Avv. Stefano Beretta Studio Trifirò

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CONVEGNO
Mobbing: situazioni negative, azioni positive
Normativa – casistica e rimedi
1. Premessa. Il mobbing entra nel mondo del lavoro attraverso la
sociologia che, a propria volta, mutua il termine da una branca dell’etologia.
Questo termine
fu usato, per la prima volta, da Konrad Lorenz,
biologo inglese dell’800, per indicare il comportamento degli animali
quando si coalizzano contro un membro del gruppo fino ad escluderlo dalla
comunità (to mob: assalire, aggredire in massa).
La terminologia è stata ripresa agli inizi degli anni ’80 dallo psicologo
del lavoro svedese, di origine tedesca, Heinz Leymann, che ha definito il
mobbing come “una situazione conflittuale sul posto di lavoro tra colleghi o
tra superiori e dipendenti nella quale la persona attaccata viene posta in
una posizione di debolezza e aggredita direttamente o indirettamente da una
o più persone in modo sistematico, frequentemente per un lungo periodo di
tempo, con lo scopo e/o la conseguenza della sua estromissione del mondo
dal lavoro”.
Nel fenomeno si distinguono tre figure: il mobber dal punto di vista
soggettivo; il mobbed, dal punto di vista passivo e i sighted mobbers (coloro
che assistono, passivamente, alla vicenda senza denunciare l’accaduto).
Sino ad una decina di anni fa il significato in Italia era per lo più
sconosciuto: solo con gli studi e le ricerche promosse per la prima volta in
Svezia e poi, in particolare, in Germania e negli altri paesi del Nord Europa,
si è divulgata la conoscenza del fenomeno che comincia ad essere trattato in
Italia dal 1995.
Sin dalla sua introduzione, il mobbing è stato descritto come una serie
di comportamenti che, pur potendo essere singolarmente considerati
addirittura anche legittimi, acquistano un carattere illegittimo essendo attuati
in modo reiterato e persecutorio allo scopo di estromettere il dipendente dal
posto di lavoro. La dottrina ha evidenziato che, dal punto di vista oggettivo,
le condotte che integrano il mobbing possono essere di vario tipo e, come
detto, persino lecite. La novità del mobbing consiste nel fatto che, per la
prima volta, i comportamenti, anche leciti (si pensi, per esempio, alle visite
fiscali, ovvero alle sanzioni disciplinari), o che già trovavano una
“repressione” (si pensi al demansionamento) non sono valutati in modo
frammentario, ma in maniera unitaria.
Caratteristica peculiare dell’insieme di comportamenti è: a) la loro
reiterazione in un apprezzabile periodo di tempo (un semestre è sufficiente
secondo la giurisprudenza); b) la presenza dell’elemento psicologico della
condotta: il semplice dolo generico secondo la dottrina (per la quale è
sufficiente la volontà di porre in essere i comportamenti lesivi) la sussistenza
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di un dolo specifico secondo la giurisprudenza (l’intenzione di estromettere
il dipendente dall’azienda).
2.- Il quadro normativo. Una normativa specifica non esiste ancora
nel nostro Paese. Molti Stati europei, soprattutto del Nord Europa, l’hanno
adottata, introducendo misure di prevenzione, rimedi e anche sanzioni sotto
il profilo penale; a livello di Comunità Europea vi è una Direttiva del
Parlamento Europeo del 21 settembre 2001 avente ad oggetto “mobbing sul
posto di lavoro” che “esorta” gli Stati membri a “completare la propria
legislazione vigente sotto il profilo della lotta contro il mobbing”; l’Unione
Europea ha più volte sanzionato l’Italia per la mancanza di una specifica
legge.
Veramente, nel panorama legislativo italiano esistono leggi regionali.
La prima è stata la legge 11 luglio 2002, n. 16 della Regione Lazio recante
“disposizioni per prevenire e contrastare il fenomeno del mobbing nei
luoghi di lavoro”. Riguardava sia il settore pubblico che quello privato.
Sennonché, con ricorso del 27 settembre 2002 la Presidenza del
Consiglio dei Ministri sollevava questione di legittimità costituzionale di tale
legge e con sentenza n. 359 del 19 dicembre 2003 la Corte Costituzionale
(Presidente: Riccardo Chieppa, Giudice Relatore: Francesco Amirante) ha
dichiarato costituzionalmente illegittima la legge della Regione Lazio per
contrasto con l’art. 117 della Costituzione (riconoscendo, cioè, una indebita
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ingerenza della Regione in una materia riservata in via esclusiva alla
legislazione statale).
Restano in vigore le leggi regionali delle Regioni Abruzzo (11 agosto
2004 n. 26), della Regione Umbria (28 febbraio 2005, n. 18) e della Regione
Friuli Venezia Giulia (8 aprile 2005, n. 7). Queste leggi disciplinando
specifici aspetti hanno superato il vaglio di costituzionalità.
Nel proprio ricorso avverso la legge della Regione Lazio la Presidenza
del Consiglio dei Ministri assumeva in modo espresso l’impegno a
introdurre una disciplina specifica: “lo Stato intende produrre ulteriori
principi fondamentali con specifico riguardo al cosiddetto mobbing”.
Questo impegno non ha ancora avuto seguito. In questi giorni è
iniziato l’esame di disegni di legge presentati fra l’aprile e giugno 2008 e
che, curiosamente, “copiano” molto dalla pur contrastata legge regionale del
Lazio. In particolare, in questa legislatura sono stati presentati sei disegni di
legge provenienti da varie forze politiche (PDL, PD, IDV). Quattro di questi
disegni di legge (2 PDL, 1 PD, 1 IDV) sono stati assegnati alla 11a
Commissione Permanente (lavoro, previdenza sociale) in sede referente ed il
22 ottobre 2008 è stata nominata la senatrice Rita Ghedini (PD) unico
Relatore per i quattro disegni di legge. Gli altri due DDL sono stati assegnati
anch’essi alle commissioni ma l’esame non è ancora iniziato. Si tratta di testi,
come detto, provenienti da varie forze politiche e l’unicità del relatore fa
ritenere che vi sia l’intendimento di raggiungere un ampio consenso sulla
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futura legge. I disegni di legge, intitolati “violenza psicologica e mobbing”,
contengono la definizione di mobbing individuata nel complesso degli
atteggiamenti persecutori, attuati con carattere di continuità, atti ad arrecare
danni alla condizione psico-fisica del lavoratore, ovvero al fine di
allontanarlo dalla collettività in seno alla quale presta la propria opera. I
DDL contengono anche un elenco delle situazioni che possono configurare il
“mobbing”
e
che
si
traducono
in
attacchi
alla
professionalità
(demansionamenti, minacce di trasferimenti, svalutazione del lavoro,
reiterazione ingiustificata di visite di controllo, negazione ripetuta e
ingiustificata di ferie e permessi, ecc.) ovvero alla persona (violenza fisica,
molestie di qualsiasi tipo, comprese quelle sessuali). Nei DDL si pone
l’attenzione all’attività di prevenzione e di informazione coinvolgendo le
rappresentanze sindacali e anche quelle sanitarie. Si prevede una particolare
procedura giudiziaria che, in tempi rapidi, possa definire la controversia e
che, tuttavia, pone il problema su chi debba gravare l’onere di provare non
solo l’atteggiamento persecutorio, ma anche la finalità espulsiva di tale
atteggiamento. Un altro tema di particolare delicatezza è legato all’attività di
prevenzione e di accertamento dei fatti, con il coinvolgimento di ASL e
strutture pubbliche.
L’augurio è che, pur arrivando tardi, non si voglia fare i primi a tutti i costi,
imponendo eccessivi vincoli, anche di carattere burocratico-amministrativo e
normativo, in una materia che sicuramente merita una specifica disciplina
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che, però, evitando gli eccessi, sia in modo snello finalizzata a rendere sereno
e leale l’ambiente di lavoro.
Non resta, dunque, che…attendere la legge.
3.- La normativa applicata in giurisprudenza. In mancanza di una
normativa specifica è intervenuta a coprire il vuoto, come spesso accade, la
giurisprudenza.
Le prime pronunce sono ascrivibili al Tribunale di Torino (16
novembre e 30 dicembre 1999), a cui è seguita una sentenza del Tribunale di
Milano (20 maggio 2000) e due altre sentenze del Tribunale di Forlì (15
marzo 2001) e del Tribunale di Como (22 maggio 2001).
A livello di Magistrature Superiori, uno dei primi interventi è quello
della Corte Costituzionale, nella già richiamata pronuncia.
La Consulta ha tracciato alcuni importanti principi sotto il profilo del
quadro normativo, accogliendo, in primis, la nozione di mobbing data in
sociologia e così specificata “un complesso fenomeno consistente in una
serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere
nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro
in cui è inserito o del suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione
ed emarginazione finalizzato all’obiettivo primario di escludere la vittima
dal gruppo”. Secondo la Corte “la normativa in materia di mobbing può
avere un triplice oggetto”: a) “prevenzione e repressione dei comportamenti
dei soggetti attivi”; b) “misure di sostegno psicologico e, se del caso,
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l’individuazione delle procedure per accedere alle terapie di tipo medico”;
c) “il regime degli atti o comportamenti posti in essere dal soggetto passivo
del mobbing come reazione a quanto patito”. Fino a che non vi sarà una
specifica disciplina legislativa occorre cercare i rimedi nel vigente
ordinamento.
Il primo riferimento normativo è nella nostra Costituzione negli artt.
32 e 41: il primo relativo alla tutela della salute “come fondamentale diritto
dell’individuo”, il secondo come limite all’iniziativa economica privata che,
pur libera, non può svolgersi in “contrasto con l’utilità sociale o in modo da
recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.
Segue, il codice civile. In particolare l’art. 2087 cod. civ.: sotto la
rubrica “tutela delle condizioni di lavoro” la norma contiene il precetto
secondo cui “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa
le misure…necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del
prestatore di lavoro”.
Tale norma costituisce fonte di responsabilità contrattuale del datore
di lavoro.
Queste sono le norme di riferimento richiamate dalla Corte
Costituzionale ed i Giudici, a partire dalla Suprema Corte di Cassazione, vi
hanno fatto costante richiamo.
In sede di legittimità, si è pronunciata la Corte di Cassazione a Sezioni
Unite (Cassaz. Sez. Unite Civili, 4 maggio 2004, n. 8438) che, trattando di
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un caso riconducibile a problematiche di inquadramento, ha ritenuto
esaustiva la disciplina contenuta nell’art. 2103 cod. civ. così espressamente
giudicando: “il termine mobbing può essere riferito ad ogni ipotesi di
pratiche vessatorie”, ma trattandosi di “atti di gestione del rapporto di
lavoro, indipendentemente da una concreta correlazione con un disegno di
persecuzione reiterata, trovano un diretto referente normativo nella
disciplina della regolamentazione del rapporto e ricevono da questa la loro
sanzione di illiceità” .
L’art. 2103 cod. civ. viene, tuttavia, ritenuto insufficiente da altra
pronuncia della Suprema Corte (Cassaz. 23 marzo 2005, n. 6326) che
giudicava di un caso in cui al demansionamento si accompagnava “un
globale comportamento antigiuridico del datore di lavoro”, quali i continui
scherzi verbali a cui era sottoposto il dipendente, le azioni di disturbo “via
via appesantitosi nel tempo e di cui era certamente a conoscenza il capo…il
quale non si adoperò perche cessassero”. In tale situazione, oltre all’art.
2103 cod. civ., la norma utilizzata è stata l’art. 2087 cod. civ., con richiamo
all’art. 117 Cost. nella parte in cui si fa riferimento alla salvaguardia della
dignità umana.
Altre pronunce: Cassaz. 6 marzo 2006, n. 4774 (art. 2087 cod. civ., in
relazione ad episodi di: trasferimento, continue visite di idoneità fisica: ben
cinque in dieci mesi, privazione dell’uso del terminale, note di qualifica
insufficienti); Cassaz. 29 agosto 2007 n. 18262 (art. 2087 cod. civ. in
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relazione al caso già oggetto della pronuncia della Corte del 23 marzo 2005);
Cassaz. 20 maggio 2008 n. 12735 (art. 2087 cod. civ. in relazione ad una
serie di comportamenti posti in essere “in progressione nell’ultima fase del
rapporto di lavoro”, quali la disdetta pretestuosa del contratto di locazione
ove aveva sede la direzione generale, con conseguente trasferimento della
stessa sede e il licenziamento di due impiegate assunte dallo stesso
Dirigente, la revoca della disponibilità dell’auto, delle carte di credito e della
firma sul conto corrente della Società); da ultimo Cassaz. 9 settembre 2008
n. 22858 commentata sul blog e che ha originato il convegno.
Per completezza si possono aggiungere le seguenti norme:
- art. 2043 cod. civ. per fondare la responsabilità extracontrattuale
del datore di lavoro, in via concorrente con quella contrattuale di
cui all’art. 2087 cod. civ.;
- art. 2059 sempre per fondare la responsabilità extracontrattuale ai
fini del risarcimento danni non patrimoniali (danno biologico,
morale ed esistenziale);
- art. 1226 cod. civ., per la valutazione equitativa dei danni da
mobbing nell’ambito della responsabilità contrattuale;
- art. 2056 cod. civ., per la valutazione equitativa dei danni da
mobbing nell’ambito della responsabilità extra contrattuale.
Altre norme di riferimento sono di carattere generale e riguardano
l’onere probatorio (art. 2697 cod. civ. sull’onere della prova non solo
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dell’asserita condotta mobbizzante e del danno subito, ma anche del dolo
specifico del mobber), art. 2729 cod. civ. sulle presunzioni semplici, art. 115
cod. proc. civ. che riconduce il fenomeno nell’alveo del fatto notorio.
E’, tuttavia, auspicabile un quadro normativo specifico, poiché nel
mobbing vengono spesso in rilievo comportamenti peculiari ed i rimedi,
anche processuali, non possono che essere essi stessi peculiari.
4.- La casistica. Una interessante casistica è rinvenibile nella Legge
Regionale del Lazio dichiarata illegittima dalla Corte Costituzionale, ma
ripresa nei disegni di legge pendenti presso le Commissioni parlamentari:
a) pressioni o molestie psicologiche;
b) calunnie sistematiche;
c) maltrattamenti verbali ed offese personali;
d) minaccie o atteggiamenti miranti a intimorire ingiustamente o
avvilire, anche in forma velata e indiretta;
e) critiche immotivate e atteggiamenti ostili;
f) delegittimazione dell’immagine di fronte a colleghi e a soggetti
estranei all’impresa;
g) esclusione o immotivata marginalizzazione dell’attività lavorativa
o svuotamento delle mansioni;
h) attribuzioni di compiti esorbitanti od eccessivi;
i) attribuzione di compiti dequalificanti;
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l) impedimento sistematico ed immotivato all’accesso a notizie ed
informazioni anche attraverso limitazioni ingiustificate nell’uso
degli strumenti di lavoro, in particolare, il computer;
m) marginalizzazione immotivata rispetto a iniziative formative o di
riqualificazione o di aggiornamento;
n) esercizio esasperato ed eccessivo di forme di controllo nei
confronti del lavoratore;
o) atti vessatori correlati alla sfera privata del lavoratore, con
riferimento al sesso, alla razza, alla lingua e alla religione.
In sintesi: atti o comportamenti riferibili al datore di lavoro, ai
superiori, ai colleghi e a dipendenti di grado inferiore reiterati e finalizzati a
danneggiare l’integrità psico-fisica e intrinsecamente idonei a tale scopo.
La reiterazione di questi comportamenti non è prevista in un preciso
ambito temporale che, allo stato, è quello semestrale individuato in
giurisprudenza.
Come si nota, si tratta anche di azioni di per sé lecite (la negazione del
permesso, la visita fiscale, il provvedimento disciplinare): è il loro abuso
che, reiterato nel tempo, trasforma l’atto da lecito ad illecito e, inserito in un
contesto comportamentale più ampio, determina la situazione di mobbing.
La casistica in giurisprudenza:
trasferimento d’ufficio, in locale di diversa tipologia (più piccolo,
senza armadio, in area open space), esclusione da riunioni, insulti e continue
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battute di fronti a colleghi e sottoposti, scherzi verbali reiterati, negazione di
permessi, privazione di beni attribuiti in ragione della mansione (abitazione,
carte di credito, autovettura), minacce di licenziamento, pressioni per mutare
il contratto di lavoro da subordinato in autonomo, avvio di procedimenti
disciplinari non conclusi, installazione di un programma sul computer al fine
di controllare l’attività, esclusione immotivata da bonus e premi.
5.- I rimedi. Le azioni positive muovono, in primo luogo, da una
corretta conoscenza del fenomeno. E, quindi, dall’informazione.
Si evitano le situazioni negative, i comportamenti persecutori o il loro
compimento da parte di superiori e colleghi, anche di grado inferiore, se si
ha una conoscenza corretta del fenomeno.
Quindi, la prima azione positiva da porre in essere è l’organizzazione
di incontri di comunicazione e aggiornamento professionale sul tema.
Il datore di lavoro ha la responsabilità oggettiva del comportamento
dei dipendenti e può incorrere anche in responsabilità penali.
È, pertanto, opportuno porre in essere una serie di iniziative atte a
dimostrare l’attenzione del datore di lavoro a contrastare il fenomeno e la
costante attenzione nei confronti dello stesso.
E qui il ruolo fondamentale è quello del capo del Personale.
Uno spunto per le iniziative da adottare deriva dall’esame della
casistica in giurisprudenza, dalle soluzioni adottate e dai rimedi previsti nei
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disegni di legge oggi pendenti, che possono costituire uno spunto per
adottare idonee iniziative.
Nei disegni di legge – ma anche in giurisprudenza - si pone l’accento
sulla “prevenzione” e sulla “informazione”.
Al fine di prevenire i comportamenti di mobbing si prospettano azioni
concordate fra datori di lavoro, organizzazioni sindacali, servizi di
prevenzione e protezione della salute dei lavoratori sui luoghi di lavoro,
centri regionali per la prevenzione, diagnosi e terapia dei disturbi da
disadattamento lavorativo. In particolare si prevedono periodiche iniziative
di informazione dei dipendenti tenute da questi soggetti.
Si prevede l’affidamento al servizio di prevenzione e protezione del
rischio nelle aziende previsto nel D. Lgs. 9 aprile 2008, n. 81 della gestione
della materia del mobbing attraverso la previsione di apposite riunioni
aziendali periodiche atte a fornire informazioni su aspetti organizzativi, con i
ruoli, mansioni, carriera e mobilità; si prevedono ore di assemblea annuali
dedicate
al
mobbing,
l’affissione
nelle
bacheche
aziendali
delle
informazioni: in sintesi prevenzione e informazione sono le caratteristiche
delle azioni positive previste nei disegni di legge.
Senza attendere la loro approvazione, poiché il quadro normativo
attuale consente, comunque, di configurare la responsabilità datoriale in
ordine a comportamenti inquadrabili come mobbing, è opportuno porre in
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essere iniziative che abbiano lo scopo di sensibilizzare, informare e
responsabilizzare i quadri direttivi, anche con comunicazioni scritte.
Le riunioni formative, i corsi di aggiornamento con la partecipazione
di persone qualificate esterne (giuristi, psicologi), organizzazione di corsi,
elaborazione di un codice deontologico ed etico di comportamento a tutti i
livelli.
Il datore di lavoro non può, poi, omettere di intervenire anche
disciplinarmente, affinché il comportamento denunciato cessi; il datore ha il
diritto-dovere di richiedere a ciascuno conto dei propri comportamenti
nell’ambito delle rispettive responsabilità.
La prevenzione, l’informazione, il tempestivo intervento, le azioni a
rimedio sono indispensabili affinché il luogo di lavoro sia un ambiente
caratterizzato da serenità e lealtà.
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