I “MARCIDO MARCIDORJS E FAMOSA MIMOSA” E BRECHT Chiara Nicolanti 1172161 Università di Roma “La Sapienza” Corso di Laurea Magistrale in Spettacolo Teatrale Cinematografico Digitale: Teorie e Tecniche TEORIE E PRATICHE DELLO SPETTACOLO CONTEMPORANEO, B Indice Introduzione 1. 2. 3. 3.1 3.2 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. Il gruppo Vocazione didattica La recitazione epica e i Marcidos La dizione La voce: la musica Il corpo dell'attore Gli oggetti di scena I costumi La luce La scenografia Marco Isidori Quale pubblico? Conclusioni 1 Introduzione Il modo migliore per intuire quanto del pensiero di Brecht sia confluito in un gruppo teatrale torinese poco conosciuto ai più, come quello dei Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa, è forse quello di partire da una frase di uno dei componenti storici di questo gruppo, Maria Luisa Abate: «È una necessità feroce di appartenenza che il teatro deve cercare: è l'altro che noi cerchiamo, è il pubblico che ci interessa. Quella è la nostra attività principale. Forse è pedagogia anche, ma non vuole essere saccente. È far vedere che c'è una possibilità, che si può reagire.»1 È questa urgenza, questa voglia non utopica di mostrare al pubblico le catene in cui è imbrigliato, questo rivolgersi a un pubblico sveglio, attento, reso acuto da una “luce da ring” che non lascia ombre, non crea atmosfere, questo mostrare al contrario: prima l'effetto, per poi risalire alla causa, la ribellione ad essa o, al contrario, la mancanza di ribellione che porta alla morte, sociale e individuale. Tutto questo ci riporta a Brecht, ma anche agli anni che ci dividono da lui. Anni che sono corsi in fretta, carichi di accadimenti shockanti, molti dei quali ancora non assimilati dalla nostra coscienza storica. I Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa lasciano molto fuori dalla porta della loro soffitta (perché è proprio da lì che è cominciato il loro percorso), decidendo di compiere un lavoro di inclusione/esclusione molto forte: lasciano fuori la tecnologia, ma di essa mantengono le forme, il ritmo, l'aggressività. Il loro è un percorso che parte dal prodotto finito, impacchettato e apparso come per magia tra le mani dell'uomo ridotto a consumatore per arrivare alla materia prima: il materiale grezzo che deve ancora prendere forma, essere vestito di un costume, assumere una sua propria funzione che sarà la mano dell'uomo (non più vittima passiva) ad attribuirgli. Un uomo artefice del proprio destino. Utopia? Non è poi un caso che quegli stessi materiali si stringeranno a creare gabbie, architetture che sembrano macchine di tortura, che finiranno per soffocare quegli stessi corpi che hanno sudato per costruirle. Dalla parte del pubblico, ciò che è richiesto come necessario è un occhio vigile, attento. E' un pubblico di individualità che scelgono di guardare, scelgono di subire uno spettacolo che è un'invasione. Il mio personale lavoro sarà volto ad identificare quali dell' «intera serie di possibilità verso le quali possiamo aspettarci che l'opera di Brecht ci spinga »2 sia stata imboccata e percorsa fino all’estremo dai Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa. 1. Il gruppo Questo gruppo teatrale nasce nel 1984, dall'incontro di tre persone, un poeta, una pittrice e un'attrice di teatro classico. Diventeranno il regista-autore, la scenografa-costumista e la voce di un gruppo che arriverà ad avere allievi e critiche asprissime, riconoscimenti e indifferenza. Sono passati quasi trent’anni dal loro primo lavoro, “Studio per le Serve, una danza di guerra”(1986), ma i Marcidos rimarranno sempre fedeli a un loro stile, o meglio a una loro idea di 1 2 Maria Luisa Abate, Intervista per Krapp's Last Post, 2009 Fredric Jameson, Brecht e il metodo, Cronopio, 2008, p.47 2 teatro, a una risposta tutta personale a una domanda urgente, urgentissima, di resistenza. Perché se la rivoluzione non è più possibile, la resistenza lo è, una resistenza che si trasforma sul palco in atti suicidi a volte, in una denuncia cruda della condizione dell'uomo contemporaneo, della sua intelligenza messa a tacere, quasi ipnotizzata da un'apatia generale, il torpore di un corpo sazio, di una mente tenuta spenta da una pubblicità ininterrotta. I marcidos decidono di aggredire il loro pubblico, farlo stare scomodo, a disagio, nella speranza di risvegliarlo, forse. Nel panorama generale del nostro teatro possono riconoscersi due strade maestre: quella imboccata da compagnie che sembrano affette da una sorta di amnesia completa per quel che riguarda la storia del teatro degli ultimi cinquant'anni; e l'altra, quella percorsa da gruppi che, sebbene molto eterogenei tra loro, hanno fatto propria quella storia, continuando sulla linea di quelle personalità che avevano saputo dare nuova linfa al teatro, esasperando determinate ideologie, o decidendo di superarle, ignorarle magari, ribaltarle, svuotarle, approfondirne solo una determinata sfumatura, ma agendo essendo coscienti, presenti, vigili... le stesse caratteristiche che vengono richieste ai nuovi spettatori di questo nuovo teatro. Nel teatro dei Marcidos si possono riconoscere eco del teatro della crudeltà di Artaud, dello straniamento di Brecht, ma anche dell'eccezionalità dell'esperienza di Carmelo Bene, i colori della Pop Art, l'esclusività e la segretezza per gli appartenenti alla tribù, al gruppo, stessa atmosfera respirata nel Teatro Valdoca, il linguaggio verbale ridotto a materia di Kantor, e ancora la reificazione del corpo, la sua importanza esasperata e la sua mortificazione, costrizione, che troviamo in tanto teatro contemporaneo. 2. Vocazione didattica Essenziale in tutto il teatro di Brecht è la sua vocazione didattica. Cicerone parlava dell'eloquenza descrivendo l'oratore perfetto come colui che fosse capace di docere, delectare e movere, e sappiamo quanto questo paradigma abbia influito su tutta l'arte europea, e in particolare sul teatro. Il termine problematizzato da Brecht è il terzo della triade ciceroniana: movere. Cercare di comprendere come fosse praticamente, sul palcoscenico, il teatro di un uomo che non è mio contemporaneo è sempre un azzardo. Rimangono le descrizioni, certo, gli scritti, ma la peculiarità del teatro, la sua magia, è proprio il suo consumarsi in un momento, quel momento. E allora, da studentessa, ciò che mi ha colpito è stato l'ammonimento di tanti testimoni, critici, studiosi, che avvertono l'uomo del futuro di non pensare alle sue opere come noiose, distanti: anche Brecht voleva movere, ma il suo obiettivo non erano i sentimenti del pubblico, ma il suo spirito critico, la sua intelligenza. Scavalcare la suggestione, per arrivare alla ratio: «la trasformazione di un individualista in un essere sociale»3 La consapevolezza permette all'uomo il cambiamento, perché è dalla conoscenza che nasce il coraggio inteso come atteggiamento generale alla propria vita, privata a sociale: Badiou parla del teatro di Brecht come terapia contro la vigliaccheria nei confronti della verità.4 Un uomo nuovo, per una nuova società. Questo obiettivo è perseguito tramite un teatro diverso anch'esso; il primo strumento di cui decide di servirsi, il primo strumento elaborato e continuamente messo a punto è la tecnica dello 3 4 F. Ewen, “Bernoldt Brecht, La vita, l'opera, i tempi” Universale Economica Feltrinelli, 2005, p.159 A. Jovićević, “Nuove prassi della regia nel teatro contemporaneo e nelle arti performative”, da Biblioteca Teatrale, I modi della regia del nuovo millennio, Bulzoni Editore, Roma, 2009,p.38 3 straniamento. E lo straniamento è attivato grazie a espedienti diversi, piccoli semi che negli anni hanno germogliato e dato vita a fiori dalle forme e dai colori più eterogenei. 3. La recitazione epica e i Marcidos Primo espediente fra tutti, l'uso di una recitazione epica. Questa, come sappiamo, era fondata sul “principio gestuale” dello stile epico. Il termine gestus cresce e acquista valore nel tempo: usato per la prima volta da Brecht nel 1920, arriverà ad assumere il suo particolare significato una decina d'anni più tardi. Esso può essere spiegato come «il processo totale, l'insieme di tutti i comportamenti fisici che l'attore assume quando ci sta mostrando il personaggio in scena. È il corpo con i suoi movimenti, la faccia con le sue espressioni, la voce con i suoi volumi e le sue inflessioni, il fluire del discorso, con i suoi accenti e il suo ritmo, il costume, il trucco, gli oggetti di scena e qualsiasi cosa l'attore utilizzi per arrivare ad un'immagine completa del ruolo che sta recitando»5 Benjamin usa il termine tableau, o frame congelato, prendendo il cinema come termine di paragone. E proprio dal cinema viene a Brecht l'esempio perfetto di gestus: Charlie Chaplin e il suo vagabondo dal viso di cera. Il personaggio di Chaplin arriva ad incarnare il gestus perché egli è un essere sociale: un emarginato, escluso dalla società, inconsapevolmente schiacciato da essa. Ma veniamo ai Marcidos: le foto sono testimoni di quanto quell'espressione di cera non si sia ancora sciolta dai loro volti. La loro mimica facciale, esagerata a volte, non corrispondente al linguaggio, non solo non permette l'immedesimazione, ma ci fa intuire quanto il personaggio si sia allontanato dall'attore, e quanto quest'ultimo, a sua volta, si sia allontanato dal pubblico. Vertici di un segmento creato da giustapposizioni, per arrivare da un capo all'altro i Marcidos procedono per aggressioni: ogni elemento della loro performance è volto ad occupare quello spazio, quella distanza, e non per azzerarla, ma per farla sentire, esplicitarla. Da Brecht a Pina Bausch, il gesto rimane un indicatore imprescindibile, e i Marcidos, pur mantenendo l'intento didattico brechtiano ne rifiutano il realismo, trasformando quel gesto, come aveva fatto la grande danzatrice-coreografa, in «un modo di guardare alla radici di pulsioni, desideri e angosce personali»6. 3.1 La dizione Lo straniamento di cui parlava Brecht rendeva differente qualcosa di noto, di quotidiano, permettendoci di comprenderlo, percepirlo, in un modo diverso: è il caso della voce, o ancor prima, della dizione, utilizzata dai Marcidos. Il termine dizione è inteso in ambito recitativo soprattutto come il modo corretto di pronunciare i fonemi che formano una parola, ma non si deve dimenticare che lo stesso termine va ad indicare l'unità minima dotata di significato in un discorso: la parola. 5 6 C. Martin, H Bial, Brecht Sourcebook, Routledge, 2000, p.43 L. Bentivoglio, Pina Bausch e il Tanztheater Wuppertal: un lungo viaggio intorno al corpo e intorno al mondo, p.15 4 Ogni parola ha la sua storia, ce lo insegnano discipline come l'etimologia, ma l'uomo contemporaneo sembra aver perso quella connessione tra il suono e l'oggetto: Maria Teresa Abate, nel seminario tenuto nell'ambito del Volterrateatro 2009, raccomandava a noi studenti proprio di recuperare quella dizione tramite un approccio straniato alla parola: «affronta la parola come se fossi straniera, non dare nulla per scontato: la parola è sconosciuta.»7 Bisogna porsi ad essa come se si dovesse tradurla da una lingua antica, ricordando che «la parola ha già in sé il proprio senso. Il nostro linguaggio è la più grande prova artistica della nostra civiltà. È l'esteriorizzazione dell'esperienza attraverso un suono, che pian piano si è evoluto fino alla parola. Nella parola c'è già la cosa!»8 Dalla parola, all'espressione fisica di essa: la voce. 3.2 La voce: la musica «Punto di partenza è la parola assoluta. Pura phonè che imbriglia, sbeffeggia o amplifica la corporeità dell'attore: l'azione si traduce in una coreografia precisissima fatta di vocalità caustica per le sue vertigini metriche e musicali, di partiture fisiche e di congegnerie scenografiche spettacolari, provocatoriamente crudeli nel loro essere metafora poetica.»9 La voce diventa uno strumento in cui far risuonare quella phoné, ma non è una voce naturale, ma deformata, truccata, costruita. Brecht utilizzava degli interventi musicali: le sue songs spezzavano il flusso dell'azione in modo netto, uno strumento musicale veniva fatto scendere dal soffitto, l'orchestra veniva illuminata a giorno e gli attori cominciavano a cantare «parole intrise di sferzante ironia […] a contrasto con l'atmosfera melodica e piacevole della musica »10 I Marcidos riprendono questo modo di servirsi della musica come elemento straniante e lo utilizzano come regola di base: tutta la loro performance potrebbe essere descritta come una grande partitura musicale, la cui stridente sinfonia nasce dalla giustapposizione di tutti gli elementi della scena. Per capire bene a cosa mi sto riferendo mi devo rifare di nuovo alle lezioni di M. T. Abate, e al modo in cui raccomandava a noi studenti di approcciarci a un qualsiasi testo. La tentazione, per un giovane attore, è quella di andare subito a cercare la propria interpretazione di un testo teatrale, invece, secondo il modo di lavorare dei Marcidos, deve essere affrontato come una poesia: di esso si deve innanzitutto fare l'analisi logica, poi va riscritto di proprio pugno, a penna, in stampatello, e versificato. Come si fa a riscrivere in versi un testo di prosa? Usando la pausazione già presente in esso. È un lavoro di «smembramento e ricomposizione»11 (e tanto della concezione di «montaggio e organicità»12 di Ejzenštejn può essere ritrovato nel teatro dei Marcidos). Una volta versificate, quelle frasi vanno lette: dalla prima sillaba all'ultima, senza pause, come se fosse una lunghissima unica parola, semplicemente una catena di suoni. Ma ben presto ci accorgeremo che la nostra voce tende a soffermarsi su determinate sillabe: sono le toniche. Riconoscerle è essenziale, perché sono i punti di vibrazione della frase. Ogni parola ha il suo punto di vibrazione, e dopo quel punto la voce cambia, come il ritmo: è una dinamica 7 8 9 10 11 12 Dalle lezioni di M.L.Abate durante il Volterrateatro 2009, dai miei appunti personali. Dalle lezioni di M.L.Abate durante il Volterrateatro 2009, dai miei appunti personali. S.Chinzari, P. Ruffini, “Nuova scena italiana”, Castelvecchi Editoria, 2000 p.54-55 M Fazio, “Regie teatrali”, Laterza, 2006, p.154 A. Somaini, Ejzenstein, Piccola Biblioteca Einaudi, 2011, p. XIII V. Valentini, “La regia nel secondo Novecento: aporie e discontinuità”,da Biblioteca Teatrale, luglio - dicembre 2009, p. 60 5 proporzionale. Usando gli accenti musicali, diremo che le sillabe che precedono la Tonica hanno degli accenti preparatori all'accento forte (la tonica, appunto), in cui la voce deve affondare per poi risollevarsi, negli accenti deboli delle sillabe seguenti. Questo tipo di sperimentazione sull'andamento musicale della parola, poi sulla frase, poi sul testo tutto intero permette al performer di ritrovare la musica del poeta (e ricordiamo che Marco Isidori è, prima che regista, poeta). Le vocali quindi sono le nostre note, mentre le consonanti corrispondono ai comma musicali, a quei momenti di passaggio che ci permettono di far suonare una vocale e poi l'altra. Lo spazio che separa una parola dall'altra è una pausa: pausa intesa anch'essa in senso musicale, con una precisa durata. Ora che abbiamo capito di cosa è fatto il materiale che ci accingiamo ad utilizzare possiamo scriverlo sul nostro personale pentagramma: possiamo cominciare a far vibrare i nostri risuonatori... insomma, possiamo cantare. È la modulazione della parola, i suoi punti di vibrazione, che permettono al performer di entrare nel pubblico, di farlo vibrare, estendendo quell'energia fino ad esso: è, di nuovo, un fatto fisico, materico, meccanico: «canta le parole, non usare la tua finta psicologia, non far finta di essere quel personaggio. Usa la parola e sarai più Medea che interpretandola »13 L'interpretazione, l'immedesimazione, viene quindi declassata, se non annullata: la parola saprà suggerire all'interprete un modo tutto diverso di essere pronunciata. Alessandro Paesano osserva che quello dei Marcidos è «Non un teatro di attori ma un teatro della parola detta incarnata da una complessa macchina scenica della quale l'attore è solo una delle componenti »14 Tutto questo esercizio è solo la base da cui l'attore potrà partire per iniziare a giocare, a sorprendersi. Quello che arriverà in scena sarà a volte una declamazione volutamente enfatica, melodrammatica, sostenuta da un'oratoria ridondante se non grottesca, deformata, sovraccarica di pathos, debordante, altre volte invece questo processo sarà condotto all'estremo, fino all'incrinarsi, l'incepparsi del meccanismo, fino alla frantumazione, all' esplosione di esso: «la frantumazione delle frasi, il dispersivo esibizionismo delle passioni, la sottolineatura isterica di ritmi e accenti, la sovrapposizione di tonalità e rumori trasformano il testo in una sorta di partitura futurista. Non a caso lo stesso regista, in veste di direttore d'orchestra, è in proscenio a governare questo magma vocale, accovacciato in una posizione quasi fetale.»15 Dicevamo che il nostro risuonatore naturale è la bocca, è quella che siamo abituati ad usare. Tramite dei training fisici si può però imparare a far risuonare casse diverse del nostro corpo. Molto di questo viene naturalmente dallo studio di Grotowski; addirittura molti degli esercizi fisici sembrano essere esattamente gli stessi di quelli che si possono osservare nelle registrazioni audiovisive dei training tenuti del maestro. Le vibrazioni si irradiano non solo nel nostro organismo, ma nella scenografia intera: il luogo funge anch'esso da risuonatore esterno, così come il corpo dello spettatore. 4. Il corpo dell'attore «Un'idea del teatro come sconfinamento dell'umano. I corpi, nelle composizioni e nei gesti tra coreografia e scultura, nelle esibizioni e nelle acrobazie circensi, sono già al confine tra l'uomo e la 13 14 15 Dalle lezioni di M.L.Abate durante il Volterrateatro 2009, dai miei appunti personali. Recensione di A. Paesano, apparsa su La repubblica, del 17 maggio 2009 O.P.Di Pino, recensione dello spettacolo Musica per una Fedra moderna, apparsa sul Manifesto, 1992 6 macchina, tra il corpo e la materia. I costumi […] rimandano a un intreccio dell'umano con il minerale, il vegetale, l'animale. […] Con questa ritualità stridente, rocciosa, enfatica, Marcido Marcidorjs aspira a una “opera d'arte totale” ossessiva e claustrofobica, in cui l'elemento umano resta angosciosamente sospeso tra la dannazione e la redenzione, tra l'annullamento nella materia e la sublimazione nello spirituale.»16 Molto si è detto sul ruolo che il corpo ha assunto nella società contemporanea e nel nostro teatro. Molto è confluito nell'uso che i Marcidos ne fanno in scena. Daniela dal Cin spiega: «Le mie macchine sceniche e i miei costumi sono un impaccio che deve costringere l'attore a tirare fuori il meglio di sé »17 Dalla costrizione all'esplosione: è un corpo in continuo cambiamento, un corpo che suda, si dimena, viene penetrato, cerca, anela una libertà che non esiste, che non è mai presente in scena. Penso a Heiner Muller, ai suoi rituali orgiastici di smembramento del corpo inteso come società, una società percepita come una prigione, e poi la rinascita nel “corpo grottesco”, umano e robotico. Quanta strada dai training di Grotowski, dalla marionetta di Mejerchol'd... La nostra società ha visto crescere a dismisura il numero delle malattie psicologiche legate alla non accettazione di un corpo che è sempre più concepito come un'appendice della propria mente. Le associazioni mediche parlano di vere e proprie epidemie di malattie legate a disturbi alimentari: anoressia e bulimia in primis. L'impossibilità di accogliere corpi esterni al proprio interno, il desiderio e la punizione, la guerra contro i propri istinti primari... tutto questo è entrato a far parte della nevrosi dell'uomo contemporaneo in una maniera così intima da non poter essere messa da parte. È una lotta continua alla ricerca del corpo perfetto, un corpo che non serve più ad esprimere, ma ha la semplice funzione di biglietto da visita. L'uomo contemporaneo ha smesso di sentirsi, per guardarsi. Allo specchio possibilmente. E allora qual è la strada? Come risalire dalla mente al corpo? Tutto questo sembra una contraddizione a quanto detto finora, all'attenzione tutta celebrale che Brecht esigeva dal suo pubblico. Ma la grande differenza è che, prima di parlare alla sua ratio, il teatro contemporaneo deve ricordare allo spettatore di essere un corpo: il teatro, tramite le sue provocazioni, cerca di rimettere in contatto lo spettatore con i suoi bisogni, risvegliando contemporaneamente il desiderio di combattere chi o cosa li ha inibiti. La memoria visiva di uno spettatore contemporaneo non può non correre, a questo riguardo, ai corpi contorti sul pavimento degli spettacoli di René Pollesch (guarda l'opera Pablo in der Plusfiliale). Come spiega Holmes nel suo saggio, con il nuovo millennio siamo davanti a «una vera e propria esplosione del feticismo della merce, sulla scala dei mercati globali e della velocità di reti e fibre ottiche»18 I performers appartenenti al gruppo dei Marcidos hanno corpi agili, la loro è una lunga preparazione, le coreografie si trasformano in alcuni momenti in vere acrobazie circensi, il ritmo è incalzante, non c'è spazio per l'errore, né per la fatica: spesso rappresentanti arti appartenenti ad un unico enorme organismo umano, lo spettatore può vedere quei corpi creare dal nulla scenografie spettacolari, o rimanere immobili, animati ma bloccati, può vederli imbracati in costumi sfavillanti, pop o animaleschi, o incontrarli nudi a pochi centimetri dal proprio naso. Accade così «uno spostamento della concezione della produzione di segni all'interno dell'opera. Non come latore di senso, ma nella sua fisicità e gestualità il corpo viene posto al centro»19: il corpo 16 17 18 19 O.P.Di Pino, recensione dello spettacolo Una giostra, l'Agamennone, apparsa sul Manifesto, 1988 Dalle lezioni di D. Dal Cin durante il Volterrateatro 2009, dai miei appunti M. Baravalle, L'arte della sovversione, Manifestolibri, 2009, Roma, p. 34 H. Lehmann, Segni teatrali nel teatro post-drammatico, da Biblioteca Teatrale, Bulzoni editore, aprile-dicembre 2006, p. 39 7 dell'attore rifiuta il proprio ruolo di segno significante per diventare (per un determinato lasso di tempo nel caso dei Marcidos) significato. Esemplare è lo spettacolo “Happy Days in Marcido's Field” (1997). Il sipario stesso è creato dai corpi nudi degli attori, appesi al soffitto. Quando questo sipario umano si apre, scopre una struttura di legno piramidale, al cui vertice c'è come infilzata una donna, con la pelle arrossata, inguainata in un bustino rosato, che comincia il suo a tratti incomprensibile monologo, mentre la sua immobilità viene esasperata dall'attaccarsi degli attori-corpi-sipario alla struttura lignea: Winnie è ricoperta di carne viva, di spasmi muscolari, sudore, che danno forma a una ritualità sadomasochistica e voyeurista, dove si incontrano e scontrano sessualità, violenza e potere, dominio e sottomissione, azione e passività. Winnie è oggetto, è trappola. Eppure è lei la vera padrona del gioco: è lei a dominare il marito Willie, un marito che si è dissolto in coro di corpi nudi. Winnie seduce, ma non potrà mai essere soddisfatta, come non potrà mai esserlo il pubblico: immobilizzato anch'esso su scomode poltroncine, voyeur irrigidito e frustrato: «uscendo da quelle strette stanze l'ultima sensazione è l'odore caldo dei corpi, labile traccia di una prossimità prima quasi oscena e infine intima, forse di una comunità.»20 Sono corpi che si fondono ad elementi ad essi estranei, animati e inanimati: continuano nel corpo dell'altro, in protesi di legno a forma di gigantesche mani, in zoccoli equini o in carillons di perle. Sono corpi erotizzati, segni di un inquietante ed inedito codice pornografico, di un nuovo rituale orgiastico. In Loretta Strong è lei l'unica sopravvissuta all'esplosione della terra: ma i cadaveri degli altri riappaiono come plutoniani, uomini scimmia, topi, pipistrelli dorati dagli occhi di rubino, pesci pappagalli volanti, vermi. E tutti questi la mordono, penetrano, invadono, la riempiono fin nei polmoni, le mangiano il clitoride, l'utero, la ingravidano, cercano di essere allattati, «finché Loretta grida: “Esplodo! Mi escono pepite da tutti i pori! […] Qui piove […], entra sangue da tutte le parti!” Loretta è dilaniata da intrusioni sessuali, e continuamente, suo malgrado, partorisce creature poi rimangiate da altri.»21 Morsa e dilaniata, a sua volta però Loretta morde, seziona cadaveri, li congela e li cuoce: cadaveri trasformati in prede che poi risorgono e ridiventano predatori, sessuali e aggressivi. Lo spettatore spia, si sente a disagio, ma non può fare a meno di continuare a guardare lo sfacelo di quei corpi, la loro tensione inappagata, il loro sacrificarsi inutilmente alla ricerca di un piacere negato (è il «corpo deviante»22 di cui parla Lehmann, il fascino “immorale” che esercita sullo spettatore allontanandosi dalla norma): parlando della loro Fedra, Oliviero Ponte Di Pino nota la battuta « “È finita l'epoca dei mostri”, si lascia sfuggire la Nutrice: perché questa Fedra si rivela l'ultimo mostro che può infrangere le leggi dell'umanità, l'unica creatura ancora in grado di farsi travolgere dalla sua animalità e già pronta come un ibrido cyberpunk alla contaminazione con la macchina. Dunque è creatura intrinsecamente teatrale, attraente e repellente, irrimediabilmente diversa, ultimo residuo di un passato cancellato dall'avvento dell'Io e delle sue miserie, e insieme anticipazione di una spettacolarità inquietante e scandalosa.»23 L'influsso di Deleuze e Guattari , della loro visione di un Corpo senza organi è assolutamente presente: il bisogno di disfarsi dell'Io, aprire il corpo, disarticolarlo per trasformarlo in una macchina da guerra, appunto. E ancora Castellucci e i movimenti bestiali dei suoi attori, gli organismi fatti a pezzi, Barba e in suo corpo dilatato (frutto di un lavoro di isolamento e selezione, che a sua volta ci rimanda di nuovo a Eizenštein24): tanto del teatro nostro contemporaneo si può 20 21 22 23 24 O.P.Di Pino, recensione dello spettacolo Happy Days in Marcido's Field, apparsa sul Manifesto, 1997 http://www.retididedalus.it/Archivi/2011/giugno/TEATRICA/1_marcido.htm H. Lehmann, Segni teatrali nel teatro post-drammatico, da Biblioteca Teatrale, Bulzoni editore, aprile-dicembre 2006, p. 39 O.P. Di Pino, introduzione per“I Marcido in mostra:1986-2006”,promotrice delle Belle Arti di Torino, 2006, p.8 V. Valentini, “La regia nel secondo Novecento: aporie e discontinuità”,da Biblioteca Teatrale, 8 riconoscere sui minuscoli palcoscenici esplosivi dei Marcidos, che possono forse rientrare in quei casi di «ibridismo corporeo, in cui si si innestano parti animali su corpi umani o viceversa, come anche sonorità animalesche, denaturalizzazione della voce e del parlato dell'essere umano […] una trasformazione del vivente, sia verso la serie animale che oggettuale, il divenir cosa »25. Diventare altro: pensando ai fili di Cassandra (in Una giostra: l'Agamennone), all'enorme naso di Pinocchio (in L'Isi fa Pinocchio ma sfar lo mondo desierebbe in ver), alle lunghe mani usate dal coro ne Il vortice del Macbeth non possiamo non pensare a quella regressione dell'uomo verso l'inorganico che troviamo in tanto teatro contemporaneo, ma al tempo stesso non possiamo non interrogarci sul rapporto che si crea tra i corpi di questi attori e queste protesi variopinte, bellissime da guardare, ma pesanti, ingombranti. Il mio personale ricordo mi spinge di nuovo a parlare di Volterra. 5. Gli oggetti di scena Le lunghe mani che Maria Luisa Abate ci consegna, a noi, una decina di giovani allievi seduti a gambe incrociate, dispersi in una sala del palazzo comunale di Volterra, con il caldo dell'estate e la stanchezza accumulata in giorni folli di training e spettacoli, sembrano pesantissime, inutilizzabili. Sono fatte di legno, non di plastica come ci saremmo aspettati guardando le foto. E sono disegnate davvero, non stampate, ma dipinte sul legno. Abbiamo imparato le prime battute della lettera che Lady Macbeth riceve dal suo sposo lontano, abbiamo riscritto, puntato, letto, memorizzato, cantato, urlato, mimato e pensato quelle parole, le abbiamo svuotate, accartocciate, maltrattate e infine dimenticate. Ed ora, di spalle gli uni agli altri, dobbiamo farle recitare a due pezzi di legno intagliati. Imparo così che la forza di un oggetto inanimato è data dall'intensità con cui io voglio che si muova. Imparo che il vero problema non è un gap espressivo, ma la volontà di uscire fuori di sé, smettere di essere in noi ed entrare in sintonia, in vibrazione con l'oggetto. Per impararlo dovevamo fallire, posare a terra quelle mani giganti, con le spalle indolenzite e i crampi alle braccia, sospendere il nostro esperimento con la promessa di ripassare più tardi, e cominciare a picchiare le nostre mani rattrappite sulla pelle di vecchi tamburi. Il solo modo di farli davvero suonare è far vibrare il battente: arrivare già vibrando e immettere quella vibrazione nell'oggetto. Ogni materiale ha la sua vibrazione, bisogna avere la pazienza e l'ascolto per imparare a riconoscerla ed entrare in sintonia con essa, come fanno i bravi burattinai. E allora il corpo saprà trasformare quegli oggetti da prolungamenti a protesi di se stesso. 6. I costumi Quanto detto finora per gli oggetti di scena vale anche per i costumi, proprio perché spesso i materiali utilizzati sono rigidi, delle vere macchine-costume (ricordiamo le lotte di Carmelo Bene con gli oggetti, i costumi, le armature). Daniela Dal Cin, artista visiva della compagnia, spiega che la peculiarità di tutti i costumi, anche i 25 luglio-dicembre 2009, p.69 V. Valentini, Mondi, corpi, materie , Mondadori, Roma, 2007, p.136 9 più semplici, è la loro capacità di trasformarsi insieme all'attore. Prendendo come esempio il Vortice del Macbeth, in un primo momento la lunga parrucca e la pesante corona che i capelli sintetici stessi formano sulla testa di Marco Isidori, celano completamente il corpo dell'attore, e quindi la sua sessualità (è uomo o donna? Lord o Lady?), impediscono la mobilità dell'attore, ma contemporaneamente conferiscono a questa misteriosa figura un carattere di femminilità, come la sottoveste nera che indossa: in questo modo il femminile, la Lady, è indicata dal costume, mentre il suo essere un uomo, il suo corpo di sesso maschile, viene usato per l'interpretazione del Lord. Già dallo studio del costume quindi possiamo capire l'interpretazione che il gruppo ha voluto dare della tragedia shakespeariana: lui/lei si compenetrano. Lei è la sua anima nera, lei lo spinge alla realizzazione di un'ambizione che è già dentro di lui, che lui stesso non vorrebbe esteriorizzare razionalmente, ma che lo spinge suo malgrado a scrivere la lettera da cui tutto ha inizio. La decisione è presa in poco tempo: l'assassinio si farà. E allora il coro dalle lunghe mani di legno e dalla divisa grigia da operaio si spoglia, rimanendo vestito solo di luce: tante v fosforescenti che illuminano da dentro la scena. «La nudità indica la barbarie, comunica un senso di allarme al pubblico: è un momento di svelamento, di passaggio. Viene dal sacerdote che si spoglia dei suoi abiti rituali.»26 7. La luce Le v fosforescenti del coro del Macbeth ci offrono la scusa per parlare della luce utilizzata negli spettacoli. Curioso è che la stessa definizione: “luce da ring”, sia stata utilizzata sia da Brecht che da Daniela Dal Cin. Una luce che non crei atmosfera, quindi, che non accarezzi o seduca lo sguardo del pubblico, ma che mostri il teatro per quello che è. Le sorgenti luminose dovevano essere visibili sui palcoscenici di Brecht; su quelli dei Marcidos sono poste sui corpi degli attori, o comunque all'interno della scena, e vengono utilizzate dagli attori stessi, spostate, usate per abbagliare o nascondere. Emblematico in tal senso il monologo finale di Clitemnestra (da Una giostra: l'Agamennone), in cui l'Isidori è illuminato solo dai due anelli di luce della Bambina. Unica eccezione a quanto detto finora si trova nel Vortice del Macbeth: alla fine di tutta la tragedia, infatti, il castello a due piani che ospitava il pubblico e la rappresentazione si illumina improvvisamente dal di fuori, lasciando entrare i colori e i disegni provocatori che occupano l'intera superficie esteriore del castello e inondando il pubblico: ormai anch'esso è stato inghiottito dal vortice. Vincitrice del premio Ubu nel 2009 per lo spettacolo “Ma bisogna che il discorso si faccia” tratto dall’ “Innominabile” di Beckett e del premio Ubu 2003 per lo spettacolo Bersaglio Molly Bloom tratto dall’ “Ulisse” di Joyce, Daniela Dal Cin è una delle anime fondamentali dei Marcidos. Creatrice dei costumi, come delle scenografie degli spettacoli della compagnia, spiega che rivestire il doppio ruolo di costumista-scenografa è per lei qualcosa di naturale perché costumi e scenografia devono essere partoriti da un unico pensiero: fanno parte della stessa interpretazione drammaturgica. La riuscita del lavoro, secondo lei, si concretizza proprio nella fusione dell’attore/essere vivente con l’oggetto/macchina. La creazione della scenografia va di pari passo con la creazione dello spettacolo stesso: «la prima decisione avviene in ambito di regia, dove si decide se utilizzare il palcoscenico all’italiana, con la platea separata dal palco, o si ricerchi un contatto più ravvicinato tra attore e spettatore… naturalmente è questa seconda ipotesi che ci interessa maggiormente»27 26 27 Dalle lezioni di D. Dal Cin durante il Volterrateatro 2009, dai miei appunti personali. http://www.teatro.org/rubriche/interviste/un_viaggio_nelle_strepitose_scenografie_di_daniela_dal_cin_23072 10 Quindi, come l'interpretazione attoriale, anche l'interpretazione visiva di un'opera nasce da un profondo studio preliminare, che porta i vari interpreti a maturare una visione poetica, e poi materiale, di essa. Daniela parte dai bozzetti preparatori, che diventano vere e proprie opere d'arte in graffite, tempera, e poi legno, tessuto, etc. Importantissimo è anche la scelta del materiale utilizzato, la sua comprensione profonda prima di farlo diventare oggetto e di farlo sposare con altri materiali. Daniela Dal Cin non ama i tramiti, ma la compenetrazione tra materiali: per questo preferisce fonderli, cucirli tra di essi. Una lavorazione artigianale che permetta ai materiali di diventare un unico oggetto, agli oggetti di diventare corpo esteso dell'attore. Brecht voleva che i cambi di scena fossero a vista: quindi dovevano essere provati, durare al massimo due minuti. Daniela Dal Cin definisce gli interpreti degli attori-macchinisti. I cambi scena di cui parlava Brecht diventano una ricostruzione della scena dal nulla: «Gli oggetti scenici vengono creati in scena, hanno una loro vita: una nascita, uno sviluppo e una morte. È il fascino di qualcosa che non esiste, che viene costruito in scena, che viene utilizzato a volte in modo assurdo rispetto alla sua forma, e poi disfatto.»28 Esempio emblematico è la costruzione della macchina delle streghe nel Vortice del Macbeth: è una macchina pesantissima, in cui non è necessario solo grande dispendio di energia da parte degli attori, ma sincronizzazione millimetrica e concentrazione assoluta. Al corpo messo in pericolo nella costruzione della macchina: è quel « “rischio personale del perfomer” che accomuna la performance ai riti di iniziazione»29 l'espressione più estrema sono forse le performance di Chris Burden. 8. La scenografia Per quel che riguarda le scenografie vere e proprie, potremmo definirle delle variopinte e incredibili mouse trap, in cui i topi da catturare sono non solo gli attori, ma anche gli spettatori. Ho già parlato del palazzo del Vortice del Macbeth, basterà citare il teatro ovale smontabile con la feritoia di venti centimetri da cui spiare le due serve del primo Studio per le serve, una danza di guerra, un recinto che si chiude per un rituale a carattere circense in Una giostra: l'Agamennone, un'arena che si trasforma in un ring, o in una gabbia da zoo minacciosamente aperta in A tutto tondo, o ancora l'enorme tubo catodico di Palcoscenico ed inno, i cui punti luminosi sono sostituiti da centinaia di bottoni colorati per intuire la meticolosità a tratti folle con cui queste macchine metamorfiche sono costruite. Daniela Dal Cin parla di un luogo ideale ma concreto, simbolico ma reale: i colori da pop art, o decadenti, gli odori, i sedili, le feritoie da cui spiare, i lampadari e le lampadine, le botole sopra le teste degli spettatori e i corridoi sotto i loro piedi: l'aggressione deve essere totale, aspettata ma imprevedibile, temuta ma agognata. Come insegna Schilling, nel teatro dei Marcidos riconosciamo «il paradigma artaudiano che fa abbandonare agli spettatori la loro posizione sicura: anziché stare di fronte allo spettacolo come osservatori, essi sono accerchiati dalla performance, condotti nel cerchio dell'azione che dovrebbe portarli a riappropriarsi della loro energia collettiva»30 28 29 30 Dalle lezioni di D. Dal Cin durante il Volterrateatro 2009, dai miei appunti personali. V. Valentini, Mondi, corpi, materie , Mondadori, Roma, 2007, p.66 A. Jovićević, “Nuove prassi della regia nel teatro contemporaneo e nelle arti performative”, da Biblioteca Teatrale, I modi della regia del nuovo millennio, Bulzoni Editore, Roma, 2009,p.61 11 9. Marco Isidori Sarebbe impossibile parlare dei Marcidos senza parlare di lui. Prima poeta che regista (e qui il discorso dovrebbe allargarsi a quella nuova metodologia di regia, o di non-regia a cui si è assistito negli ultimi decenni: qui il regista c'è, ed è forte, ma non è veramente un regista teatrale, appartiene a quel gruppo di artisti che ha «sperimentato direttamente il lavoro di regia, che è metodologicamente diverso dalla regia tradizionale»31), spiega: «I cardini della nostra ricerca sono sempre stati la Parola, il Verbo, il Significato, la Significazione: tutto secondo me è racchiuso nella Parola»32 I testi messi in scena sono “pretesti”: a volte nati dalla mano dell'Isi, altre volte “tradotti” da essa (nel caso del Macbeth, una sola frase è rimasta dall'originale shakespeariano: “se il fato mi vuole re, ebbene, il fato può incoronarmi senza che io muova un dito”, perché «non si poteva dire meglio di così»33), il testo rimane una prima risposta all'esigenza di dire. La scelta avviene tramite un riconoscimento: quel testo è in grado di rispondere a una particolare e contingente necessità espressiva, oppure, leggendolo, si ha una folgorazione sonora. Ma in ogni caso, in esso deve essere contenuto l'autobiografico e l'universale. Ciò che unisce personalità diverse in uno stesso gruppo è l'esigenza di dover dire qualcosa, il bisogno feroce di comunicare, ma la sensazione netta di desiderare qualcosa di impossibile. «Per entrare nel nostro gruppo, bisogna avere qualcosa di speciale»34, e non si parla di capacità artistiche. Un teatro così sceglie e viene scelto. È il «senso di segretezza e di esclusività che circola all'interno degli appartenenti alla tribù»35che troviamo in tanti gruppi contemporanei, come quello del Teatro Valdoca. Si parla di vocazione, di fiducia assoluta. Entrando nel gruppo si smette di avere un “privato”: il maestro si fa carico dell'allievo e l'allievo sceglie di fidarsi di lui. Completamente. Quello che inizia è un percorso di liberazione: entrando in sintonia con l'allievo, il maestro ne coglie le deficienze, spingendolo a riempirle, le capacità, dandogli i mezzi tecnici per affinarle, e i blocchi, liberandolo da essi. L'utopia è di rendere il performer un uomo libero. La dedizione che il gruppo chiede in cambio è completa: giorni e giorni di preparazione fisica, vocale, mesi di stenti, secondi lavori, e poi tournée fatte al buio, senza la certezza di una buona critica, la certezza di essere capiti. Molti hanno scritto sulla volontà implicita di alcuni lavori ai margini della sperimentazione di non esserlo affatto. Ciò che entra in ballo, secondo il mio parere di studentessa, è la paura di qualcosa che non si capisce, ma che ci scuote. Dopo aver assistito a una loro rappresentazione ho visto facce annoiate, facce confuse, a volte davvero nauseate: ma mai compiaciute. Siamo lontanissimi dall'atteggiamento che quelle stesse persone hanno davanti a una rappresentazione di teatro classico, o anche a quello che hanno davanti al cinema o alla televisione. Il teatro ha parlato loro. E loro hanno ascoltato, il loro corpo ha risposto a una provocazione fortissima. Sono persone che hanno reagito. Persone capaci di reagire. 31 32 33 34 35 A. Jovićević, “Nuove prassi della regia nel teatro contemporaneo e nelle arti performative: Estetica o Inestetica”, p.4 M. Isidori, intervista di Christopher Cepernich, Corriere dell'arte, 22 giugno 1996 Dalle lezioni di M.L.Abate durante il Volterrateatro 2009, dai miei appunti personali. Dalle lezioni di M.L.Abate durante il Volterrateatro 2009, dai miei appunti personali. V. Valentini, Mondi, corpi, materie , Mondadori, Roma, 2007, p.28 12 10. Quale pubblico? Brecht parlava al popolo, il suo intento era quello di risultare comprensibile per le grandi masse. Questa popolarità nei Marcidos sembra essere abbandonata: se non ci sono più tante persone disposte ad andare a teatro, ad ascoltare, se la collettività si è frantumata, a rimanere è il messaggio, anche per una sola, singola persona: Il cielo in una stanza è uno spettacolo di dieci attori per un unico spettatore, che viene invitato, all'ingresso del misterioso appartamentino sui tetti di Torino, a salire in sella a una tigre (sotto il costume, due attori-portantina) e a cavalcarla lungo un percorso che lo porterà a vedere cose incredibili, ultima delle quali, ma non meno shockante, l'immagine di se stesso in groppa a due esseri umani vestiti da tigre, riflessa in uno specchio scoperto a tradimento. Ciò che rimane, in questi brandelli teatrali, è il messaggio, sempre lo stesso: è solo cambiato il modo di codificarlo. In Madre Coraggio i personaggi venivano schiacciati da circostanze storiche che non capivano, che, dalla loro umile posizione sociale, non riuscivano a decodificare: Madre Coraggio non capiva, ma il pubblico doveva assolutamente capire. Ho cercato di mostrare come questo essere schiacciati dalla storia nei Marcidos diventi immagine manifesta, esperienza diretta, sia del performer che dello spettatore. La “dottrina dell'attività” di cui parlava Brecht non è stata abbandonata: l'attività, o meglio, l'iperattività di questo teatro, è la risposta a un mondo che sembra essersi immobilizzato. Il capitalismo viene fatto percepire come eterno, nessuna rivoluzione è ormai ammessa come possibile o apportatrice di miglioramento. Lo stesso scorrere del tempo sembra non essere ammesso da una società ossessionata dalla giovinezza, dalla cultura di un corpo a cui non viene permesso di divenire altro da ciò che era nel momento del suo massimo splendore. Divenire: la vita stessa si basa sul ciclo della nascita e della morte e ogni cultura umana ha cercato di inglobare questa legge nel proprio pensiero, esorcizzando una paura insita nel nostro essere: Brecht rispondeva a questa legge eterna «chiamandoci ad abbracciare il dolore di quel divenire, di quella caducità, per realizzare le nostre possibilità umane più gratificanti.»36 I Marcidos rispondono esplodendo: «Quello che voi vedete, l'impatto energetico, è il nostro messaggio di resistenza. Farlo vedere agli altri vuol dire scuoterne in qualche modo l'intelligenza emotiva e farli reagire»37. La risposta di questo particolare gruppo teatrale è quella di mostrare impietosamente ciò che l'uomo contemporaneo finge di aver dimenticato, magari in modo estremo, esasperato, ma perché è l'uomo di oggi ad essere esasperato, compresso, bloccato, proprio come gli attori nei loro bustini-costumi-macchina. L'esperienza collettiva di cui parlava Brecht, la società intera a cui egli si rivolgeva, si è dilaniata e chiusa in microcosmi, gruppi come tribù, come “sette”, come vengono a volte definiti gruppi teatrali di ricerca come quello che ho deciso di analizzare. Gruppi esclusivi, certo, ma che non hanno paura di aprirsi, mostrarsi, parlare, farsi specchio, a volte non così deformante, della società che li accusa. Ecco allora che il teatro è ancora ciò che era millenni fa: un microcosmo dell'intera comunità. Come osservava Jameson: «la promessa, l'esempio di una cooperazione utopica […] è una lezione brechtiana il cui piacere tornerà sicuramente nelle prossime generazioni future, per quanto fuori moda essa possa sembrare ai contemporanei, nell'attuale era del mercato.»38 36 37 38 F. Jameson, “Brecht e il metodo”, Cronopio, 2008, p.13 Maria Luisa Abate, Intervista per Krapp's Last Post, 2009 F. Jameson, “Brecht e il metodo”, Cronopio, 2008, p.41 13 Conclusioni Facendo una sintesi, direi che partendo dai punti in comune che spero di aver mostrato tra Brecht e il gruppo sperimentale dei Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa, tenendo conto di come gli anni e le esperienze artistiche mondiali che intercorrono tra l'uno e l'altro, i diversi luoghi di appartenenza e una situazione storica totalmente mutata abbiano influito in maniera determinante sul loro personale modo di intendere il teatro, l'atteggiamento di fondo verso questa arte, il suo valore educativo, la sua funzione di “sveglia” per la società, di specchio parlante, rivelatorio, sia essenzialmente lo stesso. Chiudo con una frase di Jameson, di nuovo, che più di ogni altra mi ha spinto verso questa ricerca: «correre fianco a fianco al cambiamento, raggiungerlo, seguirne le tendenze così da cominciare a deviare la sua rotta in direzione della propria: questa è la pedagogia brechtiana.»39 39 F. Jameson, “Brecht e il metodo”, Cronopio, 2008, p.44 14 Bibliografia M. Baravalle, L'arte della sovversione, Manifestolibri, Roma, 2009 L. Bentivoglio, Pina Bausch e il Tanztheater Wuppertal: un lungo viaggio intorno al corpo e intorno al mondo O.P. Di Pino, introduzione per I Marcido in mostra: 1986-2006 ,promotrice delle Belle Arti di Torino, 2006 O.P.Di Pino, recensione dello spettacolo Musica per una Fedra moderna, apparsa sul Manifesto, 1992 O.P.Di Pino, recensione dello spettacolo Una giostra, l'Agamennone, apparsa sul Manifesto, 1988 O.P.Di Pino, recensione dello spettacolo Happy Days in Marcido's Field, apparsa sul Manifesto, 1997 S. Chinzari, P. Ruffini, Nuova scena italiana, Castelvecchi Editoria, 2000 F. Ewen, Bernoldt Brecht, La vita, l'opera, i tempi, Universale Economica Feltrinelli, 2005 M. Fazio, Regie teatrali, Laterza, Roma, 2006 J. Grotowskj Per un teatro povero, Bulzoni, Roma, 1993 F. Jameson, Brecht e il metodo, Cronopio, 2008 A. Jovićević, Nuove prassi della regia nel teatro contemporaneo e nelle arti performative, da Biblioteca Teatrale, I modi della regia del nuovo millennio, Bulzoni Editore, Roma, 2009 A. Jovićević, Recitazione e non-recitazione (saggio in via di traduzione) H. Lehmann, Segni teatrali nel teatro post-drammatico, da Biblioteca Teatrale, Bulzoni editore, aprile-dicembre 2006 C. Martin, H Bial, Brecht Sourcebook, Routledge, 2000 A. Somaini, Ejzenstein, Piccola Biblioteca Einaudi, 2011 V. Valentini, La regia nel secondo Novecento: aporie e discontinuità, da Biblioteca Teatrale, luglio – dicembre 2009 V. Valentini, Mondi, corpi, materie, Mondadori, Roma, 2007 Maria Luisa Abate, Intervista per Krapp's Last Post, 2009 Recensione di A. Paesano, apparsa su La repubblica, del 17 maggio 2009 M. Isidori, intervista di Christopher Cepernich, Corriere dell'arte, 22 giugno 1996 15 Webgrafia http://www.teatro.org/rubriche/interviste/un_viaggio_nelle_strepitose_scenografie_di_daniela_dal_cin_23072 http://www.retididedalus.it/Archivi/2011/giugno/TEATRICA/1_marcido.htm 16