“La potenza del negativo”: le filosofie del dubbio e gli scetticismi
2. Il teatro della Verità: L’epoca barocca
Proemio
Tra il Cinquecento e il Seicento, il genere teatrale, ripreso dagli autori antichi,
conosce una stagione di grande fioritura, sia in Italia sia in Europa. Il fenomeno non è
solamente ristretto all’ambito letterario, ma l’idea del teatro e una ‘teatralità’ delle
idee si ritrovano un po’ ovunque: nel modo di organizzare gli spazi in pittura e
architettura, nell’organizzazione delle feste di corte, ma anche nel modo di
argomentare una scoperta filosofica o di dimostrare i teoremi da parte dei matematici.
D’altronde, entrando nell’età barocca l’estetica si concentra sull’effetto destato
nello spettatore, nella vertigine illusoria di un trompe-l’œil o nella sorpresa di una
portata di carne che si rivela essere in realtà un piatto di pesce. Insomma, nell’età
barocca trionfa la ‘meraviglia’ e il teatro è il luogo nel quale, più che altrove, essa
viene a rappresentarsi: donne che sono uomini, rumori di cavalli e tuoni che non ci
sono, mari inesistenti. Per lo spettatore di allora, si trattava di qualcosa di simile
all’andare oggi a vedere un film in 3D con gli appositi occhiali.
Atto I: la filosofia come teatro
Nel Novum Organum di Francis Bacon, all’Aforisma 44 troviamo scritto:
“Altri idoli sono penetrati nell’animo umano ad opera delle diverse dottrine filosofiche
ed a causa delle pessime regole di dimostrazione: noi li abbiamo chiamati idoli del
teatro, perché tutti i sistemi filosofici che finora sono stati escogitati sono come
altrettante favole preparate per essere rappresentate su la scena, buone tutt’al più
per costruire mondi di finzioni e di fantasie irreali. Non intendiamo parlar solamente
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dei sistemi filosofici attuali e delle sette filosofiche antiche; molte altre favole simili a
quelle si possono ancora comporre e rappresentare, giacché di opposti errori le cause
possono essere le stesse. Non si pensi, inoltre, soltanto alla filosofia, ma anche ai
principi e assiomi di molti sistemi scientifici, che si sono affermati per tradizione, per
fede cieca e trascuratezza.” (trad. it. E.
De Mas)
La filosofia e la scienza per Francis
Bacon hanno per oggetto la verità,
che però non è mai assoluta bensì è
“figlia del tempo”,
si costruisce
confluendo da mille rivoli per confutazioni
e accumulazioni successive, senza che la
continua ricerca possa mai essere
arrestata. Eppure scienziati e filosofi, da
sempre, tendono a presentarsi come
portatori dell’Unica Verità. In questo
assurgono al ruolo di teatranti che
raccontano “favole”.
La “favola” ricorre anche in Cartesio,
ma in un’altra accezione, non errore che
nasce dalla pretesa di trasformare la
propria parte nell’archetipo della Verità,
bensì quale scudo protettivo per una
teoria che non vuole incorrere nei
problemi
di
Galileo
dinnanzi
al
Sant’Uffizio. Ne Il Mondo o Trattato sulla
Luce, Cartesio dichiara che la sua ipotesi
sul cosmo “si avvolgerà nelle vesti di una
favola” (cap. 5).
La finzione della favola è necessaria per difendere l’autore, così come può essere
indispensabile adottare pseudonimi per pubblicare, magari all’estero, o rimandare la
pubblicazione a dopo la propria morte. Il travestimento, classico espediente teatrale,
è imposto dalle autorità che ostacolano la libera circolazione del pensiero.
Anche Spinoza ricorre all’astuzia, che confessa in una lettera all’amico Oldenburg,
di aver soddisfatto la richiesta che da più parti gli veniva fatta di pubblicare qualcosa
non proponendo il proprio pensiero, ma quello di Cartesio, del quale non condivideva
molte cose. Tuttavia, i Principi della filosofia di Cartesio, pubblicati nel 1663,
avrebbero potuto far nascere in qualche potente lettore olandese il desiderio di
leggere qualcosa di più e di proteggere l’autore. “E se ciò si verificasse, non v’è dubbio
che pubblicherei senz’altro alcune cose; se no, tacerò piuttosto che dare in pasto agli
uomini le mie opinioni” (Epistola XIII, in Epistolario, trad. it. A. Droetto, Einaudi,
Torino 1951).
Cartesio introduce un ulteriore elemento di teatralità nel presentare, nelle Meditazioni
metafisiche e nel Discorso sul Metodo, l’argomento del “Cogito”. Il personaggio del
genio maligno, o del dio ingannatore, rappresenta l’artificio barocco che gli
consente di raggiungere col massimo effetto l’annuncio della conquista della certezza
– secondo lui indubitabile – del Cogito, ergo sum.
Atto II: il teatro come filosofia
Parallelamente alle finzioni teatrali che la filosofia del Seicento adotta, sia per la tutela
dell’autore sia per enfatizzare l’effetto drammatico di una scoperta o di
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un’argomentazione, la letteratura teatrale dell’epoca mette in scena una
riflessione sul mondo e sulla realtà.
Certamente, il più filosofico degli autori teatrali seicenteschi è William Shakespeare,
i cui personaggi sono in grado di scandagliare non solamente gli abissi dell’interiorità
umana, ma anche di porre questioni destinate a interrogare per secoli la filosofia.
Non si possono, ad esempio, ignorare i rapporti tra la figura di Riccardo III e la
manualistica politica fondata sulle teorie di Machiavelli o sulla Ragion di Stato di
Giovanni Botero; oppure il mago Prospero che ne La Tempesta domina gli elementi
della Natura e pone la
questione del titanismo
prometeico.
Come
tralasciare poi la tragica
follia di Re Lear o non
riconoscere
nelle
sanguinarie ambizioni di
Lord Macbeth e di sua
moglie altrettante figure
nate
da
una
profondissima
indagine
sull’animo umano? Oggi
la definiremmo indagine
psicanalitica. Per non
parlare poi, ovviamente,
del più filosofico dei
personaggi
shakespeariani, Amleto,
il pallido principe di
Danimarca obbligato a
compiere una vendetta
che
edipicamente
dilaziona
e
rimanda,
immerso nel dubbio
dal sapore parmenideo tra essere e non essere e, infine, cosciente che
comunque, come dice all’amico Orazio, “tra il Cielo e la Terra ci sono più cose che
nella tua filosofia”.
In ambito spagnolo, Pedro Calderón de la Barca (1600-1681) scrive La vita è sogno,
intricatissima – barocca – vicenda nella quale personaggi e spettatori si perdono
in una vertiginosa rincorsa per capire cosa sia davvero reale.
Ma ha davvero senso, tornando a Shakespeare, interrogarsi sulla differenza tra vita
reale e sogno, tra Arte e Vita? “La vita non è che un'ombra che cammina, un povero
commediante che si pavoneggia e si agita sulla scena del mondo per la sua ora e poi
non se ne parla più; una favola raccontata da un idiota piena di rumore e di furore che
non significa nulla” (Macbeth, Atto V, scena V).
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