i “marcido marcidorjs e famosa mimosa” e brecht

I “MARCIDO MARCIDORJS E FAMOSA MIMOSA” E BRECHT Chiara Nicolanti 1172161 Università di Roma “La Sapienza”
Corso di Laurea Magistrale in Spettacolo Teatrale Cinematografico Digitale: Teorie e Tecniche
TEORIE E PRATICHE DELLO SPETTACOLO CONTEMPORANEO, B
Indice
Introduzione
1.
2.
3.
3.1
3.2
4.
5.
6.
7.
8.
9.
10.
Il gruppo
Vocazione didattica
La recitazione epica e i Marcidos
La dizione
La voce: la musica
Il corpo dell'attore
Gli oggetti di scena
I costumi
La luce
La scenografia
Marco Isidori
Quale pubblico?
Conclusioni
1
Introduzione
Il modo migliore per intuire quanto del pensiero di Brecht sia confluito in un gruppo teatrale
torinese poco conosciuto ai più, come quello dei Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa, è forse
quello di partire da una frase di uno dei componenti storici di questo gruppo, Maria Luisa Abate:
«È una necessità feroce di appartenenza che il teatro deve cercare: è l'altro che noi cerchiamo, è il
pubblico che ci interessa. Quella è la nostra attività principale. Forse è pedagogia anche, ma non
vuole essere saccente. È far vedere che c'è una possibilità, che si può reagire.»1
È questa urgenza, questa voglia non utopica di mostrare al pubblico le catene in cui è imbrigliato,
questo rivolgersi a un pubblico sveglio, attento, reso acuto da una “luce da ring” che non lascia
ombre, non crea atmosfere, questo mostrare al contrario: prima l'effetto, per poi risalire alla causa,
la ribellione ad essa o, al contrario, la mancanza di ribellione che porta alla morte, sociale e
individuale. Tutto questo ci riporta a Brecht, ma anche agli anni che ci dividono da lui.
Anni che sono corsi in fretta, carichi di accadimenti shockanti, molti dei quali ancora non assimilati
dalla nostra coscienza storica.
I Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa lasciano molto fuori dalla porta della loro soffitta (perché
è proprio da lì che è cominciato il loro percorso), decidendo di compiere un lavoro di
inclusione/esclusione molto forte: lasciano fuori la tecnologia, ma di essa mantengono le forme, il
ritmo, l'aggressività. Il loro è un percorso che parte dal prodotto finito, impacchettato e apparso
come per magia tra le mani dell'uomo ridotto a consumatore per arrivare alla materia prima: il
materiale grezzo che deve ancora prendere forma, essere vestito di un costume, assumere una sua
propria funzione che sarà la mano dell'uomo (non più vittima passiva) ad attribuirgli.
Un uomo artefice del proprio destino. Utopia?
Non è poi un caso che quegli stessi materiali si stringeranno a creare gabbie, architetture che
sembrano macchine di tortura, che finiranno per soffocare quegli stessi corpi che hanno sudato per
costruirle.
Dalla parte del pubblico, ciò che è richiesto come necessario è un occhio vigile, attento. E' un
pubblico di individualità che scelgono di guardare, scelgono di subire uno spettacolo che è
un'invasione.
Il mio personale lavoro sarà volto ad identificare quali dell' «intera serie di possibilità verso le quali
possiamo aspettarci che l'opera di Brecht ci spinga »2 sia stata imboccata e percorsa fino all’estremo
dai Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa.
1. Il gruppo
Questo gruppo teatrale nasce nel 1984, dall'incontro di tre persone, un poeta, una pittrice e
un'attrice di teatro classico. Diventeranno il regista-autore, la scenografa-costumista e la voce di
un gruppo che arriverà ad avere allievi e critiche asprissime, riconoscimenti e indifferenza.
Sono passati quasi trent’anni dal loro primo lavoro, “Studio per le Serve, una danza di
guerra”(1986), ma i Marcidos rimarranno sempre fedeli a un loro stile, o meglio a una loro idea di
1
2
Maria Luisa Abate, Intervista per Krapp's Last Post, 2009
Fredric Jameson, Brecht e il metodo, Cronopio, 2008, p.47
2
teatro, a una risposta tutta personale a una domanda urgente, urgentissima, di resistenza.
Perché se la rivoluzione non è più possibile, la resistenza lo è, una resistenza che si trasforma sul
palco in atti suicidi a volte, in una denuncia cruda della condizione dell'uomo contemporaneo,
della sua intelligenza messa a tacere, quasi ipnotizzata da un'apatia generale, il torpore di un corpo
sazio, di una mente tenuta spenta da una pubblicità ininterrotta.
I marcidos decidono di aggredire il loro pubblico, farlo stare scomodo, a disagio, nella speranza di
risvegliarlo, forse.
Nel panorama generale del nostro teatro possono riconoscersi due strade maestre: quella
imboccata da compagnie che sembrano affette da una sorta di amnesia completa per quel che
riguarda la storia del teatro degli ultimi cinquant'anni; e l'altra, quella percorsa da gruppi che,
sebbene molto eterogenei tra loro, hanno fatto propria quella storia, continuando sulla linea di
quelle personalità che avevano saputo dare nuova linfa al teatro, esasperando determinate
ideologie, o decidendo di superarle, ignorarle magari, ribaltarle, svuotarle, approfondirne solo una
determinata sfumatura, ma agendo essendo coscienti, presenti, vigili... le stesse caratteristiche che
vengono richieste ai nuovi spettatori di questo nuovo teatro.
Nel teatro dei Marcidos si possono riconoscere eco del teatro della crudeltà di Artaud, dello
straniamento di Brecht, ma anche dell'eccezionalità dell'esperienza di Carmelo Bene, i colori della
Pop Art, l'esclusività e la segretezza per gli appartenenti alla tribù, al gruppo, stessa atmosfera
respirata nel Teatro Valdoca, il linguaggio verbale ridotto a materia di Kantor, e ancora la
reificazione del corpo, la sua importanza esasperata e la sua mortificazione, costrizione, che
troviamo in tanto teatro contemporaneo.
2. Vocazione didattica
Essenziale in tutto il teatro di Brecht è la sua vocazione didattica.
Cicerone parlava dell'eloquenza descrivendo l'oratore perfetto come colui che fosse capace di
docere, delectare e movere, e sappiamo quanto questo paradigma abbia influito su tutta l'arte
europea, e in particolare sul teatro.
Il termine problematizzato da Brecht è il terzo della triade ciceroniana: movere. Cercare di
comprendere come fosse praticamente, sul palcoscenico, il teatro di un uomo che non è mio
contemporaneo è sempre un azzardo. Rimangono le descrizioni, certo, gli scritti, ma la peculiarità
del teatro, la sua magia, è proprio il suo consumarsi in un momento, quel momento. E allora, da
studentessa, ciò che mi ha colpito è stato l'ammonimento di tanti testimoni, critici, studiosi, che
avvertono l'uomo del futuro di non pensare alle sue opere come noiose, distanti: anche Brecht
voleva movere, ma il suo obiettivo non erano i sentimenti del pubblico, ma il suo spirito critico, la
sua intelligenza. Scavalcare la suggestione, per arrivare alla ratio: «la trasformazione di un
individualista in un essere sociale»3
La consapevolezza permette all'uomo il cambiamento, perché è dalla conoscenza che nasce il
coraggio inteso come atteggiamento generale alla propria vita, privata a sociale: Badiou parla del
teatro di Brecht come terapia contro la vigliaccheria nei confronti della verità.4
Un uomo nuovo, per una nuova società.
Questo obiettivo è perseguito tramite un teatro diverso anch'esso; il primo strumento di cui decide
di servirsi, il primo strumento elaborato e continuamente messo a punto è la tecnica dello
3
4
F. Ewen, “Bernoldt Brecht, La vita, l'opera, i tempi” Universale Economica Feltrinelli, 2005, p.159
A. Jovićević, “Nuove prassi della regia nel teatro contemporaneo e nelle arti performative”, da
Biblioteca Teatrale, I modi della regia del nuovo millennio, Bulzoni Editore, Roma, 2009,p.38
3
straniamento.
E lo straniamento è attivato grazie a espedienti diversi, piccoli semi che negli anni hanno
germogliato e dato vita a fiori dalle forme e dai colori più eterogenei.
3. La recitazione epica e i Marcidos
Primo espediente fra tutti, l'uso di una recitazione epica.
Questa, come sappiamo, era fondata sul “principio gestuale” dello stile epico. Il termine gestus
cresce e acquista valore nel tempo: usato per la prima volta da Brecht nel 1920, arriverà ad
assumere il suo particolare significato una decina d'anni più tardi. Esso può essere spiegato come
«il processo totale, l'insieme di tutti i comportamenti fisici che l'attore assume quando ci sta
mostrando il personaggio in scena. È il corpo con i suoi movimenti, la faccia con le sue espressioni,
la voce con i suoi volumi e le sue inflessioni, il fluire del discorso, con i suoi accenti e il suo ritmo, il
costume, il trucco, gli oggetti di scena e qualsiasi cosa l'attore utilizzi per arrivare ad un'immagine
completa del ruolo che sta recitando»5
Benjamin usa il termine tableau, o frame congelato, prendendo il cinema come termine di
paragone. E proprio dal cinema viene a Brecht l'esempio perfetto di gestus: Charlie Chaplin e il
suo vagabondo dal viso di cera. Il personaggio di Chaplin arriva ad incarnare il gestus perché egli
è un essere sociale: un emarginato, escluso dalla società, inconsapevolmente schiacciato da essa.
Ma veniamo ai Marcidos: le foto sono testimoni di quanto quell'espressione di cera non si sia
ancora sciolta dai loro volti. La loro mimica facciale, esagerata a volte, non corrispondente al
linguaggio, non solo non permette l'immedesimazione, ma ci fa intuire quanto il personaggio si sia
allontanato dall'attore, e quanto quest'ultimo, a sua volta, si sia allontanato dal pubblico. Vertici di
un segmento creato da giustapposizioni, per arrivare da un capo all'altro i Marcidos procedono per
aggressioni: ogni elemento della loro performance è volto ad occupare quello spazio, quella
distanza, e non per azzerarla, ma per farla sentire, esplicitarla.
Da Brecht a Pina Bausch, il gesto rimane un indicatore imprescindibile, e i Marcidos, pur
mantenendo l'intento didattico brechtiano ne rifiutano il realismo, trasformando quel gesto, come
aveva fatto la grande danzatrice-coreografa, in «un modo di guardare alla radici di pulsioni,
desideri e angosce personali»6.
3.1 La dizione
Lo straniamento di cui parlava Brecht rendeva differente qualcosa di noto, di quotidiano,
permettendoci di comprenderlo, percepirlo, in un modo diverso: è il caso della voce, o ancor
prima, della dizione, utilizzata dai Marcidos.
Il termine dizione è inteso in ambito recitativo soprattutto come il modo corretto di pronunciare i
fonemi che formano una parola, ma non si deve dimenticare che lo stesso termine va ad indicare
l'unità minima dotata di significato in un discorso: la parola.
5
6
C. Martin, H Bial, Brecht Sourcebook, Routledge, 2000, p.43
L. Bentivoglio, Pina Bausch e il Tanztheater Wuppertal: un lungo viaggio intorno al corpo e
intorno al mondo, p.15
4
Ogni parola ha la sua storia, ce lo insegnano discipline come l'etimologia, ma l'uomo
contemporaneo sembra aver perso quella connessione tra il suono e l'oggetto: Maria Teresa Abate,
nel seminario tenuto nell'ambito del Volterrateatro 2009, raccomandava a noi studenti proprio di
recuperare quella dizione tramite un approccio straniato alla parola: «affronta la parola come se
fossi straniera, non dare nulla per scontato: la parola è sconosciuta.»7 Bisogna porsi ad essa come
se si dovesse tradurla da una lingua antica, ricordando che «la parola ha già in sé il proprio senso.
Il nostro linguaggio è la più grande prova artistica della nostra civiltà. È l'esteriorizzazione
dell'esperienza attraverso un suono, che pian piano si è evoluto fino alla parola. Nella parola c'è
già la cosa!»8
Dalla parola, all'espressione fisica di essa: la voce.
3.2 La voce: la musica
«Punto di partenza è la parola assoluta. Pura phonè che imbriglia, sbeffeggia o amplifica la
corporeità dell'attore: l'azione si traduce in una coreografia precisissima fatta di vocalità caustica per
le sue vertigini metriche e musicali, di partiture fisiche e di congegnerie scenografiche spettacolari,
provocatoriamente crudeli nel loro essere metafora poetica.»9
La voce diventa uno strumento in cui far risuonare quella phoné, ma non è una voce naturale, ma
deformata, truccata, costruita.
Brecht utilizzava degli interventi musicali: le sue songs spezzavano il flusso dell'azione in modo
netto, uno strumento musicale veniva fatto scendere dal soffitto, l'orchestra veniva illuminata a
giorno e gli attori cominciavano a cantare «parole intrise di sferzante ironia […] a contrasto con
l'atmosfera melodica e piacevole della musica »10
I Marcidos riprendono questo modo di servirsi della musica come elemento straniante e lo
utilizzano come regola di base: tutta la loro performance potrebbe essere descritta come una
grande partitura musicale, la cui stridente sinfonia nasce dalla giustapposizione di tutti gli elementi
della scena.
Per capire bene a cosa mi sto riferendo mi devo rifare di nuovo alle lezioni di M. T. Abate, e al
modo in cui raccomandava a noi studenti di approcciarci a un qualsiasi testo.
La tentazione, per un giovane attore, è quella di andare subito a cercare la propria interpretazione
di un testo teatrale, invece, secondo il modo di lavorare dei Marcidos, deve essere affrontato come
una poesia: di esso si deve innanzitutto fare l'analisi logica, poi va riscritto di proprio pugno, a
penna, in stampatello, e versificato.
Come si fa a riscrivere in versi un testo di prosa?
Usando la pausazione già presente in esso. È un lavoro di «smembramento e ricomposizione»11 (e
tanto della concezione di «montaggio e organicità»12 di Ejzenštejn può essere ritrovato nel teatro
dei Marcidos).
Una volta versificate, quelle frasi vanno lette: dalla prima sillaba all'ultima, senza pause, come se
fosse una lunghissima unica parola, semplicemente una catena di suoni. Ma ben presto ci
accorgeremo che la nostra voce tende a soffermarsi su determinate sillabe: sono le toniche.
Riconoscerle è essenziale, perché sono i punti di vibrazione della frase. Ogni parola ha il suo
punto di vibrazione, e dopo quel punto la voce cambia, come il ritmo: è una dinamica
7
8
9
10
11
12
Dalle lezioni di M.L.Abate durante il Volterrateatro 2009, dai miei appunti personali.
Dalle lezioni di M.L.Abate durante il Volterrateatro 2009, dai miei appunti personali.
S.Chinzari, P. Ruffini, “Nuova scena italiana”, Castelvecchi Editoria, 2000 p.54-55
M Fazio, “Regie teatrali”, Laterza, 2006, p.154
A. Somaini, Ejzenstein, Piccola Biblioteca Einaudi, 2011, p. XIII
V. Valentini, “La regia nel secondo Novecento: aporie e discontinuità”,da Biblioteca Teatrale,
luglio - dicembre 2009, p. 60
5
proporzionale. Usando gli accenti musicali, diremo che le sillabe che precedono la Tonica hanno
degli accenti preparatori all'accento forte (la tonica, appunto), in cui la voce deve affondare per poi
risollevarsi, negli accenti deboli delle sillabe seguenti. Questo tipo di sperimentazione
sull'andamento musicale della parola, poi sulla frase, poi sul testo tutto intero permette al
performer di ritrovare la musica del poeta (e ricordiamo che Marco Isidori è, prima che regista,
poeta).
Le vocali quindi sono le nostre note, mentre le consonanti corrispondono ai comma musicali, a
quei momenti di passaggio che ci permettono di far suonare una vocale e poi l'altra. Lo spazio che
separa una parola dall'altra è una pausa: pausa intesa anch'essa in senso musicale, con una precisa
durata. Ora che abbiamo capito di cosa è fatto il materiale che ci accingiamo ad utilizzare
possiamo scriverlo sul nostro personale pentagramma: possiamo cominciare a far vibrare i nostri
risuonatori... insomma, possiamo cantare. È la modulazione della parola, i suoi punti di
vibrazione, che permettono al performer di entrare nel pubblico, di farlo vibrare, estendendo
quell'energia fino ad esso: è, di nuovo, un fatto fisico, materico, meccanico: «canta le parole, non
usare la tua finta psicologia, non far finta di essere quel personaggio. Usa la parola e sarai più
Medea che interpretandola »13
L'interpretazione, l'immedesimazione, viene quindi declassata, se non annullata: la parola saprà
suggerire all'interprete un modo tutto diverso di essere pronunciata.
Alessandro Paesano osserva che quello dei Marcidos è «Non un teatro di attori ma un teatro della
parola detta incarnata da una complessa macchina scenica della quale l'attore è solo una delle
componenti »14
Tutto questo esercizio è solo la base da cui l'attore potrà partire per iniziare a giocare, a
sorprendersi. Quello che arriverà in scena sarà a volte una declamazione volutamente enfatica,
melodrammatica, sostenuta da un'oratoria ridondante se non grottesca, deformata, sovraccarica di
pathos, debordante, altre volte invece questo processo sarà condotto all'estremo, fino all'incrinarsi,
l'incepparsi del meccanismo, fino alla frantumazione, all' esplosione di esso:
«la frantumazione delle frasi, il dispersivo esibizionismo delle passioni, la sottolineatura isterica di
ritmi e accenti, la sovrapposizione di tonalità e rumori trasformano il testo in una sorta di partitura
futurista. Non a caso lo stesso regista, in veste di direttore d'orchestra, è in proscenio a governare
questo magma vocale, accovacciato in una posizione quasi fetale.»15
Dicevamo che il nostro risuonatore naturale è la bocca, è quella che siamo abituati ad usare.
Tramite dei training fisici si può però imparare a far risuonare casse diverse del nostro corpo.
Molto di questo viene naturalmente dallo studio di Grotowski; addirittura molti degli esercizi fisici
sembrano essere esattamente gli stessi di quelli che si possono osservare nelle registrazioni
audiovisive dei training tenuti del maestro.
Le vibrazioni si irradiano non solo nel nostro organismo, ma nella scenografia intera: il luogo
funge anch'esso da risuonatore esterno, così come il corpo dello spettatore.
4. Il corpo dell'attore
«Un'idea del teatro come sconfinamento dell'umano. I corpi, nelle composizioni e nei gesti tra
coreografia e scultura, nelle esibizioni e nelle acrobazie circensi, sono già al confine tra l'uomo e la
13
14
15
Dalle lezioni di M.L.Abate durante il Volterrateatro 2009, dai miei appunti personali.
Recensione di A. Paesano, apparsa su La repubblica, del 17 maggio 2009
O.P.Di Pino, recensione dello spettacolo Musica per una Fedra moderna, apparsa sul Manifesto, 1992
6
macchina, tra il corpo e la materia. I costumi […] rimandano a un intreccio dell'umano con il
minerale, il vegetale, l'animale. […] Con questa ritualità stridente, rocciosa, enfatica, Marcido
Marcidorjs aspira a una “opera d'arte totale” ossessiva e claustrofobica, in cui l'elemento umano resta
angosciosamente sospeso tra la dannazione e la redenzione, tra l'annullamento nella materia e la
sublimazione nello spirituale.»16
Molto si è detto sul ruolo che il corpo ha assunto nella società contemporanea e nel nostro teatro.
Molto è confluito nell'uso che i Marcidos ne fanno in scena.
Daniela dal Cin spiega:
«Le mie macchine sceniche e i miei costumi sono un impaccio che deve costringere l'attore a tirare
fuori il meglio di sé »17
Dalla costrizione all'esplosione: è un corpo in continuo cambiamento, un corpo che suda, si
dimena, viene penetrato, cerca, anela una libertà che non esiste, che non è mai presente in scena.
Penso a Heiner Muller, ai suoi rituali orgiastici di smembramento del corpo inteso come società,
una società percepita come una prigione, e poi la rinascita nel “corpo grottesco”, umano e
robotico.
Quanta strada dai training di Grotowski, dalla marionetta di Mejerchol'd... La nostra società ha
visto crescere a dismisura il numero delle malattie psicologiche legate alla non accettazione di un
corpo che è sempre più concepito come un'appendice della propria mente. Le associazioni
mediche parlano di vere e proprie epidemie di malattie legate a disturbi alimentari: anoressia e
bulimia in primis.
L'impossibilità di accogliere corpi esterni al proprio interno, il desiderio e la punizione, la guerra
contro i propri istinti primari... tutto questo è entrato a far parte della nevrosi dell'uomo
contemporaneo in una maniera così intima da non poter essere messa da parte. È una lotta
continua alla ricerca del corpo perfetto, un corpo che non serve più ad esprimere, ma ha la
semplice funzione di biglietto da visita. L'uomo contemporaneo ha smesso di sentirsi, per
guardarsi. Allo specchio possibilmente.
E allora qual è la strada? Come risalire dalla mente al corpo? Tutto questo sembra una
contraddizione a quanto detto finora, all'attenzione tutta celebrale che Brecht esigeva dal suo
pubblico. Ma la grande differenza è che, prima di parlare alla sua ratio, il teatro contemporaneo
deve ricordare allo spettatore di essere un corpo: il teatro, tramite le sue provocazioni, cerca di
rimettere in contatto lo spettatore con i suoi bisogni, risvegliando contemporaneamente il desiderio
di combattere chi o cosa li ha inibiti. La memoria visiva di uno spettatore contemporaneo non può
non correre, a questo riguardo, ai corpi contorti sul pavimento degli spettacoli di René Pollesch
(guarda l'opera Pablo in der Plusfiliale).
Come spiega Holmes nel suo saggio, con il nuovo millennio siamo davanti a «una vera e propria
esplosione del feticismo della merce, sulla scala dei mercati globali e della velocità di reti e fibre
ottiche»18
I performers appartenenti al gruppo dei Marcidos hanno corpi agili, la loro è una lunga
preparazione, le coreografie si trasformano in alcuni momenti in vere acrobazie circensi, il ritmo è
incalzante, non c'è spazio per l'errore, né per la fatica: spesso rappresentanti arti appartenenti ad un
unico enorme organismo umano, lo spettatore può vedere quei corpi creare dal nulla scenografie
spettacolari, o rimanere immobili, animati ma bloccati, può vederli imbracati in costumi
sfavillanti, pop o animaleschi, o incontrarli nudi a pochi centimetri dal proprio naso. Accade così
«uno spostamento della concezione della produzione di segni all'interno dell'opera. Non come
latore di senso, ma nella sua fisicità e gestualità il corpo viene posto al centro»19: il corpo
16
17
18
19
O.P.Di Pino, recensione dello spettacolo Una giostra, l'Agamennone, apparsa sul Manifesto, 1988
Dalle lezioni di D. Dal Cin durante il Volterrateatro 2009, dai miei appunti
M. Baravalle, L'arte della sovversione, Manifestolibri, 2009, Roma, p. 34
H. Lehmann, Segni teatrali nel teatro post-drammatico, da Biblioteca Teatrale, Bulzoni editore,
aprile-dicembre 2006, p. 39
7
dell'attore rifiuta il proprio ruolo di segno significante per diventare (per un determinato lasso di
tempo nel caso dei Marcidos) significato.
Esemplare è lo spettacolo “Happy Days in Marcido's Field” (1997). Il sipario stesso è creato dai
corpi nudi degli attori, appesi al soffitto. Quando questo sipario umano si apre, scopre una
struttura di legno piramidale, al cui vertice c'è come infilzata una donna, con la pelle arrossata,
inguainata in un bustino rosato, che comincia il suo a tratti incomprensibile monologo, mentre la
sua immobilità viene esasperata dall'attaccarsi degli attori-corpi-sipario alla struttura lignea:
Winnie è ricoperta di carne viva, di spasmi muscolari, sudore, che danno forma a una ritualità
sadomasochistica e voyeurista, dove si incontrano e scontrano sessualità, violenza e potere,
dominio e sottomissione, azione e passività. Winnie è oggetto, è trappola. Eppure è lei la vera
padrona del gioco: è lei a dominare il marito Willie, un marito che si è dissolto in coro di corpi
nudi. Winnie seduce, ma non potrà mai essere soddisfatta, come non potrà mai esserlo il pubblico:
immobilizzato anch'esso su scomode poltroncine, voyeur irrigidito e frustrato: «uscendo da quelle
strette stanze l'ultima sensazione è l'odore caldo dei corpi, labile traccia di una prossimità prima
quasi oscena e infine intima, forse di una comunità.»20
Sono corpi che si fondono ad elementi ad essi estranei, animati e inanimati: continuano nel corpo
dell'altro, in protesi di legno a forma di gigantesche mani, in zoccoli equini o in carillons di perle.
Sono corpi erotizzati, segni di un inquietante ed inedito codice pornografico, di un nuovo rituale
orgiastico.
In Loretta Strong è lei l'unica sopravvissuta all'esplosione della terra: ma i cadaveri degli altri
riappaiono come plutoniani, uomini scimmia, topi, pipistrelli dorati dagli occhi di rubino, pesci
pappagalli volanti, vermi. E tutti questi la mordono, penetrano, invadono, la riempiono fin nei
polmoni, le mangiano il clitoride, l'utero, la ingravidano, cercano di essere allattati, «finché
Loretta grida: “Esplodo! Mi escono pepite da tutti i pori! […] Qui piove […], entra sangue da tutte
le parti!” Loretta è dilaniata da intrusioni sessuali, e continuamente, suo malgrado, partorisce
creature poi rimangiate da altri.»21 Morsa e dilaniata, a sua volta però Loretta morde, seziona
cadaveri, li congela e li cuoce: cadaveri trasformati in prede che poi risorgono e ridiventano
predatori, sessuali e aggressivi.
Lo spettatore spia, si sente a disagio, ma non può fare a meno di continuare a guardare lo sfacelo
di quei corpi, la loro tensione inappagata, il loro sacrificarsi inutilmente alla ricerca di un piacere
negato (è il «corpo deviante»22 di cui parla Lehmann, il fascino “immorale” che esercita sullo
spettatore allontanandosi dalla norma): parlando della loro Fedra, Oliviero Ponte Di Pino nota la
battuta
« “È finita l'epoca dei mostri”, si lascia sfuggire la Nutrice: perché questa Fedra si rivela l'ultimo
mostro che può infrangere le leggi dell'umanità, l'unica creatura ancora in grado di farsi travolgere
dalla sua animalità e già pronta come un ibrido cyberpunk alla contaminazione con la macchina.
Dunque è creatura intrinsecamente teatrale, attraente e repellente, irrimediabilmente diversa, ultimo
residuo di un passato cancellato dall'avvento dell'Io e delle sue miserie, e insieme anticipazione di
una spettacolarità inquietante e scandalosa.»23
L'influsso di Deleuze e Guattari , della loro visione di un Corpo senza organi è assolutamente
presente: il bisogno di disfarsi dell'Io, aprire il corpo, disarticolarlo per trasformarlo in una
macchina da guerra, appunto. E ancora Castellucci e i movimenti bestiali dei suoi attori, gli
organismi fatti a pezzi, Barba e in suo corpo dilatato (frutto di un lavoro di isolamento e selezione,
che a sua volta ci rimanda di nuovo a Eizenštein24): tanto del teatro nostro contemporaneo si può
20
21
22
23
24
O.P.Di Pino, recensione dello spettacolo Happy Days in Marcido's Field, apparsa sul Manifesto, 1997
http://www.retididedalus.it/Archivi/2011/giugno/TEATRICA/1_marcido.htm
H. Lehmann, Segni teatrali nel teatro post-drammatico, da Biblioteca Teatrale, Bulzoni editore,
aprile-dicembre 2006, p. 39
O.P. Di Pino, introduzione per“I Marcido in mostra:1986-2006”,promotrice delle Belle Arti di Torino, 2006, p.8
V. Valentini, “La regia nel secondo Novecento: aporie e discontinuità”,da Biblioteca Teatrale,
8
riconoscere sui minuscoli palcoscenici esplosivi dei Marcidos, che possono forse rientrare in quei
casi di «ibridismo corporeo, in cui si si innestano parti animali su corpi umani o viceversa, come
anche sonorità animalesche, denaturalizzazione della voce e del parlato dell'essere umano […] una
trasformazione del vivente, sia verso la serie animale che oggettuale, il divenir cosa »25.
Diventare altro: pensando ai fili di Cassandra (in Una giostra: l'Agamennone), all'enorme naso di
Pinocchio (in L'Isi fa Pinocchio ma sfar lo mondo desierebbe in ver), alle lunghe mani usate dal
coro ne Il vortice del Macbeth non possiamo non pensare a quella regressione dell'uomo verso
l'inorganico che troviamo in tanto teatro contemporaneo, ma al tempo stesso non possiamo non
interrogarci sul rapporto che si crea tra i corpi di questi attori e queste protesi variopinte,
bellissime da guardare, ma pesanti, ingombranti.
Il mio personale ricordo mi spinge di nuovo a parlare di Volterra.
5. Gli oggetti di scena
Le lunghe mani che Maria Luisa Abate ci consegna, a noi, una decina di giovani allievi seduti a
gambe incrociate, dispersi in una sala del palazzo comunale di Volterra, con il caldo dell'estate e la
stanchezza accumulata in giorni folli di training e spettacoli, sembrano pesantissime, inutilizzabili.
Sono fatte di legno, non di plastica come ci saremmo aspettati guardando le foto. E sono disegnate
davvero, non stampate, ma dipinte sul legno. Abbiamo imparato le prime battute della lettera che
Lady Macbeth riceve dal suo sposo lontano, abbiamo riscritto, puntato, letto, memorizzato,
cantato, urlato, mimato e pensato quelle parole, le abbiamo svuotate, accartocciate, maltrattate e
infine dimenticate. Ed ora, di spalle gli uni agli altri, dobbiamo farle recitare a due pezzi di legno
intagliati. Imparo così che la forza di un oggetto inanimato è data dall'intensità con cui io voglio
che si muova. Imparo che il vero problema non è un gap espressivo, ma la volontà di uscire fuori
di sé, smettere di essere in noi ed entrare in sintonia, in vibrazione con l'oggetto. Per impararlo
dovevamo fallire, posare a terra quelle mani giganti, con le spalle indolenzite e i crampi alle
braccia, sospendere il nostro esperimento con la promessa di ripassare più tardi, e cominciare a
picchiare le nostre mani rattrappite sulla pelle di vecchi tamburi. Il solo modo di farli davvero
suonare è far vibrare il battente: arrivare già vibrando e immettere quella vibrazione nell'oggetto.
Ogni materiale ha la sua vibrazione, bisogna avere la pazienza e l'ascolto per imparare a
riconoscerla ed entrare in sintonia con essa, come fanno i bravi burattinai. E allora il corpo saprà
trasformare quegli oggetti da prolungamenti a protesi di se stesso.
6. I costumi
Quanto detto finora per gli oggetti di scena vale anche per i costumi, proprio perché spesso i
materiali utilizzati sono rigidi, delle vere macchine-costume (ricordiamo le lotte di Carmelo Bene
con gli oggetti, i costumi, le armature).
Daniela Dal Cin, artista visiva della compagnia, spiega che la peculiarità di tutti i costumi, anche i
25
luglio-dicembre 2009, p.69
V. Valentini, Mondi, corpi, materie , Mondadori, Roma, 2007, p.136
9
più semplici, è la loro capacità di trasformarsi insieme all'attore. Prendendo come esempio il
Vortice del Macbeth, in un primo momento la lunga parrucca e la pesante corona che i capelli
sintetici stessi formano sulla testa di Marco Isidori, celano completamente il corpo dell'attore, e
quindi la sua sessualità (è uomo o donna? Lord o Lady?), impediscono la mobilità dell'attore, ma
contemporaneamente conferiscono a questa misteriosa figura un carattere di femminilità, come la
sottoveste nera che indossa: in questo modo il femminile, la Lady, è indicata dal costume, mentre
il suo essere un uomo, il suo corpo di sesso maschile, viene usato per l'interpretazione del Lord.
Già dallo studio del costume quindi possiamo capire l'interpretazione che il gruppo ha voluto dare
della tragedia shakespeariana: lui/lei si compenetrano. Lei è la sua anima nera, lei lo spinge alla
realizzazione di un'ambizione che è già dentro di lui, che lui stesso non vorrebbe esteriorizzare
razionalmente, ma che lo spinge suo malgrado a scrivere la lettera da cui tutto ha inizio.
La decisione è presa in poco tempo: l'assassinio si farà. E allora il coro dalle lunghe mani di legno
e dalla divisa grigia da operaio si spoglia, rimanendo vestito solo di luce: tante v fosforescenti che
illuminano da dentro la scena. «La nudità indica la barbarie, comunica un senso di allarme al
pubblico: è un momento di svelamento, di passaggio. Viene dal sacerdote che si spoglia dei suoi
abiti rituali.»26
7. La luce
Le v fosforescenti del coro del Macbeth ci offrono la scusa per parlare della luce utilizzata negli
spettacoli. Curioso è che la stessa definizione: “luce da ring”, sia stata utilizzata sia da Brecht che
da Daniela Dal Cin. Una luce che non crei atmosfera, quindi, che non accarezzi o seduca lo
sguardo del pubblico, ma che mostri il teatro per quello che è. Le sorgenti luminose dovevano
essere visibili sui palcoscenici di Brecht; su quelli dei Marcidos sono poste sui corpi degli attori, o
comunque all'interno della scena, e vengono utilizzate dagli attori stessi, spostate, usate per
abbagliare o nascondere. Emblematico in tal senso il monologo finale di Clitemnestra (da Una
giostra: l'Agamennone), in cui l'Isidori è illuminato solo dai due anelli di luce della Bambina.
Unica eccezione a quanto detto finora si trova nel Vortice del Macbeth: alla fine di tutta la
tragedia, infatti, il castello a due piani che ospitava il pubblico e la rappresentazione si illumina
improvvisamente dal di fuori, lasciando entrare i colori e i disegni provocatori che occupano
l'intera superficie esteriore del castello e inondando il pubblico: ormai anch'esso è stato inghiottito
dal vortice.
Vincitrice del premio Ubu nel 2009 per lo spettacolo “Ma bisogna che il discorso si faccia” tratto
dall’ “Innominabile” di Beckett e del premio Ubu 2003 per lo spettacolo Bersaglio Molly Bloom
tratto dall’ “Ulisse” di Joyce, Daniela Dal Cin è una delle anime fondamentali dei Marcidos.
Creatrice dei costumi, come delle scenografie degli spettacoli della compagnia, spiega che
rivestire il doppio ruolo di costumista-scenografa è per lei qualcosa di naturale perché costumi e
scenografia devono essere partoriti da un unico pensiero: fanno parte della stessa interpretazione
drammaturgica. La riuscita del lavoro, secondo lei, si concretizza proprio nella fusione
dell’attore/essere vivente con l’oggetto/macchina.
La creazione della scenografia va di pari passo con la creazione dello spettacolo stesso: «la prima
decisione avviene in ambito di regia, dove si decide se utilizzare il palcoscenico all’italiana, con la
platea separata dal palco, o si ricerchi un contatto più ravvicinato tra attore e spettatore…
naturalmente è questa seconda ipotesi che ci interessa maggiormente»27
26
27
Dalle lezioni di D. Dal Cin durante il Volterrateatro 2009, dai miei appunti personali.
http://www.teatro.org/rubriche/interviste/un_viaggio_nelle_strepitose_scenografie_di_daniela_dal_cin_23072
10
Quindi, come l'interpretazione attoriale, anche l'interpretazione visiva di un'opera nasce da un
profondo studio preliminare, che porta i vari interpreti a maturare una visione poetica, e poi
materiale, di essa.
Daniela parte dai bozzetti preparatori, che diventano vere e proprie opere d'arte in graffite,
tempera, e poi legno, tessuto, etc. Importantissimo è anche la scelta del materiale utilizzato, la sua
comprensione profonda prima di farlo diventare oggetto e di farlo sposare con altri materiali.
Daniela Dal Cin non ama i tramiti, ma la compenetrazione tra materiali: per questo preferisce
fonderli, cucirli tra di essi. Una lavorazione artigianale che permetta ai materiali di diventare un
unico oggetto, agli oggetti di diventare corpo esteso dell'attore.
Brecht voleva che i cambi di scena fossero a vista: quindi dovevano essere provati, durare al
massimo due minuti.
Daniela Dal Cin definisce gli interpreti degli attori-macchinisti. I cambi scena di cui parlava
Brecht diventano una ricostruzione della scena dal nulla: «Gli oggetti scenici vengono creati in
scena, hanno una loro vita: una nascita, uno sviluppo e una morte. È il fascino di qualcosa che non
esiste, che viene costruito in scena, che viene utilizzato a volte in modo assurdo rispetto alla sua
forma, e poi disfatto.»28 Esempio emblematico è la costruzione della macchina delle streghe nel
Vortice del Macbeth: è una macchina pesantissima, in cui non è necessario solo grande dispendio
di energia da parte degli attori, ma sincronizzazione millimetrica e concentrazione assoluta. Al
corpo messo in pericolo nella costruzione della macchina: è quel « “rischio personale del
perfomer” che accomuna la performance ai riti di iniziazione»29 l'espressione più estrema sono
forse le performance di Chris Burden.
8. La scenografia
Per quel che riguarda le scenografie vere e proprie, potremmo definirle delle variopinte e
incredibili mouse trap, in cui i topi da catturare sono non solo gli attori, ma anche gli spettatori.
Ho già parlato del palazzo del Vortice del Macbeth, basterà citare il teatro ovale smontabile con la
feritoia di venti centimetri da cui spiare le due serve del primo Studio per le serve, una danza di
guerra, un recinto che si chiude per un rituale a carattere circense in Una giostra: l'Agamennone,
un'arena che si trasforma in un ring, o in una gabbia da zoo minacciosamente aperta in A tutto
tondo, o ancora l'enorme tubo catodico di Palcoscenico ed inno, i cui punti luminosi sono sostituiti
da centinaia di bottoni colorati per intuire la meticolosità a tratti folle con cui queste macchine
metamorfiche sono costruite. Daniela Dal Cin parla di un luogo ideale ma concreto, simbolico ma
reale: i colori da pop art, o decadenti, gli odori, i sedili, le feritoie da cui spiare, i lampadari e le
lampadine, le botole sopra le teste degli spettatori e i corridoi sotto i loro piedi: l'aggressione deve
essere totale, aspettata ma imprevedibile, temuta ma agognata. Come insegna Schilling, nel teatro
dei Marcidos riconosciamo «il paradigma artaudiano che fa abbandonare agli spettatori la loro
posizione sicura: anziché stare di fronte allo spettacolo come osservatori, essi sono accerchiati
dalla performance, condotti nel cerchio dell'azione che dovrebbe portarli a riappropriarsi della loro
energia collettiva»30
28
29
30
Dalle lezioni di D. Dal Cin durante il Volterrateatro 2009, dai miei appunti personali.
V. Valentini, Mondi, corpi, materie , Mondadori, Roma, 2007, p.66
A. Jovićević, “Nuove prassi della regia nel teatro contemporaneo e nelle arti performative”, da
Biblioteca Teatrale, I modi della regia del nuovo millennio, Bulzoni Editore, Roma, 2009,p.61
11
9. Marco Isidori
Sarebbe impossibile parlare dei Marcidos senza parlare di lui.
Prima poeta che regista (e qui il discorso dovrebbe allargarsi a quella nuova metodologia di regia,
o di non-regia a cui si è assistito negli ultimi decenni: qui il regista c'è, ed è forte, ma non è
veramente un regista teatrale, appartiene a quel gruppo di artisti che ha «sperimentato direttamente
il lavoro di regia, che è metodologicamente diverso dalla regia tradizionale»31), spiega: «I cardini
della nostra ricerca sono sempre stati la Parola, il Verbo, il Significato, la Significazione: tutto
secondo me è racchiuso nella Parola»32
I testi messi in scena sono “pretesti”: a volte nati dalla mano dell'Isi, altre volte “tradotti” da essa
(nel caso del Macbeth, una sola frase è rimasta dall'originale shakespeariano: “se il fato mi vuole
re, ebbene, il fato può incoronarmi senza che io muova un dito”, perché «non si poteva dire meglio
di così»33), il testo rimane una prima risposta all'esigenza di dire.
La scelta avviene tramite un riconoscimento: quel testo è in grado di rispondere a una particolare e
contingente necessità espressiva, oppure, leggendolo, si ha una folgorazione sonora. Ma in ogni
caso, in esso deve essere contenuto l'autobiografico e l'universale.
Ciò che unisce personalità diverse in uno stesso gruppo è l'esigenza di dover dire qualcosa, il
bisogno feroce di comunicare, ma la sensazione netta di desiderare qualcosa di impossibile. «Per
entrare nel nostro gruppo, bisogna avere qualcosa di speciale»34, e non si parla di capacità
artistiche. Un teatro così sceglie e viene scelto. È il «senso di segretezza e di esclusività che
circola all'interno degli appartenenti alla tribù»35che troviamo in tanti gruppi contemporanei, come
quello del Teatro Valdoca.
Si parla di vocazione, di fiducia assoluta. Entrando nel gruppo si smette di avere un “privato”: il
maestro si fa carico dell'allievo e l'allievo sceglie di fidarsi di lui. Completamente. Quello che
inizia è un percorso di liberazione: entrando in sintonia con l'allievo, il maestro ne coglie le
deficienze, spingendolo a riempirle, le capacità, dandogli i mezzi tecnici per affinarle, e i blocchi,
liberandolo da essi.
L'utopia è di rendere il performer un uomo libero.
La dedizione che il gruppo chiede in cambio è completa: giorni e giorni di preparazione fisica,
vocale, mesi di stenti, secondi lavori, e poi tournée fatte al buio, senza la certezza di una buona
critica, la certezza di essere capiti. Molti hanno scritto sulla volontà implicita di alcuni lavori ai
margini della sperimentazione di non esserlo affatto.
Ciò che entra in ballo, secondo il mio parere di studentessa, è la paura di qualcosa che non si
capisce, ma che ci scuote. Dopo aver assistito a una loro rappresentazione ho visto facce annoiate,
facce confuse, a volte davvero nauseate: ma mai compiaciute. Siamo lontanissimi
dall'atteggiamento che quelle stesse persone hanno davanti a una rappresentazione di teatro
classico, o anche a quello che hanno davanti al cinema o alla televisione. Il teatro ha parlato loro.
E loro hanno ascoltato, il loro corpo ha risposto a una provocazione fortissima. Sono persone che
hanno reagito.
Persone capaci di reagire.
31
32
33
34
35
A. Jovićević, “Nuove prassi della regia nel teatro contemporaneo e nelle arti performative:
Estetica o Inestetica”, p.4
M. Isidori, intervista di Christopher Cepernich, Corriere dell'arte, 22 giugno 1996
Dalle lezioni di M.L.Abate durante il Volterrateatro 2009, dai miei appunti personali.
Dalle lezioni di M.L.Abate durante il Volterrateatro 2009, dai miei appunti personali.
V. Valentini, Mondi, corpi, materie , Mondadori, Roma, 2007, p.28
12
10. Quale pubblico?
Brecht parlava al popolo, il suo intento era quello di risultare comprensibile per le grandi masse.
Questa popolarità nei Marcidos sembra essere abbandonata: se non ci sono più tante persone
disposte ad andare a teatro, ad ascoltare, se la collettività si è frantumata, a rimanere è il
messaggio, anche per una sola, singola persona: Il cielo in una stanza è uno spettacolo di dieci
attori per un unico spettatore, che viene invitato, all'ingresso del misterioso appartamentino sui
tetti di Torino, a salire in sella a una tigre (sotto il costume, due attori-portantina) e a cavalcarla
lungo un percorso che lo porterà a vedere cose incredibili, ultima delle quali, ma non meno
shockante, l'immagine di se stesso in groppa a due esseri umani vestiti da tigre, riflessa in uno
specchio scoperto a tradimento.
Ciò che rimane, in questi brandelli teatrali, è il messaggio, sempre lo stesso: è solo cambiato il
modo di codificarlo. In Madre Coraggio i personaggi venivano schiacciati da circostanze storiche
che non capivano, che, dalla loro umile posizione sociale, non riuscivano a decodificare: Madre
Coraggio non capiva, ma il pubblico doveva assolutamente capire. Ho cercato di mostrare come
questo essere schiacciati dalla storia nei Marcidos diventi immagine manifesta, esperienza diretta,
sia del performer che dello spettatore.
La “dottrina dell'attività” di cui parlava Brecht non è stata abbandonata: l'attività, o meglio,
l'iperattività di questo teatro, è la risposta a un mondo che sembra essersi immobilizzato. Il
capitalismo viene fatto percepire come eterno, nessuna rivoluzione è ormai ammessa come
possibile o apportatrice di miglioramento. Lo stesso scorrere del tempo sembra non essere
ammesso da una società ossessionata dalla giovinezza, dalla cultura di un corpo a cui non viene
permesso di divenire altro da ciò che era nel momento del suo massimo splendore. Divenire: la
vita stessa si basa sul ciclo della nascita e della morte e ogni cultura umana ha cercato di inglobare
questa legge nel proprio pensiero, esorcizzando una paura insita nel nostro essere: Brecht
rispondeva a questa legge eterna «chiamandoci ad abbracciare il dolore di quel divenire, di quella
caducità, per realizzare le nostre possibilità umane più gratificanti.»36
I Marcidos rispondono esplodendo: «Quello che voi vedete, l'impatto energetico, è il nostro
messaggio di resistenza. Farlo vedere agli altri vuol dire scuoterne in qualche modo l'intelligenza
emotiva e farli reagire»37. La risposta di questo particolare gruppo teatrale è quella di mostrare
impietosamente ciò che l'uomo contemporaneo finge di aver dimenticato, magari in modo
estremo, esasperato, ma perché è l'uomo di oggi ad essere esasperato, compresso, bloccato,
proprio come gli attori nei loro bustini-costumi-macchina.
L'esperienza collettiva di cui parlava Brecht, la società intera a cui egli si rivolgeva, si è dilaniata e
chiusa in microcosmi, gruppi come tribù, come “sette”, come vengono a volte definiti gruppi
teatrali di ricerca come quello che ho deciso di analizzare. Gruppi esclusivi, certo, ma che non
hanno paura di aprirsi, mostrarsi, parlare, farsi specchio, a volte non così deformante, della società
che li accusa. Ecco allora che il teatro è ancora ciò che era millenni fa: un microcosmo dell'intera
comunità. Come osservava Jameson: «la promessa, l'esempio di una cooperazione utopica […] è
una lezione brechtiana il cui piacere tornerà sicuramente nelle prossime generazioni future, per
quanto fuori moda essa possa sembrare ai contemporanei, nell'attuale era del mercato.»38
36
37
38
F. Jameson, “Brecht e il metodo”, Cronopio, 2008, p.13
Maria Luisa Abate, Intervista per Krapp's Last Post, 2009
F. Jameson, “Brecht e il metodo”, Cronopio, 2008, p.41
13
Conclusioni
Facendo una sintesi, direi che partendo dai punti in comune che spero di aver mostrato tra Brecht e
il gruppo sperimentale dei Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa, tenendo conto di come gli anni
e le esperienze artistiche mondiali che intercorrono tra l'uno e l'altro, i diversi luoghi di
appartenenza e una situazione storica totalmente mutata abbiano influito in maniera determinante
sul loro personale modo di intendere il teatro, l'atteggiamento di fondo verso questa arte, il suo
valore educativo, la sua funzione di “sveglia” per la società, di specchio parlante, rivelatorio, sia
essenzialmente lo stesso.
Chiudo con una frase di Jameson, di nuovo, che più di ogni altra mi ha spinto verso questa ricerca:
«correre fianco a fianco al cambiamento, raggiungerlo, seguirne le tendenze così da cominciare a
deviare la sua rotta in direzione della propria: questa è la pedagogia brechtiana.»39
39
F. Jameson, “Brecht e il metodo”, Cronopio, 2008, p.44
14
Bibliografia
M. Baravalle, L'arte della sovversione, Manifestolibri, Roma, 2009
L. Bentivoglio, Pina Bausch e il Tanztheater Wuppertal: un lungo viaggio intorno al corpo e intorno al mondo
O.P. Di Pino, introduzione per I Marcido in mostra: 1986-2006 ,promotrice delle Belle Arti di Torino, 2006
O.P.Di Pino, recensione dello spettacolo Musica per una Fedra moderna, apparsa sul Manifesto, 1992
O.P.Di Pino, recensione dello spettacolo Una giostra, l'Agamennone, apparsa sul Manifesto, 1988
O.P.Di Pino, recensione dello spettacolo Happy Days in Marcido's Field, apparsa sul Manifesto, 1997
S. Chinzari, P. Ruffini, Nuova scena italiana, Castelvecchi Editoria, 2000
F. Ewen, Bernoldt Brecht, La vita, l'opera, i tempi, Universale Economica Feltrinelli, 2005
M. Fazio, Regie teatrali, Laterza, Roma, 2006
J. Grotowskj Per un teatro povero, Bulzoni, Roma, 1993
F. Jameson, Brecht e il metodo, Cronopio, 2008
A. Jovićević, Nuove prassi della regia nel teatro contemporaneo e nelle arti performative, da Biblioteca Teatrale, I
modi della regia del nuovo millennio, Bulzoni Editore, Roma, 2009
A. Jovićević, Recitazione e non-recitazione (saggio in via di traduzione)
H. Lehmann, Segni teatrali nel teatro post-drammatico, da Biblioteca Teatrale, Bulzoni editore, aprile-dicembre 2006
C. Martin, H Bial, Brecht Sourcebook, Routledge, 2000
A. Somaini, Ejzenstein, Piccola Biblioteca Einaudi, 2011
V. Valentini, La regia nel secondo Novecento: aporie e discontinuità, da Biblioteca Teatrale, luglio – dicembre 2009
V. Valentini, Mondi, corpi, materie, Mondadori, Roma, 2007
Maria Luisa Abate, Intervista per Krapp's Last Post, 2009
Recensione di A. Paesano, apparsa su La repubblica, del 17 maggio 2009
M. Isidori, intervista di Christopher Cepernich, Corriere dell'arte, 22 giugno 1996
15
Webgrafia
http://www.teatro.org/rubriche/interviste/un_viaggio_nelle_strepitose_scenografie_di_daniela_dal_cin_23072
http://www.retididedalus.it/Archivi/2011/giugno/TEATRICA/1_marcido.htm
16