Jean-Louis Barrault, il mimo dolente di `Amanti perduti`

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Silvia Iannello
7 settembre 2010
L’8 settembre del 1910 nasceva a Le Vésinet, Yvelines (nell’Îlede-France), il grande e celebrato attore-regista francese JeanLouis Barrault.
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Portato per il disegno, frequentò la scuola di Belle Arti esercitando diversi
umili mestieri per vivere. Tra il 1933 e il 1935 recitò nella compagnia di
Charles Dullin, grande maestro che – con il “Cartel des Quatre” (insieme
ad André Barsacq, Jean-Louis Barrault e Jean Vilar) – fu a capo di quel
rinnovamento del teatro francese che sfociò nel «teatro popolare
decentralizzato», fondato sulla improvvisazione e sulla pantomima (ebbe
tra i suoi allievi anche Étienne Decroux, col quale Jean-Louis studiò mimo,
Marcel Marceau e Roland Petit).
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Barrault aveva appena 25 anni, quando ebbe modo di manifestare il suo
eccezionale talento con la messa in opera dello spettacolo “Autour d’une
mère (Intorno ad una madre)”, tratto dal racconto “As I Lay Dying” (1935)
di William Faulkner. Seguirono altri lavori sperimentali che fecero di lui uno
degli interpreti più originali e noti del teatro francese e che lo portarono
alla Comédie-Française: tutti celebrarono la sua splendida regia di “Phèdre
(Fedra)” di Jean Racine. Contemporaneamente lavorò per il cinema:
notevoli furono le sue interpretazioni in “Mademoiselle Docteur” (1936) di
Georg Wilhelm Pabst, “Jenny, regina della notte (Jenny)” (1936) e “Lo
strano caso del dottor Molineaux (Drôle de drame ou L’étrange aventure
du Docteur Molyneux)” (1937) di Marcel Carné (1937), e “Delirio (Orage)”
(1938) di Marc Allégret.
Ma folgorante fu soprattutto la sua interpretazione del mimo Baptiste nel
superbo film “Les enfants du paradis” (1945), il capolavoro di Marcel
Carné. Lo stesso Barrault aveva suggerito a Carné e a Jacques Prévert (lo
straordinario sceneggiatore del film) il tema ispirato alla vita del mimoattore Jean-Gaspard Deburau, processato per l’uccisione di un uomo che
aveva insultato la sua amante. Fu una impresa grandiosa: richiese due
anni di intensa lavorazione con ben tre ore di pellicola che costarono
l’enorme cifra di 60 milioni di franchi. L’interpretazione di Barrault fece di
lui un mito intramontabile, una fulgida stella nel firmamento del cinema.
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In Italia fu proiettata purtroppo una copia rivista, privata di tutte le
pantomime e presentata con un titolo diverso: la traduzione letterale
sarebbe stata quella de “I bambini del paradiso” (cioè “I ragazzi del
loggione”) ma si scelse il titolo molto criticato – ma a mio parere non meno
suggestivo – di “Amanti perduti”. Il film racconta una storia d’amore,
l’epopea dell’amore impossibile (con esito tragico) di Baptiste, bianco
mimo «asessuato e dolente» (come ha scritto Marcello Clemente) che
soleva dire: «La luna? È lassù, la luna: è il mio paese».
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Un rivale in amore, l’attore Lemaitre (interpretato dal grande Pierre
Brasseur), parlando con Baptiste, così definisce quel che è il destino
dell’attore: «…tu parli con le gambe, rispondi con le mani… Uno sguardo,
un’alzata di spalle, due passi in avanti, un passo indietro, e op… perfetto,
hanno compreso il Paradiso… Sì, comprendono tutto, perché sono povera
gente, ed io sono come loro. Li amo, li conosco: la loro vita è assai piccina,
ma fanno sogni splendidi, e non vorrei soltanto farli ridere, vorrei farli
sognare, fremere d’emozione e di piacere...».
Baptiste è malinconicamente perduto d’amore per l’enigmatica e
irraggiungibile cortigiana Garance, innamorata di molti, interpretata dalla
magica Arletty (1898-1992), e Baptiste e Garance – complice Prévert – si
scambiano le più belle parole del cinema (lui dice a lei: «Sognare e vivere
è lo stesso: se non fosse così, a che varrebbe vivere? E cosa volete che
m’interessi la vita? Non è la vita che amo, ma voi… È talmente semplice,
l’amore…»; e lei risponde a lui: «Siete sempre stato in me, vi ho pensato
ad ogni istante: voi m’avete impedito di invecchiare, di discendere, di
rovinarmi. Trovavo la mia vita talmente misera, mi sentivo così sola. Ma
dicevo: non dovrai mai essere triste, dovrai essere sempre lieta, perché
qualcuno ti ha amato.»). E la giovane collega d’arte Nathalie, interpretata
da Maria Casarès, che ama Baptiste senza speranza (perduta Garance, egli
l’ha sposata senza amore dandole un figlio), con occhi innamorati gli dice:
«È così, Baptiste… Chi ne ha colpa se è così? Ma intanto è una pena, una
beffa… Giriamo in tondo come i fantocci di Francone: io t’amo, tu non
m’ami affatto, e ami Garance, e Garance ama Federico…» (battute
raccolte da Roberto Casalini). E tutti – primari e comprimari – si muovono
disperati sulla scena nell’impotente ricerca di una felicità impossibile! E la
didascalia iniziale del film recita una morale eterna: «Il mondo è un
palcoscenico in cui uomini e donne sono gli attori. Essi vi fanno i loro
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ingressi e le loro uscite», e -scrive Roberto Nepoti – «L’assunto che muove
l’operazione registica è quello di mostrare la vita come una
rappresentazione che gli uomini inscenano nell’illusione di vivere».
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Seguirono altri film importanti, tra i quali: “Il piacere e l’amore (La ronde)”
(1950) di Max Ophuls, “Versailles (Si Versailles m’était conté)” (1954) di
Sacha Guitry e “Il testamento del mostro (Le Testament du Docteur
Cordelier)” (1959) di Jean Renoir (una filmografia dal punto di vista
qualitativo veramente immensa).
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Barrault aveva intanto sposato nel 1940 Madeleine Renaud, una delle più
ammirate primedonne della Comédie française (di 10 anni più grande),
con la quale fondò nel 1946 la compagnia Renaud-Barrault che recitò
come spettacolo inaugurale “Amleto” nella superba traduzione di André
Gide. I due artisti lavorarono insieme prima presso il teatro Marigny, in
seguito presso il Palais Royal, e s’imposero con i loro numerosi successi in
Francia, in Europa e in Sud America (recitarono anche a Broadway
riportando un vero trionfo, e a Jean Louis fu attribuito un Tony Award
“speciale”).
Fu un sodalizio durato tutta una vita e morirono quasi
contemporaneamente a Parigi: lui spirò per un attacco cardiaco il 22
gennaio del 1994 (aveva 83 anni), lei lo seguì il 23 gennaio (aveva 94
anni).
E insieme furono seppelliti nel Cimitero Passy a Parigi (Jean-Louis colse
nella vita quel sentimento imperituro che gli era stato negato nella
finzione scenica!).
Dal 1959 Barrault fu chiamato da André Malraux (allora Ministro francese
alla Cultura) a dirigere il mitico Teatro dell’Odeon di Parigi (e lo fece fino ai
disordini del 1968, durante i quali gli studenti ribelli quasi distrussero il
teatro: si disse che Barrault avesse tollerato quella intrusione violenta e
avesse simpatizzato col movimento studentesco). Negli ultimi anni
divenne il direttore del Theatre des Nations e nel 1974 fondò il Theatre
d’Orsay, che diresse sino al 1981.
Già anziano, ritornò al cinema partecipando ai film di due registi italiani: “Il
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mondo nuovo (La nuit de Varennes)” (1982) di Ettore Scola, con Michel
Piccoli e Marcello Mastroianni, e “La luce del lago (La lumière du lac)”
(1988) di Francesca Comencini. La nipote Marie-Christine Barrault ha
seguito le orme del celebre zio, segnalandosi nel mondo della celluloide.
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Mimo-poeta e attore tragico, Barrault fu l’artefice di un «teatro totale», in
cui il testo, la scenografia, le luci, la musica e l’espressione corporea
avevano pari dignità (aveva scritto: «Il corpo umano è uno degli strumenti
più ricchi. La poesia del corpo umano non conosce limiti… Desidero
soltanto che la poesia del corpo umano non scompaia…»).
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Contribuì a far rivivere il teatro francese dopo la Seconda Guerra mondiale
e si mosse con abilità tra gli autori classici, come Eschilo e Shakespeare, e
gli autori contemporanei e d’avanguardia che fece conoscere al grande
pubblico (come Albert Camus, Jean Anouilh, Jean Genet, Eugène Ionesco,
Jean-Paul Sartre e Samuel Beckett). Nel 1972 pubblicò l’appassionata
autobiografia “Memorie per domani (Souvenirs pour demain)”.
Aveva scritto: «In effetti sono le cose più semplici le più difficili da
compiere. Leggere, per esempio. Avere l’abilità di leggere ciò che è scritto
senza omettere nulla e allo stesso tempo senza aggiungere nulla di
personale. Avere l’abilità di catturare l’esatto contesto delle parole che si
sta leggendo. Essere insomma capaci di leggere!»; aggiunse, inoltre, alla
maniera di Pirandello: «In ogni momento dell’esistenza, viviamo almeno su
tre livelli: – essere – credere d’essere – volere apparire. Quello che siamo –
lo ignoriamo. Per quello che crediamo d’essere – c’illudiamo. Per quello
che vorremmo apparire – ci sbagliamo. E con questo, non siamo uno ma
tre, e persino molti di più…» (in “Jean-Louis Barrault, Réflexions sur le
théâtre”, 1949).
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