valori e le finalità da essa espressi (MANTOVANI). Il principio di legalità formale si articola in tre sostanziali principi: della riserva di legge, del principio di tassatività e del principio d’irretroattività. A) Il principio della riserva di legge Il principio della riserva di legge comporta il divieto di punire un determinato fatto in mancanza di una specifica norma di legge che lo configuri come reato: esso, quindi, esclude dalle fonti del diritto penale sia le fonti non scritte, sia quelle scritte diverse dalla legge (es. regolamenti, ordinanze). Tale principio risponde ad esigenze di garanzia dei cittadini contro i possibili arbitri del potere giudiziario e del potere esecutivo. 8 Parte I: Parte generale Poiché le riserve di legge previste dalla Costituzione possono avere carattere assoluto (quando escludono per la disciplina di dettaglio qualsiasi atto normativo di rango inferiore alla legge ordinaria) o relativo (ammettono una disciplina ad opera di atti di normazione secondaria, e, più specificamente, ad opera di regolamenti, sempreché sia la legge a fissare i principi generali regolatori), ci si è chiesti che natura abbia la riserva di legge contenuta nell’art. 25 della Costituzione, se sia, cioè, una riserva assoluta o relativa. La Corte Costituzionale e parte della dottrina hanno tentato di ridimensionare la portata di questo principio affermando che si tratta di riserva relativa, per cui il legislatore può limitarsi a fissare le linee fondamentali della disciplina penale, affidandone il completamento alla Pubblica Amministrazione. La dottrina prevalente (FIANDACA-MUSCO), invece, qualifica la riserva come assoluta ed esclude, quindi, l’intervento delle norme secondarie in materia penale. Il nostro ordinamento riconosce anche l’esistenza di «norme penali in bianco» caratterizzate, come detto, dal fatto che il precetto è formulato in modo generico, dovendo essere integrato, specificato, completato da una fonte normativa diversa dalla legge, quale ad es. un regolamento od un provvedimento amministrativo. Ne sono esempi l’art. 650 c.p.; l’art. 73 T.U. 309/1990 che punisce il traffico di stupefacenti, ma lascia al Ministro della Salute la possibilità di indicare, in apposite «tabelle», le sostanze stupefacenti. Discussa è la compatibilità delle norme penali in bianco col principio della riserva di legge. Ed infatti, se si parte dal concetto che se ne è dato (v. supra) si rischia di riconoscere efficacia costitutiva, ai fini della determinazione del fatto-reato, a norme od atti diversi dalla legge, creando così un contrasto con la riserva di cui all’art. 25 Cost. Il problema si risolve o accettando, come ha fatto la stessa Corte Costituzionale, la natura «relativa» della riserva contenuta nell’art. 25 Cost., oppure, una volta accolta la tesi della «riserva assoluta», riconoscere che il precetto amministrativo, integrativo della norma penale in bianco, sia sufficientemente regolato dalla legge nei suoi scopi, presupposti e contenuto, così da porsi come mero svolgimento di una disciplina già tracciata dalla legge penale (così espressamente MANTOVANI, il quale peraltro auspica, de jure condendo, la depenalizzazione di tutte le norme penali in bianco con la comminatoria di sanzioni amministrative alle violazioni da esse previste). B) Il principio di tassatività Indica il dovere del legislatore di determinare la fattispecie penale e, in quanto tale, risponde ad esigenze di certezza del diritto tesa ad evitare l’arbitrio del potere giudiziario, garantendo inoltre all’imputato il diritto di difesa. Vero è che l’art. 25 Cost. non fa espressamente riferimento a tale principio; è innegabile, tuttavia, che proprio il principio di legalità finirebbe nella sostanza con l’essere svuotato se il legislatore, con l’uso di espressioni generiche e indeterminate, rimettesse di fatto al giudice la concreta individuazione della fattispecie criminosa. Il principio di tassatività consiste nella tipizzazione dei fatti incriminati in modelli legali contenuti nel codice penale e nelle altre norme penali vigenti. Momento centrale della fase di applicazione della legge penale è l’accertamento della conformità del fatto storico al fatto tipico (MANTOVANI). Nel nostro ordinamento penale, alla tipicità del reato si accompagna il principio della tipicità delle pene e delle misure di sicurezza (artt. 1 e 199 c.p.), secondo il quale agli autori dei fatti previsti dalla legge come reato si applicano solo le pene e le misure di sicurezza previste dalla legge. C) Il principio d’irretroattività In base ad esso la legge penale ha efficacia soltanto per i fatti commessi dopo la sua entrata in vigore (vedi infra cap. 2 § 2). 6. Segue: PRINCIPIO DI MATERIALITÀ Il principio di materialità, sancito dall’art. 25 Cost., comporta che il reato debba necessariamente consistere in un fatto umano materialmente estrinsecantesi nel mondo esteriore: cogitationis poenam nemo patitur. Capitolo 1: Concetti introduttivi 9 7. Segue: PRINCIPIO DI OFFENSIVITÀ Secondo detto principio, per la sussistenza del reato non è sufficiente che il fatto concreto sia conforme a quello tipico previsto dalla norma incriminatrice, occorrendo altresì che esso sia realmente offensivo del bene protetto dalla stessa norma (v. art. 49 comma 2 c.p.). In relazione al bene giuridico tutelato dalla norma penale si distinguono: — reati monoffensivi per i quali è necessaria e sufficiente l’offesa di un solo bene giuridico (ad esempio, omicidio e lesioni); — reati plurioffensivi, cioè offensivi di più beni giuridici (ad esempio la rapina, lesiva del patrimonio e della libertà personale). 8. Segue: PRINCIPIO DI SOGGETTIVITÀ Secondo il principio di soggettività, un comportamento umano costituisce reato quando, oltre ad essere tipico e compiuto in assenza di cause di giustificazione, è anche riferibile alla volontà dell’agente: per aversi reato, quindi, occorre che sussista non solo un nesso causale, ma anche un nesso psichico tra l’agente e il fatto criminoso (v. cap. 3 § 12). A seguito della sentenza n. 364/88 della Corte Costituzionale, principio cardine del nostro sistema penale è quello della colpevolezza. Esso è il presupposto dello stesso principio costituzionale della personalità della responsabilità penale, sancito dall’art. 27 comma 1 della Costituzione; inoltre è fondamento e misura della pena. Estratto della pubblicazione CAPITOLO 2 L’interpretazione e l’efficacia della legge penale Sommario: 1. L’interpretazione della legge penale. - 2. L’efficacia della legge penale nel tempo. - 3. L’efficacia della legge penale nello spazio. - 4. Deroghe al principio di territorialità. - 5. L’estradizione. - 6. Le immunità. 1. L’INTERPRETAZIONE DELLA LEGGE PENALE In diritto penale l’interpretazione delle norme soggiace agli stessi principi propri degli altri rami dell’ordinamento (art. 12 disp. prel. c.c.). A) Il divieto del ricorso all’analogia nel diritto penale L’unica rilevante eccezione, nel diritto penale, è costituita dal divieto di applicazione del procedimento analogico (art. 14 disp. prel.). La ratio del divieto va ravvisata nel principio di tassatività che limita l’applicazione della pena da parte del giudice ai soli casi tassativamente previsti dalla legge così da evitare possibili arbitri. Si discute se il divieto dell’analogia sia assoluto o relativo, se abbracci cioè anche le norme favorevoli all’imputato (analogia in bonam partem) oppure sia circoscritto alle sole norme sfavorevoli (analogia in malam partem). L’ANTOLISEI considera ammissibile l’analogia in bonam partem, a condizione che la norma che s’intende applicare non abbia carattere eccezionale. Il significato dell’espressione «norma eccezionale» è stato chiarito dal MANTOVANI, secondo il quale per diritto eccezionale deve intendersi quel complesso di norme che regolano un minor numero di ipotesi (criterio quantitativo) in modo non solo diverso, ma addirittura antitetico (criterio qualitativo) rispetto al complesso normativo che regola il maggior numero di ipotesi (diritto regolare). Osserva tuttavia il MANTOVANI che le possibilità di applicare il procedimento analogico, nel diritto penale, sono assai limitate, in quanto il rigore con il quale sono formulate le fattispecie normative (anche quelle favorevoli al reo), in ossequio al principio di tassatività, ne delimita la ratio. B) L’ambito di applicazione del procedimento analogico In particolare, l’analogia è applicabile alle scriminanti, in quanto le norme che le prevedono non hanno carattere eccezionale, ma sono espressione di principi generali. Ciò nonostante essa è esclusa per talune cause di giustificazione in quanto la legge le prevede nella loro massima portata logica (ad esempio, l’esercizio del diritto) ovvero in termini tali da impedire che altre ipotesi extralegali siano riconducibili alla ratio della scriminante (ad esempio, il consenso dell’avente diritto). La dottrina prevalente (MANTOVANI, FIANDACA-MUSCO), inoltre, esclude il procedimento analogico anche per le cd. immunità: infatti, le norme che le prevedono sono eccezionali, poiché derogano al principio dell’obbligatorietà della legge penale per tutti coloro che si trovano nel territorio dello Stato. Differenze Dalla interpretazione o integrazione analogica, va tenuta distinta l’interpretazione estensiva: — l’interpretazione analogica, pur implicando una attività interpretativa della legge, ha un accentuato carattere creativo: essa, infatti, si muove al di fuori di una qualsiasi previsione normativa e consiste, appunto, nel dare una regolamentazione ad un caso non disciplinato, né espressamente né implicitamente, dalla legge attraverso l’applicazione della disciplina prevista in relazione ad un caso simile; Estratto della pubblicazione Capitolo 2: L’interpretazione e l’efficacia della legge penale 11 — l’interpretazione estensiva, per contro, opera sempre nell’ambito di una norma ma comporta la riconduzione sotto la disciplina della stessa norma di una ipotesi apparentemente fuori della sua sfera. Ciò significa che si è nell’ambito dell’interpretazione estensiva quando il contenuto effettivo delle singole disposizioni, accertato correttamente attraverso i mezzi consentiti dalla logica e dalla tecnica giuridica, è più ampio di quello che appare dalle espressioni letterali che compongono la disposizione stessa, per cui ipotesi che apparentemente ne restavano fuori debbono invece ritenersi rientrare sotto la sua disciplina. Tale interpretazione non incontra limitazioni nell’art. 14 delle preleggi, perché non amplia il contenuto effettivo della norma, ma impedisce che fattispecie ad essa soggette si sottraggano alla sua disciplina per l’ingiustificata mancanza di espressioni letterali; come tale, l’interpretazione estensiva è ammessa in relazione a tutte le disposizioni di legge, comprese quelle penali e quelle che fanno eccezioni a regole generali, in quanto anche di queste identifica i tempi e l’ambito di applicazione. 2. L’EFFICACIA DELLA LEGGE PENALE NEL TEMPO Nel caso di successione di leggi nel tempo, principio generale è quello della irretroattività, per cui la legge nuova dispone solo per l’avvenire (art. 11 disp. prel.), temperato dal disposto dell’art. 2 c.p., secondo cui nel concorso di due leggi (quella vigente al momento del fatto e quella attuale) si applica quella più favorevole al reo. Si noti che ciò vale solo per le norme penali incriminatrici; in particolare, nel caso di: — nuove incriminazioni (art. 2 comma 1 c.p.): quando una nuova norma elevi a reato un fatto che in precedenza non era previsto come tale, si applica il principio della irretroattività della legge, per cui ogni legge che prevede nuove figure di reato si applica solo ai fatti commessi dopo la sua entrata in vigore; — abolizione di incriminazioni precedenti (art. 2 comma 2 c.p.): quando una nuova norma non prevede più come reato un fatto che in precedenza era considerato tale, si applica il principio della retroattività della legge nuova più favorevole al reo; — nuove disposizioni solo modificatrici (art. 2 comma 4 c.p.): quando una nuova norma considera pur sempre come reato il fatto previsto da una legge anteriore ma stabilisce per essa un trattamento diverso, la nuova legge opererà retroattivamente o irretroattivamente a seconda che le modificazioni siano favorevoli o sfavorevoli al reo. Ai sensi dell’art. 2 comma 3, neointrodotto dalla L. 24-2-2006, n. 85, nel caso in cui, in relazione ad una determinata fattispecie, venga pronunciata condanna a pena detentiva, e successivamente, a seguito di modifica legislativa, la norma posteriore preveda, per la medesima fattispecie, esclusivamente la pena pecuniaria, la pena detentiva inflitta si converte immediatamente nella corrispondente pena pecuniaria, ai sensi dell’articolo 135 del codice penale. Tali disposizioni non si applicano nel caso di leggi eccezionali o temporanee (art. 2 comma 5 c.p.), per le quali si applica sempre la legge del tempo in cui è stato commesso il reato. La ratio di una tale limitazione è palese: evitare che gli autori dei reati previsti da tali leggi si sottraggano all’applicazione della pena, commettendo il fatto in prossimità della scadenza del termine di efficacia della norma ovvero quando l’eccezionalità della situazione sta per cessare. Il divieto di applicazione di tali disposizioni alle norme finanziarie, previsto dall’art. 20 L. 4/1929, è stato abrogato dal D.Lgs. 507/1999. Inoltre, esse non si applicano alle norme di carattere processuale, sicché queste ultime, anche se «sfavorevoli» per l’imputato (ad es. in tema di custodia cautelare), possono avere efficacia retroattiva (cfr. Corte Cost. 1-2-1982, n. 15). Riguardo ai decreti legge non convertiti o convertiti con modifiche, le norme da essi poste, non si applicano ai fatti commessi anteriormente alla loro entrata in vigore (v. Corte Cost. n. 51/1985), anche se più favorevoli; parte della dottrina, però, ne sostiene l’applicabilità ai fatti commessi durante la vigenza del decreto stesso. Le leggi penali dichiarate incostituzionali, poi, secondo un recente indirizzo della Corte Costituzionale (sent. n. 148/1993), continuano ad applicarsi, se più favorevoli, ai fatti commessi sotto il loro vigore, in omaggio al principio di irretroattività delle norme penali incriminatrici. 12 Parte I: Parte generale 3. L’EFFICACIA DELLA LEGGE PENALE NELLO SPAZIO In via generale vige il principio della territorialità della legge penale (art. 28 disp. prel.; artt. 3 e 6 c.p.) per il quale essa obbliga tutti coloro che (cittadini o stranieri) si trovano nel territorio dello Stato e per i reati ivi commessi. 4. DEROGHE AL PRINCIPIO DI TERRITORIALITÀ A) Generalità Il capoverso dell’art. 3 prevede la possibilità di deroghe al principio della territorialità: ciò si verifica allorquando sono puniti dallo Stato italiano e secondo le leggi italiane i reati commessi all’estero. B) Reati commessi all’estero punibili incondizionatamente Ai sensi dell’art. 7 c.p., come modificato dal D.L. 374/2001, conv. in L.438/2001, è punito incondizionatamente secondo la legge penale italiana il cittadino o lo straniero che commette in territorio estero i seguenti reati: 1) 2) 3) 4) 5) delitti contro la personalità dello Stato italiano; delitti di contraffazione del sigillo dello Stato e di uso di tale sigillo contraffatto; delitti di falsità in monete aventi corso legale nel territorio dello Stato e in valori di bollo, o in carte di pubblico credito italiano; delitti commessi da pubblici ufficiali a servizio dello Stato abusando dei poteri o violando i doveri inerenti alle loro funzioni; ogni reato per cui speciali disposizioni di legge o di convenzioni internazionali stabiliscano l’applicabilità della legge italiana. Tale articolo accoglie, in sostanza, il principio della universalità e lo fa in considerazione della particolare natura dei delitti elencati dall’articolo (così ANTOLISEI e MANTOVANI). C) Delitti politici Ai sensi dell’art. 8 è punito secondo la legge italiana, su richiesta del Ministro della Giustizia (cui si deve aggiungere la querela della persona offesa se si tratta di delitto punibile a querela), il cittadino o lo straniero che commette in territorio estero un delitto politico non compreso tra quelli indicati nel n. 1 dell’articolo precedente. Ai sensi dell’ultimo comma dello stesso art. 8, agli effetti della legge penale, è delitto politico ogni delitto che offende un interesse politico dello Stato ovvero un diritto politico del cittadino; è altresì considerato delitto politico il delitto comune determinato, in tutto o in parte, da motivi politici. Due sono, dunque, le forme di delitto politico previste dal legislatore: a) il delitto oggettivamente politico, che è quello che offende un interesse politico dello Stato (integrità territoriale, indipendenza, sovranità, forma di governo etc.) ovvero un diritto politico del cittadino (diritti elettorali attivi e passivi); b) il delitto soggettivamente politico, che è il delitto comune determinato, in tutto o in parte, da motivi politici. Secondo la giurisprudenza prevalente perché un reato comune possa essere ritenuto soggettivamente politico è necessario che sia qualificato da un movente strettamente ed esclusivamente politico; è necessario, cioè, che il reo sia stato spinto a delinquere al fine di potere, a mezzo della sua azione, incidere sulla esistenza, costituzione o funzionamento dello Stato, oppure favorire o contrastare idee, tendenze politiche, sociali o religiose, al precipuo scopo di realizzare una precisa idea politica. Rientrano in questa categoria il cd. delitto anarchico e quello commesso per finalità di terrorismo. Nonostante talvolta siano ontologicamente coincidenti, il motivo politico non deve confondersi col motivo sociale, consistente in una spinta al crimine derivante da una particolare visione dei rapporti umani che non necessariamente si riflette sulla conformazione dello Stato e sul rapporto Stato-cittadino. Critiche in dottrina sono state espresse all’ammissibilità di un delitto soggettivamente politico solo in parte, categoria di incerta qualificazione, la quale rischia di ampliare eccessivamente il novero dei delitti qualificabili come politici. Estratto della pubblicazione Capitolo 2: L’interpretazione e l’efficacia della legge penale 13 D) Delitto comune commesso all’estero dal cittadino italiano Ai sensi dell’art. 9 (modificato dalla L. 29-9-2000, n. 300), il delitto comune commesso all’estero dal cittadino italiano è punibile in Italia e secondo la legge italiana a condizione che: — si tratti di delitto; — sia punito con la reclusione e non con la sola multa; — il reo sia presente nel territorio dello Stato. Occorre, altresì, distinguere tra: — — delitto commesso a danno dello Stato o di un cittadino italiano, che è punibile solo se la pena stabilita dalla legge è non inferiore nel minimo a tre anni di reclusione; se invece la pena è inferiore a tre anni occorre anche la richiesta del Ministro della Giustizia, o l’istanza o la querela della persona offesa; delitto commesso a danno delle comunità europee, di uno Stato estero o di un cittadino straniero, per il quale occorre che l’estradizione non sia stata concessa o non sia stata accettata dallo Stato estero, e che vi sia la richiesta del Ministro della Giustizia. E) Delitto comune commesso all’estero dallo straniero Ai sensi dell’art. 10 (modificato dalla L. 29-9-2000, n. 300) anche in questo caso deve trattarsi di: a) delitto; b) punito con la reclusione; c) il cui autore sia presente nel territorio dello Stato. Occorre, inoltre, distinguere tra: — — delitto commesso a danno dello Stato o di un cittadino italiano, per il quale occorre una pena minima non inferiore ad un anno di reclusione, la richiesta del Ministro, o la querela o l’istanza dell’offeso; delitto commesso a danno delle comunità europee, di uno Stato estero o di un cittadino straniero, per il quale occorre una pena minima non inferiore a tre anni di reclusione, la richiesta del Ministro e la mancata concessione o accettazione dell’estradizione, sia da parte del governo dello Stato in cui il reato fu commesso sia da parte del Governo dello Stato cui appartiene il reo. F) Riconoscimento di sentenze penali straniere (art. 12) Il principio della territorialità del diritto penale importerebbe la inapplicabilità e ineseguibilità in Italia delle sentenze pronunziate da tribunali stranieri; tuttavia è ammesso eccezionalmente il riconoscimento delle sentenze straniere ai seguenti fini: — per stabilire la recidiva o altro effetto penale della condanna ovvero per dichiarare l’abitualità o la professionalità nel reato o la tendenza a delinquere; — quando la condanna penale importerebbe secondo la legge italiana una pena accessoria; — quando, secondo la legge italiana, si dovrebbe sottoporre la persona condannata o prosciolta a misure di sicurezza; — quando la sentenza straniera importa condanna alla restituzione o al risarcimento del danno o ad altri effetti civili (esempio: separazione personale), che devono essere fatti valere nel territorio dello Stato. 5. L’ESTRADIZIONE A) Nozione e tipi L’estradizione, secondo la più consolidata dottrina (QUADRI, ANTOLISEI, PAGLIARO, PANNAIN), consiste nella consegna che uno Stato fa di un individuo, che si sia rifugiato nel suo territorio, ad un altro Stato, perché ivi venga sottoposto al giudizio penale (se imputato) o alle sanzioni penali (se già condannato). L’estradizione può essere: — — attiva, quando è lo Stato italiano che richiede ad uno Stato estero la consegna di un individuo imputato o condannato in Italia; passiva, quando è lo Stato italiano che riceve da uno Stato estero, la richiesta di consegna. 14 Parte I: Parte generale B) Condizioni e limiti Per l’estradizione passiva, la legge italiana (art. 13 c.p.) pone le seguenti condizioni: — — — il fatto che forma oggetto della domanda di estradizione deve essere preveduto come reato sia dalla legge italiana che da quella straniera (cd. requisito della doppia incriminabilità); non si deve trattare di reato per il quale le convenzioni internazionali facciano espresso divieto di estradizione; l’estradando deve essere straniero: in caso contrario, l’estradizione deve essere espressamente consentita nelle convenzioni internazionali. In ogni caso, comunque, l’estradizione non può essere concessa: — — — per reati politici (artt. 10 e 26 Costituzione), esclusi i delitti di genocidio (L. Cost. 21 giugno 1967, n. 1); per motivi di razza, religione o nazionalità (L. 30 gennaio 1963 n. 300); per reati puniti all’estero con la pena di morte (v. sent. Corte Cost. 27 giugno 1996, n. 223). C) Il cd. «principio di specialità» in tema di estradizione Per un principio generale dell’ordinamento internazionale (principio che la dottrina chiama «di specialità») la richiesta di estradizione per determinati reati importa la preventiva accettazione da parte dello Stato richiedente: — — dell’obbligo di non processare l’estradato per un fatto anteriore e diverso da quello per il quale è stata concessa l’estradizione; del dovere di non assoggettare lo stesso ad una pena diversa da quella relativa al fatto per cui è stata concessa l’estradizione. Il principio di specialità opera tanto nella estradizione attiva (art. 721 c.p.p.) quanto in quella passiva (art. 699 c.p.p.). 6. LE IMMUNITÀ L’art. 3 c.p. stabilisce che la legge penale obbliga tutti coloro che, cittadini o stranieri, si trovano nel territorio dello Stato. Costituiscono eccezione a tale principio le cd. «immunità»: a) derivanti dal diritto pubblico interno — il Capo dello Stato non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento e attentato alla Costituzione (art. 90 Cost.); — i Membri del Parlamento e dei Consigli Regionali non sono perseguibili per le opinioni e i voti espressi nell’esercizio delle loro funzioni (art. 68 Cost.); b) derivanti dal diritto internazionale riguarda i Capi di Stati esteri, i Ministri degli Esteri, gli agenti diplomatici e consolari, etc., e sono dettate da necessità di ordine politico. CAPITOLO 3 Il reato in generale Sommario: 1. Concetto di reato. - 2. Differenze tra il reato e gli altri illeciti. - 3. Delitti e contravvenzioni. - 4. Il soggetto attivo del reato. - 5. Il soggetto passivo del reato. - 6. La struttura del reato. - 7. Elemento oggettivo. - 8. Segue: La condotta umana. - 9. Segue: L’evento. - 10. Segue: Il rapporto di causalità. - 11. Segue: Ulteriore tipologia di reati. - 12. Elemento soggettivo: la colpevolezza. - 13. Segue: Il dolo. - 14. La colpa. - 15. Segue: La preterintenzione. - 16. Segue: Elemento soggettivo nelle contravvenzioni. - 17. Responsabilità oggettiva. - 18. I reati aggravati dall’evento. 1. CONCETTO DI REATO La dottrina penalistica distingue due diverse nozioni di reato: — formale, secondo cui è reato ogni fatto umano al quale l’ordinamento giuridico ricollega una sanzione penale, vale a dire una pena inflitta dalla Autorità giudiziaria a seguito di un procedimento giurisdizionale (cd. pena criminale); — sostanziale, secondo cui è reato ogni fatto socialmente pericoloso. La dottrina prevalente, pertanto, ritiene necessario individuare i caratteri tipici della fattispecie illecita sulla base dei principi dettati dalla Costituzione in materia penale. Potrà trarsi, così, una nozione formale-sostanziale di reato per la quale questo consiste in un fatto umano previsto dalla legge (principio di legalità) in modo tassativo (principio di tassatività) ed irretroattivamente (principio d’irretroattività), attribuibile al soggetto sia causalmente (principio di materialità) che psicologicamente (principio di soggettività), offensivo di un bene giuridico costituzionalmente significativo (BRICOLA, FIANDACA-MUSCO) o, comunque, non incompatibile con i valori costituzionali (principio di offensività), sanzionato con una pena proporzionata, astrattamente, alla rilevanza del valore tutelato e, concretamente, alla personalità dell’agente (principio della responsabilità penale personale), umanizzata e tesa alla rieducazione del condannato (principio del finalismo rieducativo della pena). 2. DIFFERENZE TRA IL REATO E GLI ALTRI ILLECITI L’ordinamento giuridico può configurare un comportamento umano contrario ad una norma come illecito penale, illecito civile o illecito amministrativo. La distinzione del reato dall’illecito amministrativo si fonda esclusivamente su elementi formali (essendo, secondo la dottrina prevalente, impossibile individuare una differenza sostanziale) ossia sul tipo di sanzione prescelta dal legislatore e sull’organo — giurisdizionale o amministrativo — competente ad infliggerla. Analogamente, si ritiene che il reato possa essere distinto dall’illecito civile esclusivamente in base al criterio estrinseco e legale del «nomen iuris» della sanzione: pena per il reato e risarcimento del danno per l’illecito civile. Inoltre, si osserva che in campo civile non dominano i principi della riserva di legge e di tassatività mentre sono ammesse forme di responsabilità indiretta (cd. responsabilità per rischio) o di responsabilità oggettiva; in campo amministrativo, invece, la riserva di legge è solo relativa (laddove in diritto penale si discute se sia assoluta o relativa). 3. DELITTI E CONTRAVVENZIONI I reati si distinguono in due grandi categorie: delitti e contravvenzioni. Quanto al criterio di distinzione, l’art. 39 c.p. stabilisce che: — i delitti sono puniti con le pene della reclusione e della multa; — le contravvenzioni sono punite con le pene dell’arresto e dell’ammenda. 16 Parte I: Parte generale La dottrina si è sforzata di individuare un criterio sostanziale di distinzione tra i due tipi di illecito penale, senza peraltro riuscirvi. Il fallimento di questi tentativi ha indotto la dottrina più recente ad escludere l’esistenza di una reale differenza ontologica tra i due tipi di reato e ad affermare che la qualificazione di un reato come delitto o come contravvenzione dipende solo da una scelta di politica criminale operata dal legislatore, che si concreta nella previsione di una diversa sanzione penale. Tale distinzione è particolarmente rilevante, non solo con riguardo alle pene principali ed accessorie, ma anche per le profonde differenze di disciplina, sotto il profilo dell’elemento psicologico, del tentativo, dell’abitualità e della professionalità nel reato, della prescrizione etc. 4. IL SOGGETTO ATTIVO DEL REATO Il soggetto attivo del reato è colui (o coloro, nel caso di concorso) che pone in essere il comportamento vietato dalla norma incriminatrice. In relazione al soggetto, distinguiamo: — reati comuni: quelli che chiunque può commettere, indipendentemente da particolari caratteristiche soggettive. In tali ipotesi la norma, di regola, fa riferimento all’espressione «chiunque» (ad es.: l’omicidio); — reati propri: quelli che solo soggetti che rivestono una determinata qualità, ovvero si trovano in una determinata situazione possono porre in essere (così, solo un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio possono commettere il delitto di peculato, art. 314; solo chi è testimone in un processo può commettere il reato di falsa testimonianza, art. 372 etc.). 5. IL SOGGETTO PASSIVO DEL REATO Il soggetto passivo del reato (nel codice si parla di «persona offesa dal reato») è il titolare del bene o dell’interesse che la norma giuridica tutela e che è leso dal comportamento umano costituente reato (es.: soggetto passivo del delitto di furto è il proprietario della cosa rubata). Soggetto passivo può essere un singolo individuo ovvero una persona giuridica, ivi compreso lo Stato (ad esempio nei reati contro la personalità dello Stato, nei reati contro l’amministrazione della giustizia, etc.). Quando un reato lede o pone in pericolo più beni-interessi, appartenenti a soggetti distinti, si dice plurioffensivo (es.: la calunnia: offende nello stesso tempo lo Stato, nel suo interesse alla regolare amministrazione della giustizia, e la persona falsamente incolpata). Se offende un numero indeterminato di persone si parla di reati vaghi (o vaganti) (es. art. 422 c.p., strage). Il soggetto passivo va distinto dall’oggetto materiale del reato (la persona o la cosa su cui cade l’attività del reo). Quando l’oggetto materiale è una persona, esso può coincidere (come nel caso del delitto di percosse) o meno con il soggetto passivo. Differenze Il soggetto passivo del reato va tenuto distinto dal danneggiato dal reato, per tale intendendosi colui che dal reato ha subito un danno civilmente risarcibile, anche senza essere titolare del bene giuridico protetto. La figura del titolare del bene giuridico protetto, cioè, appunto, del soggetto passivo del reato, è rilevante perché a lui spetta, nei casi in cui sia ammissibile, di prestare il proprio consenso, con efficacia scriminante ex art.50 c.p., nonché il diritto di presentare querela, nei casi di reati punibili a querela della persona offesa. Il semplice danneggiato non ha alcun potere di querela, ma può solo esercitare l’azione civile per ottenere il risarcimento dei danni. Si tenga presente che soggetto passivo e persona danneggiata dal reato possono coincidere (così nel delitto di lesioni), o risultar distinte (ad esempio nel delitto di omicidio). Taluni distinguono, altresì, il soggetto passivo del reato dal soggetto passivo della condotta, cioè da colui su cui la condotta criminosa viene a incidere immediatamente, e pertanto viene considerato, più propriamente, oggetto della condotta. Spesso,peraltro, i due concetti coincidono (ad esempio, nell’omicidio il soggetto passivo è l’ucciso, che è anche soggetto passivo della condotta). 6. LA STRUTTURA DEL REATO La dottrina, analizzando le singole figure criminose, ha elaborato una teoria generale del reato, che individua nella struttura dell’illecito penale una serie di elementi costitutivi comuni a tutte le fattispecie criminose. Estratto della pubblicazione Capitolo 3: Il reato in generale 17 L’analisi della struttura del reato ha condotto alla formazione di due diverse concezioni: la teoria della tripartizione e la teoria della bipartizione. Secondo la prima teoria, il reato si compone di tre elementi ossia il fatto tipico, l’antigiuridicità obiettiva e la colpevolezza. Ad essa si contrappone quella della bipartizione, che distingue l’elemento oggettivo da quello soggettivo. 7. ELEMENTO OGGETTIVO In esso vanno ricompresi: — elementi positivi rappresentati dalla: — condotta (unico elemento sempre necessario) (v. infra § 8); — evento (v. infra § 9); — nesso di causalità (v. infra § 10); — elementi negativi: ossia gli elementi che devono mancare perché si abbia la fattispecie criminosa. Si tratta dell’assenza di cause di giustificazione. 8. Segue: LA CONDOTTA UMANA Si tratta di un requisito primo ed imprescindibile dell’illecito penale, ossia, è il comportamento umano costituente reato. Può consistere in: — azione (cd. reati di azione o commissivi) quando si concreta in un movimento muscolare del corpo, idoneo ad offendere: — l’interesse protetto dalla norma e sentito dalla collettività (cd. reati di offesa); — l’interesse statuale perseguito dal legislatore attraverso l’incriminazione (cd. reati di scopo); — omissione (cd. reati di omissione o omissivi) quando si concreta in un non facere del soggetto. Per aversi reato, in tal caso, non è sufficiente la semplice inerzia da parte del soggetto, essendo necessario che egli ometta di compiere un’azione che, per legge, aveva l’obbligo di compiere. Esempio è dato dall’omissione di soccorso. I reati di omissione, in base alla struttura, si distinguono in: — reati omissivi propri quelli che consistono nel mancato compimento dell’azione comandata e per la sussistenza dei quali non occorre il verificarsi di alcun evento materiale, es. omissione di atti d’ufficio; — reati omissivi impropri (o commissivi mediante omissione) quelli che consistono nel mancato impedimento di un evento tipico e per l’esistenza dei quali occorre il suo verificarsi, es. omicidio del neonato per mancato allattamento della madre. Si noti, da ultimo, che la condotta umana può consistere, al contempo, in un’azione e in una omissione: è questo il caso dei reati a condotta mista. 18 Parte I: Parte generale In base alla condotta si distinguono infine: REATI A FORMA LIBERA REATI A FORMA VINCOLATA quando è sufficiente che la condotta cagioni l’evento previsto dalla norma. Es. l’omicidio, che può essere commesso con qualunque mezzo. Es. nel furto l’impossessamento deve avvenire attraverso la sottrazione. quando la legge richiede che l’azione tipica si svolga attraverso determinate modalità o mezzi. 9. Segue: L’EVENTO Si tratta dell’effetto o risultato della condotta umana che il diritto prende in considerazione per ricollegare al suo verificarsi conseguenze giuridiche (arg. ex art. 40 c.p.). La dottrina (MANTOVANI) individua due diverse concezioni dell’evento: a) concezione naturalistica secondo cui l’evento è l’effetto naturale della condotta umana. In realtà, dalla condotta possono derivare molteplici effetti ma quello penalmente rilevante è solo l’evento tipico che può essere: — elemento essenziale del reato; — elemento aggravante. Dunque, non essendo l’evento in senso naturalistico elemento costitutivo di tutti i reati, si distinguono: REATI DI PURA CONDOTTA REATI DI EVENTO quelli che si perfezionano con il solo compimento di una data azione od omissione. Vi appartengono, per la maggior parte, le contravvenzioni, alcuni delitti (es. evasione) e i reati omissivi propri. quando la legge richiede che l’azione od omissione produca un determinato effetto esteriore. Vi rientrano reati più gravi quali ad es. l’omicidio. Essendo l’evento cronologicamente distinto dalla condotta, secondo la concezione naturalistica, si distinguono: REATI A DISTANZA quando l’evento segue a distanza di tempo la condotta REATI AD EVENTO FRAZIONATO quando il verificarsi dell’evento si fraziona nel tempo Estratto della pubblicazione REATI AD EVENTO DIFFERITO quando l’evento si verifica in un luogo diverso da quello in cui si è realizzata la condotta Capitolo 3: Il reato in generale 19 b) concezione giuridica secondo cui l’evento penalmente rilevante è dato dall’offesa dell’interesse protetto dalla norma. Ne consegue: — la configurabilità dell’evento in tutti i reati in quanto tutti i reati ledono o mettono in pericolo un bene. È quindi infondata la distinzione tra reati di condotta e di evento; — l’inconfigurabilità di reati con doppio evento o dei reati aggravati dall’evento, dovendosi parlare sempre di un solo evento. In realtà, secondo MANTOVANI, il nostro codice penale è ambiguo sul punto posto che, talvolta, sembra aderire alla concezione naturalistica (es. artt. 6, 40, 42 etc.) e, talaltra, a quella giuridica (es. artt. 43, 49). Si può dire che, nei casi in cui la norma penale descriva un accadimento naturalistico distinto e conseguente alla condotta, richiedendolo come elemento costitutivo della fattispecie incriminata, si tratta di reati di evento (naturalistico). L’evento, invece, è solo giuridicamente configurabile nei reati cd. di pura condotta, nei quali si identifica con la pura azione o la pura omissione vietate dalla relativa norma (FIORE). La verità è che se un nesso di causalità (condotta/offesa) deve esserci in tutti i reati è però insopprimibile la distinzione dei reati di condotta da quelli di evento. 10. Segue: IL RAPPORTO DI CAUSALITÀ Per aversi reato occorre un terzo elemento rappresentato dal nesso causale tra la condotta posta in essere e la conseguenza da essa determinata (arg. ex art. 40 c.p.). Ciò trova solenne consacrazione all’art. 27 Cost. che, statuendo che la «responsabilità penale è personale», nega l’ammissibilità di una responsabilità penale per fatto altrui, configurandola piuttosto come responsabilità per fatto proprio e richiede il nesso di causalità tra la condotta e l’evento. Si è registrata una notevole evoluzione del pensiero giuridico in ordine alle teorie sulla causalità: — la tradizionale teoria condizionalistica (VON BURI) implicava un procedimento di eliminazione mentale, che ex post tendeva a verificare quale azione fosse condicio sine qua non dell’evento. Ma sostenere che causa dell’evento è l’insieme delle condizioni necessarie e sufficienti a produrlo, comporta anzitutto la possibilità di un regresso all’infinito nella ricerca della causa originaria (causa causarum), e poi non consente di affrontare in modo adeguato le ipotesi di causalità anomale. Per ovviare a tali inconvenienti si pensò ad alcuni correttivi: — il regresso all’infinito fu scongiurato ricorrendo alla valutazione del dolo o della colpa, cioè della diretta attribuibilità psicologica (oltre che materiale) dell’evento; — le ipotesi di causalità alternativa ipotetica (l’evento si sarebbe verificato ugualmente, per il concorrere di una causa diversa da quella imputabile al reo) e di causalità addizionale (l’evento è conseguenza di più condizioni, indipendenti e da sole idonee alla sua causazione) sono state risolte facendo riferimento alla lesività del singolo fattore causale considerato. Tuttavia, pur così ritoccata, la teoria condizionalistica non era utilizzabile nei casi in cui non si conosceva un rapporto di derivazione necessaria tra un certo accadimento ed un altro. Si fece ricorso, allora, ad un metodo di spiegazione causale che fosse generalizzante, cioè fondato su leggi di successione causale valevoli non per un singolo caso, ma in via generale, cioè leggi scientifiche di validità universale o anche solo statistica; — era però necessario risolvere il problema dei casi di atipicità del decorso causale utilizzando la teoria della causalità adeguata (GRISPIGNI) (sorta come correttivo della condicio sine qua non per i cd. delitti aggravati dall’evento), che consentiva una selezione tra i vari antecedenti causali, e che, nella sua più recente formulazione, in negativo, ritiene sussistente il rapporto di causalità ogni qualvolta non sia improbabile che all’azione segua l’evento (valutazione fatta con una prognosi postuma, o ex ante ed in concreto); Estratto della pubblicazione 20 Parte I: Parte generale — un correttivo, mal riuscito, alla teoria dell’adeguatezza è apportato dalla teoria della causalità umana (ANTOLISEI), che vede estraneo alla signoria dell’uomo il solo fatto eccezionale, impossibile da controllare dall’agente. Ciò, tuttavia, rischia di sconfinare nel campo della colpevolezza e si scontra con l’obiezione di chi ritiene che la prevedibilità dell’evento vada valutata, non secondo le conoscenze personali dell’agente, ma con riferimento alla migliore scienza ed esperienza (MANTOVANI) di quel particolare momento storico. Si osservi inoltre che, ai sensi dell’art. 41 secondo comma, «le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti a determinare l’evento». Senonché, secondo la dottrina prevalente (ANTOLISEI, MANTOVANI), la norma in esame esclude il nesso causale quando l’evento è dovuto al sopravvenire di fattori eccezionali, ossia non prevedibili al momento della condotta. Tuttavia, il secondo comma dell’art. 41 escludendo il nesso di causalità solo quando sussistono «cause sopravvenute» determina un’ingiustificata disparità di trattamento rispetto alle «concause preesistenti o simultanee». Questo problema ha trovato diverse soluzioni: secondo la dottrina tradizionale, la previsione di cui all’art. 41 comma 2 va estesa per analogia (in bonam partem) anche alle ipotesi di concorso di cause preesistenti o simultanee (ANTOLISEI). secondo la dottrina più recente, essendo la norma in esame eccezionale (quindi non suscettibile di applicazione analogica), occorre fare ricorso al combinato disposto degli artt. 41 e 45 (che disciplina il caso fortuito e la forza maggiore, posto che il caso fortuito è l’insieme dei fattori causali sopravvenuti, preesistenti e simultanei che hanno reso eccezionalmente possibile il verificarsi di un evento che al momento della condotta appariva inverosimile). Infatti: secondo la dottrina tradizionale, le ipotesi di cui all’art. 45 sono cause di esclusione della colpevolezza che non escludono l’esistenza del nesso causale secondo la dottrina più recente si tratta di fattori di esclusione del nesso di causalità. Si tenga presente che, nonostante l‘infelice formulazione della norma, si ritiene ormai pacificamente che la «causa sopravvenuta da sola sufficiente» non integri una autonoma serie causale (altrimenti la norma sarebbe inutile), ma una causa che si innesta su una concomitante azione e, operando congiuntamente ad essa, ne esclude l’efficacia causale (FIANDACA - MUSCO). Estratto della pubblicazione 21 Capitolo 3: Il reato in generale 11. Segue: ULTERIORE TIPOLOGIA DI REATI Da ultimo si noti che, rispetto all’elemento oggettivo, è possibile distinguere reati anche: — secondo la natura del pregiudizio arrecato: reati di danno reati di pericolo se determinano la lesione o la distruzione del bene giuridico protetto se si perfezionano con la semplice messa in pericolo (minaccia) del bene tutelato. Questi ultimi si distinguono in: reati di pericolo concreto reati di pericolo presunto per l’esistenza dei quali occorre accertare in concreto che il bene protetto sia stato effettivamente minacciato (es. art. 423, comma 1). consistono in fatti che il legislatore presume (iuris et de iure) pericolosi senza che il pericolo debba essere in concreto accertato (es. art. 423, comma 2). La giurisprudenza critica la distinzione tra pericolo concreto e presunto affermando che, in diritto penale, le presunzioni devono essere bandite tollerando tale distinzione solo perché, nella realtà, il concetto di pericolo concreto e presunto è ben individuabile e, quindi, verificabile in concreto. La distinzione, cioè, ha solo validità a livello probatorio in quanto è in questa fase che l’indagine prende in considerazione, oltre la condotta, anche i presupposti ed i suoi risultati; — secondo il tempo in cui si estende la condotta dell’agente: reati di durata (permanenti) reati istantanei quelli per la cui esistenza la legge richiede che l’offesa al bene giuridico si protragga nel tempo per effetto della persistente condotta volontaria del soggetto (es. sequestro di persona art. 605). quelli in cui l’offesa è istantanea perché viene ad esistenza e si conclude immediatamente, data la sua stessa impossibilità di protrarsi nel tempo (es. omicidio art. 575). 12. ELEMENTO SOGGETTIVO: LA COLPEVOLEZZA A) Il principio di colpevolezza Per la sussistenza del reato, non è sufficiente che il soggetto ponga in essere un fatto corrispondente ad una fattispecie astratta penalmente sanzionata, occorrendo, oltre al nesso di causalità, un legame psichico di attribuibilità del fatto alla volontà dell’agente. Tale esigenza è espressa dall’art. 27, comma 1, Cost., il quale, affermando che la «responsabilità penale è personale», sancisce il principio della responsabilità per fatto proprio colpevole. Ne consegue l’illegittimità costituzionale non solo della responsabilità per fatto altrui ma anche della responsabilità oggettiva. 22 Parte I: Parte generale Secondo alcuni (BETTIOL), in realtà, l’art. 27 Cost. avrebbe introdotto nel nostro ordinamento il concetto di responsabilità personalizzata, per cui il soggetto non risponderebbe per il singolo fatto compiuto ma per la sua condotta di vita o per il suo atteggiamento interiore. Si obietta il contrasto di tale interpretazione con il principio di offensività. B) La colpevolezza L’elemento soggettivo del reato (cd. colpevolezza) è stato individuato dalla dottrina nella partecipazione della volontà del soggetto al fatto antigiuridico. Per quanto riguarda il concetto di colpevolezza, distinguiamo: — la concezione psicologica In passato la colpevolezza veniva intesa come un nesso psichico tra l’agente ed il fatto, eguale in tutti i casi e non graduabile, necessario per affermare la responsabilità ma non per valutarne l’entità. Si tratta di tesi esposta a duplice obiezione, in quanto non consente, da un lato, di ricondurre le varie forme di responsabilità colpevole ad un concetto unitario, e dall’altro, una effettiva graduazione della colpevolezza; — concezione normativa Secondo la prevalente dottrina, la colpevolezza consiste in un giudizio di rimproverabilità per l’atteggiamento antidoveroso della volontà che era possibile non assumere. In tal modo è consentito graduare la responsabilità in rapporto alla maggiore o minore antidoverosità della volontà. C) Presupposti della colpevolezza Quanto ai presupposti della colpevolezza, secondo parte della dottrina (MANTOVANI, FIANDACA-MUSCO), è tale innanzitutto l’imputabilità, sicché la sua mancanza determina l’inconfigurabilità di essa; altri autori (ANTOLISEI), muovendo da una concezione psicologica, osservano che il dolo e la colpa possono riscontrarsi anche nei minori ed infermi di mente (arg. ex artt. 222 e 224 c.p.) e pertanto l’imputabilità non può essere considerata come presupposto della colpevolezza. La giurisprudenza dominante evidenzia la separazione dei piani di operatività dei due concetti: l’imputabilità, consistendo nella capacità di intendere e di volere, è presupposto indefettibile per l’affermazione della responsabilità penale; la colpevolezza, quale coscienza e volontà del fatto illecito, è elemento costitutivo del reato. La colpevolezza, per definizione, presuppone la conoscenza del disvalore del fatto: intanto può rimproverarsi al soggetto di aver causato un fatto (che non doveva verificarsi) in quanto egli sappia che quel modo di agire è antidoveroso e riprovevole. Secondo la dottrina, non si richiede la coscienza dell’antigiuridicità del fatto, cioè la consapevolezza che il fatto è vietato dalla legge penale: l’art. 5 c.p., infatti, affermando che «nessuno può invocare a propria scusa l’ignoranza della legge penale», codifica l’antico principio «ignorantia legis non excusat». Mentre la dottrina tradizionale ritiene sufficiente, per l’esistenza della colpevolezza, la coscienza dell’antisocialità del fatto, cioè la consapevolezza di compiere un fatto offensivo di interessi altrui (ANTOLISEI), la dottrina più recente, invece, richiede la coscienza di offendere l’interesse protetto dalla norma penale (BRICOLA). Tali opinioni, tuttavia, non tengono conto dell’esistenza di numerosi reati di pura creazione legislativa, che non sono sentiti dalla comune coscienza come fatti antisociali, e di quei reati cd. senza offesa, consistenti in fatti non lesivi di alcun concreto interesse, ma incriminati perché contrari ai fini perseguiti dall’ordinamento. Secondo MANTOVANI bisogna distinguere i reati di offesa da quelli di scopo perché: — — per i reati di offesa, se non è necessaria la conoscenza della norma penale occorre pur sempre la conoscibilità e la coscienza dell’antisocialità secondo il comune giudizio; per i reati di scopo la conoscenza può essere surrogata dalla sola conoscibilità. Infine, sono presupposti della colpevolezza il dolo e la colpa (vedi infra §§ 13 e 14). Estratto della pubblicazione Capitolo 3: Il reato in generale 23 D) Il principio «ignorantia iuris non excusat» (art. 5 c.p.) Tale principio è stato recepito dal nostro codice penale all’art. 5, assumendo però nel tempo diversa portata; infatti, in passato, data la pretesa razionalità della legge scritta, esso si fondava su una generale presunzione di conoscenza della legge. Attualmente, tuttavia, manca di basi reali, in quanto la continua proliferazione di leggi ha dato vita ad un ordinamento occulto. Ciò ha determinato, in alcuni Paesi, l’introduzione di un principio che serve a temperare il rigore della presunzione di conoscenza della legge dato dalla conoscibilità della legge penale (per cui l’ignoranza e l’errore non scusano se evitabili ed invincibili mentre scusano se inevitabili e invincibili). Nel nostro codice, un siffatto temperamento fu introdotto in via interpretativa, escludendo la conoscibilità della legge in presenza di due cause oggettive: — — ignoranza invincibile per l’assoluta impossibilità collettiva di prendere conoscenza della legge (es. mancata distribuzione della Gazzetta Ufficiale dovuta ad uno sciopero); errore scusabile sulla liceità del fatto determinato da fonti qualificate (es. concorde interpretazione giurisprudenziale poi mutata). Questa scusante della buona fede fu ammessa inizialmente dalla Corte di Cassazione (limitatamente alle contravvenzioni e senza cogliere la ratio profonda della scelta) e poi dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 364/1988 che ha dichiarato incostituzionale l’art. 5 (per contrasto con gli artt. 27 e 3 della Costituzione) laddove non escludeva dall’inescusabilità dell’ignoranza della legge penale l’ignoranza inevitabile. Infine si osserva che l’inevitabilità dell’ignoranza va valutata sia sotto il profilo oggettivo (tenendo conto delle circostanze di fatto che possono averla determinata) sia sotto quello soggettivo (tenendo conto di particolari conoscenze o abilità del soggetto che gli consentano di accertare il contenuto della legge). 13. Segue: IL DOLO A) Nozione e presupposti È la forma tipica della volontà colpevole (art. 42 comma 2 c.p.). Il reato è doloso o, secondo l’intenzione, quando l’evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell’azione o dell’omissione da cui la legge fa dipendere l’esistenza di un reato, è dall’agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione (art. 43 c.p.). Il dolo presuppone: a) un momento rappresentativo: in quanto occorre che l’agente abbia la visione anticipata di tutti gli elementi significativi del fatto che, secondo una determinata norma incriminatrice, costituiscono il reato; b) un momento volitivo: in quanto occorre che la volontà dell’agente sia rivolta alla effettiva realizzazione della condotta e dell’evento conseguente ad essa. B) Tipologia Nella commissione dei reati possono ricorrere differenti tipi di dolo: a) dolo diretto e indiretto: — dolo diretto o intenzionale: si configura ogni qualvolta l’evento conseguito è conforme a quello voluto e rappresentato dall’agente; — dolo indiretto o eventuale: quando il risultato conseguente alla propria azione, pur rappresentato, non è stato dal soggetto agente intenzionalmente o direttamente voluto (es. voglio fare un attentato dinamitardo dimostrativo senza volere la morte di alcuno, ma rappresentandomene il pericolo. Se l’esplosione produce vittime risponderò egualmente di omicidio volontario); Nell’ambito del dolo indiretto si distinguono: — — il dolo eventuale: si ha quando il soggetto si rappresenta e vuole un evento ma, prevedendo la possibile verificazione di un altro evento diverso, agisce anche a costo di produrlo; il dolo alternativo: si ha quando il soggetto si rappresenta la possibilità del verificarsi di due eventi e mostra indifferenza rispetto a quale dei due deriverà dalla sua condotta. b) dolo generico e specifico: — il dolo generico: si ha quando basta che sia voluto il fatto descritto dalla norma incriminatrice, non rilevando il fine perseguito dall’agente; Estratto della pubblicazione 24 Parte I: Parte generale — il dolo specifico: quando la legge esige che il soggetto agisca per raggiungere un determinato fine, la cui realizzazione non è comunque necessaria ai fini del perfezionamento del reato (esempio: nel furto il dolo consiste nel fine di trarre profitto dalla cosa sottratta, tuttavia non occorre che il profitto sia stato effettivamente conseguito); c) dolo di danno e di pericolo: — il dolo di danno: si ha se il soggetto ha voluto effettivamente ledere il bene protetto dalla norma (esempio: lesione volontaria); — il dolo di pericolo: si ha se il soggetto ha voluto soltanto minacciare il bene (delitto di attentato); d) dolo d’impeto e dolo di proposito: — il dolo d’impeto: ricorre quando il delitto è il risultato di una decisione improvvisa e viene subito eseguito, senza nessun intervallo tra momento conoscitivo e momento volitivo (es.: colluttazione che segue immediatamente alla provocazione); — il dolo di proposito: si ha allorché trascorre un considerevole lasso di tempo tra il sorgere dell’idea criminosa e la sua attuazione concreta. Una species del dolo di proposito è la premeditazione, prevista come circostanza aggravante dell’omicidio e delle lesioni personali (art. 577, comma 3, e art. 585). Affinché si realizzi occorre un proposito criminoso consolidato mediante una riflessione persistente, tenace ed ininterrotta. Pertanto, il distacco temporale oltre che notevolmente ampio deve essere indice univoco di tale persistenza dolosa. Dal dolo occorre tener nettamente distinto il movente del reato: il movente, infatti, altro non è che il motivo per cui il soggetto compie il fatto costituente reato e, generalmente, tale motivo è irrilevante (salvo per la valutazione delle circostanze). C) Accertamento del dolo Si effettua considerando tutte le circostanze esteriori che in qualche modo possono essere espressione dell’atteggiamento psichico e deducendo l’esistenza della rappresentazione e della volizione in cui si concreta il dolo dalle comuni regole di esperienza. D) L’intensità del dolo Il giudizio sull’intensità del dolo si ispira a canoni sufficientemente precisi, desumendosi dal grado di aderenza o di partecipazione della coscienza e volontà al reato. La variazione dell’intensità può essere: — quantitativa: quando riguarda la maggiore o minore intensità del volere o della rappresentazione del fatto rispetto alla volontà o alla coscienza; — qualitativa: quando riguarda la coscienza del disvalore del fatto. Differenze • Dolo intenzionale o diretto Si ha quando la volontà ha avuto direttamente di mira l’evento tipico. Taluni distinguono le ipotesi di dolo intenzionale e diretto, ritenendo configurabile il primo quando l’evento costituisce il fine in vista del quale il soggetto agisce o lo strumento necessario a conseguire il fine ultimo, ed il secondo quando l’evento costituisce la conseguenza accessoria necessariamente connessa al fatto principale. • Dolo eventuale o indiretto Si ha quando l’agente, ponendo in essere una condotta diretta ad altri scopi, si rappresenta la concreta possibilità del verificarsi di ulteriori conseguenze della propria azione e, nonostante ciò, agisce ugualmente, accettando il rischio di cagionarle. Non può invece parlarsi di dolo eventuale o indiretto nel caso in cui il soggetto, pur essendosi rappresentato l’evento, abbia agito con la sicura convinzione che il medesimo non si sarebbe verificato. Infatti, se si accerta che l’agente, qualora avesse previsto l’evento come conseguenza certa della sua condotta, si sarebbe astenuto dall’agire, si configura la cd. colpa con previsione o colpa cosciente. Estratto della pubblicazione