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Ogni forma di vita tende a dare
senza indugio e senza scrupolo le
risposte alle domande che le si
pongono. Lo schema di
stimolo I reazione è una semplificazione
troppo grande dei dati e dei fatti,
eppure sembra essere il segreto ideale
per la buona funzionalità del
comportamento orgaruco.
Solo 1'uomo si permette la tendenza
opposta. È 1'essere che esita. Sarebbe,
questa, una omissione che la vita non
perdona se lo svantaggio non fosse
bilanciato da un grande dispendio di
prestazioni il cui risultato è da noi
chiamato esperienza. Che non si
percepiscano solo segnali ma cose,
significa che abbiamo imparato ad
attendere quello che di volta in volta si
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manifesterà ancora. L'indecisione
rischiosa di fronte all' alternativa: fuga o
attacco può essere stato il primo passo
verso la civiltà, non dimostra bile con
alcuno scavo, come rinuncia, cioè, alle
soluzioni rapide, alle vie più brevi.
L'esitazione, misurata sulla norma
della semplice funzione, può certo
venire intesa come conseguenza di un
turbamento: un cambiamento del
biotopo o un mutamento di flora e di
fauna causato dalle oscillazioni
climatiche potrebbe aver turbato,
deformato, modificato l'univocità e la
sicurezza dei dati del mondo
ambientale per il comportamento. La:
famosa sintesi teorico-conoscitiva della
molteplicità delle sensazioni sarebbe
sorta dalla mancanza di chiarezza, dalla
estraneità del mondo ambientale.
Nella esitazione non si trova alcun
piacere della funzione, ma si sarebbe
potuto trovare il piacere dell' indugiare
nel forzato rinvio dell' azione. Ogni
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nuovo spazio conquistato di sicurezza
protetta avrebbe permesso di ampliare
l'ambito di questo profitto di piacere.
La vita richiede utilità, però concede ai
suoi favoriti l'esperienza della libertà
dallo scopo. È da qui che nasce ogni
civiltà. Già nelle sue manifestazioni più
primitive, negli ornamenti come nella
decorazione sugli oggetti d'uso, è
contenuto il gesto dell'acquisto della
libertà dallo scopo, della sospensione
dell' economia. Dall' esitazione come
momentanea perplessità, come pura
utilizzazione di un rinvio, può nascere
la condizione che ha un valore di vita
diverso da quello dell' esame delle
scelte.
Per questo valore di vita gli
equivalenti linguistici appaiono quasi
del tutto consunti. Come quello, per
esempio, della condizione meditativa
della vecchiaia, di cui si parlava una
volta, e che non dovrebbe consistere nel
meditare su qualcosa così da eliminarne
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l'esperienza.
Anche la pensosità non
gode la benevolenza
dei contemporanei
che esigono almeno una facilità di
decisione. Essere pensosi è considerata
una perdita di tempo abbastanza
oziosa. Il pensare e il pensare sul
pensare può forse conferire competenza
tecnica; la pensosità non viene
reclamata come possesso proprio da
nessuna professione o disciplina.
L'idea che abbiamo del pensare è
che realizzi il collegamento
più breve
tra due punti, tra un problema e la sua
soluzione, fra un bisogno e la sua
soddisfazione,
fra gli interessi e il
consenso ad essi - lungo quella corda
del discorso su cui fanciulli ormai critici
debbono arrivare a celeri conclusioni ed
ernancipazioni.
Chi è pensoso può contare nel
migliore dei casi sull' indulgenza.
Non
ci si aspetta da lui risultati quando si
alza. Quello che fa o piuttosto quello
che non fa, non eccita nessuno e meno
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di tutti lui stesso. Una delle descrizioni
dell' essere pensoso è quella del farsi
passare per la testa le cose così come
vengono.
Nella pensosità è contenuta
un' esperienza di libertà, e tanto più
una libertà del divagare. L'ampiezza
dello spettro in cui si reagisce al
divagare si estende dai culmini dello
hurnour alla pura disperazione
di coloro
che in una cosa vorrebbero arrivare alla
conclusione.
Nessun genere di socialità può
permettere
ai suoi membri di staccarsi
dal complesso delle funzioni. La
digressione esige gradi di libertà che
non ci si può permettere
nel discorso
sui poteri del pensare. Le strategie del
dialogo non consentono
a nessuno di
restare pensoso. In questa situazione
sarebbe infatti permesso di far passare
una cosa per l'altra, di rendere meno
esigente la severità dei controlli e
quindi di non usare nessuna misura di
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grandezza nei problemi. Si può
dubitare se sia possibile pensare il senso
della vita secondo regole tecniche; sarà
permesso pensarci anche senza riuscire
mai ad avvicinarsi ad una risposta anche solo ad una tra le molte forse
possibili, e pure alla fine non possibili.
La filosofia viene considerata la
metodica disciplina di questi problemi,
nel caso limite la loro proibizione, per
la dimostrata irraggiungibilità delle
risposte in maniera fededegna. Il
pensiero regolato appare lontano dalla
pura pensosità. Molte figure della
filosofia sembrano essere contrarie a
questa separazione Socrate era un
"pensatore " nel senso di questa
severità?
I suoi risultati sarebbero stati allora i
più miseri di tutti quelli possibili: che
cosa si sarebbe raggiunto nel sapere che
non si sa nulla? E che cosa, nel
coinvolgere gli altri, che si credevano in
possesso del sapere, n elI' attirarli e nello
spingerii ironicamente nella perplessità
e nella confusione?
A meno che non lo s'intenda come il
ricondurre il pensiero all' esser pensosi,
alla sua origine, al terreno che ha
abbandonato ma a cui deve sempre
ritornare. Lo si chiami pure il terreno
del mondo-della-vita.
In esso la filosofia ha superato ogni
dubbio sul proprio diritto all' esistenza,
con grande meraviglia di chi la diceva
morta. Per me la filosofia non è uguale
alla pensosità, ma non si può negare la
sua origine da questa e soprattutto la
sua volontà di serviria. La sua forma
ideale non è soltanto" il pensatore"
che si assicura secondo tutte le regole
d'arte e che è impedito ad ogni passo
dalla pura riflessione sui metodi.
Altrimenti, Socrate, Diogene,
Kierkegaard o Nietzsche sarebbero
entrati nella storia della filosofia?
Socrate, in carcere, prima della sua
morte è ritornato alle favole di Esopo
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che i greci conoscevano già dalla loro
infanzia. Questo piccolo particolare è
un segno che per il momento vorrei
seguire.
La favola di Esopo è una forma di
estrema e tuttavia artistica semplicità.
Ecco un esempio: "Un vecchio tagliava
la legna, se l'era caricata sulle spalle e
aveva cominciato a camminare per un
lungo tratto. La strada lo aveva
stancato. Si tolse allora il carico dalle
spalle e chiamò la morte. Che apparve
presto e gli chiese perché lo avesse
chiamato. Il vecchio rispose: perché tu
mi aiuti a rimettere sulle spalle di
nuovo il mio carico".
Si sente che la storia breve, se le si
presta attenzione, rende pensosi. Nè
più nè meno: pensosi.
Ora, le favole che sono state
tramandate sotto il nome di Esopo non
sono finite quando il loro racconto è
alla fine. Hanno sentenze su dò che
debbono insegnare o abbiano potuto
insegnare: il loro epimythion, la
'morale della storia' .
Gli umanisti e i filologi si erano
accorti della sproporzione o della non
proporzione di queste sentenze con le
storie a cui sono attribuite. Se ci si è
lasciati andare alla pensosità cui la
favola induce, la sua 'morale' ,_come
risultato da intendere, non è solo spesso
estremamente deludente ma addirittura
sconcertante e tormentosa nella sua
incomprensione. Sebbene quasi nessuna
di queste sentenze si possa definire
sbagliata, tutte in fondo hanno
qualcosa di particolare e di
inspiegabilmente improprio e
inopportuno.
Nel caso della favola che ho scelto,
Il vecchio e la morte, è scritto che da
tempo antico, forse non antichissimo,
la storia (/ogos) dimostra che ogni uomo
è amante della vita (phiI6zoos) e questo
anche se le cose gli vanno male.
Certamente non è sbagliato, eppure
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delude. Non è soltanto una triste
riduzione del senso della favola, ma un
turbamento della pensosità appena
risvegliata. È costretta a misurare la
banalità della morale, il significato del
nudo avvenimento; costretta al dubbio
che una tale meravigliosa opera possa
davvero essere stata pensata per tale
quintessenza.
Se si tenta da soli di estrarre dalla
favola il messaggio, l'informazione che
vorrebbe trasmettere, ci si accorge
presto che ogni frase che si pronuncia
appiattisce la profondità che può essere
compresa, non solo intesa, nella
pensosità; esclude troppo perché si
possa accettare in questo modo, per
q uanto sia giusto che non possa esistere
alcun grado di miseria della vita che le
tolga completamente il suo valore.
Vorrei allora fare un passo avanti
dicendo che la pensosità, che la favola
provoca, è legata alla pensosità che
nella favola si manifesta. Il vecchio di
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cui si racconta non è un .. pensatore"
che tra il buttare via il carico e l'arrivo
della morte abbia mutato una
considerazione sul poco valore della
vita, ma è qualcuno che nell' indugio
impara il profitto che esso soltanto
concede. Il vecchio ha gettato via il
carico insopportabile perché alla fine è
deciso e vuole aspettare la morte, e
l'aver gettato il carico gli concede
ancora una dilazione, trarre un respiro,
guardare il mondo, che sotto il carico
aveva osservato, guardarlo ancora una
volta per sentire quale sarebbe il prezzo
per essp liberato definitivament~ dal
carico. Mentre sta così pensoso, SI
avvicina la morte chiamata; e sembra
che il vecchio ottenga dalla morte quel
prolungamento della dilazione che si
era procurato con la sua stanchezza
della vita.
La favola non dice nulla di quello
che era passato in mente al vecchio per
commuovere la morte ed aiutarlo nel
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continuare a portare il carico, quasi
fosse stata chiamata per questo. Ma in
quello, appunto, che la favola non dice,
si concede a noi lo spazio possibile in
cui restiamo pensosi.
La pensosità si manifesta anche nella
sproporzione tra favola e morale. Si
vorrebbe quasi credere che gli
ePimythia siano stati inventati proprio
per dimostrare agli ascoltatori e ai
lettori come ben poco si ottenga dal
trarre una morale dalla storia, dal
ricondurla ad una frase conclusiva e
comodamente trasferibile, e come
invece sia essenziale raggiungere una
condizione di pensosità che protegga da
queste frasi. La pensosità è una pausa
anche rispetto ai risultati banali che il
pensiero ci procura quando ci si
interroga sulla vita e sulla morte, il
senso e il non senso, l'essere e il nulla.
Il mio risultato - e per obbligo di
professione ne devo pur dimostrare uno
- è che la filosofia debba conservare se
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non rinnovare qualcosa della pensosità,
della sua origine dal mondo della vita.
Per questo non deve essere vincolata a
particolari aspettative sul tipo della sua
utilità. Il legame col mondo della vita
sarebbe distrutto se il diritto di
interrogare della filosofia fosse limitato
dalla normatività delle risposte o anche
solo dalla costrizione di porre
interrogativi secondo le possibilità delle
risposte e della loro disciplina.
La filosofia rappresenta solo un
risultato più generale in ogni cultura:
quello della insopprimibilità dei suoi
bisogni e problemi elementari attraverso
il suo ipotetico superamento. Cultura è
anche rispetto dei problemi cui non
.possiamc dare risposta e che ci fanno
riflettere e ci lasciano pensosi. Heine ha
riversato tutta la sua beffarda ironia su
Kant dicendo che ha scritto la sua
seconda Critica, quella della ragione
pratica, con i temi della pensosità:
libertà, esistenza di Dio, immortalità,
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soltanto per far piacere al suo vecchio
servitore Lampe. Quando l'audacia
dell' ironico beffardo poeta si è dissolta,
si resta pensosi: non potrebbe forse
esser vero?
Non c'è bisogno di fare nomi
venerabili. Rispetto al mondo volevamo
e vogliamo sapere a che cosa attenerci.
E anche se siamo sicuri che non ci
saranno da formulare risposte e che le
risposte formulate non saranno
realizzabili, non ci lasciamo convincere
facilmente a rinunciare, solo
temporaneamente,
solo confidando
nell' ersatz delle risposte.
A che cosa attenerci, a questo
pensiamo, ora che siamo stati distolti
dal non pensarci.
Pensosità vuol dire: non tutto resta
così semplice e naturale com' era.
Questo è tutto.
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D iscorso di ringraziamento per il
premio di prosa "Sigmund Freud"
In: Deutsche Akademie fur Sprache
und Dichtung, Jahrbuch 19802
Heidelberg, 1981
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Ancora si ringraziano Hans Blumenberg per
averci autorizzato alla pubblicazione del testo e
Lea Ritter Santini per la cura della traduzione.
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Questa edizione fuori commercio
di PENSOSITÀ è stata
stampata a Reggio Emilia, Italia,
presso la Litograf 5
nel mese di marzo millenovecentottantatrè
Elitropia Edizioni Casella Postale 421, 42100 Reggio Emilia